slogan
Con slogan si intende una «formula sintetica, espressiva e facile da ricordarsi, usata a fini pubblicitari o di propaganda» (GRADIT). La veste straniera del termine (inglese, dove, però, significa «grido di guerra») testimonia la sua estraneità, fino alla prima attestazione in italiano (1905), al nostro sistema culturale che, a coprire il senso di slogan, usa piuttosto ➔ sentenza, presente già dalla latinità e, in tempi meno remoti, motto.
Lo slogan però, a differenza delle sentenze e dei motti, non basa la propria efficacia sulla ricercatezza lessicale o sul tono perentorio e lapidario della sintesi, come le sentenze: il suo essere ‘formula’ fa perno su processi di eufonia e la sua efficacia, intesa come capacità di pronta memorizzazione e immediato riuso, si struttura per espedienti presi in prestito dalla poesia (Sabatini 1968); rima e allitterazione, anzitutto, ma anche un sapiente dosaggio metrico che conferisce un accattivante andamento ritmico che bene si presta, anche, alla produzione corale d’insieme. Questi tratti assieme musicalizzano l’enunciato e coniugano in un unico soddisfacente atto locutorio gradevolezza di forma e adesione ai contenuti.
Lo slogan non è invenzione recente. La storia moderna italiana ne è ricchissima: a Giuseppe Garibaldi spetta il conio di Italia e Vittorio Emanuele e di Venezia e Roma, a Francesco Crispi la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe, a Camillo Benso di Cavour quello di libera Chiesa in libero Stato, a Benito Mussolini una varietà di invenzioni, come credere obbedire combattere, o è la vanga che traccia il solco è la spada che lo difende, e tanti altri (➔ Risorgimento e lingua; ➔ fascismo, lingua del). In generale, la politica si serve spesso di slogan: lavorare meno lavorare tutti, ad es., ha caratterizzato la lotta politica e sindacale della sinistra italiana negli anni Novanta del XX secolo.
A oggi suo campo d’applicazione privilegiato è la pubblicità (➔ pubblicità e lingua): quando sposa la musica si fa jingle e, per i valori evocati dal combinato musica + parole, diventa parte integrante del prodotto e si radica nell’immaginario collettivo dei consumatori.
Lo slogan è anche politico, nella duplice accezione di propaganda (Migliorini 19562) e contestazione di piazza (Tiberi 1972). Più sintetico nel primo ambito, dove ha il compito, solitamente su un cartellone affisso (simile a quello pubblicitario: cfr. De Mauro 1977), di presentare l’orientamento ideologico del candidato, ha maggiore respiro nel secondo: lì non veicola solo contenuti ma, al pari dei canti di marcia della fanteria, segna anche il tempo dell’incedere dei manifestanti.
È slogan anche l’espressione del tifo calcistico (➔ sport, lingua dello): sia coro, quando urlato dalle tifoserie, sia trascritto, a mo’ di murale portatile, sugli striscioni (Boccafurni 2007), lo slogan è parte dell’evento-partita e ne scandisce, a volte ne determina, l’andamento.
Linguisticamente valgono, per queste tre solo apparentemente difformi tipologie d’impiego (sono fenomeni d’appartenenza promossi anche per via di lingua: si ha a che fare in tutti i casi con comunità che si coagulano attorno a un’entità, prodotto, ideologia o fede calcistica), identiche considerazioni: i termini utilizzati sono semplici, colloquiali, mai aulici o sostenuti; hanno largo impiego l’inventiva (specie in pubblicità), la sperimentazione e il neologismo (➔ neologismi); predomina sulla morfologia verbale lo ➔ stile nominale; la sintassi è paratattica (➔ paratassi), breve, scevra di nessi logico-argomentativi, cui supplisce la carica evocativa della scansione dei contenuti profilati sempre in chiave deittica: il destinatario è presente, o immaginato tale, all’enunciazione e lo slogan gli si rivolge, a volte anche contro, senza filtri o involuzioni retoriche (Stefinlongo 2008).
Ciò non necessariamente implica, però, il bando della complessità. Nel caso di questo jingle di una radio romana:
(1) radio onda rossa
la radio di chi se la sente
con accortezza sono compresenti sia il rimando ai modi espressivi tipici degli usi pronominali del verbo, dato che sul modello di «farsi un caffè» si modula «io al mattino mi sento questa radio», sia il senso veicolato dall’impiego procomplementare del verbo, dato che sentirsela allude allo schierarsi con la linea politico-editoriale della radio implicito nell’atto di scegliere quelle frequenze.
Meno raffinato ma non meno efficace, almeno per il target di riferimento, è l’impiego del dialetto nello slogan pubblicitario (campagna 2010) di un’azienda produttrice di divani:
(2) poltrone e sofà
beato chi s’oo fa
er sofà
Qui la testimonial, un’attrice romana e dalla parlata ostentatamente romanesca sul piccolo e grande schermo, con un solo tratto di pronuncia bassa trasforma l’oggetto nell’azione di acquistarlo («farsi il sofà») e pure velatamente allude a un doppio senso.
Tra tutti, gli slogan più riusciti sono quelli che presentano strutture ritmico-musicali tanto orecchiabili da offrirsi al reimpiego, come calchi ritmici riproducibili all’infinito, in più contesti e a più scopi. In presenza di una traccia melodica accattivante, spesso presa in prestito da altri ambiti (sopra tutti, i motivi del repertorio popolare), basta siano ascritte al calco parole coerenti sotto il profilo ritmico e metrico e, fatta eccezione per la pubblicità e i suoi vincoli di copyright, lo slogan si rinnova nei contenuti e torna disponibile.
Ottimi esempi di reimpiego sono offerti dalle marce di protesta e dalle manifestazioni, i cui contenuti sono cangianti al mutare dell’assetto socio-politico, per es. il classico
(3) come mai come mai
noi non decidiamo mai
d’ora in poi d’ora in poi
decidiamo solo noi
figlio delle contestazioni del Sessantotto (➔ sinistrese), in cui i movimenti di base si coalizzavano nel riproporre temi e questioni trascurate dagli apparati, anche quelli di partito e sindacali, formalmente tenuti a rappresentarli. Lo slogan precedente trova parziale reimpiego in
(4) scendi giù scendi giù
manifesta pure tu
rivolto oggi a chi sta alla finestra mentre sfilano cortei per le vie cittadine ed è invitato a farsi, da spettatore, protagonista attivo della protesta. Con il coevo
(5)
chi non salta
xxx è
è
annesso con successo alle manifestazioni di strada dall’alveo d’origine, lo stadio, dove l’appartenenza all’uno dei blocchi contrapposti è anche iconica (una intera curva saltella in blocco e a tempo), il portato ritmico dello slogan si fa ancora più evidente. In una struttura come questa l’unico inserimento possibile è quello di un quadrisillabo, e sta alla bravura dei manifestanti riempire l’unità ritmica con contenuti contingenti. Le tifoserie calcistiche, va ricordato, sono maestre, al pari degli emuli contestatori, nell’adattare, quando non ribaltare a mo’ di sfottò, contenuti locali a forme ricorrenti e canoniche.
Lo slogan campeggia anche sui muri delle città (Desideri 1998; ➔ graffiti); cede in parte alla scrittura la sua valenza ritmica ma conserva il reimpiego dei calchi nel ricorrente proporsi come struttura ‘aperta’. Frequente è quella
(6)
10
100
1000
xxx
Nato nel clima di contestazione degli anni di piombo, questo slogan delega all’ultima parola la citazione del fatto di cronaca contingente, in patria o all’estero, che i movimenti antagonisti più violenti, in aperta controtendenza rispetto alla pubblica opinione, interpretano come vulnus positivo agli apparati convenzionali dello Stato e che vorrebbero pertanto rioccorresse altre dieci, cento o mille volte. La struttura è qui davvero aperta perché non pone al completamento dello slogan vincolo alcuno né di lunghezza sillabica né di lingua.
GRADIT (1999-2007) = De Mauro, Tullio (dir.), Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, UTET, 8 voll.
Boccafurni, Anna Maria (2007), Gli striscioni delle tifoserie romane, in Le lingue der monno, a cura di C. Giovanardi & F. Onorati, Roma, Aracne, pp. 41-61.
Chiantera, Angela (1989), Una lingua in vendita. L’italiano della pubblicità, Roma, La Nuova Italia Scientifica.
De Mauro, Tullio (1977), Decadenza dello slogan, in Id., Le parole e i fatti. Cronache linguistiche degli anni Settanta, Roma, Editori Riuniti, pp. 151-156.
Desideri, Paola (a cura di) (1998), Il segno in scena. Scritte murali e graffiti come pratiche semio-linguistiche, Ancona, Mediateca delle Marche.
Migliorini, Bruno (19562), Motti pubblicitari e politici, in Id., Conversazioni sulla lingua italiana, Firenze, Le Monnier, pp. 187-190 (1a ed. 1949; rist. in Chiantera 1989, pp. 75-78).
Sabatini, Francesco (1968), Il messaggio pubblicitario da slogan a prosa-poesia, «Il Ponte» 24, 8, pp. 1046-1062 (rist. in Le fantaparole. Il linguaggio della pubblicità. Antologia, a cura di M. Baldini, Roma, Armando, 1987, pp. 91-98; poi in Chiantera 1989, pp. 121-138).
Stefinlongo, Antonella (2008), Scrivendo e gridando ti dico di no, in Ead., L’italiano che cambia. Scritti linguistici, Roma, Aracne, pp. 195-219.
Tiberi, Emilio (1972), La contestazione murale. Una ricerca psicosociale sul fenomeno contestatario attraverso lo studio di graffiti e di mezzi di comunicazione di massa, Bologna, il Mulino.