SMALTO
Pasta vitrea distesa su metallo, sottoposta ad alte temperature, secondo tecniche già testimoniate in alcuni anelli di epoca micenea (1200 a. C.), nei quali lo s. si coniuga con soluzioni orafe simili alla filigrana.
Durante il periodo medievale, la lavorazione si attuava con metodi diversi, che producevano s. definito cloisonné, champlevé, de plique, à basse-taille o traslucido, sur ronde-bosse: il primo utilizza come metallo l'oro, più raramente l'argento, e si ottiene dividendo la superficie di base con lamine sottili, fino a conseguire alveoli separati che vengono riempiti di paste vitree; nel secondo, dove la parte metallica è costituita da bronzo o rame, gli alveoli sono scavati direttamente sulla superficie di fondo, piuttosto spessa; lo s. de plique è una variante del cloisonné, che opera esclusivamente sull'oro, mentre quello traslucido si avvale soprattutto dell'argento, sul quale viene inciso un disegno più o meno profondo, successivamente coperto da sottili strati vetrosi; lo s. sur ronde-bosse, infine, che può essere opaco o lucido, ricopre completamente superfici tridimensionali in oro. La colorazione avviene attraverso l'aggiunta di ossidi metallici.Il dibattito circa il reperimento del materiale vetrario nel Medioevo è in corso. Teofilo (De diversis artibus, II, 12; III, 54-55), nel sec. 12°, affermava che gli smaltisti ottenevano la polvere vitrea macinando gli antichi mosaici, notizia che sembra convalidata, per la produzione mosana, da recenti analisi tecniche, secondo cui le composizioni degli s. sono parallele, anche nei dettagli, ai vetri romani opachi (Stratford, 1993).Il sec. 9°, con il quale inizia questa trattazione, collegandosi la produzione del periodo precedente al mondo bizantino e 'barbarico', si apre con la croce di papa Pasquale I (817-824; Roma, BAV, Mus. Sacro), fornita di un'iscrizione sul verso che ne attesta la prestigiosa committenza. Sulla fronte essa è composta di riquadri di s. cloisonné su oro di formato diverso e quindi non interscambiabili, che contengono scene dell'Infanzia di Cristo. Destinata al Sancta Sanctorum, la cappella papale del Laterano, l'opera testimonia relazioni strette non solo con i cicli cristologici disposti sulle pareti delle basiliche romane, in una sorta di rispecchiamento fra arti monumentali e microtecniche, ma anche con i libri liturgici illustrati, che proprio in epoca carolingia trovarono una particolare diffusione e conseguirono risultati di altissima qualità. Tutta l'Europa conobbe in quel momento una grande fioritura di s., sia figurati sia aniconici. All'ambiente palatino e alla grande riforma della scrittura è collegabile la legatura dell'Evangeliario di Metz (Parigi, BN, lat. 9383), a cornici multiple, riconducibile al terzo quarto del secolo e ornata da bande verticali in s. su oro cloisonné a motivi vegetali e volute (Gauthier, 1972); un'ampia iscrizione sostituisce le strisce orizzontali di questa stessa cornice. Di committenza regale è anche la Cruz de la Victoria (Oviedo, Mus. de la Cámara Santa), una iscrizione sul verso della quale attesta la sua esecuzione nel 908, sotto Alfonso III il Grande (866-910): lo s. è riservato agli alveoli su oro cloisonné con effetti opachi e traslucidi. Nello stesso periodo il re anglosassone del Wessex Alfredo (871-899) commissionava un gioiello (Oxford, Ashmolean Mus. of Art and Archaeology), nel quale oltre a essere inserito il nome del sovrano è forse rappresentato Alessandro il Grande con gli spiedi nelle mani: sempre in s. cloisonné su oro, esso testimonia una precoce montatura, e forse anche l'esecuzione, nella zona sudorientale delle Isole Britanniche. Una presenza cospicua di s. compare anche nell'opera orafa forse più prestigiosa del tempo, l'altare dedicato a s. Ambrogio (Milano, S. Ambrogio), che l'arcivescovo Angilberto II (824-859) commissionò a Vuolvinio, magister faber, fra l'830 e l'840. Scandito in riquadri figurati nel recto e nel verso, aniconici sui fianchi, presenta più di mille s. cloisonnés su oro disposti in combinazioni multiple e interrotti da pietre preziose, cammei, perle, coralli. La critica è propensa a collocare questo pezzo in ambito milanese; ramificazioni della stessa scuola sono ritenute le tre placche del reliquiario di Sion (tesoro della cattedrale), in Svizzera, con la Vergine e gli evangelisti - i quali però, se riconducibili alla committenza del vescovo Alteo, risalirebbero al 780-799 -, nonché il piccolo altare portatile di Adelhausen (Friburgo in Brisgovia, Augustinermus.), eseguito nel sec. 9° in una bottega dell'Alto Reno (Hubert, Porcher, Volbach, 1968). Con il pezzo di Sion è stata messa in rapporto la 'corona ferrea' (Monza, Mus. del Duomo), dai colori analogamente chiari dominati da un morbido bianco, la cui datazione è peraltro controversa.Nel sec. 10° la produzione degli s. è scarsamente documentata: se ciò sia dovuto a mancata esecuzione, o a carente testimonianza, non è chiaro. Resta comunque, con altri pochi pezzi, la splendida placca rotonda con la Luna (New York, Metropolitan Mus. of Art), precedentemente attribuita alla fine del sec. 11° e soltanto di recente ricondotta all'Aquitania carolingia di questo periodo.Una nuova stagione si aprì per la produzione a s. in Occidente quando nel 973 la principessa bizantina Teofano andò sposa all'imperatore Ottone II (973-983). La corte diventò un centro operativo di grande raffinatezza, dando vita a una produzione che coniugava componenti carolinge e bizantine.Alla fine del secolo risale la guaina del bastone di s. Pietro (Limburg an der Lahn, Staurothek Domschatz und Diözesanmus.), ricondotta alla committenza dell'arcivescovo Egberto di Treviri (977-993), sulla quale un'iscrizione autentica la reliquia. Decorata anch'essa da s. cloisonnés, contiene una complessa iconografia che testimonia la sede di destinazione originaria del pezzo. Coeva risulta la prima croce di Matilde (altezza cm 50 ca.; Essen, Münsterschatzmus.), eseguita forse a Colonia fra il 973 e il 982, dove lo s. cloisonné è riservato all'iscrizione sopra la testa del Crocifisso e a una placca sotto il suppedaneo contenente l'immagine dei committenti: Matilde badessa di Essen (973-1011) e suo fratello Ottone duca di Baviera e di Svevia, morto nel 982 al seguito di Ottone II in Italia (Ornamenta Ecclesiae, 1985, I, p. 150). Forse alla stessa Essen va invece assegnata la seconda croce di Matilde (Essen, Münsterschatzmus.), eseguita probabilmente per fare coppia con la precedente, di cui riproduce il profilo, dove una placca smaltata ritrae la stessa donatrice con la croce in mano inginocchiata ai piedi della Vergine (Gauthier, 1972).Al tardo sec. 10°, o agli inizi dell'11°, con integrazioni successive, risale anche la corona del Sacro romano impero (Vienna, Schatzkammer), con immagini regali dell'Antico Testamento affiancate da scritte latine; coeva è una grande fibbia a forma di aquila (Magonza, Landesmus.), limitata nella gamma cromatica, araldica nell'atteggiamento, severamente inscritta in una cornice circolare. Uno dei capolavori dello s. ottoniano sulla scia del cloisonné bizantino è infine la placca con S. Severino (Colonia, Erzbischöfliches Diözesanmus.), eseguita forse a Colonia alla fine del sec. 11°, la quale costituisce quanto rimane della omonima cassa-reliquiario compiuta sotto l'arcivescovo Ermanno III (1089-1099) e distrutta nel 1795-1798: gli stretti legami con la miniatura coeva confermano la datazione proposta.Intanto a Milano, nel secondo quarto del sec. 11° e per commissione dell'arcivescovo Ariberto d'Intimiano (1018-1045), veniva eseguita la legatura di un evangeliario (Milano, Tesoro del Duomo). La disciplinata organizzazione del piatto, al centro del quale si staglia il Crocifisso, lux mundi, permette un'organica distribuzione delle figure e delle scene, in s. cloisonné su oro, testimoniando un programma complesso che non ha niente da invidiare a opere monumentali. Carattere figurativo hanno anche gli ovati, sempre su oro cloisonné e dal formato senza confronti in ambito smaltatorio, della c.d. pace di Chiavenna (Mus. Tesoro della Collegiata di S. Lorenzo), nata come legatura forse nella Milano del sec. 11°, opera ricca e complessa, anche se probabilmente manipolata. Ancora i simboli degli evangelisti, il Sole e la Luna, Maria e Giovanni accompagnano il Cristo crocifisso nella legatura della cattedrale di Vercelli (Tesoro del duomo), datata nella seconda metà del sec. 11° e caratterizzata da numerose figure di angeli a sbalzo (Gauthier, 1972).Nell'area a N e a S dei Pirenei la produzione a s. della fine del sec. 11° e degli inizi del 12° comprende pezzi prestigiosi, quali l'altare portatile di s. Fede dell'abbazia di Sainte-Foy a Conques (Trésor de l'Abbaye), dove s. cloisonnés su rame e su oro rappresentano figure a mezzo busto, o la cassetta-reliquiario di Santo Domingo de Silos (Burgos, Mus. Arqueológico Prov.): le figurazioni a s. champlevé su rame, databili verso il 1150 e sostitutive delle originarie placche in avorio perdute, mostrano il fondatore dell'abbazia affiancato da due angeli e un Agnus Dei accompagnato da due uccelli fantastici (Gauthier, 1972). La prima opera, insieme con altri frammenti erratici riconducibili ugualmente a Conques, si pone all'inizio della scuola di Limoges (v.).Probabilmente nella prima metà del sec. 12°, forse nella Germania settentrionale, si produsse una serie di cofanetti (v. Scrigno) o altari portatili, conservati oggi in sedi diverse e molto lontane le une dalle altre, da Hildesheim (Diözesanmus. mit Domschatzkammer) all'abbazia di Montecassino. Costituite da placchette in rame dorato e s. champlevés, realizzate con uno stile severo ed espressivo, caratterizzate dall'uso di una vivace gamma di colori, identificano forse uno dei primi esperimenti nel revival romanico della tecnica a champlevé per s. figurati.
La produzione di questo tipo conseguì risultati di rara eccellenza nelle regioni della Mosa e del medio Reno, in particolare nelle diocesi di Liegi e di Colonia, fra il 1140 ca. e il 1200 (Stratford, 1993). Il carattere intellettuale di questi s., cui appartiene tra l'altro la monumentale pala della collegiata di Klosterneuburg di Nicola di Verdun (v.), è testimoniato dalla presenza di lunghe iscrizioni, dalla raffinata simbologia dei soggetti e dalla loro concordanza fra Vecchio e Nuovo Testamento. Si distinguono in questa produzione alcune casse-reliquiario, come quella di s. Eriberto, eseguita a Colonia fra il 1160 e il 1170 e conservata nella omonima chiesa a Colonia-Deutz (Neu St. Heribert, Schatz), fondata nel 1003 dallo stesso Eriberto (m. nel 1021), che era stato dal 998 cancelliere dell'imperatore Ottone III (996-1002) e dal 999 arcivescovo di Colonia. In quest'opera, il rapporto tra figure a sbalzo e parti smaltate è quasi paritetico; queste ultime si identificano nei grandi bolli a champlevé che si dispongono sugli spioventi del tetto, nelle barre verticali con profeti, nei semibolli con angeli, nelle cornici figurate e geometrico-floreali, nelle aureole delle figure sbalzate degli apostoli: fatto, quest'ultimo, che denuncia non solo una progettazione unitaria di tutta l'opera, ma anche l'esecuzione delle parti orafe e di quelle smaltate in una medesima bottega. Il complesso programma iconografico culmina nei dodici grandi s. rotondi che illustrano la Vita di s. Eriberto, dalla nascita come figlio del conte Ugo di Worms alla morte e al seppellimento: le scene utilizzano consolidate iconografie cristologiche, per es. nella scena del Bacio di pace del re, assimilabile alla Cattura di Cristo, e sono spesso divise da barre orizzontali e verticali, da archeggiature, da articolati edifici, conseguendo una particolare vivacità compositiva. L'opera è considerata il capolavoro dell'oreficeria mosano-renana del sec. 12°, prima dell'apparizione di Nicola di Verdun; secondo la critica, è riconducibile a due maestri, il primo proveniente probabilmente dai paesi della Mosa, il secondo, cui si deve forse il progetto generale dell'opera sull'esempio del Viktorschrein del duomo di Xanten, di formazione renana (Ornamenta Ecclesiae, 1985, II, pp. 314-323).L'opera presenta legami strutturali e stilistici con le casse-reliquiario di s. Maurino e di s. Albino (Colonia, St. Pantaleon, Schatz) e quella di s. Annone (Siegburg, St. Michael), databili all'incirca fra il 1170 e il 1186. Uscite da una bottega coloniense, sono prive oggi delle numerose figure a sbalzo che dovevano occupare le archeggiature: il programma iconografico generale è comunque ricostruibile attraverso le scritte soprastanti. Lo s. champlevé impreziosisce le ricche cornici dal decoro geometrico oppure a racemi e animali fantastici, che definiscono i profili delle facce e circondano i polilobi sugli spioventi del tetto, nonché i bolli di giunzione, che sembrano inchiodare alla base le diverse lamine; costruisce poi, oltre a immagini di formato minore, le grandi figure di angeli nella cassa di s. Maurino, dai colori smaglianti articolati in morbidi passaggi di tono (Ornamenta Ecclesiae, 1985, II, pp. 296-302).Allo stesso periodo risalgono altri prestigiosi oggetti che hanno spesso paralleli nella produzione in avorio, come i numerosi altari portatili, le croci (v.), le coperte di libri liturgici (v. Legatura), i reliquiari (v.) a torre (Ornamenta Ecclesiae, 1985).Se il primo maestro della cassa di s. Eriberto era mosano e se a lui si deve l'ingresso di motivi nordici a Colonia, in epoca coeva una bottega mosana di alto livello eseguiva due grandi reliquiari, i cui resti sono confluiti nel 1865 nella cassa di s. Gisileno, conservata nel tesoro della chiesa di Saint-Martin a Saint-Ghislain, presso Tournai, nello Hainaut. S. champlevés costruiscono le figure a mezzo busto delle Virtù sostenenti libri aperti e iscritti, analoghe a quelle che, unitamente agli evangelisti, compaiono su una coeva coperta di evangeliario (Darmstadt, Hessisches Landesmus.).A questa stessa cultura appartengono le formelle più antiche di una croce mosana smaltata su due lati (Londra, British Mus.; Berlino-Köpenick, Kunstgewerbemus.) e datata intorno al 1160-1170 (Stratford, 1993): nel recto stabilisce corrispondenze fra episodi del Vecchio Testamento e il Crocifisso; nel verso presenta cinque episodi del Ritrovamento della croce. Essa è stata collegata con dieci placchette di una croce analoga disperse tra vari musei e con il trittico Stavelot (New York, Pierp. Morgan Lib.), eseguito per ospitare due piccoli trittici-reliquiario dorati mediobizantini, situati nel campo centrale. Si è supposto che le reliquie e i relativi contenitori siano stati donati all'abate Vibaldo di Stavelot (1130-1158) da Manuele I Comneno (1143-1180) in occasione dell'ambasceria imperiale di Vibaldo a Costantinopoli nel 1155-1156 o 1157-1158. Indubbiamente diversi sono gli s. presenti sopra altre opere provenienti dall'abbazia benedettina di Stavelot: pertanto bisogna supporre che essi siano stati eseguiti non in botteghe monastiche, ma urbane, forse a Liegi o a Huy (Stratford, 1993).
La produzione, pur molteplice e prestigiosa, fu limitata nel tempo: intorno al 1200 gli ateliers mosani e renani si dedicarono alla produzione di grandi casse ornate di figure monumentali metalliche, meglio rispondenti alla nuova estetica, che vedeva nella statuaria antica un primario punto di riferimento. La decorazione a s., con poche eccezioni, viene relegata a un ruolo subordinato nell'economia dell'insieme e assume un carattere prettamente decorativo, limitandosi a motivi geometrici e fogliacei (cornici, finte gemme, medaglioni, ecc.).Altre città della Germania videro fiorire nella seconda metà del sec. 12° botteghe di smaltisti: per es. Hildesheim, dove è stato ricondotto, intorno al 1170, il reliquiario dell'imperatore Enrico II (Parigi, Louvre). Eseguito a champlevé, è caratterizzato da pochi colori - il blu di fondo, il bianco e il verde - e da una bella iscrizione sulla cornice polilobata; i quattro medaglioni del piede contengono figure di santi, mentre nel quadrilobo centrale si staglia Cristo in trono raffigurato come Re dei re, a celebrazione dell'imperatore canonizzato nel 1146. A quest'opera si affiancano due placche di un reliquiario coevo (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny; Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire), dalla stessa tavolozza integrata dal rosso: sulla prima compare la Crocifissione, con l'Ecclesia e la Sinagoga; sull'altra si dispongono numerosi bolli contenenti le Virtù a mezzo busto, fra le quali emergono l'Umiltà e la Carità.Agli inizi del sec. 13°, tornarono a rivestire particolare interesse gli s. bizantini. Se scarsa testimonianza della circolazione di opere di questo tipo possono fornire sia lo splendido medaglione cloisonné con Cristo benedicente, della fine del sec. 10° (Bonn, Rheinisches Landesmus.), trovato nella tomba dell'arcivescovo di Colonia Sigfrido di Westerburg (1274-1297) soltanto nel 1297 (Ornamenta Ecclesiae, 1985, III, p. 17), sia il reliquiario con la Vergine Blacherniótissa, risalente alla fine del sec. 11° (Maastricht, Schatkamer van de Basiliek van Onze Lieve Vrouwe; Ornamenta Ecclesiae, 1985, III, pp. 160-162), perché analogamente ignota è la sua data di arrivo nella zona, ben altro peso hanno gli s. bizantini risalenti al sec. 12° riutilizzati in una croce-reliquiario mosana degli inizi del sec. 13°, (Namur, Maison des Soeurs de Notre-Dame, tesoro) e quelli, databili intorno alla metà del sec. 10°, della stauroteca donata nel 1208 dal cavaliere Heinrich von Ulmen al convento delle Agostiniane a Stuben sulla Mosa, dove sua sorella era badessa (Limburg an der Lahn, Staurothek Domschatz und Diözesanmus.). Ma gli s. champlevés trovano utilizzo soprattutto nei fastosi reliquiari di questo periodo, che spesso si articolano intorno a frammenti del lignum Crucis, acquisiti probabilmente in occasione della quarta crociata nel 1204: così per es. nel reliquiario della Croce (Treviri, St. Matthias, Schatzkammer), eseguito in loco nel 1220 ca., con s. champlevés aniconici sulla cornice esterna, o in un esemplare mosano ricondotto agli anni 1200-1220 (Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire). Né vanno dimenticati i due preziosi bracci-reliquiario del St. Gereon di Colonia (sacrestia), databili fra il 1220 e il 1230, con s. champlevés risparmiati su fondo blu, disposti sulla striscia di base e dovuti a maestranze diverse.Per evidenti ragioni storiche, che vanno dall'eliminazione dei monasteri fino alle ristrettezze del periodo di Cromwell, il patrimonio liturgico inglese ha subìto più di altri dispersioni e distruzioni. Se la perizia dei popoli anglosassoni nella lavorazione dei metalli è documentariamente attestata e in parte riscontrabile, nel campo dello s. la produzione dovette riguardare oggetti di rame decorati a champlevé, come il disco Brasenose (Oxford, Ashmolean Mus. of Art and Archaeology), ricondotto al sec. 10° o 11°, per i parallelismi che la sua decorazione a uccelli entro motivi circolari presenta con la miniatura anglosassone coeva. Dopo la conquista, lo s. champlevé inglese è documentato più ampiamente, per es. nel piede smaltato di una coppa cilindrica (Copenaghen, Nationalmus.) rinvenuta nella penisola dello Jutland, divisa in campi spiraliformi contenenti draghi e fogliami: anche in questo caso i rapporti con la miniatura, specificamente con le iniziali dei manoscritti di Canterbury, consentono di ricondurre sicuramente all'Inghilterra, e alla metà del sec. 12°, quest'opera. Ma il gruppo qualitativamente più significativo di questa produzione è certamente costituito dai due semidischi noti come s. di Enrico di Blois, vescovo di Winchester (1129-1171), che è raffigurato in una placca nell'atto di offrire un oggetto, forse un altare, dal quale è plausibile derivino i due pezzi (Londra, British Mus.). Collegati dalla critica con un gruppo di undici s. mosani dispersi in musei diversi, ai quali li accomunano, oltre a ragioni di stile, anche raffinate analisi tecniche, sono stati attribuiti a un grande artista mosano operoso in Inghilterra, con conseguenze facilmente intuibili per lo sviluppo della produzione artistica nelle Isole Britanniche, e datati prima della morte del vescovo, avvenuta nel 1171.Alla stessa cultura sono assegnate tre pissidi smaltate di altezze diverse, fornite di lunghe iscrizioni, conosciute come cibori Morgan (New York, Pierp. Morgan Lib.), Balfour e Warwick (Londra, Vict. and Alb. Mus.). I primi due sono stati ricondotti addirittura a un medesimo artista, attivo negli anni 1160-1170, e collegati con la cultura figurativa del maestro dell'altare portatile di Stavelot (1150-1160); il terzo, che si distingue anche nelle dimensioni, è stato attribuito a una bottega mosana o del Nord della Francia, operosa nel terzo quarto del medesimo secolo. Se indubbi appaiono i legami con la cultura mosana, il disegno vigoroso e lineare è peraltro completamente insulare e giustifica una loro esecuzione in Inghilterra. Le connessioni che legano tutti e tre gli oggetti per forma, iconografia, iscrizioni e tecnica inducono inoltre a pensare all'esistenza di un libro di modelli, utilizzato da due artisti diversi per formazione e per risultati.Probabilmente di destinazione laica sono alcuni cofanetti ricondotti ugualmente ad ambito inglese, che si distinguono per una tematica non consueta: il Combattimento tra le Virtù e i Vizi, sulla base della Psychomachia di Prudenzio, in quello della cattedrale di Troyes, la raffigurazione delle Arti liberali in quello di Boston (Mus. of Fine Arts). Tre placche ugualmente a champlevé su rame (coll. privata), derivate da un'opera analoga, svolgono un tema inerente il Battesimo. Anche in questo caso il modello mosano è rivissuto in maniera originale; i legami che si possono instaurare con opere tecnicamente diverse, riconducibili senza incertezze all'ambito inglese, giustificano la proposta di inquadrare localmente la loro esecuzione fra il 1170 e il 1200.Un ciclo di s. relativo alla Vita dei ss. Pietro e Paolo, anch'esso diviso fra collezioni diverse e risalente al 1170-1180, proviene probabilmente da un antependium o da una cassa-reliquiario: lo stile richiama soluzioni dell'arte inglese particolarmente vicine a quelle del Nord della Francia. D'altra parte, se inglese è anche la placca ovale con Cristo in trono (Norimberga, Germanisches Nationalmus.), essa denuncia stretti legami con la produzione di Limoges, testimoniando il largo raggio di interessi degli smaltisti inglesi di questo periodo; a una bottega limosina attiva in Inghilterra, che confermerebbe simili scambi, sono stati ricondotti un calice completamente coperto di s., del 1200 ca. (Londra, British Mus., depositi), e una placchetta con un angelo (Rouen, Mus. des Antiquités). Rispetto a quella mosana, la produzione inglese si caratterizzerebbe per una tavolozza ammorbidita con l'introduzione di grigi pallidi, soffici rosa e violetti (Stratford, in corso di stampa).
Nella seconda metà del sec. 12°, la grande stagione della Sicilia normanna trovò nello s. alcuni dei suoi esiti più prestigiosi, quali la stauroteca di Cosenza (in deposito presso la Soprintendenza ai Beni architettonici, artistici e storici della Calabria), eseguita fra il 1166 e il 1189, assimilabile a un'ampia serie di oreficerie prodotte nell'ergastérion palermitano (Dolcini, 1995). Benché la tecnica degli s. cloisonnés rimandi a prototipi bizantini, questa produzione, che data almeno dal 1122 ai primi decenni del secolo successivo, si presenta commista di elementi arabi, greci, francesi, e comprende opere quali la legatura dell'arcivescovo Alfano (Capua, Tesoro del Duomo), assegnabile fra il 1173 e il 1182, una stauroteca (Digione, Mus. des Beaux-Arts), databile intorno al 1200 (Juge, 1995), la corona di Costanza d'Aragona e i frammenti di galloni del suo manto (Palermo, Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale), risalenti al 1220-1222 ca. (Guastella, 1995).Proprio un'opera palermitana, il paliotto c.d. dell'arcivescovo Carandolet (Palermo, Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale), introduce il problema dello s. de plique: sopra di esso sono infatti cucite ben cinquantuno placche smaltate (sedici di restauro e molte altre attestate), di vario formato e sagoma, eseguite secondo questa tecnica e riconducibili al terzo quarto del sec. 13°. Ancora dibattuta è l'origine di questa tipologia, che, benché presente anche altrove, per es. sulla 'cintola' del duomo di Pisa (Guastella, 1995, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), trovò ampia diffusione a Parigi, in Catalogna e, appunto, a Palermo. La critica francese attribuisce alla committenza regale di Filippo IV il Bello (1285-1314), e più precisamente all'orafo di corte Guillaume Julien, la responsabilità di questo recupero bizantino di s. traslucidi (Gaborit-Chopin, 1996), forte del dono del re alla Sainte-Chapelle di ottanta s. de plique cuciti su seta e di numerosi pezzi ancora esistenti sul territorio, fra cui il reliquiario del SS. Sangue di Boulogne-sur-Mer (Saint-François-de-Sales); la critica spagnola individua in loco la loro produzione, basandosi su numerose opere di questo tipo su manufatti catalani, come per es. la striscia di seta del grande ostensorio della cattedrale di Barcellona. D'altra parte, la presenza di un numero così cospicuo di pezzi sopra un paliotto appartenuto ab antiquo al duomo di Palermo pone il problema di una loro eventuale creazione proprio in Sicilia. Sullo stesso frontale, che nell'aspetto odierno risale al sec. 17°, sono applicate anche sei aquile araldiche, residue di un gruppo più ampio, con le ali e la coda in s. semitrasparenti comparabili con gli s. de plique citati sopra. Compiute con un procedimento seriale, denotano processi operativi propri a un grosso atelier, con specializzazioni interne, quale risulta il laboratorio reale di Palermo, dove potrebbero essere state eseguite intorno alla metà del sec. 13° (Guastella, 1995). Fra Napoli (Leone de Castris, 1988) e Parigi (Philippe le Bel, 1998) si giostra l'esecuzione di una foglia-reliquiario (Cividale, Mus. Archeologico Naz.), il cui decoro araldico segnala l'unione, durata dal 1294 al 1302, della principessa Ithamar, figlia del despota dell'Epiro Niceforo I (m. nel 1296-1298), con Filippo principe di Taranto e di Romania (1294-1331), quartogenito di Carlo II d'Angiò (1285-1309).S. analogamente semitrasparenti disposti secondo la tecnica dello champlevé compaiono negli sfondi delle cinque placchette in argento dorato cucite oggi sulla citata 'cintola' del duomo di Pisa (Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), che sono state definite gli 'incunaboli' dello s. traslucido in Toscana: esse raffigurano due simboli degli evangelisti, una storia della Passione di Cristo e due episodi degli Atti degli Apostoli. Databili probabilmente fra settimo e ottavo decennio del sec. 13°, denunciano a livello degli sbalzi legami così stretti con la produzione di Nicola Pisano, da ritenere plausibile una loro esecuzione nella bottega di quest'ultimo. Se si tengono presenti le connessioni dello scultore con la cultura federiciana, sia che egli abbia potuto venirne in contatto nell'Italia meridionale sia che ne abbia potuto individuare riscontri nella stessa Pisa, città ghibellina per eccellenza, non appare improbabile che legami di carattere tecnico, ma non solo, possano essersi verificati con le officine regali palermitane anche a livello della produzione di smalti. Non è certo un caso che tappeti musivi con tessere multicolori si situassero negli sfondi delle formelle marmoree appartenenti a opere di Nicola e della sua scuola, a Pisa, a Siena, a Bologna. Nell'ambone nella chiesa di S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, opera del suo scolaro fra Guglielmo, i vetri colorati degli sfondi dilagano in primo piano sulle copertine dei libri sorretti dai simboli degli evangelisti e da S. Paolo, nonché sulle cornici iscritte, segnando una tappa ulteriore nel percorso della creazione dello s. traslucido figurato, che tanto successo ebbe nel secolo successivo (Calderoni Masetti, 1986).Com'è noto, la prima opera dove questa tecnica compare in modo pervasivo è il calice eseguito da Guccio di Mannaia (v.; Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco) su commissione di Niccolò IV (1288-1292) per la basilica di Assisi. Questa sorta di triangolazione fra un orafo senese, una committenza romana e una destinazione assisiate - senza dimenticare la dipendenza dalla Santa Sede dell'edificio e l'appartenenza all'Ordine francescano del pontefice - sarebbe stata la base sulla quale si affermò questa produzione. Definito esemplarmente "spezie di pittura mescolata con la scultura" (Vasari, Le Vite, I, 1966, p. 166), lo s. traslucido, tramite anche il trasferimento della sede papale ad Avignone e il ruolo di centro culturale assunto ben presto da questa capitale, si diffuse presso le corti, gli insediamenti ecclesiastici e civili, i centri di potere di tutta Europa, conseguendo risultati di rara eccellenza. Certamente nella sua elaborazione dovettero giocare un ruolo non secondario le vetrate figurate, che si avvalgono di un procedimento analogo di cottura nel forno e che ornarono precocemente la basilica assisiate, nonché opere eseguite a bassissimo rilievo sul tipo del reliquiario della Veste inconsutile (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco) donato proprio ad Assisi da Giovanna regina di Francia fra il 1284 e il 1305. Ma il successo fu certamente dovuto alla sua possibilità di competere con la pittura per quanto riguarda la ricchezza della gamma cromatica, i passaggi tonali, le ombre, nonché alla luminosità e alla trasparenza delle superfici, che diventavano centro catalizzatore nel corso delle cerimonie liturgiche.Se in un primo momento placchette di ridotte dimensioni si dispongono sulle lamine metalliche in un rapporto che tuttalpiù può essere paritetico, con il passare degli anni e anche con l'approfondirsi delle capacità tecniche, superfici sempre più ampie vengono riservate agli smalti. Ne è un esempio il reliquiario del Corporale a Orvieto (duomo), compiuto dal senese Ugolino di Vieri (v.) e soci nel 1338, dove sulla predella e sulle due facce si susseguono scene del Miracolo di Bolsena e della Vita di Cristo, secondo una correlazione profondamente meditata, che ha rispondenze nella pittura coeva (Calderoni Masetti, 1994). In parallelo proseguì l'uso dello s. champlevé, soprattutto per opere meno prestigiose, ma utilizzato da Andrea Pucci Sardi da Empoli ancora nel 1313 per il gradino dell'altare del battistero di Firenze (Mus. Naz. del Bargello), di chiara tradizione giottesca.Studi recenti hanno permesso di ricostruire, sia sul piano documentario sia su quello delle opere, la produzione a s. traslucido delle diverse regioni italiane: da quella guccesca, che risale ancora al Duecento, alle opere di Tondino di Guerrino e Andrea Riguardi nei primi decenni del Trecento (Leone de Castris, 1980); dalle magnifiche croci di Padova (Flores d'Arcais, 1984), di Porto Legnago (Ericani, 1984; 1987), di Santa Vittoria in Matenano (Leone de Castris, 1980), del Louvre (Taburet, 1983), di Berlino-Köpenick (Kunstgewerbemus.; Calderoni Masetti, 1991), di Massa Marittima (Previtali, 1995), ai reliquiari di S. Galgano già a Frosini e di S. Savino (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo), quest'ultimo firmato da Ugolino di Vieri e Viva di Lando (Carli, 1968); dalle opere legate alla committenza angioina di Napoli (Leone de Castris, 1988b), ai busti-reliquiario di s. Zanobi del fiorentino Andrea di Ardito, datato 1331 (Firenze, Sagrestia di S. Maria del Fiore; Strocchi, 1988), e di s. Giovanni Gualberto nella badia di S. Michele a Passignano sul Trasimeno, del 1330 ca. (Guidotti, 1988); dal busto di s. Donato firmato da Paolo e Pietro orafi aretini nel 1346 (Arezzo, pieve di S. Maria; Galoppi Nappini, 1984), alle formelle che dal 1316 al 1355, per opera di Andrea di Jacopo d'Ognabene e di Gilio Pisano, adornavano l'altare della cappella di S. Jacopo nella cattedrale di S. Zeno a Pistoia (Gai, 1984), per citare soltanto alcuni dei risultati più significativi nella prima metà del secolo. Legati a modelli toscani sono alcuni calici messinesi con s., analogamente all'esemplare degli inizi del Trecento nella chiesa di S. Maria a Randazzo (prov. Catania; Accascina, 1974).Ma anche in Abruzzo la suppellettile liturgica si adornò di s. traslucidi, sollecitata forse dalla presenza in loco della croce senese proveniente dall'abbazia di San Clemente a Casauria (Sulmona, Mus. Civ., Tesoro del Pio Istituto della SS. Annunziata) e risalente al 1330-1340 (Romano, 1984): ne forniscono esempi le numerose croci, fra cui quella di Rosciolo (Celano, Mus. d'Arte Sacra della Marsica, già Roma, Mus. del Palazzo di Venezia), datata 1334 (Romano, 1988; Di Berardo, 1991), il calice e la patena firmati da Ciccarello di Francesco (Sulmona, Mus. Civ.), databili verso la metà del Trecento, e la croce coeva di Penne (Mus. Diocesano; Gandolfi, Mattiocco, 1996).Nel Veneto si ricordano gli s. del reliquiario del braccio di s. Giorgio (forse senesi) e del piede del vaso in serpentino (Venezia, Tesoro di S. Marco), del calice del duomo di Modena, della pisside in quello di Treviso (Mariani Canova, 1984) o del reliquiario del bicchiere di Aleardino (Padova, Tesoro del Duomo; Padova, Basilica del Santo, 1995, pp. 85-87, nr. 4). Cinque placchette smaltate con Cristo benedicente e i simboli degli evangelisti risalenti al Trecento vennero applicate sulla Pala d'oro di S. Marco a Venezia in occasione del restauro eseguito nel 1343-1345 sotto il dogato di Andrea Dandolo (1343-1354) a opera del Maestro Principale e di Giovanni Bonesegna: esse si inseriscono in un contesto di s. cloisonnés totalmente costantinopolitano, seppure di epoche diverse, malgrado molti pezzi presentino iscrizioni in lingua latina, spesso adattando lettere dell'alfabeto greco a quelle dell'alfabeto latino.Nel Friuli-Venezia Giulia, placche smaltate decorano il busto-reliquiario di s. Ermagora (già nella cattedrale di Gorizia, trafugato nel 1956), voluto dal patriarca di Aquileia Bertrando di Saint-Geniès nel 1340, e quello di s. Donato nel duomo di Cividale, commissionato all'orafo Donadino da Cividale nel 1374, dalla decisa inclinazione ritrattistica (Collareta, 1992), mentre bolli smaltati con animali fantastici decorano la grande croce di Alda Giuliani (Trieste, Tesoro della Cattedrale), datata 1383.In Emilia-Romagna si segnalano i reliquiari del beato Salomoni, del 1338 ca., e di s. Sigismondo, eseguito alla fine del Trecento dall'orafo Nicola Tura, ambedue per la cattedrale di Forlì (Pinacoteca Civ.; Faranda, 1991), e quelli di s. Petronio, del 1380, e di s. Domenico, del 1383, conservati nelle chiese omonime di Bologna, dovuti a Giacomo Roseto (Iacopo Roseto, 1992). S. traslucidi si utilizzavano anche per adornare vesti liturgiche e profane e si trovavano sopra bottoni da piviale, placche per guanti, cinture.La stagione del traslucido in Spagna ebbe inizio con l'arrivo di alcuni orafi stranieri, fra i quali a Barcellona Duccio da Siena, operoso in questa città fra il 1313 e il 1326 (de Dalmases, 1992), e Giovanni da Pisa; a Perpignano, forse Costantino da Firenze e Giovanni da Genova nel 1323 (Gauthier, 1972). La produzione dovette riscuotere un immediato successo e dare vita a numerose botteghe in Catalogna, a Valencia, a Maiorca e in Aragona, capeggiate da maestranze locali. Già verso il 1325 s. raffinati decorano il retablo e il ciborio della cattedrale di Santa Maria a Gerona, eseguiti da maestro Bartomeu, cui subentrò verso il 1357-1360 Pere Bernés di Valenza, che, intorno al 1370-1380, venne affiancato da maestro Andrea. Questi sono responsabili anche della c.d. croce degli s. (Gerona, Mus. de la Catedral), ma tipiche croci spagnole con placchette di forma soprattutto ovale si diffusero ovunque. Al quinto o sesto decennio del secolo risale il prezioso calice del conte di Maiorca (Parigi, Louvre), con scene della Passione di Cristo, ampiamente restaurato; verso il 1370-1380 e all'ambiente dell'orafo barcellonese Pere Serra sono state ricondotte le placchette destinate a ornare il trono di una grande Maestà in argento, utilizzate nel sec. 16° nell'arca del Sacramento della cappella delle Reliquie nel monastero di Guadalupe (Castiglia). Altri pezzi importanti, decorati con s. traslucidi, sono la croce di s. Eulalia (Barcellona, Mus. de la Catedral), eseguita nel 1383 da Francesc Vilardell, gli s. simulanti vetrate dell'ostensorio della chiesa di Ibiza, nelle Baleari, compiuto da Francesc Martí nel 1399 (Domenge i Mesquida, in corso di stampa), una croce portante il punzone di Tarragona (Londra, Vict. and Alb. Mus.).In Francia, l'elegante Madonna con il Bambino donata dalla regina Giovanna d'Evreux (m. nel 1371) all'abbazia di Saint-Denis nel 1339, poggia, secondo quanto recita l'iscrizione, su una base completamente ricoperta di s. traslucidi che raffigurano la Vita di Cristo (Le Trésor de Saint-Denis, 1991), mentre il calice coevo della chiesa parrocchiale dedicata a s. Nicola a Wipperfürth (Nordrhein-Westfalen), con il punzone di Parigi, è l'unica opera trecentesca firmata da un orafo parigino, Jean de Touyl; alla sua mano sono stati proposti il polittico smaltato di Milano (Mus. Poldi Pezzoli) e quello di s. Elisabetta d'Ungheria (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters; Taburet-Delahaye, 1989; Gaborit-Chopin, 1992). Una raffinata coppa da torneo caratterizzata dal punzone di Avignone (Milano, Mus. Poldi Pezzoli) e una brocca smaltata segnata con quello di Parigi (Copenaghen, Nationalmus.) offrono invece una testimonianza di ambito laico (Taburet-Delahaye, 1989). Di destinazione analoga è il tesoro di Rouen-Gaillon (dip. Eure, diviso oggi fra Londra, Vict. and Alb. Mus.; San Pietroburgo, Ermitage; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny e Louvre), che comprende oggetti recanti i punzoni di Parigi, Montpellier, Rouen, Amiens, distribuiti lungo tutto l'arco del secolo (Taburet-Delahaye, 1989): essi restituiscono visivamente l'immagine della numerosa suppellettile profana elencata negli inventari papali, nonché in quelli principeschi di Carlo V e dei suoi fratelli.Della vastissima produzione avignonese testimoniata nei documenti rimangono alcune opere sicure perché provviste di punzone, fra cui il piede della croce nel duomo di Traù, in Dalmazia (Taburet-Delahaye, 1995); a essa sono stati inoltre ricondotti, per es., gli s. sulla mitria del busto-reliquiario di S. Martino (Parigi, Louvre), del secondo quarto del Trecento, proveniente dalla chiesa di Saint-Martin a Soudeilles (dip. Corrèze; Gauthier, 1972), e un bottone da piviale con S. Giovanni Evangelista (Firenze, Mus. Naz. del Bargello), nel quale i rapporti stilistici con la produzione di Matteo Giovannetti da Viterbo appaiono indubbi (Oreficeria sacra italiana, 1990). Ad ambito extraparigino meridionale appartengono invece il reliquiario di Roncisvalle (Real Colegiata, tesoro), con il punzone di Montpellier, e la testa-reliquiario di S. Ferreolo nella parrocchiale di Nexon (dip. Haute-Vienne), che secondo una lunga iscrizione presente nel verso venne eseguita nel 1346 da Aimeri Chrétien, orafo del castello di Limoges.Nella seconda metà del secolo lo s. parigino conseguì risultati di grande eccellenza, quali la coppa di s. Agnese (Londra, British Mus.), datata verso il 1370-1380, donata nel 1391 da Jean de Valois, duca di Berry (m. nel 1416), a Carlo VI (1380-1422), dove gli s. traslucidi, luminosissimi, si stendono sopra lamine d'oro, analogamente a quanto avviene per le valve di specchio (Parigi, Louvre) di Luigi d'Angiò (1381-1384), fratello di Carlo V il Saggio (1364-1380) e del duca di Berry, realizzate prima del 1379. Caratteristici dell'ultimo ventennio del secolo sono inoltre minuscoli reliquiari smaltati, con il personaggio eponimo in evidenza sulla faccia principale, quali quello di S. Caterina d'Alessandria (Londra, Vict. and Alb. Mus.); a essi si affiancano analoghi medaglioni-reliquiario, con gruppi di pietre preziose nel verso, per es. quello con Cristo alla colonna (Parigi, Mus. Nat du Moyen-Age, Thermes de Cluny), mentre leggermente precedente è il reliquiario di s. Elisabetta nel duomo di Udine, eseguito probabilmente a Praga poco dopo il 1357.Intorno alla metà del secolo, inoltre, e non a partire dagli inizi del Quattrocento, come si era creduto, fece la sua comparsa a Parigi lo s. sur ronde-bosse d'oro. Una delle testimonianze più antiche dell'uso di questa tecnica è lo scettro di Carlo V (Parigi, Louvre), già citato nell'inventario reale del 1379-1380 e attribuito all'orafo Hennequin du Vivier; Le Trésor de Saint-Denis, 1991), dove il giglio di Francia che sostiene la statuetta di Carlo Magno era completamente coperto di s. bianchi opachi; un'opera analoga è però citata già nel 1351-1352, nei pagamenti di Giovanni II il Buono all'orefice Jean le Braelier. La raffinatezza di questi pezzi, generalmente riconducibili alla committenza della casa reale di Francia, spesso ormai nel nuovo secolo, non conosce confronti: dalla testa mozza del Battista nel piatto di S. Giovanni del duomo di Genova (Cherry, in corso di stampa), al Calvario della cattedrale di Esztergom, dal Goldenes Rössl (Altötting, Wallfahrtskapelle und Schatzkammer) al S. Giovanni Battista e al medaglione con dromedario (Firenze, Mus. Naz. del Bargello, Coll. Carrand), dalla Pace di Siena, oggi nel duomo di Arezzo al Tableau de la Trinité (Parigi, Louvre); quest'ultimo potrebbe essere stato eseguito a Londra.Nei paesi dell'Europa centrale la produzione dello s. traslucido trovò ampia diffusione non solo nei grandi centri della Renania, ma anche in molte città, quali Vienna, Augusta, Ratisbona, Münster, Lubecca e Danzica (Fritz, 1996). Gli s. figurati erano riservati generalmente a opere di grande prestigio, mentre nei pezzi più corsivi è diffuso l'uso di placchette smaltate monocrome.Tra i capolavori del Trecento vanno annoverati: la coperta di evangeliario eseguita a Costanza agli inizi del secolo e conservata nell'abbazia svizzera di St. Michael a Beromünster, dove figure di santi ed evangelisti circondano il Cristo sbalzato; il cofanetto eucaristico con storie cristologiche proveniente dall'insediamento cistercense di Lichtenal (Strasburgo), risalente al 1330 ca. (New York, Pierp. Morgan Lib.), caratterizzato da una gamma cromatica vivacissima e ben conservata; gli s. sui piedi di un ostensorio e di un reliquiario, eseguiti a Basilea intorno al 1330 e dopo il 1347 (Basilea, Historisches Mus.); la croce proveniente dal St. Martin a Münster, riconducibile a una bottega del posto intorno al 1320-1330 (Münster, Westfälisches Landesmus. für Kunst und Kulturgeschichte), dove la complessa struttura orafa incornicia placche smaltate di forma diversa.Alla metà del secolo risalgono invece una splendida croce (Friburgo in Brisgovia, Augustinermus.), eseguita a Vienna dopo il 1342 e proveniente dal convento di Liebenau, vicino a Worms, e la croce-reliquiario della Vera Croce in Polonia (Sandomierz, tesoro della cattedrale), con scene della Vita di Cristo, importata da un atelier dell'alta Renania prima del 1343 per la chiesa di Brodnica nell'antico Stato dei Cavalieri Teutonici (Szczeprowska-Naliwajek, 1996). Nella seconda metà del secolo, agli anni 1370-1380 risalgono il monumentale ostensorio della Propsteikirche St. Viktor a Xanten (Die Parler, 1978-1980, I, pp. 197-198), il reliquiario della chiesa parrocchiale di Herrieden, eseguito a Praga per una reliquia di s. Vito (Die Parler, 1978-1980, III, pp. 373-374), e quello delle 'tre torri' della cattedrale di Aquisgrana (Domschatzkammer; Die Parler, 1978-1980, I, pp. 133-136). S. champlevés decorano invece il ciborio di Klosterneuburg (collegiata, Schatzkammer), con scene della Passione e Vita di Maria, datato al 1300 ca. e alla metà dello stesso secolo, nonché due placche dell'altare dello stesso convento, eseguite probabilmente da un orafo viennese in occasione di una risistemazione e cambio d'uso del complesso di Nicola di Verdun nel 1329-1331 (Fritz, 1982). Anche nel caso della produzione centro-europea, i rapporti con la pittura e la miniatura coeve erano strettissimi; un ruolo non indifferente giocò inoltre la più diffusa e più economica decorazione a bulino, dal tratto nervoso e fratto.Probabilmente già alla fine del Duecento si sviluppò a Londra la produzione dello s. traslucido, in parallelo con l'attività di Guillaume Julien a Parigi. Fin da epoca antica conservate in Inghilterra e quindi ragionevolmente attribuite a orafi inglesi, seppure formatisi forse a Parigi o nelle città renane, sono alcune opere quali la pisside Swinburne (Londra, Vict. and Alb. Mus.), databile intorno al 1310, la coeva King John Cup (Norfolk, Corporation of King's Lynn), nonché due trittici devozionali (Londra, Vict. and Alb. Mus.; Chicago, Loyola Univ.), ricondotti rispettivamente al 1345-1350 e al 1380 circa. In tutte queste opere palesi sono i legami con la coeva miniatura inglese e caratteristica la gamma cromatica, dove dominano i blu e i verdi, accompagnati da un particolare rosa salmone (Gauthier, 1972; Campbell, 1988).
Bibl.:
Fonti.- Vasari, Le Vite, 8 voll., 1966-1986; G. Milanesi, Documenti per la storia dell'arte senese, 4 voll., Siena 1854-1898; A. Lisini, Notizie di orafi e di oggetti di oreficeria senese, in Arte antica senese, II, Siena 1905, pp. 645-678.
Letteratura critica. - Guida all'esposizione eucaristica di Orvieto, Orvieto 1896; Mostra dell'antica arte senese, cat., Siena 1904; C. Ricci, Il palazzo pubblico di Siena e la mostra d'antica arte senese, Bergamo 1904; Catalogo generale della mostra d'arte antica abruzzese in Chieti, Chieti 1905; Catalogo della mostra d'antica arte umbra, Perugia 1907; U. Gnoli, L'arte umbra alla mostra di Perugia, Bergamo 1908; V. Balzano, L'arte abruzzese, Bergamo 1910; C.G.E. Bunt, S.J.A. Churchill, The Goldsmiths of Italy, London 1926; Toesca, Medioevo, 1927; C. Enlart, L'émaillerie cloisonnée à Paris sous Philippe le Bel et le maître Guillaume Julien, Monuments et mémoires 29, 1927-1928, pp. 1-9; I. Machetti, Orafi senesi, La Diana 4, 1929, pp. 5-110; M. Accascina, L'oreficeria italiana, Firenze 1934; A. Morassi, Antica oreficeria italiana, Milano 1936; M.H. Laurent, Orafi senesi del secolo XIII e XIV, Bullettino senese di storia patria, n.s., 8, 1937, pp. 177-182; Mostra dell'antica oreficeria sarda, a cura di R. Delogu, cat., Cagliari 1937; F. Stohlman, Gli smalti del Museo Sacro Vaticano, Città del Vaticano 1939; H. Hoberg, Die Inventare des päpstlichen Schatzes in Avignon 1314-1376, Città del Vaticano 1944; P. Toesca, Oreficerie della scuola di Nicola Pisano, Arti figurative 2, 1946, 1-2, pp. 34-36; Ars Sacra. Kunst des frühen Mittelalters, cat., München 1950; Mostra d'arte sacra della diocesi e della provincia dal secolo XI al XVIII, cat., Arezzo 1950; Toesca, Trecento, 1951; H. Swarzenski, Monuments of Romanesque Art. The Art of Church Treasures in North-Western Europe, London 1954 (Chicago 19672); C.L. Ragghianti, Aenigmata Pistoriensia, CrArte, s. IV, 1, 1954, 5, pp. 423-438; 2, 1955, 8, pp. 102-108; F. Santi, Ritrovamenti di oreficerie medioevali in S. Domenico di Perugia, BArte, s. IV, 40, 1955, pp. 354-355; F. Rossi, Capolavori di oreficeria italiana dall'XI al XVIII secolo, Milano 1957; H. Schnitzler, Rheinische Schatzkammer, II, Die Romanik, Düsseldorf 1959; C.L. Ragghianti, Arte a Lucca. Spicilegio, CrArte, s. IV, 7, 1960, 7, pp. 57-84; E. Steingräber, Beiträge zur gotischen Goldschmiedekunst Frankreichs, Pantheon 20, 1962, pp. 156-166; Mostra dell'oreficeria sacra ascolana dei secc. XIII-XVI, cat., Ascoli Piceno 1963; S. Mihalik, Problems Concerning the Altar of Elisabeth, Queen of Hungary, AHA 10, 1964, pp. 247-298; E. Hertlein, Capolavori francesi in San Francesco d'Assisi, AV 4, 1965, 4, pp. 64-67; Les trésors des églises de France, cat., Paris 1965; A. Lipinsky, L'arte orafa napoletana sotto gli Angiò, in Dante e l'Italia meridionale, "Atti del II Congresso nazionale di studi danteschi, Caserta e altrove 1965", Firenze 1966, pp. 169-215; id., La Croce degli Orsini del 1334 e l'arte orafa napoletana, NN, n.s., 6, 1967, pp. 123-134; M.P. Guida di Dario, Precisazioni su Ugolino di Vieri e soci, ivi, pp. 217-226; E. Carli, Su alcuni smalti senesi, AV 7, 1968, 1, pp. 35-47; L'Europe gothique XIIe-XIVe siècles, cat., Paris 1968; J. Hubert, J. Porcher, W.F. Volbach, L'empire carolingien, Paris 1968 (trad. it. L'impero carolingio, Milano 1968); I. Hueck, Una crocifissione su marmo del primo Trecento e alcuni smalti senesi, AV 8, 1969, 1, pp. 22-34; A. Lipinsky, Croci processionali trecentesche a Borbona e Sant'Elpidio, NN, n.s., 8, 1969, pp. 26-32; The Year 1200, a cura di K. Hoffmann, F. Deuchler, cat., 2 voll., New York 1970; I. Fingerlin, Gürtel des hohen und späten Mittelalters, München-Berlin 1971; Il Tesoro di San Marco, a cura di H.R. Hahnloser, II, Il tesoro e il museo, Firenze 1971; M.M. Gauthier, Emaux du Moyen Age occidental, Fribourg 1972; G. Marchini, L'altare argenteo di S. Jacopo e l'oreficeria gotica a Pistoia, in Il Gotico a Pistoia nei suoi rapporti con l'arte gotica italiana, "Atti del 2° Convegno di studi, Pistoia 1966", Roma [1972], pp. 15-147; Rhein und Maas. Kunst und Kultur 800-1400, cat. (Köln-Bruxelles 1972), 2 voll., Köln 1972-1973; M. Accascina, Oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, Palermo 1974; A. Lipinski, Oro, argento, gemme e smalti. Tecnologia delle arti dalle origini alla fine del Medioevo, Firenze 1975; Tesori d'arte sacra di Roma e del Lazio dal Medioevo all'Ottocento, cat., Roma 1975; M.M. Gauthier, Les couvertures précieuses des manuscrits à l'usage de la Sainte-Chapelle, "Actes des Colloques, Royaumont-Paris 1976", Paris 1976, pp. 141-163; Die Zeit der Staufer. Geschichte-Kunst-Kultur, cat., 5 voll., Stuttgart 1977-1979; O. Zastrow, L'oreficeria in Lombardia, Milano 1978; Die Parler und der Schöne Stil 1350-1400. Europäische Kunst unter den Luxemburgern, cat., 4 voll., Köln 1978-1980; E. Cioni Liserani, Alcune ipotesi per Guccio di Mannaia, Prospettiva, 1979, 17, pp. 47-58; P. Leone de Castris, Smalti e oreficerie di Guccio di Mannaia al Bargello, ivi, pp. 58-64; C. Gnudi, Considerazioni sul gotico francese, l'arte imperiale e la formazione di Nicola Pisano, in Federico II e l'arte del Duecento italiano, "Atti della III Settimana di studi di storia dell'arte medievale dell'Università di Roma, Roma 1978", a cura di A.M. Romanini, Galatina 1980, I, pp. 1-17; P. Leone de Castris, Tondino di Guerrino e Andrea Riguardi orafi e smaltisti a Siena (1308-1338), Prospettiva, 1980, 21, pp. 24-44; D. Liscia Bemporad, Oreficerie e avori, in Il Tesoro della basilica di S. Francesco ad Assisi, a cura di M.G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, Assisi-Firenze 1980, pp. 87-151; The Stavelot Triptych, cat., New York 1980; Les fastes du Gothique. Le siècle de Charles V, cat., Paris 1981; J.M. Fritz, Goldschmiedekunst der Gotik in Mitteleuropa, München 1982; D. Gaborit-Chopin, Les arts précieux, in F. Avril, X. Barral i Altet, D. Gaborit-Chopin, Le monde roman 1060-1220, I, Le temps des Croisades, Paris 1982 (trad. it. Il mondo romanico 1060-1220, I, Il tempo delle crociate, Milano 1983, pp. 227-308); Il Gotico a Siena: miniature, pitture, oreficerie, oggetti d'arte, cat., Firenze 1982; L'art gothique siennois, cat. (Avignon 1983), Firenze 1983; M. Campbell, An Introduction to Medieval Enamels, London 1983; E. Taburet, Une croix siennoise, RLouvre 33, 1983, pp. 189-198; English Romanesque Art. 1066-1200, cat., London 1984; L. Gai, L'altare argenteo di san Jacopo nel Duomo di Pistoia, Torino 1984; P. Leone de Castris, Trasformazione e continuità nel passaggio dello smalto senese da champlevé a traslucido, "Atti della I Giornata di studio sugli smalti traslucidi, Pisa 1983", a cura di A.R. Calderoni Masetti, Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia, s. III, 14, 1984, pp. 533-556; E. Cioni Liserani, Una croce con smalti senesi nel British Museum, ivi, pp. 557-568; F. Flores d'Arcais, Alcune precisazioni sulla croce senese della sacrestia della cattedrale di Padova, ivi, pp. 569-572; G. Ericani, Una croce-reliquiario senese del Trecento a Porto Legnago nel Veronese, ivi, pp. 573-580; D. Galoppi Nappini, Nuovi contributi allo studio dell'oreficeria aretina trecentesca, ivi, pp. 581-601; A.R. Calderoni Masetti, Smalti traslucidi nella Toscana occidentale, ivi, pp. 603-619; A. Guidotti, Gli smalti in documenti fiorentini fra XIV e XV secolo, ivi, pp. 621-688; S. Romano, La scuola di Sulmona fra Tre e Quattrocento e gli inizi di Nicola di Guardiagrele, ivi, pp. 715-732; G. Mariani Canova, Presenza dello smalto traslucido nel Veneto durante la prima metà del Trecento, ivi, pp. 733-755; M. Collareta, ''Encaustum vulgo smaltum'': note sulla percezione umanistica delle tecniche figurative, ivi, pp. 757-769; M.L. Martin Anson, Esmaltes en España, Madrid 1984; N. de Dalmases, Angenters i joiers de Catalunya (l'etapa gremial), Barcelona 1985; Kunst der Gotik aus Böhmen, cat., Köln 1985; C. Oman, Some Sienese Chalices, Apollo 81, 1985, pp. 279-281; Ornamenta Ecclesiae. Kunst und Künstler der Romanik, a cura di A. Legner, cat., 3 voll., Köln 1985; Arte aurea aretina. Oreficeria aretina attraverso i secoli, cat., 2 voll., Firenze 1985-1986; A.R. Calderoni Masetti, Oreficerie e smalti traslucidi nell'antica diocesi di Lucca, Firenze 1986; H. Fillitz, Die Schatzkammer in Wien. Symbole abendländischen Kaiserturms, Salzburg-Wien 1986; H. Swarzenski, N. Netzer, Catalogue of Medieval Objects in the Museum of Fine Arts, Boston. Enamels and Glass, Boston 1986; Tesori d'arte dei musei diocesani, a cura di P. Amato, cat., Torino 1986; Arte aurea aretina. Tesori dalle chiese di Cortona, a cura di M. Collareta, D. Devoti, cat., Firenze 1987; E. Brepohl, Theophilus Presbyter und die mittelalterliche Goldschmiedekunst, Wien-Köln-Graz 1987; E. Cioni Liserani, Per l'oreficeria senese del primo Trecento: il calice di 'Duccio di Donato e soci' a Gualdo Tadino, Prospettiva, 1987, 51, pp. 56-66; L. Lightbown, La produzione medievale, in Storia degli argenti, a cura di K. Aschengreen Piacenti, Novara 1987; R. Silva, Una cintura medievale inedita nel Tesoro della basilica di S. Frediano a Lucca, Actum Luce 16, 1987, pp. 117-119; M. Campbell, L'oreficeria italiana nell'Inghilterra medievale. Con una nota sugli smalti italiani del XIV e XV secolo nel Victoria and Albert Museum, in Oreficerie e smalti traslucidi nei secoli XIV e XV, a cura di A.R. Calderoni Masetti, BArte. Suppl. 43, 1988, pp. 1-16; E. Taburet-Delahaye, Il S. Galgano del museo di Cluny e il calice dell'abbazia di S. Michele di Siena: proposte per il 'Maestro di Frosini', ivi, pp. 17-29; G. Ericani, Per la croce di Porto Legnago, ivi, pp. 31-40; S. Romano, Fatti e personaggi nel regno di Napoli, ivi, pp. 97-112; L. Corti, Spunti per un catalogo informatizzato degli smalti, ivi, pp. 113-115; P. Leone de Castris, Sullo smalto fiorentino di primo Trecento, ivi, 1988a, pp. 41-56; id., Oreficerie e smalti primo-trecenteschi nella Napoli angioina: evidenze documentarie e materiali, Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia, s. III, 18, 1988b, pp. 115-136; L. Gai, Un 'inedito' di Andrea di Jacopo d'Ognabene orefice pistoiese, ivi, pp. 67-100; M. Collareta, Lo smalto traslucido nel pensiero trecentesco sull'arte, ivi, pp. 101-113; C. Strocchi, Lo smalto traslucido a Firenze: prime osservazioni sulla bottega di Andrea Arditi, ivi, pp. 137-150; A. Guidotti, Novità e riconsiderazioni circa il busto-reliquiario di S. Giovanni Gualberto a Passignano, ivi, pp. 151-174; A.R. Calderoni Masetti, Una cintura nuziale con smalti, ivi, pp. 231-259; E. Taburet-Delahaye, L'orfèvrerie gothique au Musée de Cluny, Paris 1989; Musée du Louvre. Nouvelles acquisitions du département des objets d'art 1985-1989, Paris 1990; Oreficeria sacra italiana. Museo Nazionale del Bargello, a cura di M. Collareta, A. Capitanio, Firenze 1990; F. Faranda, Argentieri e argenteria sacra in Romagna dal Medioevo al XVIII secolo (I mestieri dell'arte, 2), Forlì 1990; id., Due reliquiari con smalti traslucidi del sec. XIV conservati nella cattedrale di Forlì, Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia, s. III, 21, 1991, pp. 207-232; C. Di Fabio, Oreficerie e smalti in Liguria fra XIV e XV secolo, ivi, pp. 233-274; M.L. Martín Ansón, Sobre algunas obras con esmaltes traslúcidos italianos en España, ivi, pp. 293-313; P. Leone de Castris, L'area di diffusione commerciale del prodotto traslucido senese, 1290-1350: lo stato della questione, ivi, pp. 330-357; M. Di Berardo, Su un problema di oreficeria centro-meridionale del Trecento: la croce processionale degli Orsini, ivi, pp. 359-445; A.R. Calderoni Masetti, La croce smaltata del Kunstgewerbemuseum di Berlin-Köpenick, ivi, pp. 457-471; Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, a cura di E. Castelnuovo, Trento 1991; Le Trésor de Saint-Denis, a cura di D. Gaborit-Chopin (Les dossiers d'archéologie, 158), cat., Paris 1991; M. Collareta, Aspetti e problemi di alcuni reliquiari a busto del Friuli-Venezia Giulia, in Ori e tesori d'Europa, "Atti del Convegno di studio, Codroipo 1992", a cura di G. Bergamini, P. Goi, Udine 1992, pp. 235-244; A.R. Calderoni Masetti, Sui disegni figurati trecenteschi del Museo dell'Opera del duomo a Orvieto, ivi, pp. 245-254; N. de Dalmases, Orfebreria catalana medieval: Barcelona 1300-1350, 2 voll., Barcelona 1992; D. Gaborit-Chopin, The Reliquary of Elizabeth of Hungary at The Cloisters, in The Cloisters Studies of the Fiftieth Anniversary, a cura di E.C. Parker, New York 1992, pp. 327-353; P. Goi, G. Bergamini, Ori e tesori d'Europa. Dizionario degli argentieri e degli orafi del Friuli-Venezia Giulia, Udine 1992; Iacopo Roseto e il suo tempo, a cura di F. Faranda, Forlì 1992; Ori e tesori d'Europa. Mille anni di oreficeria nel Friuli-Venezia Giulia, a cura di G. Bergamini, cat. (Villa Manin di Passariano 1992), Milano 1992; Der Quedlinburger Schatz wiedervereint, a cura di D. Kötzsche, cat., Berlin 1992; E. Taburet-Delahaye, Le pied de croix du trésor de Conques, CahA 40, 1992, pp. 147-160; Bernward von Hildesheim und das Zeitalter der Ottonen, a cura di M. Brandt, A. Eggebrecht, cat., Hildesheim 1993; Oreficeria sacra a Lucca dal XIII al XV secolo, a cura di C. Baracchini, Firenze 1993; N. Stratford, Catalogue of Medieval Enamels in the British Museum, II, Northern Romanesque Enamel, London 1993; E. Cioni, Considerazioni sul Reliquiario del Corporale del duomo di Orvieto, Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia, s. III, 24, 1994, pp. 589-612; J. Domenge i Mesquida, Una croce italiana del primo Trecento nella cattedrale di Maiorca, ivi, pp. 613-628; P. Leone de Castris, Smalti senesi del primo Trecento in Spagna, ivi, pp. 629-641; D. Stehlíková, Some Enamels of the XIV Century from Czech Collections, ivi, pp. 643-660; P. Goi, Smalti nella regione friulana: testimonianze documentarie, ivi, pp. 693-708; G. Longoni, Sul calice visconteo nel Tesoro del duomo di Monza, ivi, pp. 709-728; A.R. Calderoni Masetti, Fra pittura e smalto, nella prima metà del Trecento, ivi, pp. 739-741; D. Gaborit-Chopin, Orfèvres et émailleurs parisiens au XIVe siècle, in Les orfèvres français sous l'ancien régime, "Actes du Colloque, Nantes 1989", Paris 1994, pp. 29-35; Omaggio a San Marco, tesori dall'Europa, a cura di H. Fillitz, G. Morello, cat., Milano 1994; Panis Vivus, a cura di C. Alessi, L. Martini, cat., Siena 1994; F. Pomarici, L'oreficeria, in I Normanni popolo d'Europa 1000-1200, a cura di M. D'Onofrio, cat. (Roma 1994), Venezia 1994, pp. 273-277; E. Taburet-Delahaye, Lo smalto traslucido a Siena e a Parigi nella prima metà del Trecento, in Il Gotico europeo in Italia, a cura di V. Pace, M. Bagnoli, Napoli 1994, pp. 11-22; P. Leone de Castris, Napoli ''capitale'' del gotico europeo: il referto dei documenti e quello delle opere sotto il regno di Carlo I e Carlo II d'Angiò, ivi, pp. 239-264; E. Cioni, Guccio di Mannaia e l'esperienza del Gotico transalpino, ivi, pp. 311-324; Arte sacra nella Versilia medicea. Il culto e gli arredi, a cura di C. Baracchini, S. Russo, cat., Firenze 1995; L. Dolcini, La croce-stauroteca di Cosenza: da Bisanzio a Palermo, in Federico e la Sicilia, dalla terra alla corona. Arti figurative e suntuarie, a cura di M. Andaloro, cat. (Palermo 1994-1995), Palermo 1995, pp. 109-114; S. Juge, La croce-stauroteca di Digione, ivi, pp. 115-116; C. Guastella, Tre serie di smalti applicati al paliotto detto dell'arcivescovo Carandolet, ivi, pp. 123-133; P. Leone de Castris, Il Reliquiario del Corporale di Orvieto e lo smalto senese di primo Trecento, in Il duomo di Orvieto e le grandi cattedrali del Duecento, "Atti del Convegno internazionale di studi, Orvieto 1990", a cura di G. Barlozzetti, Torino 1995, pp. 169-191; M.L. Martin Ansón. La importación de obras de esmaltes italianos y su influencia en la Castilla bajomedieval: el llamado ''Cáliz de San Segundo'', AEA 68, 1995, pp. 45-60; Padova, basilica del Santo. Le oreficerie, a cura di M. Collareta, G. Mariani Canova, A.M. Spiazzi, Roma 1995; G. Previtali, Scultura e smalto traslucido nell'oreficeria toscana del primo Trecento: una questione preliminare, Prospettiva, 1995, 79, pp. 2-4; E. Taburet-Delahaye, L'orfèvrerie au poinçon d'Avignon au XIVe siècle, RArt, 1995, 108, pp. 11-22; G. Cantelli, Storia dell'oreficeria e dell'arte tessile in Toscana dal Medioevo all'età moderna, Firenze 1996; E. Cioni, Per Giacomo di Guerrino, orafo e smaltista senese, Prospettiva 1996, 83-84, pp. 56-79; P. George, La Sainte Croix a Liège au XIe siècle, in Studi di oreficeria, a cura di A.R. Calderoni Masetti, BArte. Suppl. 95, 1996, pp. 39-48; D. Kotzsche, Fragmente, Fragmente..., ivi, pp. 49-58; D. Gaborit-Chopin, Guillaume Julien ''et compagnie'', ivi, pp. 71-84; J.M. Fritz, Goldschmiedekunst und Email des 14. Jahrhunderts in Mitteleuropa, ivi, pp. 99-106; K. Szczeprowska-Naliwajek, La Croix de Sandomierz et les émaux translucides en Pologne, ivi, pp. 113-122; E. Taburet-Delahaye, Un reliquiaire de Saint-Baptiste exécuté par les orfèvres siennois Jacopo di Tondino et Andrea Petrucci pour le cardinal Albornoz, ivi, pp. 123-136; A. Gandolfi, E. Mattiocco, Ori e argenti d'Abruzzo dal Medioevo al XX secolo, Pescara 1996; F. Pomarici, Mode e innovazioni tecniche nella produzione orafa di corte, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di curia, arte di corte 1300-1377, Torino 1996, pp. 131-175; Il restauro delle oreficerie. Aggiornamenti, a cura di L. Dolcini, Milano 1996; F. Rossi, Oreficeria italiana. Dall'XI al XVIII secolo, Milano [1996]; G. Galleri, ''Cum ismalto'': rilettura dell'oreficeria sarda nei secoli XIV e XV attraverso un corpus di calici, in Contributi per la storia dell'oreficeria, argenteria e gioielleria, a cura di P. Pazzi, II, Venezia 1997, pp. 238-244; Philippe le Bel, a cura di D. Gaborit-Chopin, cat., Paris 1998; C. Bertelli, Arti maggiori e arti minori, in Tessuti, oreficerie, miniature in Liguria, "Atti del Convegno, Genova 1999", a cura di A.R. Calderoni Masetti, C. Di Fabio, M. Mercenaro (in corso di stampa); J. Cherry, The Dish of the Head of St. John the Baptist in Genoa, ivi; R. Delfino, I reliquiari del museo diocesano di Albenga, ivi; D. Devoti, Reliquiari medievali dal Tesoro della cattedrale di Sarzana, ivi; C. Di Fabio, Il Tesoro della cattedrale di Genova. Le origini (XII-XIV secolo), ivi; J. Domenge i Mesquida, En torno a las relaciones entre la orfebrería italiana y catalan-aragonesa en el Trecento. Tres postilas sobre el caso lígur, ivi; A.R. Calderoni Masetti, Smalti en ronde-bosse alla corte di Ferrara, in Smalti traslucidi europei (secoli XIII-XV), "Atti del Convegno, Pisa 1999", a cura di A.R. Calderoni Masetti (in corso di stampa); M. Campbell, English Basse Taille Enamels, ivi; N. de Dalmases, Esmaltería catalana del Trescientos, ivi; C. Di Fabio, Storie di san Paolo in un calice genovese del Quattrocento, ivi; J. Domenge i Mesquida, La torre y la cruz: diálogos entre plástica monumental y artes suntuarias en Mallorca, ca. 1400, ivi; J.M. Fritz, Oreficerie e smalti nell'Europa centrale, ivi; I. Hueck, Il codice Saltarelli di Londra e l'oreficeria gotica pisana, ivi; P. Leone De Castris, Sull'''enigma'' dello stile di Duccio, ivi; E. Taburet-Delahaye, L'émaillerie translucide à Montpellier et Avignon au XIVe siècle, ivi; N. Stratford, Colour in 12th-Century Enamel, in Il colore nel Medioevo. A proposito di smalti, "Atti della Giornata di studi, Lucca 1999", a cura di R. Silva (in corso di stampa).
Gli s. costituiscono uno dei capitoli più affascinanti nella storia delle arti suntuarie bizantine e rappresentano una delle manifestazioni di maggior rilievo dell'arte dell'oreficeria, non fosse che per il numero di pezzi conservati, valutabile a ca. un migliaio di esemplari. Diverse centinaia di s. si trovano ancora nella loro collocazione originaria, inseriti nelle opere per le quali vennero creati, ma molti sono stati reimpiegati in opere medievali successive, occidentali e slave, oppure, isolati da ogni contesto, sono conservati in diverse collezioni pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti.Sulle opere di oreficeria bizantina pervenute, gli s. si trovano nella maggior parte dei casi sotto forma di medaglioni o di piccole placchette inchiodate o incastonate su oggetti liturgici, quali calici, patene, legature di evangeliari, croci, corone votive e reliquiari di vario genere, come in particolare attesta il complesso, unico al mondo, conservato nel Tesoro di S. Marco a Venezia. La maggior parte reca un'immagine - a mezza figura o, più raramente, a figura intera, in piedi - di Cristo, della Vergine, di un apostolo, di un arcangelo, di un angelo o di un santo, ma anche talvolta scene cristologiche (Crocifissione, Anastasi, Déesis), la cui dimensione non supera generalmente i pochi centimetri. Su questi oggetti, insieme alle figure, possono essere inserite placchette ornamentali a decorazione geometrica o floreale (rosette, palmette, fioroni), anch'esse smaltate, oppure pietre preziose o paste vitree a cabochon, frequentemente bordate da uno o più file di piccole perle. Tuttavia alcuni s. raggiungono talvolta dimensioni di un certo rilievo: è il caso di una Crocifissione, del sec. 11°-12°, conservata a Monaco (Residenz, Reiche Kapelle; altezza cm 25), della grande placca centrale del reliquiario della Vera Croce (Esztergom, Bazilika Kincstára; cm 27,6) e specialmente delle sette placchette, rimontate dopo il sec. 14°, nella parte superiore della Pala d'oro di Venezia (S. Marco): una, al centro, con l'immagine di S. Michele arcangelo (cm 44 ´ 39) e altre sei con scene del ciclo delle Dodici feste (la più grande con l'Ingresso a Gerusalemme misura cm 36,7 ´ 31,3).Alcuni s. furono usati anche per arricchire icone dipinte o a mosaico, in particolare sotto forma di serie di placchette o medaglioni decorati, fissati intorno all'incorniciatura, che a sua volta, nel caso di opere più lussuose, presenta un rivestimento metallico. In queste opere si trovano s. anche sotto forma di nimbi, costituiti da un'unica placca o da diversi elementi congiunti tra loro, ornati da vari motivi decorativi, riportati e fissati sul fondo di legno dipinto, per es. i nimbi della Madonna con il Bambino dell'icona della Vergine Nikopoiós, nella basilica di S. Marco a Venezia, degli inizi del 12° secolo. In alcuni casi le placchette di s. accostate ricoprono addirittura l'intero fondo, come nella famosa icona di S. Michele del Tesoro di S. Marco a Venezia, nella quale l'arcangelo in piedi è interamente circondato da motivi ornamentali a rosoni nella parte superiore e da ornamenti vegetali stilizzati in quella inferiore.Alcune icone, infine, sono costituite da un'unica grande placca smaltata, come nel caso di quella del Salvatore di Kortskheli, in Georgia (Tbilisi, Gosudarstvennyj mus. iskusstv; altezza cm 20), il cui fondo e la stessa incorniciatura, ambedue smaltati, sono stati ottenuti da un'unica lamina d'oro. Era anche probabilmente il caso del grande Cristo stante, del sec. 12°, conservato a Roma (Mus. del Palazzo di Venezia), e delle due figure degli arcangeli Michele e Gabriele, anch'essi in posizione eretta, che si conservavano ancora nel sec. 19° nel monastero di Djoumati, in Georgia (Kondakov, 1892, pp. 153-154, fig. 45), opere di notevoli dimensioni (altezza cm 68,7; 59; 41).Oltre che negli arredi liturgici, lo s. era presente nel mondo bizantino anche in opere profane, soprattutto nella gioielleria - collane, pendenti, orecchini e koltys (ornamenti fissati all'altezza delle tempie), anelli e bracciali -, come provano sia i due bracciali, del sec. 9°-10°, rinvenuti nel 1956 a Salonicco (Byzantine Mus. of the Rotunda of St. George), sui quali è incastonata una serie di placchette ove si alternano uccelli e motivi floreali, sia il complesso dei gioielli, del sec. 9°-10°, del tesoro scoperto nel 1978 a Preslav (Arheologitcheski rezervat muz.), in particolare una collana con pendenti a goccia, ornata da quattordici placchette decorate con uccelli o motivi vegetali, due delle quali recano una figura di orante, forse la Vergine. In questo caso, come in molti altri monili, lo s. è associato a perle e a gemme.Lo s. compare spesso anche su un tipo specifico di gioielli, noto attraverso un numero piuttosto cospicuo di esemplari: si tratta delle croci pettorali, che potevano essere reliquiari - del tipo per es. di quella del sec. 9°, proveniente dalla Beresford Hope Coll. (Londra, Vict. and Alb. Mus.), interamente smaltata sulle due facce -, e soprattutto di enkólpia di vario tipo, gioielli-reliquiario destinati a essere portati sul petto, come quelli di S. Demetrio, dei secc. 12°-13°, conservati a Londra (British Mus.) e a Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.) - a suo tempo studiati da Grabar (1950; 1954) - o quello del sec. 8°, in forma di quadrilobo, rappresentante l'Anastasi, custodito a Tbilisi (Gosudarstvennyj mus. iskusstv).Infine, appartengono alla specifica serie delle insegne imperiali, che potevano quindi comportare decorazioni a s., le sette placchette della corona (v.) di Costantino IX Monomaco (1042-1055; Budapest, Magyar Nemzeti Múz.) - scoperte in Ungheria tra il 1861 e il 1870, dove l'imperatore è rappresentato insieme all'imperatrice Zoe (m. nel 1050) e alla sorella, a due danzatrici e ad allegorie della Verità e dell'Umiltà - e le dieci placchette della corona di s. Stefano d'Ungheria, altrimenti nota come Sacra Corona d'Ungheria, del sec. 11° (Budapest, Magyar Nemzeti Múz.), una delle quali reca l'immagine a mezza figura dell'imperatore Michele VII Ducas (1071-1078).Le due corone citate sono le uniche testimonianze pervenute di un'ampia categoria di opere, in cui è opportuno includere gli ornamenti delle vesti imperiali, che sicuramente dovevano essere talvolta arricchite da s., se si considera che quelli cuciti tra i ricami e le perle dei paramenti dei re di Sicilia (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer) sono in larga misura ispirati a modelli bizantini. Le fonti testimoniano inoltre che nella capitale imperiale l'uso dello s. si estendeva addirittura alla decorazione delle bardature dei cavalli imperiali.Nei testi bizantini sembra che lo s. venisse definito con l'espressione érga chymeutá o cheimeutá ('opera ottenuta attraverso fusione', dal verbo chyméuo 'fondere', cui è connesso chymentés 'alchimista') o con il termine chìmeusis, risultato dell'azione. Come per il tedesco Schmelz o il latino smaltum, prevale quindi l'idea della fusione del vetro sul metallo, essenza stessa della smaltatura, mentre il termine énkausis, che designa il niello, insiste soprattutto sulla nozione di calore necessario per far aderire il niello sul metallo. Questa interpretazione, già avanzata da Reiske nel suo commento all'edizione del De caerimoniis aulae Byzantinae di Costantino VII Porfirogenito, a proposito delle opere di oreficeria esposte nel palazzo imperiale in alcune occasioni (CSHB, XIII, 1830, pp. 204-206), è tuttora condivisa dalla maggior parte dei curatori e commentatori di testi, quali Hetherington (1988) - con una lista delle occorrenze a partire dal sec. 9° - e, dopo Labarte (1856), Kondakov (1892), Molinier (1901) ed Ebersolt (1923), anche dagli storici dell'arte. L'identificazione degli érga chymeutá menzionati nelle fonti con opere smaltate è stata tuttavia in alcuni casi messa in dubbio (Lecco, 1977, p. 36). Comunque, malgrado una confusione sempre possibile negli scrittori tra differenti termini tecnici (Dagron, 1984, p. 241, nn. 134, 139-140), una menzione dell'Inventario (brébion) del monastero di S. Giovanni Teologo a Patmos, redatto nel 1200, che non è un testo letterario ma un documento d'archivio, è sotto questo profilo chiara e dovrebbe fugare qualsiasi ambiguità. Tra le icone del monastero infatti compare citata una 'santa e grande' icona del Teologo con una cornice di argento dorato e il nimbo e il libro dei Vangeli entrambi smaltati su oro e argento (amphotéron chrysocheiméuton argyrón). Tale menzione corrisponde con ogni evidenza alla venerata icona di S. Giovanni, ancora conservata a Patmos, dipinta su un supporto ligneo, dotata di una cornice di oreficeria e nella quale tanto il nimbo quanto il libro dei Vangeli in mano all'apostolo sono eseguiti in s. su oro (Patmos, 1988, pp. 107-108, 131). Bisogna quindi intendere l'aggettivo chrysocheiméutos come 'smaltato su oro' e di conseguenza ammettere che l'aggettivo chymeutós o cheimeutós, il sostantivo chìmeusis e l'espressione tá érga chymeutá o cheimeutá facciano normalmente allusione a opere smaltate, quanto meno negli inventari, come quelli che talvolta accompagnano i typiká - atti di fondazione dei monasteri - e i documenti a carattere giuridico, quali i testamenti, ma anche di certo nella maggior parte degli altri testi. Così la legatura di un evangeliario del monastero costantinopolitano del Cristo Misericordioso, menzionata nella Diátaxis di Michele Attaliate (1071) - che presentava, su un piatto, una croce con l'immagine della Crocifissione e quattro gámmata con gli evangelisti e sull'altro una croce con la Vergine e quattro gámmata con santi holóchrysa cheimeutá - e la 'venerabile' croce d'oro ornata da sei immagini chymeutás, citata nel testamento di Eustathios Boilas nel 1059 (Hetherington, 1988, p. 34), erano certamente decorate con placchette e medaglioni smaltati. Così pure, per i secc. 9° e 10°, le immagini di Cristo collocate nella parte alta del témplon della Nea Ekklesia, costruita all'interno del Grande Palazzo di Costantinopoli da Basilio I (867-886), citate nella Vita Basilii (Hetherington, 1988, pp. 32-33), e la mensa d'altare, presunto dono di Giustiniano alla Santa Sofia, descritta nella Narratio de structura templi Sanctae Sophiae (Hetherington, 1988, p. 32), corrispondono, come è stato proposto (Dagron, 1984, p. 204), a opere smaltate od ornate da smalti. Lo stesso vale, al tempo di Costantino VII Porfirogenito (913-959), per i piatti e gli oggetti diversi esposti nel Grande palazzo in occasione di alcune cerimonie, per l'icona del santuario di S. Demetrio, davanti alla quale sostava l'imperatore alla vigilia della domenica delle Palme, o ancora per gli ornamenti utilizzati per accrescere il lusso delle cavalcature imperiali (De caerimoniis aulae Byzantinae, II, 40; I, 31; I, 17; Hetherington, 1988, p. 32).Sulla base dei testi, l'associazione dell'aggettivo chymeutós a un'opera di oreficeria non sembra tuttavia comparire prima del sec. 9° e ciò costituisce forse un indizio cronologico non trascurabile nella storia degli s. bizantini. Va inoltre notato come per quasi tutte le opere citate, sia che venga affermato esplicitamente sia che lo si ricavi dal contesto, il metallo utilizzato è l'oro; soltanto l'Inventario di Patmos sembra introdurre una distinzione tra s. su oro e s. su argento dorato, in particolare per l'icona di S. Giovanni, ma anche per un'icona circolare della Vergine con il Bambino (argyrá diákrysa cheimeutá), dato che potrebbe corrispondere a un uso dell'argento relativamente tardo nella smaltistica bizantina e concordare soprattutto con l'assai ristretto numero di s. su argento oggi noti.Quasi tutti gli s. bizantini che si conservano sono infatti eseguiti su oro, secondo la tecnica dello s. cloisonné nelle sue due varianti: s. pieno (Vollschmelz) e incassato (Senkschmelz). Lo s. pieno è principalmente rappresentato da un piccolo gruppo di opere raccolte intorno alla corona votiva di Leone VI (886-912; Venezia, Tesoro di S. Marco), in cui sono presenti sette medaglioni smaltati con i busti dell'imperatore e di sei santi, dai toni vivaci, che si stagliano su uno sfondo verde scuro traslucido, in cui spiccano le iscrizioni costituite da semplici fasce di metallo inserite nella pasta vitrea. La tecnica dello s. pieno si ritrova anche, sia pure molto diversa nell'aspetto, su alcuni pezzi attribuiti invece ai secc. 12° e 13°, per es. il citato piccolo enkólpion di S. Demetrio, con un'immagine a mezza figura di S. Giorgio: in questo caso i colori sono praticamente tutti opachi, con le lettere delle iscrizioni a loro volta interamente ottenute attraverso una duplice listellatura riempita con un colore contrastante con quello del fondo. Solo raramente è stato notato come, tra questi due termini cronologici, lo s. pieno fosse parimenti utilizzato nei secc. 10° e 11° per elementi a decorazione geometrica o floreale, per es. nella famosa stauroteca di Limburg an der Lahn (Staurothek Domschatz und Diözesanmus.; bordi del coperchio e della celletta della Vera Croce all'interno), nell'icona di S. Michele, a mezza figura, conservata a Venezia (Tesoro di S. Marco; bordi, nimbo e maniche dell'arcangelo) o nel trittico-reliquiario della Vera Croce, della cattedrale di Monopoli (fasce superiore e inferiore del corpo centrale), opere nelle quali gli altri elementi della decorazione a s., a carattere figurativo, sono stati peraltro ottenuti secondo la tecnica dello s. incassato.Lo s. incassato (Senkschmelz), tecnica che consente di ottenere un'immagine colorata nella quale si alternano s. traslucidi e opachi che si stagliano sul fondo unitario d'oro, è di gran lunga più riccamente rappresentato: il citato reliquiario di Limburg an der Lahn rappresenta certamente uno dei vertici di questa tecnica, con le nove placchette che ornano la zona centrale del coperchio, dove sono raggruppati, due a due, intorno alla figura di Cristo in trono, gli apostoli, la Vergine, s. Giovanni Battista e due arcangeli, mentre i venti piccoli coperchi che chiudono le celle delle reliquie all'interno sono decorati con figure di arcangeli e angeli.Nella maggior parte dei casi le iscrizioni risultano poste direttamente sul fondo oro della placca, ottenute attraverso solchi scavati nel metallo e riempiti di s. opaco, solitamente rosso mattone, talvolta anche blu o nero; più raramente le iscrizioni occupano da sole placchette indipendenti riportate, per es. quelle che recano le prime parole della preghiera eucaristica, e sono fissate attorno a un medaglione con il Cristo benedicente, sulla grande patena in alabastro del Tesoro di S. Marco a Venezia o su vari calici, ugualmente lì custoditi.L'uso quasi esclusivo dell'oro quale supporto tanto per lo s. pieno quanto per lo s. incassato è facilmente giustificato da esigenze tecniche (Buckton, 1982; 1994a): la temperatura di fusione dell'oro è sensibilmente superiore a quella del vetro utilizzato per la fabbricazione degli s. - peraltro ulteriormente ridotta con l'impiego di fondenti - ed evita qualsiasi rischio di deterioramento del supporto; inoltre i quasi analoghi coefficienti di ritrazione del vetro e dell'oro garantiscono un raffreddamento senza rischio di craquelure; infine l'oro, inossidabile, non altera per nulla la purezza dei colori né la traslucidità del vetro, di cui al contrario favorisce l'impiego. Alcuni s. cloisonnés furono tuttavia realizzati su argento, successivamente dorato. Il grado di fusione dell'argento, più basso di quello dell'oro e più vicino a quello del vetro utilizzato, spiega indubbiamente l'aspetto in qualche modo incerto del prodotto finito e si osserva che in questo caso sono stati usati esclusivamente s. opachi e non s. traslucidi: si possono citare due placchette con la Vergine e S. Giovanni, del sec. 12°-13° (New York, Metropolitan Mus. of Art, inv. nr. 17.190.713/714; Wixom, 1995, p. 664, nr. 45), un enkólpion con i Ss. Teodoro e Giorgio, in piedi, attribuito al sec. 12° (Cleveland, Mus. of Art, inv. nr. 72.94; Wixom, 1995, p. 662), o ancora i medaglioni inseriti su una delle legature, del sec. 13°-14°, appartenute al Tesoro di S. Marco (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, gr. I, 53), dove si osservano evidenti difetti di qualità e uso esclusivo dello s. opaco. Questi s., relativamente tardi, meritano di essere accostati alla sola menzione di s. su argento contenuta nel citato Inventario di Patmos.Anche il rame venne talvolta utilizzato per la fabbricazione di s. cloisonnés. È il caso della citata grande icona del Cristo a s. pieno (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia), le cui dimensioni sono di per sé sufficienti a giustificare la sostituzione del rame all'oro e nella quale l'uso del rame si accompagna a quello dello s. opaco. È il caso anche di un gruppo di tre opere, anch'esse a s. pieno, opaco, su rame, individuate da Frazer (1989): un medaglione con una gorgone su una faccia e un'iscrizione di carattere profilattico sull'altra (Parigi, Louvre); un reliquiario con la Déesis e santi (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.); un'icona con S. Teodoro (San Pietroburgo, Ermitage). Tutti e tre questi pezzi provengono dalla stessa bottega, cui si deve una ciotola con l'Ascensione di Alessandro Magno (Innsbruck, Tiroler Landesmus. Ferdinandeum), che reca un'iscrizione araba in onore di un sovrano artuqide della Mesopotamia settentrionale, della prima metà del sec. 12° (Die Artuqiden-Schale, 1995): si tratta dunque di una bottega situata ai confini dell'impero, in una regione perduta dai Bizantini dopo la battaglia di Manzikert (1071), dove erano tuttavia in parte sopravvissute le tradizioni bizantine, adattate all'uso del rame proveniente dalle miniere sfruttate nelle regioni limitrofe.Purtroppo non si hanno ancora a disposizione i risultati delle analisi di laboratorio in corso su s. cloisonnés bizantini, in particolare a Londra (British Mus.), Parigi (Laboratoire de recherche de la Direction des musées de France) e New York (Metropolitan Mus. of Art): per quelli su oro sono stati pubblicati di recente solo risultati parziali, ottenuti su due opere della Walters Art Gall. di Baltimora, su un'opera del Metropolitan Mus. of Art di New York (Stromberg, 1988) e su un enkólpion del Virginia Mus. of Fine Arts di Richmond (Gonosova, Kondoleon, 1994, pp. 410-415). Stando alle osservazioni ancora provvisorie compiute a Londra e a Parigi, sembra si debba constatare una relativa disparità nel titolo del metallo tra un pezzo e l'altro, dato confermato dall'esame diretto delle opere, per es. del Tesoro di S. Marco a Venezia, dove differenze di ossidazione tra un pezzo e l'altro inducono a presumere l'impiego di oro di diverso titolo. È al momento impossibile sapere se queste variazioni, che occorrerebbe confrontare con quelle osservate su monete o gioielli, dipendano da una diversità di epoca oppure siano riscontrabili all'interno di uno stesso arco cronologico.Quanto al vetro, anch'esso sembra presentare analoghe diversità. Inoltre nulla consente di pronunciarsi con certezza in merito all'eventuale reimpiego del vetro antico, in particolare di tessere musive - opinione basata sulle affermazioni, per l'Occidente romanico, del monaco Teofilo (De diversis artibus, II, 12) -, oppure sull'uso di vetro fabbricato appositamente da artigiani vetrai, secondo metodi tradizionali risalenti all'Antichità. Questa ultima ipotesi appare tuttavia di gran lunga la più verosimile, data l'importanza del vetro nella vita economica del mondo bizantino, e non soltanto a Costantinopoli, per la fabbricazione di tessere musive (Henderson, Mango, 1995) o di oggetti di lusso (Grabar, 1971; Cutler, 1994), ma anche in diversi grandi centri dell'impero, per la fabbricazione di oggetti di uso domestico o piccoli gioielli, come a Cipro e soprattutto a Corinto, dove gli scavi hanno rivelato un'importante e continuativa attività vetraria tra i secc. 9° e 12° (Davidson-Weinberg, 1975; Withehouse, 1991).Lo s. cloisonné su oro, argento o rame, non rappresenta comunque l'unica tecnica utilizzata dagli artisti bizantini, che si avvalsero anche di altri procedimenti. Un primo gruppo di opere, individuato da Rosenberg (1921-1922) e più di recente studiato da Buckton (1988a), costituito da rari esempi, tutti databili ai secc. 6°-7°, è caratterizzato dall'uso dello s. su filigrana (Drahtemail), derivato dalla tradizione della gioielleria tardoantica: gli s., non levigati, sono posti all'interno di un reticolo di ornamenti disegnati da un filo d'oro saldato sul fondo, anch'esso d'oro.Il medaglione centrale di una collana conservata a Magonza (Römisch-Germanisches Zentralmus.), nel quale si fronteggiano due uccelli posti ai lati di un cantaro stilizzato (Buckton, 1988a, fig. 6; Haseloff, 1990, fig. 11), e due piccole croci in cui alcuni uccelli circondano un cabochon centrale - la prima ritrovata insieme a un piccolo tesoro del sec. 6° e conservata a Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Buckton, 1988a, fig. 5; Haseloff, 1990, fig. 9), la seconda conservata a Firenze (Mus. Naz. del Bargello; Haseloff, 1990, fig. 10) - sono praticamente gli unici esempi che rappresentino tale tecnica, peraltro attestata, in forme vicine, su gioielli longobardi (Haseloff, 1990, n. 3). Infatti il medaglione di Licinia Eudossia, del sec. 5° (Parigi, BN) e il suo pendant (Baltimora, Walters Art Gall.) - recentemente messo in dubbio (Drayman-Weisser, Herbert, 1991-1992; Henderson, 1991-1992) - devono essere esclusi da questa breve serie.Lo s. su filigrana di tipo antico non è peraltro più attestato dopo il sec. 7°; una variante di questa tecnica riaffiora comunque molto più tardi, sotto forma di s. su filigrana a tortiglione, ben nota attraverso numerosi esempi postbizantini prodotti in Grecia, nei Balcani e in Russia. Tuttavia alcuni s. su filigrana di questo tipo potrebbero essere stati realizzati durante il regno degli ultimi Paleologhi (sec. 15°), per es. quelli che adornano la montatura in argento di un panaghiárion del monastero atonita di Chiliandari, attribuito al sec. 12°-13°, ma probabilmente posteriore e databile, come la sua montatura, appunto al sec. 15° (Treasures of Mount Athos, 1997, nr. 9.9). Questa tecnica, talvolta definita come modo Transylvano o modo Ragusano (Byzantine and Post-byzantine Art, 1985, nr. 223), sembra infatti comparire nei Balcani a partire dal sec. 14°, se la montatura di un cammeo con il Cristo Pantocratore, proveniente da Peć e conservata a Belgrado (Muz. Primenjene Umetnosti), è da considerarsi contemporanea alla gemma. La si trova a ogni modo adottata parallelamente in Italia sin dall'inizio del sec. 15°, in particolare a Venezia e a Napoli. È quindi molto probabile che l'apparizione di tale tecnica nell'arte bizantina in Grecia e sino a Costantinopoli si collochi alla fine dell'età paleologa, inscrivendosi nel più vasto fenomeno di influenze esterne diverse, italiane o balcaniche, che cominciavano a emergere in quel momento. Uno degli esempi più antichi potrebbe essere la montatura della pretesa reliquia del cranio di s. Giovanni Battista (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., inv. nr. 2.2743): la sua montatura, decorata da ghiere filigranate cosparse di fiori, sembra poter essere attribuita a una data anteriore alla conquista ottomana di Costantinopoli (1453), poiché si trovava nel tesoro del palazzo sin dal tempo del regno di Maometto II (1451-1481) e non sembra essere stata rifatta durante uno spostamento in Serbia, dove, verso la fine del sec. 15°, venne realizzato un reliquiario per racchiuderla, del tutto diverso tecnicamente (Bayraktar, 1986, pp. 14-20, fig. 9).Così pure lo s. traslucido su rilievo a sbalzo, comparso alla fine del sec. 13° in Toscana, prima di trovare diffusione in tutta l'Europa gotica del sec. 14°, non fu totalmente ignoto nel mondo bizantino. Questa tecnica si ritrova infatti su alcune ibride opere greche della fine dell'epoca paleologa: per es. su un piccolo enkólpion del monastero atonita di Vatopedi, attribuibile al sec. 15°, una figura di S. Cristoforo, cesellata a bassorilievo, si stacca su un fondo lavorato interamente ricoperto da s. traslucido blu scuro (Ikonomati-Papadopulos, Loverdu-Tsigarida, Pitarakis, in corso di stampa, nr. 58). Pur essendo chiaramente bizantina per la forma, la destinazione e le iscrizioni che reca, è tuttavia difficile stabilire se l'opera sia da attribuire a un artista greco formatosi su una tecnica occidentale o a un orafo occidentale stabilitosi in terra greca. Il problema è paragonabile a quello di alcuni gioielli greci dei secc. 14° e 15°, realizzati con una forte influenza italiana o addirittura opera di orafi italiani, come quelli conservati nel tesoro di Calcide di Eubea (Dalton, 1911).Quanto ai quattro minuscoli fiori di s. traslucido blu su bassorilievo d'argento, erroneamente ritenuti lapislazzuli, incastonati su una legatura di legno scolpito di un manoscritto del monastero atonita di Dionisio (33; Treasures of Mount Athos, 1997, nr. 9.24), sono talmente simili a quelli che si trovano in opere italiane a partire dal secondo quarto del sec. 14° che è lecito chiedersi se si tratti realmente di opere greche o, più verosimilmente, di riutilizzazioni di s. italiani.Parimenti non si può affermare che la tecnica dello s. champlevé su rame dorato, affermatasi particolarmente in tutta l'Europa romanica del sec. 12°, fosse totalmente ignota nel mondo bizantino. A questo proposito, recentemente è stata richiamata l'attenzione su una coppia di candelieri della Abegg-Stiftung di Riggisberg, provenienti da Torcello, interamente realizzati in s. champlevé su rame, per i quali si è tentato di proporre un'origine bizantina (Otavsky, 1994), accostandoli per un verso a un candeliere, anche questo in s. champlevé su rame, del monastero della Metamorfosi alle Meteore (Grecia), e per altro verso a tre incensieri, tipicamente bizantini per la forma, databili al 14°-15° secolo. Questi tre candelieri, per forma, decorazione e tecnica di smaltatura si ispirano infatti strettamente all'arte degli smaltatori limosini (opus Lemovicense) della seconda metà del sec. 12° o della prima metà del successivo. Tuttavia l'ipotesi di un'origine bizantina resta fragile: due di questi incensieri sono oggi inaccessibili (quello della cattedrale di Camin, in Polonia, è andato distrutto durante la seconda guerra mondiale e il secondo si trova oggi in una ignota coll. privata) e, come ha notato Buckton (1994b), la tecnica del terzo incensiere (Atene, Benaki Mus.), con decorazione di figure e di racemi incrostati su fondo di s., è leggermente differente, imitando l'effetto di una decorazione champlevée limosina, ma partendo da una sottile placchetta di bronzo in parte sbalzata per creare cavità successivamente riempite di smalto.Allo stesso modo, su alcune opere dei secc. 14° e 15° - in particolare alcune icone con rivestimento di oreficeria (Grabar, 1975), come quella della Vergine Psychosóstria di Ochrida (Naroden muz.) o il grande dittico a mosaico con le Dodici feste di Firenze (Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore) - si nota la presenza di placchette di argento dorato, decorate con motivi stilizzati a effetto champlevé, smaltate all'interno di cavità o di scanalature ottenute incavando il metallo e non attraverso una vera e propria tecnica champlevé. In ogni caso le citate recenti ricerche hanno dimostrato che la storia dello s. bizantino, a partire dal sec. 13° e forse addirittura dal 12°, va probabilmente vista in una prospettiva meno monolitica di quella che si limita unicamente allo studio degli s. cloisonnés su oro e che gli inventari e le pubblicazioni in corso dei tesori dei monasteri del monte Athos o delle Meteore consentiranno di comprendere meglio un tipo di produzione ancora largamente misconosciuto.Esistono infine due famose opere, più volte accostate alla tecnica detta dello s. su oro a tutto tondo (sur ronde-bosse), che si diffuse nell'Europa gotica intorno al 1400: si tratta della citata icona con S. Michele Arcangelo in piedi del Tesoro di S. Marco a Venezia e di un'icona con S. Demetrio a cavallo, datata al sec. 12°-13°, proveniente dall'antico tesoro dei Guelfi (Welfenschatz), oggi a Berlino (Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.). In entrambi i casi infatti i volti dei due personaggi, ottenuti a rilievo su una placchetta d'oro sbalzata, sono stati interamente ricoperti da uno strato uniforme di s. opaco di color carne e, a Venezia, il globo che l'arcangelo reca nella mano sinistra è decisamente a tutto tondo. Ma la somiglianza con la tecnica dello s. su oro a tutto tondo è solo apparente: per l'icona di Berlino infatti, malgrado le rientranze, si tratta di s. applicato su una lastra di metallo leggermente convessa - che poteva quindi essere cotta in posizione orizzontale senza rischio di colature - e non di s. applicato su un vero rilievo a tutto tondo, dato che il metallo non è stato nemmeno lavorato in precedenza per facilitare l'aderenza dello s. durante la cottura. Quanto all'icona di Venezia, tanto nella testa che nel globo, l'aderenza dello s. è agevolata da una rete di sottili listelli e ciò corrisponde a una semplice variante del cloisonné su una superficie incurvata.Gli esordi dello studio degli s. bizantini si collocano intorno alla metà del sec. 19°, soprattutto con l'attività del francese Labarte (1847), che, all'interno delle opere che venivano allora genericamente definite come s. 'bizantini' o 'greci del Basso Impero' - espressione con la quale si designavano tanto gli s. cloisonnés occidentali dei secc. 9°-11°, quanto gli s. prodotti nell'impero bizantino e gli champlevés limosini di epoca romanica -, individuò alcuni esemplari realmente realizzati a Costantinopoli nel corso del Medioevo. Le altre pubblicazioni di Labarte (1856; 1864-1866), come pure le introduzioni specifiche ai cataloghi delle collezioni del Louvre (Laborde, 1852; Darcel, 1867) offrirono le prime solide basi agli studi sugli s. bizantini. Una svolta nelle ricerche si ebbe nel nono decennio del secolo, quando il collezionista russo Alessandro Zvenigorodskoi, dopo aver riunito una cinquantina di s. provenienti in prevalenza dal Caucaso e dalla Russia - tra cui la serie degli undici medaglioni con la Déesis e santi provenienti da un'icona dell'arcangelo Gabriele del monastero georgiano di Djoumati e oggi distribuiti tra New York (Metropolitan Mus. of Art), Parigi (Louvre) e Tbilisi (Gosudarstvennyj mus. iskusstv; Frazer, 1970) -, espose in Germania la propria collezione (1884). La pubblicazione della collezione, avviata da Schultz (1884; 1890), fu portata a termine da Kondakov (1892), accompagnata da un centinaio di incisioni, da lussuose tavole a colori e da una sostanziosa introduzione tecnica, che costituiva una sorta di corpus degli esemplari allora conosciuti, il cui numero era già superiore alle trecento unità.Parallelamente la pubblicazione integrale di alcuni tesori, in particolare quelli di S. Marco a Venezia (Pasini, 1885-1887) e del Sancta Sanctorum di Roma (Lauer, 1906), contribuirono a valorizzare un gruppo di opere di riferimento. Un ulteriore passo avanti venne compiuto da Rosenberg (1921-1922) e, successivamente, da Amiranashvili (1962), Wessel (1967), Chouskivadze (1981; 1984) e da Haseloff (1990), che contribuirono a precisare datazioni e attribuzioni, pubblicando pezzi ancora inediti e sollevando nuovi problemi. A questo proposito, vanno poi ricordati sia il ruolo svolto dalle esposizioni di arte bizantina, da quella organizzata a Grottaferrata (IX centenario, 1905) fino a quelle di Londra (Byzantium, 1994) e New York (The Glory of Byzantium, 1997), sia il valore dei cataloghi delle collezioni permanenti, dei tesori ecclesiastici e dei musei (Il Tesoro di San Marco, 1965; 1971; Ross, 1965; Gonosova, Kondoleon, 1994; L'oro di Siena, 1996; La Pala d'Oro, 1996).Nonostante i numerosi studi appena citati, in mancanza di un corpus degli s. bizantini, i problemi sono ancora molto numerosi. Non si sa nulla, per es., delle botteghe di smaltatori a Costantinopoli: essi, che non compaiono in modo specifico nei testi, dovevano molto probabilmente essere considerati nel novero degli orafi - sui quali le notizie sono peraltro molto lacunose - nella misura in cui l'uso dell'oro e dell'argento, di norma severamente controllato, era loro riservato nel quadro del sistema delle corporazioni, che sostanzialmente risaliva alla fine del mondo antico. Le poche fonti disponibili, soprattutto giuridiche, come il Libro degli Eparchi, redatto sotto Leone VI, non forniscono alcuna informazione sul mestiere di orafo e, a maggior ragione, sulla pratica della smaltatura. Così pure, a differenza dell'Occidente, a proposito del quale ci si può basare sul De diversis artibus del monaco Teofilo (sec. 11°-12°) e anche sul Libro dell'arte di Cennino Cennini (sec. 14°-15°) o sui trattati di smaltatori dei secc. 17° e 18° (Gauthier, 1972), non si dispone di alcun testo greco relativo alle tecniche dell'oreficeria. Quanto alle fonti occidentali medievali, anche laddove esse trattano di opere di oreficeria bizantina, forniscono solo scarsi elementi realmente utilizzabili.La cronologia inoltre si fonda essenzialmente sui rari pezzi databili sulla base delle iscrizioni che recano, in riferimento ai quali sono stati proposti dei raggruppamenti. Infatti, anche se la maggior parte degli s. reca iscrizioni, queste sono il più delle volte estremamente brevi, abbreviate e stereotipate, limitandosi a identificare il soggetto o i personaggi rappresentati, e la paleografia si rivela quasi sempre di scarso aiuto. Solamente una dozzina di opere conservate riporta iscrizioni relative al committente o ai destinatari, che ne consentono quindi una più precisa datazione: la più antica è la citata corona del Tesoro di S. Marco a Venezia, nella quale uno dei medaglioni reca l'immagine di un imperatore di nome Leone, verosimilmente Leone VI, unico imperatore con questo nome, posteriore alla controversia iconoclastica. Tali medaglioni, a s. pieno, sono caratterizzati da un disegno schematico dei drappeggi e dei volti - naso e sopracciglia sono eseguiti con un unico listello metallico continuo, gli occhi sono rotondi - ottenuto attraverso una rete di pochi listelli, e da colori puri e vivaci, opachi (bianco, nero, giallo vivo, blu turchese, rosso mattone, verde chiaro, rosa, grigio) e traslucidi (rosso vino, verde chiaro, violetto). Intorno ai medaglioni di questa corona, malgrado differenze nella qualità di esecuzione, è stato possibile raggruppare una decina di pezzi, datati alla fine del sec. 9° o agli inizi del successivo: la citata croce proveniente dalla Beresford Hope di Londra, tre medaglioni con la Crocifissione, la Vergine e S. Andrea, rimontati nel sec. 12° sul grande trittico di Khakhuli (Tbilisi, Gosudarstvennyj mus. iskusstv), un piccolo trittico con la Déesis, proveniente da Martvili, in Georgia (Tbilisi, Gosudarstvennyj mus. iskusstv), il medaglione con l'Ultima Cena, incastonato al centro della patena proveniente dalla Coll. Stoclet di Bruxelles, oggi a Parigi (Louvre), gli s. della legatura con bordura di oreficeria cloisonnée di un codice conservato a Venezia (Bibl. Naz. Marciana, lat. I, 101), che reca su un lato il Crocifisso e sull'altro la Vergine orante, circondati da medaglioni con santi e arcangeli, uno dei quali è custodito al Louvre.Per il sec. 10°, il secondo monumento datato, la citata stauroteca di Limburg an der Lahn, reca una prima iscrizione, relativa alla reliquia della Vera Croce, che menziona gli imperatori Costantino VII Porfirogenito e Romano II (regno congiunto: 945-959), e una seconda riferita al reliquiario stesso, dedicato dal proedro Basilio, figlio naturale di Romano I, elevato a tale dignità solo nel 963. Èevčenko (1994) ha proposto, basandosi sulla presenza di una reliquia di s. Giovanni Battista giunta a Costantinopoli nel 968 o precedentemente, di spostare l'esecuzione del reliquiario a dopo questa data, ma prima del 985, data approssimativa dello spodestamento politico di Basilio. Tra la metà del sec. 10° e l'inizio dell'11°, all'apogeo della dinastia macedone, è quindi possibile accorpare un insieme di opere che presentano le stesse caratteristiche delle placchette smaltate del reliquiario e del suo coperchio o almeno sufficienti analogie con esse: la tecnica è quella dello s. incassato, con figure che si stagliano con precisione ed eleganza sul fondo oro; il disegno dei listelli metallici è raffinato, ma senza eccessi, le proporzioni classiche, i drappeggi trattati con segmenti di colori contrastanti o attraverso un reticolo piuttosto largo affondato nel vetro, i volti affilati, gli occhi animati da grandi pupille, i colori puri, prevalentemente traslucidi.A questo gruppo, cui vengono in particolare collegate molte opere del Tesoro di S. Marco a Venezia (la citata icona di S. Michele, a mezza figura, e il menzionato medaglione con il Cristo Pantocratore su una patena di alabastro) oltre a due legature con la Vergine e Cristo in piedi (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. I, 100; lat. III, 111), appartengono anche gli s. delle montature di due calici (v.) di sardonica, dello stesso tesoro, che recano un'iscrizione a nome di un imperatore Romano, solitamente identificato con Romano II (959-963). Quanto agli s. della montatura del calice detto di Teofilatto o dei Patriarchi (Venezia, Tesoro di S. Marco), vicini per stile a questo gruppo, anche se di un disegno meno compiuto, non è impossibile, aderendo alla tesi di Grabar (1964-1965), collocarli leggermente a monte, nel secondo quarto del sec. 10°, dato che tra le immagini dei patriarchi compare stranamente quella di un vescovo del sec. 9°, Teofilatto di Nicomedia, rappresentato imberbe, con probabile allusione all'omonimo patriarca, figlio di Romano I (920-944), elevato al Patriarcato dal padre nel 933.Per il sec. 11°, gli s. datati attraverso le iscrizioni sono due: quelli della citata corona di Costantino IX Monomaco, messa tuttavia recentemente in dubbio (Oikonomides, 1994), e quelli, di fattura innegabilmente più raffinata, della Sacra Corona d'Ungheria, dove appaiono le immagini di Michele VII Ducas, di suo figlio Costantino e del re d'Ungheria Géza I (1074-1077), pezzi ai quali si possono inoltre aggiungere un piccolo medaglione del Tesoro di S. Marco con l'imperatrice Zoe (Il Tesoro di San Marco, 1965, nr. 100) e una delle placchette del menzionato trittico di Khakhuli, rappresentante lo stesso Michele VII Ducas e la moglie Maria, incoronati da Cristo.Questi s. mostrano, a partire dalla metà del sec. 11°, la comparsa di elementi stilistici nuovi: i listelli metallici si fanno più numerosi e il disegno dei drappeggi diventa più complesso; le vesti, e spesso i nimbi dei santi, sono sistematicamente punteggiati da piccoli motivi ornamentali opachi, rossi, bianchi o gialli, a forma di gocce, di cerchi, di cuori o di croci, mentre lo sguardo dei personaggi, solitamente, è orientato da sinistra a destra. Viene dunque attribuita alla seconda metà del sec. 11° o agli inizi del successivo, malgrado opinioni talvolta divergenti (Volbach, 1994), una serie di opere nelle quali si riscontrano queste caratteristiche, pur permanendo evidenti differenze qualitative. Tra esse vanno ricordati, intorno al 1100, i citati undici medaglioni provenienti da un'icona dell'arcangelo Gabriele del monastero georgiano di Djoumati e soprattutto le placchette con i profeti della zona inferiore della Pala d'oro (Venezia, S. Marco), dove peraltro compaiono anche, ai lati della Vergine, la figura di un'imperatrice di nome Irene - probabilmente Irene Ducas, moglie di Alessio I Comneno (1081-1118) -, e quella del doge Ordelaffo Falier (1102-1118), il quale, nel 1105, aveva commissionato una pala a Costantinopoli. Quest'ultima raffigurazione è apparsa come un rifacimento di quella di un principe comneno della fine del sec. 11°, benché siano state espresse opinioni diverse (Volbach, 1994). Tale tendenza all'ornamentazione, che peraltro conferma quanto si sa sull'evoluzione interna dell'arte bizantina sotto i Comneni, che sembra appunto portare a una maggiore raffinatezza e complessità sino al 1200 ca., suggerisce di collocare all'interno del sec. 12° una serie di s., in particolare le grandi placchette con gli apostoli e gli arcangeli della Pala d'oro, come pure il Cristo e gli evangelisti posti nel centro, e ancora più tardi, poco prima del 1200, in ragione del disegno e dei colori degli s., quasi tutti opachi, le citate sei grandi placchette di un ciclo delle Dodici feste, rimontate nella parte superiore della Pala d'oro, come pure l'arcangelo Gabriele che ne occupa il centro. Allo stesso modo, gli s. della citata icona con S. Michele stante del Tesoro di S. Marco, quelli del menzionato reliquiario della Vera Croce di Esztergom, quelli del reliquiario della Vera Croce custodito a Siena (Tesoro di S. Maria della Scala) o ancora, questa volta a s. pieno, quelli del piccolo reliquiario con la Vergine Haghiosorítissa (Maastricht, Schatkamer van de Sint-Servaasbasiliek) sembrano doversi inscrivere nel 12° secolo.Si conoscono inoltre almeno tre croci-reliquiario con decorazione a s. che menzionano un membro della famiglia imperiale dei Comneni; esse sono purtroppo prive del loro antico ricettacolo e non presentano s. figurati. Tuttavia sulle prime due - quella di Irene Ducas, del 1100 ca. (Venezia, S. Marco), e quella di sua figlia Maria, degli inizi del sec. 12°, oggi nella chiesa di S. Eligio d'Eine ad Audenarde (Splendeur de Byzance, 1982, O 21) - la decorazione a s. è unicamente costituita dalle iscrizioni e dai motivi floreali stilizzati, che ricordano per es. quelli dei tappeti sotto i piedi dei profeti della Pala d'oro o quelli che circondano l'arcangelo Gabriele nella parte superiore e che sembrano confermare il carattere deliberatamente decorativo che assume lo s. in epoca comnena. La croce della cattedrale di Colonia, a sua volta, reca a tergo un'iscrizione in cui è menzionato Costantino Angelo (1149-1166) e, sul davanti, sei placchette a s. pieno con decorazione floreale, la cui finezza, i colori e la disposizione ricordano gli s. del fondo dell'icona di S. Michele a Venezia. Complessità e ricerca di effetti decorativi si protraggono, a quanto sembra, sino al passaggio tra i secc. 12° e 13°, nelle citate icone con S. Demetrio a cavallo (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.) e con S. Teodoro (San Pietroburgo, Ermitage), dove appunto questi effetti si accompagnano ad aspetti tecnici alquanto inediti: s. su rilievo nel primo caso, utilizzo del rame e s. pieno nel secondo.Per i secc. 11° e 12°, bisognerebbe aggiungere al gruppo delle opere datate i castoni di due anelli con la Vergine a mezza figura, che recano sulla fascia rispettivamente i nomi di Michele Attaliate, identificato con il giurista e storico morto dopo il 1185, e dell'ammiraglio Striphnos, comandante della flotta imperiale poco prima del 1200 (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Ross, 1965, nrr. 156, 158). Sfortunatamente, le piccole dimensioni rendono poco significativi questi pregevoli documenti. Infine, per il periodo dell'occupazione latina di Costantinopoli (1204-1261), l'icona della Madonna di Frisinga (Diözesanmus.), dove si alternano dieci medaglioni decorati con placchette che recano una lunga iscrizione, dalle lettere smaltate, in cui è menzionato Manuele Disypatos, probabilmente metropolita di Salonicco (1235-1261), mostra s. interamente opachi nei quali si osservano difetti di esecuzione, un disegno alquanto incerto e, per i medaglioni, iscrizioni semplicemente incise. Sulla base di queste caratteristiche è possibile datare ai secc. 13°-14° un insieme di pezzi, in particolare la più tarda legatura di un codice (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, gr. I, 53), dove i medaglioni smaltati (arcangelo, Etimasia, santi) sono a loro volta fissati su un fondo di argento dorato ornato da stilizzati motivi vegetali smaltati, con effetto champlevé.È possibile citare ancora i dieci medaglioni, di più fine esecuzione, di un'icona a mosaico di S. Giovanni Teologo nel monastero atonita della Grande Lavra (Etimasia, santi), fissati su una cornice di filigrana, caratteristica del 14° secolo. Quanto ai fondi vegetali stilizzati e smaltati della legatura del Tesoro di S. Marco, si ritrovano impiegati sui rivestimenti di alcune icone dei secc. 14° e 15°: la citata icona della Vergine Psychosóstria di Ochrida; l'icona della Vergine Hodighítria del monastero atonita di Vatopedi; il citato dittico a mosaico delle Dodici feste di Firenze (Grabar, 1975, nr. 31). Occorre infine includere nel gruppo delle opere smaltate tarde la croce-reliquiario, proveniente dal tesoro dei re di Polonia, offerta nel 1683 all'abbazia parigina di Saint-Germain-des-Prés dalla principessa Palatina e attualmente conservata nel Trésor de Notre-Dame di Parigi: essa reca infatti i resti di un'iscrizione smaltata, circondata da una fila di piccoli punti di s. rosso, verde e blu interamente opaco, come gli s. della citata icona di Frisinga, dove si fa menzione di un Manuele Comneno, probabilmente Manuele I (1238-1263; Durand, 1992b), uno dei sovrani Comneni di Trebisonda e non l'omonimo imperatore bizantino (1143-1180).Al piccolo gruppo delle opere databili attraverso le iscrizioni si aggiungono inoltre alcuni pezzi per i quali si dispone di un terminus ante quem. È il caso, per es., di una serie di dodici placchette curvate - raffiguranti Cristo, apostoli ed evangelisti - che costituiscono forse i frammenti di una corona bizantina, portata dall'Oriente dalla principessa Teofano, moglie del futuro imperatore Ottone II, nel 972 (Wentzel, 1971), rimontate sul piatto superiore della legatura delle Pericopi dell'imperatore Enrico II (1002-1024; Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 4452); questi s. che, malgrado un disegno più debole, presentano un'innegabile parentela con quelli del reliquiario di Limburg an der Lahn, sono dunque attribuibili alla seconda metà del 10° secolo.Si può inoltre citare un medaglione con Cristo benedicente, rimontato poco dopo il Mille su un gioiello della cattedrale di Saragozza (Joyas, 1995, nr. 38). Esistono poi alcune opere ritrovate negli scavi per le quali il contesto è sufficientemente ben datato: i citati gioielli di Preslav; un'iscrizione smaltata (s. pieno su oro) e un frammento di medaglione (s. incassato su argento dorato), ritrovati a Costantinopoli nel sottotetto delle volte della chiesa del monastero del Pantokrator (Zeyrek Kilise Cami), attribuibili al sec. 12° (Istanbul, Arkeoloji Müz.); la croce (s. pieno), ritrovata nella tomba della regina Dagmar (m. nel 1212; Copenaghen, Nationalmus.). Occorre infine tenere conto di numerose opere portate da Costantinopoli da occidentali in circostanze che è possibile ricostruire, come i due piccoli trittici-reliquiario che sembra siano stati portati a Stavelot dall'abate Vibaldo (1130-1158), oggi inseriti al centro di un trittico mosano del settimo decennio del sec. 12°, conservato a New York (Pierp. Morgan Lib.; Voelkle, 1980), e l'insieme delle opere smaltate trafugate a Costantinopoli dai cavalieri della quarta crociata e che per diverse vie approdarono ai santuari dell'Occidente agli inizi del 13° secolo.Ciò nonostante, il numero di opere per le quali si dispone di una datazione sicura o almeno relativa è assai ridotto, il che spiega come alcuni esemplari abbiano potuto essere datati assai diversamente, come nel caso per es. di un reliquiario della Vera Croce in argento dorato (Venezia, Tesoro di S. Marco), il cui coperchio è adorno di una grande Crocifissione e di sei medaglioni con santi, variamente datati tra il 10° e il 13° secolo.Allo stesso modo rimane ancora in parte nebulosa l'origine degli s. bizantini cloisonnés a s. pieno, fiorita a partire dalla seconda metà del 9° secolo. I pochi s. su filigrana dei secc. 6°-7° difficilmente possono infatti essere considerati gli antesignani dei primi s. bizantini cloisonnés posteriori alla controversia iconoclastica (726-843), periodo per il quale non si dispone di alcun reperto. La padronanza della tecnica dello s. pieno è invece ampiamente attestata in Occidente a una data anteriore alla seconda metà del sec. 9° e anche per i colori e lo stile gli s. realizzati in Occidente in epoca carolingia sembrano al contrario porsi, come proposto da Buckton (1988a), proprio alle origini di tale tecnica, che sarebbe quindi stata trasmessa a Costantinopoli successivamente alla controversia iconoclastica. A questo proposito, la più antica legatura della Bibl. Naz. Marciana di Venezia (lat. I, 101), con la Crocifissione, la Madonna orante, santi e monogrammi greci, presenta una larga bordatura di oreficeria cloisonnée, tecnica di tradizione innegabilmente occidentale e peraltro ignota nel mondo bizantino sotto questa forma complessa, che continuò a essere adottata in Occidente almeno sino alla metà del sec. 9° (Gaborit-Chopin, 1980-1981). Quest'opera può quindi forse rappresentare un argomento supplementare in favore di una possibile trasmissione tecnologica dall'Occidente a Costantinopoli, nella seconda metà del 9° secolo.D'altra parte, due opere bizantine a s. pieno, per molto tempo considerate precedenti al periodo iconoclasta, sono oggi attribuite rispettivamente al sec. 9° e alla fine dell'11° o agli inizi del successivo. La prima è la celebre stauroteca Fieschi Morgan (New York, Metropolitan Mus. of Art) con la Crocifissione e santi, a s. pieno, sul cui rovescio appaiono scene realizzate con la tecnica del niello, incompatibili con una datazione anteriore al sec. 9° (Buckton, 1988a). La seconda è la stauroteca di Poitiers (abbazia di Sainte-Croix), in precedenza ritenuta un dono dell'imperatore Giustino II alla regina merovingia Radegonda nel 568, fatto su cui già aveva espresso dubbi Rosenberg (1921-1922): la stupenda placchetta centrale con decorazione a motivi vegetali in s. pieno, unica parte ancor oggi esistente, e gli antichi disegni delle ante, scomparse al tempo della Rivoluzione francese, comprovano infatti che si tratta di un'opera dell'inizio dell'età comnena (Durand, 1992a).Rimane evidentemente il problema degli s. dell'acquamanile di Saint-Maurice-d'Agaune (Trésor de l'Abbaye de Saint-Maurice), la cui montatura è sicuramente carolingia (metà o terzo quarto del sec. 9°): mentre gli s. del collo, simili in particolare a quelli dell'altare di Vuolvinio a Milano (S. Ambrogio), sembrano attribuibili all'Occidente carolingio, quelli della pancia, evidentemente di reimpiego, presentano una certa affinità con quelli di un diadema facente parte del citato tesoro di Preslav, ma anche con altre opere in s. cloisonné della prima metà del sec. 9°, e potrebbero in realtà essere di poco anteriori alla montatura, indipendentemente dal problema della loro provenienza geografica, sulla quale sono state avanzate le ipotesi più disparate (Thurre, 1995) e che rimane tuttora problematica.Non diversamente, la comparsa alla metà del sec. 10° dello s. incassato su oro, che appare come tipico dello s. bizantino, è ugualmente inafferrabile, in quanto il primo monumento certo e sicuramente datato continua a essere il citato reliquiario di Limburg an der Lahn (Buckton, 1995), anche se non è da escludere che alcuni s. incassati, i cui elementi stilistici (drappeggi, occhi, nasi) sono ancora quelli del gruppo di s. riferiti alla citata corona votiva di Leone VI, possano essere di poco antecedenti al reliquiario di Limburg an der Lahn, come una placchetta con la Madonna con il Bambino (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Buckton, 1995, fig. 2) o forse, secondo l'ipotesi di Grabar (1964-1965), il citato calice veneziano detto di Teofilatto. Al massimo, per le origini di questa nuova tecnica a Costantinopoli, si può parallelamente fare riferimento alla decorazione miniata o ai mosaici, dove, terminato il periodo iconoclasta, si intensifica la presenza di immagini su fondo oro uniforme.Nella problematica connessa allo studio degli s. bizantini si comincia appena a delineare il problema della localizzazione geografica delle botteghe. La tendenza più diffusa è quella di attribuire a Costantinopoli la maggior parte delle opere pervenute, in particolare quelle che possono essere messe in relazione con i sovrani o con la loro cerchia, e la maggior parte di quelle provenienti dal bottino della quarta crociata e dal saccheggio di Costantinopoli del 1204. Per altro verso, l'abbondanza di esemplari che ancora si conservano nelle regioni del Caucaso, principalmente in Georgia, dove, dall'Antichità in poi, la disponibilità di oro e la qualità degli orafi si mantennero costanti durante tutto il periodo medievale, ha anche portato ad attribuire un'origine locale alla maggior parte degli s. scoperti in queste regioni, a cominciare dalla metà del 19° secolo. È pressoché certo che gli orafi erano in grado di realizzare s. a imitazione di quelli costantinopolitani, quanto meno a partire dal sec. 10°, come, se non altro, si deduce da quelli che recano iscrizioni in lingua georgiana, per es. un quadrilobo con la Crocifissione, proveniente da Chemokmedi (Tbilisi, Gosudarstvennyj mus. iskusstv), con iscrizioni in greco e in georgiano nelle quali è menzionato un sovrano del 10° secolo. Alcuni mostrano inoltre uno stile e colori assai differenti rispetto alle opere costantinopolitane certe, come nel caso dei quattro medaglioni con Madonna e santi provenienti da un'icona del Cristo di Tsalendjikha e dei due medaglioni con santi provenienti da un'icona di S. Michele Arcangelo di Djoumati, del sec. 12° (Tbilisi, Gosudarstvennyj mus. iskusstv). Ma le iscrizioni redatte in latino che circondano il grande Cristo centrale della Pala d'oro e quelle in siriaco e in latino delle porte bronzee dell'abbazia di Montecassino, provenienti da Costantinopoli, testimoniano che le botteghe della capitale erano perfettamente in grado di fornire alla clientela anche opere con iscrizioni nella lingua del committente. Così pure, la presenza ampiamente attestata di georgiani e caucasici a Costantinopoli e i costanti scambi tra le regioni del Caucaso e la corte bizantina devono avere favorito l'esportazione verso tali regioni di numerosi s. originari di Costantinopoli ed è probabile che sul citato grande trittico di Khakhuli, dove fu montato nel sec. 12° oltre un centinaio di s. di epoche diverse, una notevole percentuale di questi sia stata realizzata nelle botteghe di Costantinopoli.Oltre agli s. originari delle regioni del Caucaso è possibile anche individuare, ma sembra solo a partire dal sec. 11°, alcune botteghe 'bizantine' o 'bizantineggianti', che possono essere distinte dalla produzione propriamente costantinopolitana. Un primo gruppo, russo, forse prodotto a Kiev, è in particolare identificabile grazie ai tre medaglioni che ornano la collana, rinvenuta nel 1822 a Staraia Riazan' (Mosca, Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz.; The Glory of Byzantium, 1997, nr. 209), dove compaiono, uno a fianco dell'altro, un medaglione con la Vergine orante, forse di origine costantinopolitana, e due altri con le Ss. Irene e Barbara; data la presenza nelle iscrizioni di caratteri greci e slavi, questi due ultimi medaglioni devono evidentemente essere stati prodotti in Russia nel sec. 12°, a imitazione di modelli greci, ma in uno stile e con colori che li differenziano nettamente. Viene parimenti attribuita un'origine russa a una serie di koltys e di elementi di collane, decorati con oranti, uccelli, fioroni e motivi vegetali diversi, probabilmente realizzati tra i secc. 11° e 13°, conservati in diversi musei russi e americani (Griffin, 1993).Un secondo gruppo ben individuato è quello, già ricordato, costituito dagli s. greci cloisonnés su rame, connesso alla citata ciotola con l'Ascensione di Alessandro Magno, attribuibile a una zona periferica (Siria del Nord) e alla prima metà del sec. 12° (Frazer, 1989; Die Artuqiden-Schale, 1995). Un terzo gruppo deve essere riferito a botteghe siciliane, forse palermitane, nella seconda metà del sec. 12° e agli inizi del 13°: è caratterizzato da s. di estrema finezza, sempre decorativi, nei quali si alternano vivaci colori opachi e traslucidi, come quelli del mantello dell'incoronazione di Vienna o quelli della famosa corona di Costanza d'Aragona (Palermo, Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale; Guastella, 1995). Un altro gruppo di s., per molto tempo ritenuti opere bizantine, principalmente rappresentato dalla stauroteca di Cosenza (in deposito presso la Soprintendenza ai Beni architettonici, artistici e storici della Calabria), anteriore al 1222, da due placchette per guanti ritrovate nel 1938 in una tomba della cattedrale di Orléans (Trésor de la Cathédrale) e da una croce-reliquiario di Digione (Mus. des Beaux-Arts), ove si alternano s. opachi e traslucidi, ha potuto attendibilmente essere restituito all'Italia (forse a botteghe siciliane o comunque dell'Italia meridionale), attive alla fine del sec. 12° o verso il 1200 (Imago Mariae, 1988, nr. 27; Byzance, 1992, nrr. 254-255; Federico e la Sicilia, 1995, pp. 109-114). Un quinto gruppo è principalmente rappresentato dagli enkólpia con l'effigie di S. Demetrio, come quelli citati di Londra e Washington, che contengono all'interno del loro ricettacolo una rappresentazione relativamente precisa e fedele della tomba del santo nella basilica omonima di Salonicco. Grabar (1964-1965) ha proposto di attribuirli a botteghe di questa città con una datazione ai secc. 12°-13°, ponendoli anche in relazione con gli s. della citata cornice dell'icona di Frisinga offerta, alla metà del sec. 13°, da Emanuele Disypatos, metropolita di Salonicco.Infine, se si identifica il Manuele menzionato nell'iscrizione della citata croce-reliquiario di Parigi con uno dei sovrani di Trebisonda della prima metà del sec. 13°, un sesto e ultimo gruppo di opere smaltate, in questo caso d'aspetto molto semplificato, potrebbe essere ricondotto a una produzione della stessa Trebisonda, al momento della probabile dispersione delle botteghe costantinopolitane in diversi centri provinciali o periferici, dopo la conquista crociata del 1204 (Durand, 1992b).Nonostante tutto, le poche botteghe attualmente identificabili rappresentano solo un ridottissimo numero di opere, rispetto a quelle che sembra vadano attribuite a Costantinopoli, ma è anche vero che l'insediamento di botteghe di oreficeria di lusso, e soprattutto di smaltatori, in centri diversi dalla capitale, prima della fine del sec. 11°, se non a partire esclusivamente dal 12°, corrisponde a quanto è dato di sapere per altra via sullo sviluppo delle attività provinciali nell'impero, relativamente modeste sino all'epoca dei Comneni, rispetto a quelle concentrate a Costantinopoli nel periodo della c.d. rinascenza macedone, dalla fine del 9° sino agli inizi dell'11° secolo.Un ultimo problema, quello dei falsi e delle imitazioni, è oggi meglio conosciuto. Occorre infatti tenere conto di un gruppo di s., comprendente oltre centocinquanta pezzi, provenienti tutti dalla collezione raccolta a San Pietroburgo agli inizi del secolo da Botkine (1911). Pur comprendendo questa collezione alcuni incontestabili capolavori, in particolare i pezzi recuperati dall'antica Coll. Zvenigorodskoi, quasi tutti gli altri si sono rivelati dei falsi moderni, fabbricati sembra da orafi attivi proprio a San Pietroburgo (Boyd, Vikan, 1981; Buckton, 1988b; Stromberg, 1988).
Bibl.:
Fonti. - Narratio de structura templi Sanctae Sophiae, in Scriptores originum Constantinopolitanarum, a cura di T. Preger, I, Leipzig 1901, pp. 74-108: 95; Costantino VII Porfirogenito, De caerimoniis aulae Byzantinae, a cura di J.J. Reiske, in CSHB, XII-XIII, 1829-1830: XII, pp. 99, 170, 640; Vita Basilii, in Teofane Continuato, Chronographia, a cura di I. Bekker, Bonn 1838, pp. 211-380: 330-331; S. Vryonis, The Will of a Provincial Magnate Eustathius Boilas (1059), DOP 11, 1957, pp. 263-277: 267; P. Gautier, La Diataxis de Michel Attaliatte, REB 39, 1981, pp. 5-143; C. Astruc, L'inventaire dressé en septembre 1200 du trésor de la bibliothèque de Patmos. Edition diplomatique, in Hommage à Paul Lemerle, Travaux et mémoires. Centre de recherches d'histoire et civilisation de Byzance 8, 1981, pp. 15-30: 20ss.
Letteratura critica. - A.N. Didron, La croix orientale, Annales archéologiques 5, 1846, pp. 318-328; J. Labarte, Description des objets d'art qui composent la collection Debruge-Dumenil, Paris 1847; L. de Laborde, Notice des émaux, bijoux et objets divers, exposés dans les galeries du musée du Louvre, I, Paris 1852 (rist. 1857); J. Labarte, Recherches sur la peinture en émail dans l'Antiquité et au Moyen Age, Paris 1856; id., Histoire des arts industriels au Moyen Age et à l'époque de la Renaissance, 4 voll., Paris 1864-1866: II, pp. 1-103; III, pp. 377-428; A. Darcel, Notice des émaux et de l'orfèvrerie. Musée du Moyen Age et de la Renaissance [Louvre]. Série D., Paris 1867; J. Schultz, Die byzantinischen Zellen-Emails der Sammlung Swenigorodskoi, Aachen 1884; A. Pasini, Il tesoro di San Marco a Venezia, 2 voll., Venezia 1885-1887; J. Schultz, Der Byzantinische Zellenschmeltz, Frankfurt a. M. 1890; C. Diehl, Le trésor et la bibliothèque de Patmos au commencement du XIIIe siècle, BZ 1, 1892, pp. 488-525; N. Kondakov, Histoire et monuments des émaux byzantins, Frankfurt a. M. 1892; F. Bock, Die byzantinischen Zellenschmelze der Sammlung Dr. A. von Zwenigorodskoi, Aachen 1896; E. Molinier, Histoire générale des arts appliqués à l'industrie, IV, L'orfèvrerie religieuse et civile, Paris 1901; IX centenario della Badia Greca di Grottaferrata, cat., Grottaferrata 1905; C. Lauer, Le trésor du Sancta Sanctorum, MonPiot 15, 1906; A. Muñoz, L'art byzantin à l'exposition de Grottaferrata, Roma 1906; M.P. Botkine, Collection M.P. Botkine, St. Petersbourg 1911; O.M. Dalton, Medieval Personal Ornaments from Chalcis in the British and Ashmolean Museums, Archaeologia 62, 1911, pp. 391-404; M. Rosenberg, Geschichte der Goldschmiedekunst auf technischer Grundlage, 3 voll., Frankfurt a. M. 1921-1922; J. Ebersolt, Les arts somptuaires de Byzance. Etude sur l'art impérial de Constantinople, Paris 1923; M. Barany-Oberschall, The Crown of the Emperor Constantine Monomachos (Archaeologia Hungarica, 22), Budapest 1927; Exposition internationale d'art byzantin, cat., Paris 1931; Early Christian and Byzantine Art, a cura di M.C. Ross, cat., Baltimore 1947; A. Grabar, Quelques reliquaires de saint Démétrios et le martyrium du saint à Thessalonique, DOP 5, 1950, pp. 1-28; id., Un nouveau reliquaire de saint Démétrios, ivi, 8, 1954, pp. 305-313; J. Rauch, Die Limburger Staurothek, Das Münster 8, 1955, pp. 201-240; Masterpieces of Byzantine Art, a cura di D.T. Rice, cat., Edinburgh-London 1958; S. Pelekanides, τὰ χϱυἇὰ βυζαντινὰ ϰοἇμ?ηματα τῆϚ υεἇἇαλον?ιϰηϚ [Gli s. in oro di Salonicco], DChAE, s. IV, 1, 1959, pp. 55-77; E. Steingräber, Studien zur venezianischen Goldschmiedenkunst des 15. Jahrhunderts, MKIF 10, 1961-1963, pp. 147-192; S. Amiranashvili, Les émaux de Géorgie, Paris 1962; Byzantinèh t?exnh, t?exnh eàyrvpaik?h / Byzantine Art, a European Art, cat., Athinai 1964; A. Grabar, Un calice byzantin aux images des patriarches de Constantinople, DChAE, s. IV, 4, 1964-1965, pp. 45-51; M. Ross, Catalogue of the Byzantine and Early Medieval Antiquities in the Dumbarton Oaks Collection, II, Jewelry, Enamels, and Art of the Migration Period, Washington 1965; Il Tesoro di San Marco, a cura di H.R. Hahnloser, I, La Pala d'oro, Firenze 1965 (nuova ed. a cura di H.R. Hahnloser, R. Polacco, Venezia 1994); P. Hetherington, Byzantine Enamels for a Russian Prince: the Book-Cover of the Gospels of Mstislav, ZKg 59, 1966, pp. 309-324; K. Wessel, Die byzantinische Emailkunst vom 5. bis 13. Jahrhundert, Recklinghausen 1967 (trad. ingl. Byzantine Enamels from the 5th to the 13th Century, Greenwich 1968); A. Grabar, La précieuse croix de la Lavra Saint-Athanase au Mont-Athos, CahA 19, 1969, pp. 99-125; M.E. Frazer, The Djumati Enamels: a Twelfth-Century Litany of Saints, MetMJ 3, 1970, pp. 241-251; I. Fingerlin, Gürtel des hohen und späten Mittelalters, München 1971; A. Grabar, La verrerie d'art byzantine au Moyen Age, MonPiot 57, 1971, pp. 89-127; Il Tesoro di San Marco, a cura di H.R. Hahnloser, II, Il tesoro e il museo, Firenze 1971; H. Wentzel, Das byzantinische Erbe der Ottonischen Kaiser. Hypothesen über den Brautschatz der Theophano, Aachener Kunstblätter 40, 1971, pp. 15-39; K. Wessel, s.v. Email, in RbK, II, 1971, coll. 93-129; M.M. Gauthier, Emaux du Moyen Age occidental, Fribourg 1972; Venezia e Bisanzio, a cura di S. Bettini, Venezia 1974; E. Castello, C. Castello, L'oreficeria a Napoli nel XV secolo, Napoli 1975; G. Davidson-Weinberg, A Medieval Mystery: Byzantine Glass Production, Journal of Glass Studies 17, 1975, pp. 127-141; A. Grabar, Les revêtements en or et en argent des icônes byzantines du Moyen Age, Venezia 1975; Iskusstvo Vizantii Sobraniatch SSSR [L'arte bizantina nei musei dell'U.R.S.S.], a cura di A. Bank, cat., 3 voll., Moskva-Leningrad 1977; D. Lecco, Eclaircissements sur la liste des objets liturgiques [du testament d'Eustathios Boïlas], in P. Lemerle, Cinq études sur le XIe siècle byzantin, Paris 1977; La Bulgarie médiévale, art et civilisation, Paris 1980; W. Voelkle, The Stavelot Triptych, Mosan Art and the Legend of the True Cross, New York 1980; D. Gaborit-Chopin, L'orfèvrerie cloisonnée à l'époque carolingienne, CahA 29, 1980-1981, pp. 5-26; S. Boyd, G. Vikan, Questions of Authenticity among the Arts of Byzantium, cat., Washington 1981; L. Chouskivadze, Gruzinskie Emali [S. georgiani], Tbilisi 1981; D. Buckton, Enamelling on Gold: a Historical Perspective, Gold Bulletin 15, 1982, pp. 101-109; Au pays de la Toison d'or, art ancien de Géorgie soviétique, cat., Paris 1982; Splendeur de Byzance, cat., Bruxelles 1982; L. Chouskivadze, Medieval Cloisonné Enamels at Georgian State Museum of Fine Arts, Tbilisi 1984; G. Dagron, Constantinople imaginaire. Etudes sur le recueil des "Patria", Paris 1984; Le Trésor de Saint-Marc de Venise, Paris 1984; Byzantine and Post-Byzantine Art, cat., Athinai 1985; N. Bayraktar, Topkapı Sarayı: Müzesi'nde Hagios Ioannes Prodromos. Rölikler [Il Mus. del Topkapı. Il reliquiario di S. Giovanni Battista], Topkapı Sarayı Müzesi 1, 1986, pp. 9-20; D. Buckton, Byzantine Enamel and the West, Byzantinische Forschungen 13, 1988a, pp. 235-244; id., Bogus Byzantine Enamels in Baltimore and Washington, D.C., JWaltersAG 46, 1988b, pp. 11-24; Patmos, les trésors du monastère, a cura di A.D. Kominis, Athinai 1988; P. Hetherington, Enamels in the Byzantine World: Ownership and Distribution, BZ 81, 1988, pp. 29-38; Imago Mariae. Tesori d'arte della civiltà cristiana, a cura di P. Amato, cat., Roma 1988; C. Stromberg, A Technical Study of Three Cloisonné Enamels from the Botkin Collection, JWaltersAG 46, 1988, pp. 25-36; M.E. Frazer, The Alexander Plate in Innsbruck and its Companion-Pieces: East of Byzantium?, Jewellery Studies 3, 1989, p. 86; G. Haseloff, Email im frühen Mittelalter. Frühchristliche Kunst von der Spätantike bis zu den Karolingern, Marburg a. d. L. 1990; P. Hetherington, Who is this King of Glory? The Byzantine Enamels of an Icon Frame and Revetment in Jerusalem, ZKg 53, 1990, pp. 25-38; J. Lafontaine-Dosogne, Die byzantinische Kunst nach dem Ikonoklasmus bis zur Mitte des 11. Jahrhunderts: Miniaturen, Elfebein, Goldarbeiten, Email, Glas, Kristall, Stoffe, in Kaiserin Theophanu. Begegnung des Ostens und Westens um die Wende des ersten Jahrtausends, a cura di A. von Euw, P. Schreiner, II, Köln 1991, pp. 63-85: 73-79; R. Silva, Una cintura trecentesca d'argento dorato con smalti, AM, s. II, 5, 1991, 2, pp. 149-155; D. Whitehouse, Glassmaking at Corinth: a Reassessment, in Ateliers de verriers de l'Antiquité à la période pré-industrielle, "Colloque, Rouen 1989", Rouen 1991, pp. 73-82; T. Drayman-Weisser, C. Herbert, An Early Byzantine-Style Gold Medallion Re-Considered, JWaltersAG 49, 1991-1992, pp. 13-25; J. Henderson, A Scientific Analysis of the Enamel Decorating a Gold Medallion, ivi, pp. 27-31; Byzance, l'art byzantin dans les collections publiques françaises, cat., Paris 1992; J. Durand, Le reliquaire de la Vraie Croix de Poitiers. Nouvelles observations, BSNAF, 1992a, pp. 152-168; id., La Vraie Croix de la princesse Palatine au trésor de Notre-Dame de Paris: observations techniques, CahA 40, 1992b, pp. 139-146; P.S. Griffin, Jewelry from Kiev, Jewelry Studies 6, 1993, pp. 5-18; J. Lafontaine-Dosogne, Email et orfèvrerie à Byzance, au Xe-XIe siècle et leur relation avec la Germanie, in Kunst im Zeitalter der Kaiserin Theophanu, "Akten des Internationalen Colloquiums, Köln 1991", Köln 1993, pp. 61-78; D. Buckton, Theophilus and Enamel, in Studies in Medieval Art and Architecture Presented to Peter Lasko, London 1994a, pp. 1-13; id., ''All that Glisters...''. Byzantine Enamel on Copper, in ΛασϰαϱίναϚ ΒοῦϱαϚ [Scritti in memoria di Laskarina Buras], Athinai 1994b, pp. 47-49; R. Cormack, Reflections on Early Byzantine Cloisonné Enamels: Endangered or Extinct, ivi, pp. 64-72; P. Hetherington, The Cross of Záviš and its Byzantine Enamels: a Contribution of its History, ivi, pp. 119-122; K. Otavski, Two Greek Candlesticks in the Abegg-Foundation, ivi, pp. 239-240; N.P. Ševčenko, The Limburg Staurothek and its Relics, ivi, pp. 289-294; Byzantium. Treasures of Byzantine Art and Culture from British Collections, cat., London 1994; A. Cutler, Uses of Luxury: on the Functions of Consumption and Symbolic Capital in Byzantine Culture, in Byzance et les images, "Conférences organisés au Musée du Louvre, Paris 1992", a cura di A. Guillou, J. Durand, Paris 1994, pp. 287-327; A. Gonosova, C. Kondoleon, Art of Late Rome and Byzantium in the Virginia Museum of Fine Arts, Richmond 1994; N. Oikonomides, La couronne dite de Constantin Monomaque, Travaux et mémoires. Centre de recherches d'histoire et civilisation de Byzance 12, 1994, pp. 17-262; La Pala d'Oro, a cura di H.R. Hahnloser, R. Polacco, Venezia 1994; W.F. Volbach, Gli smalti della Pala d'Oro, ivi, pp. 3-71; Die Artuqiden-Schale im Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum Innsbruck. Mittelalterliche Emailkunst zwischen Orient und Occident, a cura di T. Steppan, cat., Innsbruck 1995; D. Buckton, Chinese Whispers: the Premature Birth of the Typical Byzantine Enamel, in Byzantine East, Latin West. Art-Historical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, a cura di C. Moss, K. Kiefer, Princeton 1995, pp. 591-595; W.D. Wixom, Two Cloisonné Enamels Pendants: the New York Temple Pendent and the Cleveland Enkolpion, ivi, pp. 659-665; Federico e la Sicilia, dalla terra alla corona. Arti figurative e suntuarie, a cura di M. Andaloro, cat. (Palermo 1994-1995), Palermo 1995; C. Guastella, Vicende storiche e testimonianze documentarie, ivi, pp. 59-87; J. Henderson, M.M. Mango, Glass at Medieval Constantinople: Preliminary Scientific Evidence, in Constantinople and its Hinterland, a cura di C. Mango, G. Dagron, Aldershot 1995, pp. 333-356; Joyas para un Aniversario, cat., Zaragozza 1995; D. Thurre, L'aiguière "de Charlemagne" au trésor de l'abbaye de Saint-Maurice, Vallesia 50, 1995, pp. 197-319; L'oro di Siena. Il tesoro di Santa Maria della Scala, a cura di L. Bellosi, Milano 1996; The Glory of Byzantium. Art and Culture of the Middle Byzantine Era A.D. 843-1261, a cura di H.C. Evans, W.D. Wixom, cat., New York 1997; Treasures of Mount Athos, cat., Thessaloniki 1997; Byzanz, die Macht der Bilder, a cura di M. Brandt, A. Effenberger, cat., Hildesheim 1998; Rom und Byzanz, Schatzkammerstücke aus Bayerischen Sammlungen, a cura di R. Baumstarck, cat., München 1998; Y. Ikonomati-Papadopulos, K. Loverdu-Tsigarida, B. Pitarakis, Encolpia of the Holy Monastery of Vatopedi (in corso di stampa).
Nel mondo islamico medievale lo s. - pasta vitrea colorata da ossidi di metallo, detta in persiano mīnā e utilizzata in vari modi per decorare superfici di metallo, di ceramica o di vetro (Aschan, 1996; Diba, 1996) - aveva due usi principali: innanzitutto nella decorazione di ceramiche policrome, oggi denominate mīnā'ī, dipinte sopra e sotto l'invetriatura - nota nell'Islam medievale come kāshīkārī (Orientalische Steinbücher, 1935; Allan, 1973) - e prodotte, sembra, nelle botteghe dell'Iran del sec. 12° e dell'inizio del 13°, molto probabilmente a Kāshān (Soucek, 1993); in secondo luogo nella decorazione di recipienti di vetro (v.), generalmente attribuiti alla Siria o all'Egitto e datati ai periodi ayyubide e mamelucco. Tuttavia qui si tratta principalmente dei metodi di applicazione della decorazione smaltata a superfici metalliche e precisamente all'oro, all'argento, al rame o al bronzo.L'etimologia del termine mīnā può essere fatta risalire all'avestico mainyava ('spirituale', 'celeste'; Aga-Oglu, 1946a), parola che ricomparve nel mediopersiano come menok e nel neopersiano come mīnā; oltre a significare 'spirito', 'cielo', 'paradiso' e 'smeraldo', mīnā acquistò importanza in epoca medievale come termine tecnico indicante il vetro fuso, che, dopo il raffreddamento, crea uno scintillante strato: mīnā veniva anche utilizzato per descrivere un tipo di vetro contenente piombo, a imitazione del vero smeraldo (Shalem, in corso di stampa). È stato d'altra parte anche ipotizzato che mīnā derivi dal lat. minium, alludendo così alla presenza dell'ossido di piombo nella composizione dello s. (Kahle, 1936, p. 349, n. 1).La prima fonte scientifica nella quale ricorre il termine mīnā in riferimento a una sostanza vetrosa è un trattato di chimica del sec. 10°, il c.d. testo karshūnī (Ruska, 1935, p. 313). Al-Bīrūnī (973-1048) nel trattato di mineralogia Kitāb al-Jamāhir fī ma῾rīfat al-jawāhir rivela come i vari colori del mīnā (giallo, verde, rosso, nero, bianco, rubino, porpora bluastro) fossero ottenuti tramite l'uso di diversi metalli (Kahle, 1936, pp. 349-352). Tuttavia i testi medievali che gettano maggior luce sul termine sono quelli concernenti la dispersione del tesoro fatimide nel 1060 ca., riferiti da Ibn al-Zubayr, l'autore del Kitāb al-dhakhā ῾ir wa'l-tuḥaf, del sec. 11°, e da al-Maqrīzī (1364-1442) nel suo Khiṭāṭ. Singolarmente in queste fonti il termine mīnā è associato alla descrizione di particolari manufatti (Röder, 1935), per es. i ventotto vassoi mīnā (sīnīya), coperti da oro in cubi (mujra bi-dhahab bi-ku῾ūb), che furono donati al califfo fatimide al-῾Azīz Bi'llāh dal re di Rūm (l'imperatore di Bisanzio), i quali mostravano con tutta probabilità una decorazione a s., forse cloisonné. La descrizione di tali vassoi presenta alcune difficoltà di interpretazione ed è possibile che essi fossero rivestiti da reticoli d'oro o persino costituiti da piccole porzioni quadrate di vetro colorato inciso, inseriti in una griglia d'oro rigida, come nel caso della c.d. coppa di Cosroe I (531-579; Parigi, BN). La descrizione di alcuni specchi e di una coda di pavone decorata con vetro mīnā potrebbe anche indicare che si trattava forse di s.; tale termine potrebbe significare s. traslucido, per distinguerlo da quello opaco (Röder, 1935, p. 370; Aga-Oglu, 1946a, p. 254).
Possono inoltre essere riferiti allo s. alcuni altri termini, quali zujāj mulawwan ('vetro colorato') e alwān al-zujāj al-Rūmī ('vetro bizantino multicolore'), menzionati nel Nafḥ al-ṭīb min ghuṣn al-Andalus al-raṭīb da al-Maqqarī (1577-1632), che utilizzò quest'ultimo termine per descrivere la decorazione finemente eseguita - l'immagine di un imperatore bizantino - sul coperchio di una cassetta d'argento, donata nel 947 da una delegazione bizantina all'emiro ῾Abd al-Raḥmān III (912-961) a Córdova, che conteneva una lettera di Costantino VII Porfirogenito (912-959). Quindi i preziosi oggetti āmidī del tesoro fatimide, citati da al-Maqrīzī, potevano essere anche manufatti in metallo smaltato provenienti da Amida (od. Diyarbakir), un centro medievale famoso per la produzione dello s. (Kahle, 1936, p. 344, n. 3).Per quanto riguarda le tecniche, la sostanza vitrea, consistente normalmente di sabbia o silice, soda, potassio e piombo rosso, veniva riscaldata fino a temperature di 700-800°, a formare un fluido quasi privo di colore e traslucido, nel quale erano successivamente aggiunti gli ossidi di metallo per ottenere i vari colori. Miscele diverse di ingredienti e differenti temperature di fusione producevano vari tipi di s., opaco o traslucido (Steingräber, 1967, pp. 1-5).Nel mondo islamico sono noti tre principali metodi di applicazione dello s. su una superficie metallica. Con il metodo della 'pittura' lo s. viene posto direttamente sulla superficie allo stesso modo in cui la pittura è applicata sulla tela o sul legno; le paste fuse colorate vengono quindi indurite, creando così un rivestimento brillante e vetroso al di sopra della superficie metallica. Tale processo di smaltatura veniva utilizzato in età medievale principalmente per decorare ceramiche e vetro. La tecnica dello s. cloisonné era probabilmente il processo più difficile, tale da richiedere la collaborazione di un orafo altamente esperto e di un artigiano maestro nella produzione del vetro. La piatta base metallica, generalmente d'oro, veniva decorata tramite la saldatura dei fili metallici per formare lo scheletro delle delicate celle (cloisons) che dovevano essere riempite dalle paste di s.; tali fili servivano a delineare le forme e a separare i vari colori del disegno. La parte incassata in oro, completamente coperta da s., era quindi cotta in una fornace da cui riemergeva con un aspetto vetroso; essa era successivamente lucidata e lisciata in modo da lasciare in vista l'oro sottostante.La tecnica dello s. champlevé era un processo meno costoso del cloisonné, ma che richiedeva anch'esso la cooperazione artistica di un artista esperto nella lavorazione del metallo. La spessa base metallica, generalmente di bronzo o d'argento, veniva battuta fino a formare cavità che costituivano il disegno; è probabile che la decorazione di alcune opere in bronzo islamiche provenienti dalla Spagna lavorate a champlevé fosse realizzata tramite fusione in bassorilievo. Le concavità, che in alcuni casi potevano essere ornate da delicate cellette, venivano quindi riempite da paste di s., mentre le lisce aree metalliche della base originaria ne erano lasciate libere; l'opera veniva poi sottoposta a cottura e la superficie lucidata.Nel mondo medievale islamico erano utilizzate sia la tecnica cloisonnée sia la champlevée, impiegate, anche se in maniera saltuaria, dal sec. 10° al 15°, come confermano le testimonianze materiali, peraltro relativamente scarse. Resta ancora da chiarire con precisione quando e in che modo le tecniche cloisonnée e champlevée siano state introdotte presso gli artisti musulmani. La teoria secondo la quale lo s. cloisonné avrebbe avuto una provenienza orientale, per la precisione dalla Persia sasanide, non è stata confermata dalle scoperte archeologiche (Linas, 1877-1878; Rosenberg, 1910; Migeon, 1927, II, pp. 19-22; Margulies, 19773). Tale teoria era probabilmente basata sull'ipotesi, dimostratasi erronea, di un'origine sasanide della famosa brocca smaltata detta di Carlo Magno (Saint-Maurice-d'Agaune, Trésor de l'Abbaye de Saint-Maurice; Ebersolt, 1928; Aga-Oglu, 1946b; Alföldi, 1948-1949; Bouffard, 1974), forse ottoniana (Buckton, 1988).Le paste vitree colorate vennero già utilizzate con scopo decorativo e persino per recipienti di terracotta invetriati nell'antico Egitto, anche se i primi esempi di lavorazione a s. su superfici metalliche sono per lo più associati alle culture dell'Oriente mediterraneo del mar Egeo; manufatti in s. cloisonné, datati al sec. 12° a.C., sono stati rinvenuti principalmente a Cipro. Quindi le famose opere cinesi in s. cloisonné risalgono a un'epoca di molto successiva e, per quanto permettono di sapere le fonti letterarie, tale tecnica venne introdotta in Cina nel periodo Yuan (1279-1368 d.C.), sorprendentemente da Ovest (Steingräber, 1967, pp. 7-8).Le tecniche champlevée e cloisonnée poterono forse ispirarsi anche all'oreficeria alveolata. Scintillanti s. colorati, delimitati da delicati fili d'oro, richiamano le gemme splendenti inserite entro lavorazioni a filigrana d'oro. Una fonte d'ispirazione può essere inoltre individuata nelle opere in vetro colorato, lucidato, talvolta persino sfaccettato, a imitazione delle vere pietre preziose (al-zujāj al-muḥkam; Shalem, in corso di stampa), inserite in una struttura metallica o d'oro, come mostra la c.d. coppa di Cosroe I.Poté inoltre contribuire alla nascita della tecnica dello s. la decorazione a intarsi vitrei; antichi recipienti in mosaico a pasta vitrea del Vicino Oriente, in particolare quelli scoperti nel 1964 in Iran, a Hasanlu e Marlik (Teheran, Iran Bāstān Mus.), preannunciano i tipici motivi geometrici del cloisonné bizantino (Müller, 1962; Saldern, 1966; Marcus, 1991, figg. 13, 15, 25). Al-Maqrīzī e al-Maqqarī menzionano la presenza di opere d'arte in s. di origine bizantina, probabilmente realizzate a cloisonné, nei tesori fatimidi e alla corte omayyade di Córdova e ibn al-Zubayr descrive alcuni gioielli con decorazione in s. di vetro in cinque colori (rosso scuro, bianco neve, nero inchiostro, azzurro cielo, azzurro scuro), che la madre del califfo fatimide al-Mustanṣir (1035-1095) ricevette in dono dall'imperatore bizantino Michele: questi dati possono consentire di ipotizzare che l'introduzione dello s. cloisonné bizantino intorno al Mille in Egitto e nella Spagna musulmana abbia preparato lo sviluppo della tecnica in queste regioni. Nonostante l'origine del cloisonné bizantino rimanga una questione problematica, in special modo a causa delle lacune nelle testimonianze storiche, sono state ipotizzate (Buckton, 1988; 1995) per esso un'ispirazione carolingia e la sua introduzione a Bisanzio alla fine del periodo iconoclastico, nell'842 ca.: la teoria di una sua origine occidentale appare del resto convincente, giacché la tecnica dello s. vi era già molto avanzata sin dall'arte celtica (Steingräber, 1967, p. 9) ed è pertanto plausibile ipotizzare che la tecnica del cloisonné abbia raggiunto il mondo islamico medievale tramite Bisanzio appena qualche decennio dopo essere stata introdotta in quest'area.Le prime opere islamiche in s. su metallo (Baltimora, Walters Art Gall.), gli s. 'filigranati', si ritiene fossero rinvenute a Madīnat al-Zahrā', in Spagna (Ross, 1940; Al-Andalus, 1992, nr. 19; Gonzalez, 1994, fig. 50), databili tra la fine del sec. 10° e gli inizi dell'11°, alla fine del califfato di Córdova; si tratta di un gruppo di quarantacinque oggetti: pendenti, orecchini, collane e forse braccialetti. Due piccoli ornamenti a forma di stella conservano frammenti di s. cloisonné al centro, mentre in altri la decorazione in s., probabilmente monocroma, è perduta; non è accertata tuttavia per questi ornamenti una chiara origine dalla Spagna omayyade: essi richiamano indubbiamente, nella forma e nella lavorazione a filigrana, altri pezzi di oreficeria della Spagna omayade (Gonzalez, 1994, fig. 51); però questi ultimi sono decorati con pietre preziose al centro. Gli s. d'altra parte riecheggiano esemplari generalmente attribuiti a centri del Mediterraneo orientale, come per es. l'Egitto fatimide, principalmente il Cairo, Creta o persino l'area bizantina, probabilmente Costantinopoli. Inoltre la presenza del disegno di un volatile su uno degli ornamenti a forma di stella di Madīnat al-Zahrā' richiama alcuni altri oggetti con filigrana e decorazione cloisonnée, ornati con lo stesso motivo, specialmente orecchini, come quelli di New York (Metropolitan Mus. of Art; Ross, 1940, fig. 1; The Glory of Byzantium, 1997, nr. 278) e di Londra (British Mus.; Gonzalez, 1994, fig. 53). È molto probabile comunque che nei secc. 10° e 11° esistesse nel mondo islamico più di un centro nel quale si lavorava lo s. cloisonné. Le prime opere islamiche in tale tecnica dell'area del bacino mediterraneo sono caratterizzate in modo consistente da ampi bordi con lavorazione a filigrana, che circoscrivono alveoli, riempiti da s. sia monocromi sia policromi; i sottili fili fissati tramite saldatura generalmente formano semplici motivi geometrici oppure il disegno approssimativo di un volatile.Si ritiene che lo s. cloisonné venisse prodotto in epoca fatimide, molto probabilmente al Cairo, nel corso dei secc. 11° e 12°, soprattutto per la decorazione di gioielli, come attesterebbero l'uso frequente del termine mīnā nelle fonti letterarie relative al tesoro fatimide e l'esistenza di un piccolo medaglione rinvenuto ad al-Fusṭāṭ nel corso di scavi insieme ad altri ornamenti di epoca fatimide (Cairo, Mus. of Islamic Art; Migeon, 1927, II, fig. 222). Sebbene non si possa avere l'assoluta certezza della produzione di s. nel Cairo fatimide - è stato di recente ipotizzato che in Siria e in Egitto venissero importate placchette di s. già pronte (The Glory of Byzantium, 1997, nr. 278) -, l'elemento fondamentale di questo medaglione consiste nella decorazione tipicamente islamica: una larga fascia orizzontale con un'iscrizione cufica relativamente lunga ("Dio è una guardia eccellente"), il cui ductus è agevolmente assegnabile al periodo fatimide. Un'analoga iscrizione cufica, che invoca i migliori auspici per il possessore, compare su un orecchino in s. cloisonné (Atene, Nat. Archaeological Mus.; Gonzalez, 1994, fig. 69), prodotto nell'Egitto fatimide o in altri centri fatimidi del Mediterraneo orientale.Di testimonianze concrete relativamente cospicue si dispone invece sulla produzione di s. sia cloisonnés sia champlevés nella Spagna musulmana, soprattutto per il periodo nasride (1231-1492). Tra le opere si annoverano gioielli, cinture, else di spade, armature, elmi, così come amuleti o pendenti. Gli oggetti in bronzo champlevé, per lo più pendenti ornamentali (Madrid, Inst. de Valencia de Don Juan), sono caratterizzati da semplici motivi geometrici o fitomorfi e da s. opachi, in special modo bianchi e turchesi; essi recano in genere iscrizioni cufiche o arabe naskhī, che compaiono all'interno di fasce, medaglioni o cartigli. Più che le lettere, è lo sfondo a essere lavorato e ornato da s., secondo una tecnica che richiama i famosi s. limosini, specialmente i gemellions (Enamels of Limoges, 1996). Su un ciborio con s. limosino (Parigi, Louvre) compare inoltre la traslitterazione, molto probabilmente francese, del nome di un musulmano, indicato come autore del manufatto; ricerche recenti sulla composizione chimica degli s. di Limoges suggeriscono inoltre una possibile relazione tra questa città e la Spagna musulmana (Hildburgh, 1945; 1954; Buchthal, 1946; Allan, 1994, p. 53). Le tipiche opere nasridi in s. cloisonné, come per es. un amuleto dei secc. 13°-14° (Baltimora, Walters Art Gall.), sono caratterizzate da un'elaborata lavorazione in filigrana d'oro, da s. traslucidi colorati che in parte decorano la superficie e da iscrizioni arabe in caratteri naskhī; è possibile che gli s. nasridi siano stati prodotti a Granada (Al-Andalus, 1992, nrr. 61-63, 65, 67-68, 70-73). Benché sia talvolta difficile operare una distinzione tra s. almoravidi, almohadi e nasridi, un esame stilistico, specialmente della filigrana e della montatura delle parti smaltate - come nel caso degli orecchini della Coll. al-Sabah (Kuwait Nat. Mus.; Islamic Art, 1990, nr. 44; Gonzalez, 1994, p. 109, fig. 65) -, consente di ipotizzare l'esistenza di botteghe per la lavorazione dello s. nell'Africa settentrionale o nella Spagna meridionale nei periodi almoravide e almohade (1091-1237).Nonostante l'origine islamica del piatto di Innsbruck (Tiroler Landesmus. Ferdinandeum) - a lungo considerato il più importante manufatto islamico in s. - sia stata messa in discussione (Redford, 1990; Die Artuqiden-Schale, 1995; The Glory of Byzantium, 1997, nr. 281), deve essere ulteriormente indagata la possibilità che esistessero nella Mesopotamia settentrionale altri centri di produzione dello s. per i sovrani selgiuqidi e artuqidi o durante il loro regno. Una conoscenza più approfondita di altri centri mediterranei che subirono l'invasione islamica, come la Sicilia o Creta, dove è nota una lunga tradizione bizantina di lavorazione dello s., potrebbe ampliare le attuali informazioni circa la lavorazione dello s. nell'Islam medievale.
Bibl.:
Fonti. - Al-Bīrūnī, Kitāb al-Jamāhir fī ma῾rifat al-jawāhir, a cura di K. Krenkow, Hydarābād 1936, pp. 224-225 (trad. ingl. The Book Most Comprehensive in Knowledge on Precious Stones, a cura di H.M. Said, Islamabad 1989, pp. 193-194); Ibn al-Zubayr, Kitāb al-dhakhā῾ir wa'l-tuḥaf, a cura di M. Ḥamīd Allāh, Kuwait City 1959, pp. 81, 249, 260; Aḥmad ibn ῾Alī al-Maqrīzī, Kitāb al-mawā ῾iz wa'l-i῾tibār fī dhikr al-khiṭāṭ wa' l-āthār, 2 voll., Beirut 1970: I, pp. 414-417; Al-Maqqarī, Nafḥ al-ṭīb min ghusn al-Andalus al-ratīb, 5 voll., Leiden 1855-1861 (Amsterdam 19672): I, pp. 237, 403.
Letteratura critica. - C. de Linas, Les origines de l'orfèvrerie cloisonnée, I, Paris 1877-1878; M. Rosenberg, Geschichte der Goldschmiedkunst auf technischer Grundlage, III, Frankfurt a. M. 1910; G. Migeon, Manuel d'art musulman, 2 voll., Paris 1927; J. Ebersolt, L'aiguière de Saint-Maurice en Valais, Syria 9, 1928, pp. 32-39; Orientalische Steinbücher und persische Fayencetechnik, Istanbuler Mitteilungen 3, 1935, pp. 31-48; J. Ruska, Die Alchemie ar-Rāzī's, Der Islam 22, 1935, pp. 281-319; K. Röder, Das Mīnā im Bericht über die Schätze der Fatimiden, Zeitschrift der deutschen morgenländischen Gesellschaft 89, 1935, pp. 363-371; P. Kahle, Die Schätze der Fatimiden, ivi, pp. 329-362; id., Bergkristall, Glas und Glasflüsse nach dem Steinbuch von el-Beruni, ivi, 90, 1936, pp. 322-356; W.L. Hildburgh, Medieval Spanish Enamels, London 1936; M.C. Ross, An Egypto-Arabic Cloisonné Enamel, Ars islamica 7, 1940, pp. 165-167; W.L. Hildburgh, Concerning a Questionable Identification of Medieval Catalan Champlevé Enamels, ArtB 27, 1945, pp. 247-259; M. Aga-Oglu, The Origin of the Term Mīnā and it's Meaning, Journal of Near Eastern Studies 5, 1946a, pp. 241-256; id., Is the Ewer of Saint-Maurice d'Agaune a Work of Sasanian Iran?, ArtB 28, 1946b, pp. 160-170; H. Buchthal, A Note on Islamic Enameled Metalwork and its Influence in the Latin West, Ars islamica 11-12, 1946, pp. 195-198; A. Alföldi, Die Goldkanne von S. Maurice d'Agaune, ZSchwAKg 10, 1948-1949, pp. 1-27; W.L. Hildburgh, Copper Champlevé Enamels, BurlM 96, 1954, pp. 91-92; H.W. Müller, Koptische Glasintarsien mit figürlichen Darstellungen aus Antinoe-Mittelägypten, Pantheon 20, 1962, pp. 13-18; A. von Saldern, Mosaic Glass from Hasanlu, Marlik and Tell al-Rimah, Journal of Glass Studies 8, 1966, pp. 9-25; E. Steingräber, s.v. Email, in RDK, V, 1967, coll. 1-65; K. Wessel, s.v. Email, in RbK, II, 1971, coll. 93-129; J.W. Allan, Abū'l-Qāsim's Treatise on Ceramics, Iran 11, 1973, pp. 111-120; P. Bouffard, Saint-Maurice d'Agaune, trésor de l'abbaye, Genève 1974, pp. 73-76; E. Margulies, Cloisonné Enamel, in A Survey of Persian Art. From Prehistoric Times to the Present, a cura di A.U. Pope, P. Ackerman, II, Teheran 1977(London 1939), pp. 779-783; D. Buckton, Byzantine Enamel and the West, Byzantinische Forschungen 13, 1988, pp. 235-244; Islamic Art and Patronage. Treasures from Kuwait, a cura di E. Atil, New York 1990; S. Redford, How Islamic is it? The Innsbruck Plate and Its Setting, Muqarnas 7, 1990, pp. 119-135; M.I. Marcus, The Mosaic Glass Vessels from Hasanlu, Iran. A Study in Large-Scale Stylistic Trait Distribution, ArtB 73, 1991, pp. 537-560; Al-Andalus. The Art of Islamic Spain, a cura di J.D. Dodds, cat., New York 1992; P. Soucek, s.v. minā'ī, in Enc. Islam2, VII, 1993, pp. 73-74; J.W. Allan, The Influence of the Metalwork of the Arab Mediterranean on that of Medieval Europe, in The Arab Influence in Medieval Europe, a cura di D.A. Agius, R. Hitchcock, Reading 1994, pp. 44-62; V. Gonzalez, Emaux d'al-Andalus et du Maghreb, La Calade 1994; Die Artuqiden-Schale im Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum Innsbruck: Mittelalterliche Emailkunst zwischen Orient und Occident, a cura di T. Steppan, München 1995; D. Buckton, Chinese Whispers: the Premature Birth of the Typical Byzantine Enamel, in Byzantine East, Latin West, Art-Historical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, a cura di C. Moss, K. Kiefer, Princeton 1995, pp. 591-595; Enamels of Limoges 1100-1350, cat., New York 1996; M. Guinness Aschan, s.v. Enamel, in The Dictionary of Art, X, London 1996, pp. 192-195; L.S. Diba, s.v. Enamel, ivi, XVI, pp. 514-516; The Glory of Byzantium. Art and Culture of the Middle Byzantine Era A.D. 843-1261, a cura di H.C. Evans, W.D. Wixom, cat., New York 1997; A. Shalem, Medieval Islamic Terms for Glassware Imitating Carved Precious Stone Vessels, in Islamic Glass in the Nasser Khalili Collection of Islamic Art, London (in corso di stampa).