Abstract
Il diritto del lavoro attribuisce al “collegamento societario” un significato ben più ampio e sfumato rispetto a quello consegnatoci dal codice civile all’art. 2359, ultimo comma, corrispondente ad un fenomeno di mero fatto, minimo comune denominatore di modelli aggregativi diversificati (consorzi, reti, gruppi), non regolamentato. Nei casi in cui si tratti di situazioni di collegamento ad elevata intensità, nel rispetto del principio della inscindibilità tra titolare della prestazione e suo fruitore, la giurisprudenza supera il limite costituito dalla personalità giuridica per ridefinire i confini della figura del datore di lavoro nei confronti di tutti i prestatori che rendono la propria opera a favore di strategie collettive.
Il diritto del lavoro attribuisce al “collegamento” societario un significato ben più ampio e sfumato di quello consegnatoci dal codice civile all’art. 2359, ultimo comma.
Allontanandosi dalla prospettiva codicistica, in cui attraverso il criterio della “influenza notevole” conduce ad un legame unidirezionale, in senso discendente, tra la società partecipante e la partecipata, nella nostra ottica di indagine, esso viene fatto coincidere di volta in volta con il controllo (che nella disposizione assume un ruolo a sé); con la direzione unitaria e la sussistenza di un fine comune (Buttà, C., Una metodologia per l’approccio economico aziendale allo studio dei gruppi di imprese, in Pavone La Rosa, A., a cura di, I gruppi di società, Ricerche per uno studio critico, Bologna, 1982, 61); con una “sovrastruttura organizzativa con funzioni direzionali” (Chiomenti, F., Osservazioni per una costruzione giuridica del rapporto di gruppo tra imprese, in Riv. dir. comm., 1983, I, 258); con la “direzione unitaria” in senso gerarchico e verticale, magari anche temporanea, avviata con una serie di rapporti contrattuali (De Simone, G., La “forma gruppo” nel diritto del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 1991, 69); con mere situazioni di dipendenza di mercato (Ferrando, P. M., Gruppo e teoria dell’impresa. Ipotesi interpretative a confronto, in Caselli, L. a cura di, Il gruppo nell’evoluzione del sistema aziendale, Milano, 1990, 47); fino ad arrivare ad una sua indeterminata relativizzazione bastando, a questo o quel fine alla dottrina, una pluralità di soggetti fra loro “in qualche modo collegati” (De Simone, G., Titolarità dei rapporti di lavoro e regole di trasparenza. Interposizione, imprese di gruppo, lavoro interinale, Milano, 1995, 185).
Si fa riferimento altresì nel linguaggio corrente al “collegamento” per riassumere strategie di esternalizzazione e di re-internalizzazione di fasi del ciclo produttivo poste in essere al fine di soddisfare esigenze organizzative e di razionalità economica nuove e diverse rispetto al passato.
Ne consegue che, del tutto prescindendo dall’indagine circa la titolarità del capitale sociale o dei poteri assembleari nelle distinte compagini, che viceversa rilevano per il diritto commerciale ai sensi della disposizione codicistica, sono state ricondotte ad ipotesi di società collegate le società di persone caratterizzate dal legame famigliare tra gli amministratori, dalla sovrapposizione parziale della struttura organizzativa e dall’impiego indistinto del personale rispettivamente dipendente.
Il collegamento fra società, nella prospettiva giuslavoristica, non acquisisce in sé rilevanza normativa, non esistendo disciplina legale che regoli la materia e che, aspetto ancora più rilevante, ne delimiti la fattispecie. Quando il legislatore ha deciso di far emergere il collegamento da fenomeno meramente economico ad autonomo centro di imputazione di diritti e di doveri (per l’ammissione alla cassa integrazione guadagni straordinaria (Cassa integrazioni guadagni) e l’applicazione della disciplina sulla mobilità (Indennità di mobilità) ad esempio, oppure con l’obiettivo di consentire l’accentramento in capo alla società capogruppo degli adempimenti burocratici «in materia di lavoro, previdenza, assistenza sociale dei lavoratori dipendenti», lo ha fatto dandone una definizione messa a punto sulla base delle peculiari finalità perseguite, senza validità generale. Ed anzi, tali disposizioni, come espressamente dispone l’art. 31 del d.lgs. 10.9.2003, n. 276 «non rilevano ai fini della individuazione del soggetto titolare delle obbligazioni contrattuali e legislative in capo alle singole società datrici di lavoro».
Reti, consorzi, ma anche gruppi di società, altro non costituiscono dunque che declinazioni di questo fenomeno unitario; con effetti di volta in volta diversi sul piano economico a seconda di come viene disciplinata l’integrazione di attività e competenze complementari. L’identificazione tra i fenomeni è tale che i giudici di legittimità ad un certo momento abbandonano ad esempio la locuzione “gruppo societario” sostituendola con il generico riferimento al “collegamento economico-funzionale” tra diverse società (Cass., 8.8.1987, n. 6848; Cass., 9.6.1989, n. 2819).
Affermazione costante ne è che il collegamento di società è un fenomeno di mero fatto, ad “inveramento progressivo” (Lunardon, F., Autonomia collettiva e gruppi d’imprese, Torino, 1996, 22), che acquisisce rilevanza solo ai limitati effetti previsti dal codice civile e da alcune leggi speciali e che soprattutto non dà origine automaticamente ad un soggetto di diritto distinto dalle società che ne fanno parte (da ultimo, Cass., 5.1.2017, n. 160)
Una petizione di principio questa, pur conforme al diritto positivo, che priva, secondo molti, di un’adeguata tutela l’interesse dei creditori sociali e, tra questi, in particolare dei lavoratori (Mazzotta, O., Divide et impera: diritto del lavoro e gruppi di imprese, in Lav. dir., 1988, 359).
Una considerazione in prospettiva meramente giuridica del fenomeno, in ragione dello schermo generato dalla personalità giuridica, consentirebbe infatti l’elusione della normativa inderogabile posta a tutela dei diritti dei lavoratori, riaffermando la natura soggettiva e frammentaria della figura del datore di lavoro, di tal che, il collegamento economico-funzionale tra imprese «… non è di per sé sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti a un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso tra un lavoratore e una di esse, si debbano estendere anche all’altra» (Cass., 26.8.2016, n. 17368). È considerato riduttivo identificare nell’ambito di strutture complesse singole società che da sole non sarebbero in grado di raggiungere l’obiettivo d’impresa come unica controparte dei lavoratori, pena, la «svalutazione della principale specificità di questo tipo di organizzazione».
Il fatto però che una prestazione di lavoro sia funzionalmente destinata alla realizzazione non dell’interesse di cui è esclusivo titolare il formale datore di lavoro, ma di una più ampia strategia imprenditoriale condivisa dalla pluralità di società collegate, non può che riflettersi sulla struttura del rapporto obbligatorio e sui criteri che presiedono all’imputazione dello stesso.
La tendenza generalizzata è allora quella di confutare l’equiparazione apodittica tra la definizione soggettiva dell’imprenditore e la necessità di un unico soggetto-persona che sia unica controparte nel rapporto di lavoro in tutti quei fenomeni in cui l’aggregazione raggiunge la sua massima intensità e si configuri, nei fatti, l’esistenza di una struttura organizzativa unitaria. In tutti questi casi, vengono rimodulati i confini del concetto di datore di lavoro (inteso quale centro di imputazione di obblighi e di responsabilità che l’ordinamento ricollega ai rapporti di lavoro) e, nel contempo, l’ambito di applicazione della disciplina lavoristica.
Il “collegamento” diviene allora il requisito minimo che apre alla applicabilità della «concezione realistica del datore di lavoro» (Meliadò, G., Esternalizzazione dei processi produttivi e imprese a struttura complessa, in Lav. giur., Gli Speciali. Innovazione tecnologica, esternalizzazione di servizi e professionalità, 2011, 14). Questi non coincide più con il formale titolare della prestazione ma con colui che effettivamente la utilizza ed è titolare della impresa nella quale la prestazione è resa in concreto, sia essa anche la struttura composta da più società formalmente distinte ma sostanzialmente unitarie. Con tutta una serie di conseguenza in termini di disciplina applicabile (cfr. infra).
Resta che la situazione di collegamento tra società non conduce sempre e direttamente alla esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto, in quanto la mera “attività di gruppo” non acquisisce un valore giuridicamente unificante. È opinione diffusa che diverse siano le tappe di inveramento dell’impresa a struttura complessa. Due sono i dati indizianti: il grado di integrazione economica ed organizzativa che riesce a realizzarsi fra le varie unità operative e la dipendenza che ne deriva. Questi si manifestano in una scala di intensità variabile: massima nei gruppi ad attività economiche confuse; assai intensa nei gruppi integrati verticalmente ed in specie all’interno di questi in quelli facenti capo ad un unico ciclo produttivo; minima o comunque assai modulata, nei gruppi diversificati, conglomerati o puramente finanziari. Tanto più efficace sarà l’intensità del collegamento, tanto più esso si manifesterà giuridicamente significante, per la sua idoneità a rendere confusi i patrimoni, le attività e lo stesso uso della forza lavoro.
Il collegamento societario dunque rileva solo in presenza di indubbi indici sintomatici della unicità di un centro di imputazione di responsabilità e gestione del rapporto di lavoro.
In presenza di una lecita attività di direzione e coordinamento di società e di una prestazione di lavoro nel concreto impiegata nella struttura imprenditoriale condivisa dalla pluralità di imprese facenti parte del gruppo, lo scopo comune e l’organizzazione imprenditoriale collettiva a tal fine costituita cessano di essere vicende esterne al rapporto di lavoro e si innervano nel rapporto obbligatorio, modificandone il profilo strutturale nel segno della “contitolarità qualificata”.
Mentre, per converso, seppure vi sia direzione e coordinamento ma la prestazione di lavoro resta utilizzata nell’ambito dell’impresa di cui è esclusiva titolare la società formalmente datrice di lavoro, senza concorrere alla realizzazione di una più ampia strategia di gruppo, non si pongono problemi in merito alla imputabilità della prestazione.
Occorre sottolineare infine l’oscillazione terminologica, anch’essa peculiare del diritto del lavoro, tra società ed imprese collegate.
Nella prospettiva del diritto del lavoro la società può essere considerata l’involucro esterno dell’impresa, in senso esattamente inverso rispetto a quanto accade nel diritto commerciale dove è l’impresa a rivestire una posizione subordinata acquisendo essa la mera configurazione di uno tra i diversi soggetti che producono o scambiano beni o servizi sul mercato.
Con l’avvento dell’impresa multidivisionale, è stata sancita la definitiva dissociazione tra impresa e società, giacchè «mentre le funzioni dell’impresa erano in precedenza indifferenziate e fondamentalmente circoscritte in un’unica struttura organizzativa (la società commerciale) con conseguente impiego del termine società come equivalente di quello di imprenditore, quelle medesime funzioni tendono ora ad assumere un alto grado di differenziazione funzionale, distribuendosi tra vari soggetti. La nozione di impresa tende, perciò, a trascendere quella di società (Vardaro, G., Prima e dopo la persona giuridica: sindacati, imprese di gruppo e relazioni industriali, in Dir. lav. rel. ind., 1988, 203) e quella dell’imprenditore a non coincidere più necessariamente con la singola società (Vallebona, A., Problemi del rapporto di lavoro nei gruppi di società, in Dir. lav. rel. ind., 1982, 673-692). Di conseguenza, il diritto del lavoro tende a far riferimento alle “imprese” collegate, più che alle società, per estendere concetti essenziali che sarebbero rivolti per lo più a società di capitali e per azioni anche a soggetti economici non societari, ovvero imprenditori individuali. Aprendo altresì in tal modo la strada alla ridefinizione dei confini della figura del datore di lavoro grazie ad una lettura di impresa in senso oggettivo sottesa gli artt. 2094 e 2555 c.c.
A fronte di una organizzazione dell’attività economica in strutture complesse, composte da più società, o rectius imprese, fra loro in qualche modo collegate, la questione fondamentale per il diritto del lavoro, come si è anticipato, riguarda l’individuazione dell’“effettivo” datore di lavoro.
A differenza di quanto andava accadendo nel diritto fallimentare o tributario, nei primi anni settanta, i giudici del lavoro escludevano la rilevanza del collegamento societario al fine della configurabilità di un unico centro di imputazione degli obblighi contrattuali gravanti a favore dei lavoratori impegnati nelle diverse società collegate (Cass., 29.4.1974, n. 1220).
Orientamento questo consolidatosi nel decennio successivo (Cass., 2.2.1988, n. 957), «quale che sia l’entità del collegamento tra due o più società».
La valorizzazione della natura “giuridica” del fenomeno rendeva impossibile superare il filtro della distinta personalità giuridica e delle fittizie posizioni di autonomia per suo tramite rivestite dalle singole imprese o società.
A partire dagli anni ottanta si assiste purtuttavia ad una progressiva erosione della cortina rappresentata dalla personalità giuridica, sulla scorta forse di quell’orientamento secondo cui «almeno per il diritto del lavoro, la persona giuridica non costituisce la ragione di una particolare disciplina mentre lo è invece l’impresa e in qualche caso l’unità produttiva» (Veneziani, B., Gruppi di imprese e diritto del lavoro, in Lav. dir., 1990, 628).
Si fanno strada le teorie “patologiche” del collegamento societario inteso come il risultato di una moltiplicazione solo formale dei centri di produzione, posta in essere al fine di eludere la normativa di tutela del lavoratore dipendente.
Pur ribadendo l’indifferenza del collegamento o del raggruppamento societario, è stato fatto «salvo il dovere del giudice del merito – la cui valutazione se adeguatamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità – di accertare se, nel caso concreto, siano stati adottati, o meno, strumenti o meccanismi volti, in frode alla legge, a far apparire frazionato in distinti rapporti un rapporto di lavoro sostanzialmente unico» (Cass., 18.5.1988, n. 3450).
I giudici di legittimità (Cass., 18.4.1986, n. 2756) per la prima volta richiedono un «esame particolarmente penetrante dei comportamenti dei soggetti collegati, al fine di assodare se tra gli stessi si sia posto in essere un accordo societario di fatto nella gestione di un rapporto di lavoro». E gli elementi probatori così acquisiti sono finalizzati a considerare più soggetti aventi ciascuno autonoma personalità unitariamente, se non sotto il profilo giuridico, certamente sotto quello economico.
È questo del resto un percorso coerente con la giurisprudenza comunitaria nella quale viene al contempo evidenziato che «nell’ambito del diritto della concorrenza, la nozione di impresa deve essere intesa nel senso che essa si riferisce ad un’unità economica dal punto di vista dell’oggetto dell’accordo, anche se sotto il profilo giuridico questa unità economica è costituita da più persone fisiche o giuridiche» (C. giust., 12.7.1984, n. 170, C-170/83, Hydrotherm Geraetebau GmbH c. Compact).
È la dottrina ad aprire presto a canoni valutativi che manifestano una nuova considerazione del collegamento tra imprese, tralasciati quei diversi aspetti connessi alla “volontarietà” di creare situazioni societarie fittizie o simulate, quale metodologia di gestione organica di fattori economici e come forma particolarmente evoluta di organizzazione e di utilizzazione del fattore lavoro (De Simone, G., Titolarità dei rapporti di lavoro e regole di trasparenza, cit., 206 ss.).
Qualora concorra «una pluralità di elementi presuntivi che induce a far ritenere che la pluralità di società è nella sostanza un solo soggetto economico, vale a dire una sola impresa» viene affermata l’esistenza di un unico centro di imputazione di rapporti giuridici (Pret. Milano, 7.1.1998). Unico secondo questa lettura non sarebbe però l’imprenditore bensì l’impresa, «la nozione economica … che individua nel gruppo sostanzialmente un’unica impresa articolata tra più soggetti».
È la Cassazione ad individuare gli indici rilevanti in tal senso: a) l’unicità della struttura organizzativa; b) l’integrazione tra le attività esercitate tra le varie imprese del gruppo e correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori che fruiscono dell’attività del lavoratore (Cass., 22.2.1995, n. 2008; da ultimo Cass., 31.7.2017, n. 19023).
Non si tratta altro invero che della specificazione degli elementi caratteristici della funzione imprenditoriale, che, per quanto del tutto inidonei a superare il dato della personalità giuridica, confermano la perdurante rilevanza del concetto di impresa e di datore di lavoro, individuabile, sulla base di una “concezione realistica”, nel soggetto che effettivamente utilizza la prestazione di lavoro ed è titolare dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione stessa è destinata ad inserirsi. Che nella prospettiva del collegamento societario “accentrato” o ad “alta intensità” si identifica in un’impresa unitaria che alimenta varie attività formalmente affidate a soggetti diversi.
Con il nuovo millennio la Cassazione si spinge oltre, aggiornando da un lato gli indici necessari a distinguere fra il collegamento e il controllo societario fraudolento e genuino, dall’altro confermando la non necessaria compresenza di tutti gli indici sintomatici, ed attribuendo carattere pressoché decisivo all’utilizzazione indiscriminata e indifferenziata di lavoratori ad opera di una pluralità di aziende.
Un aggiornamento degli indici è sollecitato dalle evoluzioni del diritto commerciale degli ultimi anni e, in particolare, dalla nuova disciplina contenuta negli artt. 2497 c.c. e ss. che, entro certi limiti, munisce di rilievo giuridico il fenomeno dell’attività di direzione e di coordinamento di società. L’idea di fondo è che essi non denotano più un’ipotesi di frode o di abuso della struttura del gruppo, in quanto, al contrario, compatibili con il fenomeno di cui alla disposizione codicistica. Deve ritenersi allora lecita e meritevole di tutela l’attività di direzione e di coordinamento di società esercitata dal titolare di una situazione giuridica di controllo a condizione che tale attività si svolga nel rispetto dei «principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale» e risulti orientata al perseguimento di interessi comuni che le società uti singulae non sono in grado di realizzare. Di qui, la formulazione del principio di diritto secondo cui, qualora l’ingerenza della capogruppo sulla prestazione di lavoro «ecceda il ruolo di direzione e coordinamento generale alla stessa spettante sul complesso delle attività delle società controllate», stante l’uso strumentale ed opportunistico della struttura del gruppo, il lavoratore deve considerarsi nei fatti inserito e utilizzato nell’ambito dell’impresa di cui è titolare soltanto la capogruppo, per soddisfare un interesse esclusivo di quest’ultima, non un interesse comune o di gruppo (Cass., 29.11.2011, n. 25270).
Viene dunque rimessa ai giudici di merito non soltanto l’indagine circa la sussistenza degli indici ma anche la valutazione di merito circa la sufficienza di taluni di questi per la configurazione dell’unico centro di imputazione di rapporti di lavoro facenti formalmente capo a più società (Cass., 28.8.2000, n. 11275).
Le due varianti del collegamento societario, quello patologico tradizionale e quello organizzativo strutturale non possono però leggersi in maniera autonoma l’uno dall’altro. Secondo la stessa Cassazione, l’utilizzo degli indici non vale a mutare l’approccio tradizionale, ma semplicemente a precisarlo, ovvero a renderlo più “tecnico” e contestualmente più agevole ed omogeneo.
È destinata a restare dunque un’ambiguità di fondo: l’accertamento è per lo più condotto in maniera tale da verificare se esista una realtà di fatto che debba essere fatta prevalere su una diversa apparenza giuridica, se sussistano, in altri termini, i presupposti per “squarciare” il velo della personalità giuridica e sventare un artifizio finalizzato ad eludere la normativa inderogabile posta a tutela dei diritti dei lavoratori. Una impostazione questa non sempre però soddisfacente in un contesto in cui il fenomeno del collegamento societario è diffusissimo, del tutto normale per il nostro tessuto produttivo e non sempre finalizzato ad eludere precetti normativi. Sicuramente il gruppo consente una forma particolarmente sviluppata di gestione delle risorse umane, idonea a raggiungere elevati livelli di flessibilità organizzativa (De Simone, G., Titolarità dei rapporti di lavoro e regole di trasparenza, cit.) non di per sé meritevole in maniera generalizzata di repressione da parte dell’ordinamento.
Spinti dalle istanze di tutti quei lavoratori che, operando all’interno di società collegate, cercavano di estendere le tutele riconosciute dall’impresa formalmente datore di lavoro a tutte quelle che di fatto apparivano beneficiarie delle prestazioni lavorative, i giudici di merito hanno tratteggiato in anticipo rispetto a quelli di legittimità gli aspetti rilevanti del collegamento fra imprese ai fini della difesa della posizione del prestatore di lavoro.
Dal riscontro della sostanziale unicità dell’impresa (condotto sulla base di indici fattuali, accertabili solamente ex post) consegue la rimodulazione dei confini del concetto di datore di lavoro agli effetti della ricostruzione dei requisiti dimensionali per l’applicazione delle garanzie proprie della tutela reale in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, nel riconoscimento dell’anzianità di servizio, frustrata nel caso di ripetuti passaggi da un’azienda all’altra del gruppo, nella identificazione di una ipotesi di distacco – e non di una sospensione temporanea del rapporto di lavoro con l’originario datore di lavoro, nel rispetto dell’obbligo di repechage nell’ambito di tutte le imprese collegate ed ancora in merito alla sussistenza dei presupposti per un licenziamento, disciplinare o collettivo esso sia.
La produzione giurisprudenziale in materia di collegamento societario prende le mosse tra gli anni settanta e novanta principalmente con riferimento al giudizio circa la sussistenza o meno del requisito dimensionale per l’applicazione dei diversi regimi di tutela.
La consistenza dimensionale è stata dunque verificata con riferimento a tutte le imprese collegate al fine dell’applicazione del regime di stabilità reale (App. Torino, 7.4.2005; Trib. Milano, 24.4.1998) e per accertare l’antisindacalità della condotta datoriale consistita nell’irrogazione di licenziamenti per riduzione di personale senza il rispetto delle garanzie di cui alla l. 23.7.1991, n. 223 (Pret. Milano, 7.1.1998).
Per raggiungere questo risultato si è spesso fatto ricorso al concetto di impresa in senso oggettivo, scorta agli artt. 2094 e 2555 c.c. nella parte in cui fanno riferimento alla azienda come complesso dei beni organizzati dall’imprenditore, e dunque anche di lavoratori, per l’esercizio dell’impresa.
Se i giudici concludono nel senso che, una volta accertato un collegamento societario rilevante, vanno verificati con riferimento all’intero gruppo i presupposti numerici e dimensionali, il lavoratore può essere però reintegrato solo presso la società che lo aveva formalmente assunto (Cassato da Cass., 24.3.2003, n. 4274; contra, nel senso di ravvisare nella reintegrazione un obbligo di facere imposto in solido anche alle società non formalmente parte del rapporto di lavoro, Pret. Roma, 6.10.1987).
Secondo i giudici di merito poi (Trib. Milano, 30.10.2008) i «comportamenti tenuti dal lavoratore in un precedente rapporto di lavoro alle dipendenze di una società del gruppo» possono essere oggetto di specifica contestazione disciplinare da parte di un’altra società del medesimo gruppo qualora «tra le due imprese si configuri un collegamento tale da configurare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro».
In caso di imprese collegate sarebbe infine possibile un distacco infra-gruppo del lavoratore che, fermo il perdurare del vincolo con il datore di lavoro distaccante, faccia sorgere un distinto rapporto con un altro imprenditore, anche all’estero, con sospensione del rapporto originario (Cass., 5.9.2006, n. 19036). In tal caso i due rapporti restano separati, anche se le imprese sono gestite da società collegate, con conseguente non imputabilità alla società distaccante, se non diversamente pattuito, delle obbligazioni relative al secondo rapporto. Tale metodo permette in teoria di dividere le sorti del rapporto di lavoro evitando corresponsabilità di sorta ed i giudici di legittimità sembrano ricorrervi ogni volta escludano l’ipotesi di distacco lecito (Cass., 9.4.1992, n. 4339 e Cass., 20.6.1996, n. 5714).
Per qualche autore (Lunardon, F., Autonomia collettiva e gruppi di imprese, Torino, 1996) sarebbero i profili sindacali della disciplina a rappresentare la prospettiva privilegiata di analisi dei fenomeni di collegamento societario.
L’alto tasso di informalità del nostro sistema sindacale consentirebbe di risolvere due distinte questioni che possono presentarsi in ogni caso in cui il collegamento si realizzi in una delle forme a più alta “densità”.
La prima concerne la possibilità di considerare le imprese collegate quale soggetto legittimato passivo dell’azione per condotta antisindacale ex art. 28 st. lav. Pur a fronte di un panorama dottrinale diviso (Balletti E., La legittimazione passiva nel procedimento di repressione della condotta antisindacale, in Dir. lav., 1991, 5, 424 ss.) la giurisprudenza di merito ha risolto positivamente la questione ritenendo la nozione di datore di lavoro quale legittimato passivo della azione «intesa in modo tale da potervi ricomprendere tutti quei soggetti che si trovino in una posizione giuridica e/o di fatto tale da poter attuare comportamenti antisindacali» (Pret. Roma, 15.6.1983). Con la conseguenza che «nel caso di società controllata, anche la controllante può porre in essere o determinare, con azioni od omissioni che rientrano nell’esercizio della sua specifica situazione di potere, comportamenti direttamente incidenti sulla correttezza delle relazioni aziendali con l’attività sindacale” (Pret. Roma, 15.6.1983, cit.).
Parrebbe agevole fornire una risposta anche ad un secondo quesito, ovvero se le imprese collegate possano divenire soggetto di contrattazione collettiva. Premesso che «i rapporti collettivi si sostanziano nella ricerca della impresa più rappresentativa o del centro più rappresentativo dell’intera struttura produttiva”, pur a seguito del t.u. 2014 sulla rappresentanza, la questione della individuazione della controparte datoriale non può che avvenire sulla scorta del normale svolgimento del processo delle relazioni collettive. La maggiore formalizzazione della struttura sindacale non comporta conseguenze di rilievo neppure sulla rappresentanza dei lavoratori del gruppo. La flessibilità organizzativa permette una grande varietà di ipotesi che possono andare da forme di coordinamento attivate dalla capogruppo alla costituzione formalizzata su base contrattuale di strutture di coordinamento delle rappresentanze presenti nelle diverse imprese collegate.
Fonti normative
Art. 2359 c.c.; art. 12, l. 23.7.1991, n. 223; art. 2, co. 1, 2 e 2-bis, d.l. 16.5.1994, n. 299 conv. con mod. dalla l. 19.7.1994, n. 451; art. 4, co. 11, d.l. 1.10.1996, n. 510 conv. con mod. dalla l. 28.11.1996, n. 608; art. 31, co. 1, d.lgs. 10.9.2003, n. 276.
Bibliografia essenziale
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