Società commerciale
È imprenditore, per l'art. 2082 del Codice civile, "chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata" - l'impresa - "al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi". La società è la forma collettiva di esercizio dell'impresa. Con il contratto di società, dice l'art. 2247 del Codice civile, due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili. La sua costituzione segna il passaggio dalla gestione individuale dell'impresa - quella che nel linguaggio corrente va sotto il nome di ditta - alla sua gestione associativa.
In quanto imprenditore collettivo la società si distingue dalla comunione, caratterizzata dalla semplice contitolarità di un diritto reale (proprietà, usufrutto) e dal godimento di esso da parte dei suoi membri. Nel processo di produzione e/o di scambio di beni o di servizi sta l'elemento che differenzia le due situazioni. La società non è godimento ma impiego di risorse monetarie, naturali, di lavoro, acquisite attraverso i conferimenti effettuati dai soci e la formazione di un capitale, per esercitare l'impresa e creare nuova ricchezza.
La meticolosità del giurista impone di precisare che imprenditore e società sono termini contigui, naturalmente coincidenti, ma non identici. Con il primo si identifica infatti, come stabilisce il ricordato art. 2082, l'attività professionale (e quindi non occasionale) di produzione e/o di scambio che lo qualifica e distingue da altri soggetti operanti nella vita di relazione tra gli individui. Con il secondo si coglie la modalità metaindividuale di tale attività che peraltro, se attuata occasionalmente, non esclude che vi sia una società, ma esclude che vi sia un imprenditore. In altri termini, l'imprenditore collettivo è sempre una società; la società è di regola, ma non sempre e automaticamente, un imprenditore collettivo. Nella prassi la simbiosi tra le due ipotesi è assolutamente la norma: la società occasionale, che sorge e si estingue in brevissimo tempo, è un fenomeno del tutto marginale.
Nella disciplina legislativa la nozione di imprenditore si spezza in tre subnozioni: 1) l'imprenditore agricolo, definito dall'art. 2135 del Codice civile come colui che esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, all'allevamento del bestiame, alla silvicoltura nonché le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti del fondo connesse alle precedenti; 2) l'imprenditore commerciale, cioè l'imprenditore che esercita, secondo quanto si ricava dall'elencazione dell'art. 2195 del Codice civile, un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi, un'attività intermediaria nella circolazione dei beni, un'attività di trasporto per terra, acqua e aria, un'attività bancaria o assicurativa, nonché altre attività ausiliarie delle precedenti; 3) il piccolo imprenditore, controfigura sia dell'imprenditore agricolo che dell'imprenditore commerciale, il quale si caratterizza per il fatto di esercitare l'attività economica prevalentemente con il lavoro proprio e dei propri familiari: tali l'artigiano, il piccolo commerciante, il coltivatore diretto del fondo (art. 2083 del Codice civile). L'imprenditore commerciale è tenuto ad iscriversi nel registro delle imprese, deve documentare la gestione con le scritture contabili; è assoggettato, in caso di insolvenza, alle procedure fallimentari.
La società commerciale è, di regola e con le precisazioni innanzi fatte, la forma collettiva di esercizio dell'impresa commerciale. Solo se di modeste dimensioni e a conduzione familiare può essere accostata - prendendo spunto da una autorevole ma non incontroversa opinione giurisprudenziale (della Corte costituzionale) - al piccolo imprenditore.
Così come l'imprenditore commerciale è una sottospecie, se pur di gran lunga la più importante, della figura dell'imprenditore definita in via generale dall'art. 2082 del Codice civile, la società commerciale è una sottospecie, anch'essa di gran lunga la più importante, della società definita dall'art. 2247.
Essa si pone in alternativa alla società semplice: introdotta, sulla scia della legislazione tedesca, dal Codice civile del 1942 e destinata, nelle intenzioni dei suoi redattori, all'esercizio collettivo delle attività imprenditoriali non commerciali (v. Bolaffi, 1947). Per tale sua caratterizzazione la società semplice ha un ristretto spazio applicativo. Il suo campo naturale dovrebbe essere quello dell'impresa agricola collettiva, che peraltro, nel ruolo declinante dell'agricoltura, appare oggi assai marginale. Sicché non a caso è invalsa la pratica di utilizzarla per usi impropri, ma utili fiscalmente, quale quello di rivestire di panni societari comunioni immobiliari o mobiliari di beni, cioè situazioni nettamente diverse, come si è visto, dalla società.
Il campionario offerto dal Codice civile a chi intenda dar vita a una società commerciale è, sulla carta, ricco e articolato.
Da un lato stanno le società di persone - società in nome collettivo e società in accomandita semplice - dall'altro le società di capitali - società per azioni, a responsabilità limitata, in accomandita per azioni.
Le società di persone godono di autonomia patrimoniale ma non hanno, secondo l'opinione più accreditata, personalità giuridica. Esse presentano la duplice caratteristica della partecipazione diretta dei soci alla gestione e della loro responsabilità personale per i debiti della società. Nella società in nome collettivo si instaura tra i soci e l'amministrazione una naturale compenetrazione e immedesimazione. Amministrazione e rappresentanza spettano, in mancanza di una diversa disposizione dell'atto costitutivo, a tutti i soci disgiuntamente tra loro.La struttura della società è semplificata; non sono previsti né assemblea né consiglio di amministrazione né collegio sindacale, come avviene invece nella società di capitali. Le dimensioni sono per lo più ridotte e la gestione è spesso familiare.
Non è prescritto che vi sia un capitale minimo: i conferimenti dei soci sono pertanto pragmaticamente commisurabili alle esigenze dell'impresa. I creditori della società sono garantiti, in prima battuta, dal patrimonio della società stessa, costituito dal capitale versato dai soci più gli incrementi derivanti dall'attività. Nei suoi confronti essi possono soddisfarsi senza temere la concorrenza dei creditori particolari dei soci; la legge garantisce infatti la separatezza e autonomia di tale patrimonio rendendolo inattaccabile, durante societate, dalle loro pretese. Hanno inoltre la garanzia supplementare rappresentata dalla responsabilità personale e illimitata dei soci: che si affianca, in via sussidiaria, a quella della società e che rappresenta, come si è detto, un connotato essenziale di questo tipo sociale.
La società in nome collettivo è insomma dominata dall'intuitus personae; la compagine societaria è perciò tendenzialmente chiusa: non vi si entra e non vi si esce, di norma, senza il consenso di tutti i suoi membri. È un'imbarcazione agile, facilmente manovrabile, idonea ad affrontare, per la sua forte impronta plurindividualistica e per i rischi che chi la costituisce accetta di correre, i flutti più tumultuosi. Se pure non consente le scorribande sul mercato finanziario e in borsa di una società per azioni, evita i costi e gli impacci delle sue più complesse impalcature organizzative.
Il secondo subtipo di società commerciale personale - la società in accomandita semplice - costituisce il complemento e il correttivo del primo. Esso getta un ponte verso le società di capitali: la sua gestione rimane altamente personalizzata ma presenta una significativa attenuazione della responsabilità. La legge prevede infatti che vi siano due categorie di partecipanti, gli accomandatari, illimitatamente responsabili dei debiti sociali alla stessa stregua in cui lo sono i soci della collettiva; gli accomandanti, responsabili nei limiti della quota di capitale da essi conferita.
Al diverso regime della responsabilità corrisponde un diverso regime delle competenze amministrative, che sono riservate agli accomandatari e precluse, pena la loro responsabilità illimitata, agli accomandanti. I primi, in quanto amministratori, assumono sostanzialmente la veste di imprenditori, i secondi quella di capitalisti investitori. Nella società in accomandita semplice trovano così composizione, ad un livello strutturale ancora elementare, interessi tra loro diversificati. Essa è particolarmente adatta a combinare le differenti situazioni di chi ha creatività da spendere e disponibilità a rischiare in proprio e di chi ha risorse da investire ma non intende accollarsi tali rischi: una combinazione che né l'impresa individuale né la società in nome collettivo possono realizzare e che trova un suo omologo soltanto nell'associazione in partecipazione, nella quale mancano peraltro la gestione comune e la formazione di un patrimonio autonomo, proprie della società.
Le società di capitali - società per azioni, a responsabilità limitata, in accomandita per azioni - sono persone giuridiche di diritto privato. La loro peculiarità consiste, con le varianti della seconda e della terza, nel coniugare la limitazione della responsabilità e del rischio al capitale conferito con la più o meno intensa spersonalizzazione della partecipazione e della gestione (ancora adesso in Francia la società per azioni va sotto la denominazione di societé anonyme) e con la rigidità dell'ordinamento, strutturato in almeno tre organi formalmente costituiti e deliberanti: assemblea, consiglio di amministrazione (surrogabile da un amministratore unico) e collegio sindacale, eliminabile nelle società a responsabilità limitata con capitale ridotto. Nel costituire quindi - la società per azioni in particolare - uno strumento idoneo a rastrellare risparmio per convogliarlo verso imprese di medie e grandi dimensioni; ad aprirsi, con la libera circolabilità delle azioni, all'ingresso e agli apporti di un numero indeterminato di soggetti; a muovere agilmente sul mercato dei capitali. La società per azioni può ottenere prestiti emettendo obbligazioni; può incentivare gli investimenti collocando azioni al portatore senza diritto di voto (azioni di risparmio) o azioni privilegiate nella distribuzione degli utili con diritto di voto nelle sole assemblee straordinarie; può attivare operazioni di ingegneria finanziaria; può rendere i propri titoli, se quotata in borsa, facilmente smobilizzabili. La società a responsabilità limitata rappresenta sotto questi profili una figura minore: minore per l'entità minima del capitale richiesto (venti milioni anziché duecento) e perché semplificata nelle strutture organizzative e inoltre caratterizzata, almeno tendenzialmente, da un'impronta più personalizzata. Se ne diviene soci sottoscrivendo o comprando quote, la cui alienazione può essere limitata o esclusa. Essa può costituirsi, dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 88 del 3 marzo 1993, anche con un solo socio, realizzando in tal modo il massimo della personalizzazione: in questo diversificandosi profondamente dalla società per azioni, cui è vietato nel sistema legislativo vigente 'nascere' con un solo fondatore e su cui cade, allorché le azioni si concentrino in un'unica mano, la sanzione della responsabilità illimitata dell'unico azionista in caso di insolvenza della società.
La società a responsabilità limitata non è però una figura minore sotto il profilo della sua diffusione. Le società per azioni sono infatti una netta minoranza delle società di capitali. Nel 1992 esse erano in Germania 3.052 contro 465.600 società a responsabilità limitata; in Francia, 114.663 contro 321.473 e in Italia, nel 1993, 36.750 contro 336.210 (v. Weigmann, 1997). Questo rapporto numerico fortemente squilibrato sottolinea la diversa vocazione dei due modelli, all'esercizio delle imprese medio-grandi la società per azioni, delle piccole e medie imprese collettive la società a responsabilità limitata. Con la precisazione tuttavia che si tratta di un dato tendenziale, che potrebbe accentuarsi se la società a responsabilità limitata unipersonale avrà successo, ma che non significa che vi sia una sorta di meccanica e ineluttabile divisione tra imprese grandi e medio-piccole, le une in forma di società per azioni, le altre in forma di società a responsabilità limitata. Le scelte degli operatori non sono predeterminabili a priori ma sono volta a volta dettate da ragioni, spesso imperscrutabili, di opportunità e di politica aziendale, finanziaria o fiscale. Si può pertanto riscontrare la presenza di molte piccole imprese in forma di società per azioni e, più raramente, di imprese medio-grandi in forma di società a responsabilità limitata. Lo stesso rapporto può rovesciarsi, come accade in Svizzera, dove le società per azioni erano, nel 1992, 170.597 e le società a responsabilità limitata 2.964 (v. Weigmann, 1997); o non esservi affatto dicotomia tra uno schema maggiore e uno minore, come avviene negli Stati Uniti che conoscono un solo tipo di corporation.
Ciò chiarito, è indubbio - e sul punto si tornerà più avanti - che sia il tipo società per azioni, non quello società a responsabilità limitata, a soddisfare adeguatamente le esigenze finanziarie, operative, strumentali e di mercato delle imprese maggiori.Resta a dire del terzo subtipo, la società in accomandita per azioni. Essa costituisce un ponte gettato à rebours verso le società personali. Non è, sia chiaro, l'esatto omologo capitalistico della società in accomandita semplice. La società in accomandita per azioni è strutturalmente ed organizzativamente (v. Costi, 1969) una società per azioni. Anche in essa si riproduce però quell'elemento differenziale tra soci amministratori e illimitatamente responsabili - gli azionisti accomandatari - e soci capitalisti e limitatamente responsabili - gli azionisti accomandanti - che è stato alla base delle fortune della società in accomandita semplice. Nell'accomandita per azioni vi è una più accentuata compenetrazione tra gestione e responsabilità (chi è amministratore è eo ipso accomandatario; chi è accomandatario è eo ipso amministratore). Ma l'idea della distribuzione dei ruoli e dei rischi è, come dice il nome, sostanzialmente la medesima.Proprio questo dato 'caratteriale' è stato tra le cause della scarsissima diffusione dell'accomandita per azioni. A chi cerchi rifugio nella società di capitali dalle scomode alee della responsabilità personale non può essere ragione di particolare attrazione un modello che espone il suo patrimonio al rischio di impresa ogni qualvolta egli assuma le funzioni amministrative. Troppo concorrenziali appaiono sotto questo aspetto gli altri due tipi, i quali consentono a chi ha il controllo delle quote, o delle azioni, di fare praticamente il bello e il cattivo tempo, anche sul piano della gestione, senza assumere responsabilità personale per le obbligazioni della società.
Non è un caso quindi che la società in accomandita per azioni - di cui si conoscevano sino agli anni ottanta una decina o poco più di esemplari e che pareva relegata tra le specie in via di estinzione - abbia avuto successo, fuori dal suo campo naturale di applicazione, per mettere ordine negli assetti finanziari interni di una grande famiglia del capitalismo italiano, da sempre alla guida, attraverso il possesso delle azioni ordinarie IFI, del gruppo FIAT. Scopo dell'operazione, infatti, non era tanto lanciare in un'impresa comune soci imprenditori e soci capitalisti, quanto legare strettamente gli appartenenti alla famiglia al perseguimento di una politica unitaria, ed evitare divaricazioni di atteggiamenti nelle occasioni in cui la pluralità degli interessi dei suoi membri potesse essere pregiudizievole alla compattezza della compagine sociale e all'unitarietà delle decisioni e delle strategie del gruppo (ad esempio decidendo più investimenti e distribuendo meno dividendi, e viceversa): nel contempo diversificando nettamente le posizioni degli azionisti di comando da quelle degli azionisti investitori, ai primi dei quali si davano, in quanto accomandatari, poteri amplissimi, opportunamente sottolineati e ricuciti da singole clausole dello statuto. È nata così la società in accomandita per azioni Giovanni Agnelli e C. alla quale sono state conferite le azioni IFI di proprietà dei numerosi discendenti del fondatore dell'impresa.L'operazione ha avuto alcune imitazioni, che non sembrano peraltro costituire una prova decisiva della vitalità del tipo, almeno secondo il disegno che con esso aveva perseguito il legislatore.
In una pur sommaria esplorazione della materia va ricordato che un posto di tutto rispetto deve essere riconosciuto, nel firmamento delle società e accanto alle società commerciali lucrative, alle cooperative. Le cooperative (e le omologhe società mutue di assicurazione) sono società che hanno oggetto identico a quello delle loro consorelle lucrative: producono e scambiano beni e servizi, hanno struttura organizzativa in gran parte mutuata dalle società per azioni; se ne differenziano, o dovrebbero differenziarsene, per la 'causa' o 'scopo' mutualistico che le contraddistingue.
Nella realtà questi elementi di diversificazione sono divenuti, cammin facendo, assai labili. Nell'accezione storica originaria, legata alle lotte operaie dell'Ottocento, la mutualità si sostanziava in un obiettivo di superamento dell'intermediazione e del profitto dell'imprenditore capitalistico. Adottandone la disciplina i soci si facevano, secondo la formula che Sidney e Beatrice Webb avevano mutuato da Marx, imprenditori di se stessi.
Questa forte caratterizzazione economica e solidaristica si sarebbe tuttavia progressivamente decolorata dinnanzi alla stringente esigenza di stare sul mercato reggendo in condizioni di efficace competitività il confronto con le altre imprese; del che sono state specchio fedele le molte leggi speciali in argomento con cui si sono forniti alla cooperativa strumenti finanziari aggiornati: ultima, ma non in ordine di importanza, la legge n. 59 del 31 gennaio 1992.
Questo fa sì che non si possa seriamente parlare della cooperativa come di un modello alternativo all'impresa capitalistica ma se mai come di un veicolo per associare più larghi strati e ceti sociali e professionali all'attività imprenditoriale: alle cui più accentuate peculiarità di personalizzazione e democraticità dell'ordinamento - e, tendenzialmente, anche secondo le indicazioni costituzionali, al cui carattere non speculativo della gestione - fa riscontro un trattamento preferenziale sul piano giuridico, fiscale e creditizio. A occhio nudo, tuttavia, allorquando nelle 'zone di confine' i caratteri mutualistici divengono più sfumati, la distinzione tra le cooperative e una società commerciale ordinaria può risultare assai problematica (v. Buonocore, 1997).
Ogni inventario delle forme societarie rischia di risolversi in una descrizione incompleta e appiattita della realtà se i fatti rappresentati non sono messi con i piedi per terra. Il punto merita una ulteriore sottolineatura ed approfondimento.
La formazione e le vicende delle società commerciali sono complesse e articolate. Il legislatore italiano ha tenuto fermo, nel Codice civile del 1942, il principio del numero chiuso delle società commerciali. Non era un principio né peregrino né irrazionale. Esso significava che chi intende costituire una società commerciale deve adottare uno dei tipi predisposti dalla legge. Rispondeva, e risponde, ad apprezzabili obiettivi di certezza sia dei soci in ordine alla disciplina cui si assoggettano scegliendo un certo tipo piuttosto che un altro, sia di coloro che intrattengono rapporti con una società e hanno interesse a conoscere la distribuzione delle competenze, i poteri di chi tratta, il regime della responsabilità: a sapere insomma con chi hanno a che fare.
La legge offriva d'altro canto, come si è visto, un insieme diversificato di opportunità, capace, almeno sulla carta, di soddisfare un'ampia gamma di bisogni e di domande da parte degli operatori (v. Greco, 1959). Senonché l'evoluzione dell'economia capitalistica è stata così incalzante ed innovativa da porre in discussione categorie tradizionalmente recepite e anche, in ultima analisi, la tipicità. Molti abiti si sono rivelati troppo attillati. Gli occhiali del giurista sono stati costretti a spaziare su un universo in effervescenza.
I venti del cambiamento non hanno investito in pari misura le società commerciali. È presumibile che ciò dipenda dalla loro genesi, precapitalistica quella della società in nome collettivo e della società in accomandita semplice, postcapitalistica - dal capitalismo mercantile secentesco in poi - quella delle altre società. Le origini della società in nome collettivo si collocano tra l'XI e il XIII secolo. Sua capostipite diretta è stata la compagnia medievale (v. Goldschmidt, 1891; v. Scialoja, 1927; v. Santarelli, 1989; v. Hilaire, 1986), che ha rappresentato, non a caso nel periodo della rinascita economica successivo all'anno Mille e in concomitanza con quella che Tom Kemp ebbe a definire la rivoluzione mercantile del Medioevo, un salto di sostanza e di qualità rispetto a istituti già noti e praticati nell'antichità, quali la societas romana e la commenda. Alla societas, caratterizzata dal suo essere un rapporto contrattuale puramente interno, senza un patrimonio comune e autonomo distinto da quello dei soci; alla commenda, il cui tenue tessuto associativo era volto a finalità essenzialmente speculative, con una parte - lo stans o commendator - in veste di finanziatore, l'altra - il tractator o commendatarius - di gestore dell'affare.
La compagnia nasceva dall'unione delle forze e degli apporti di due o più operatori economici (artigiani o mercanti), che inizialmente condividevano anche mensa e companatico (compagni, dal lat. med. companio, composto di cum e panis). Avrebbe trovato un fertile terreno di sviluppo nella trasformazione in società delle comunioni familiari tre-quattrocentesche. Firenze e la casa Medici ne furono le antesignane.
Un secondo punto di emergenza della collettiva è stato presumibilmente rappresentato dalla società germanica di mano comune (Gesellschaft zur gesamten Hand), anch'essa contrassegnata da un analogo cammino evolutivo dalla comunione alla società, allorquando, morto l'Hausvater, i suoi discendenti utilizzassero lo schema comunitario per l'esercizio, in mano comune per l'appunto (Gesamthand), di un'attività economica.
Si è a lungo discusso di primogeniture tra l'una e l'altra figura: una discussione probabilmente sterile di fronte alla complessità della formazione degli istituti del diritto commerciale ed alla molteplicità degli apporti che, spesso grezzi e frammentari, l'hanno accompagnata prima di giungere al prodotto finito. Non è quindi da escludere che anche la Gesamthand abbia offerto elementi costitutivi utili che, muovendo dalla stessa base - la comunione - e calati nell'humus giuridico germanico, hanno aperto, per così dire, la strada alla società collettiva tedesca; così come non è da escludere che la societas romana abbia offerto spunti strutturali alla compagnia. Gode nondimeno del più alto grado di attendibilità l'ipotesi che lo schema che sin dall'inizio più si avvicinò alla nascente società in nome collettivo, combaciando con essa su punti essenziali poi rimasti immodificati nel tempo, sia stato quello della compagnia. Esso ne ha costituito pertanto il punto di riferimento più accreditato. Perfezionandosi, tale schema si è travasato tel quel nell'ordinamento societario capitalistico, che lo ha conglobato in sé e, con qualche ritocco razionalizzatore, ne ha fatto uno degli strumenti più diffusi e utili per l'esercizio di un'impresa collettiva su base personale.
La stessa sorte ha 'subito' la società in accomandita semplice, cioè il secondo tipo oggi praticato di società commerciale personale, che della collettiva è stato, se non la derivazione (v. Goldschmidt, 1891; v. Scialoja, 1927), la variante capitalistica. Introdotta nel 1400 (il primo statuto che la regola è fiorentino, e risale al 1408) essa dava un'efficace risposta al bisogno di raccogliere risorse su più ampia scala invogliando chi ne disponeva a fornirle; avrebbe consentito ad aristocratici e funzionari regi di esercitare il commercio senza assumere la veste, loro vietata, di commercianti (v. Montalenti, 1985). La figura dell'accomandante, socio investitore e non amministratore, avrebbe realizzato questo obiettivo dando consistenza, in chiave societaria, alle evanescenti trame della commenda.
Come si è già accennato, la società in accomandita semplice protendeva le sue arcate verso l'impresa capitalistica. È stata perciò subito utilizzata da quei mercanti cui i panni della compagnia cominciavano a farsi stretti. Tra essi, significativamente, Cosimo e Lorenzo de' Medici che, già nel 1422, costituivano un'accomandita, in qualità di accomandanti insieme a Ilarione de' Bardi, con Rosso di Giovanni de' Medici e Fantino di Fantino de' Medici accomandatari.
Lo sviluppo delle società commerciali di persone si è fermato qui. Trasferite 'armi e bagagli' negli ordinamenti a economia di mercato, esse ne rappresentano tuttora una parte quantitativamente cospicua. Sia pur in concorrenza con la società a responsabilità limitata, soddisfano, come si notava all'inizio, esigenze di agilità ed elasticità operative proprie delle piccole e medie imprese. Trovano vasti spazi applicativi là dove l'attività economica sia fisicamente 'tangibile' e il nucleo sociale circoscritto. Contribuiscono a formare quel fitto reticolo di imprese minori che, presente in numerose regioni italiane, esprime sul piano sia industriale che politico, spesso con forti spinte localistiche, una presenza dal rilievo nient'affatto trascurabile. Ma sono tramontati i tempi in cui la compagnia dei Medici esercitava un'influenza diretta sulla vita fiorentina, realizzando, con Cosimo, una perfetta simbiosi tra commercio, banca e governo della città e prefigurando in chiave medievale la versione moderna della grande impresa e della grande banca (v. De Roover, 1970).
Il capitalismo ha dettato le sue regole. Ha accolto nel suo seno gli istituti preesistenti; ma ha disegnato un nuovo ordinamento. Come ha scritto Jacques Ripert (v., 1951) "il créa son droit". In esso, nelle sue colonne portanti, principalmente nella società per azioni, sono trasmigrate le prerogative egemoniche delle compagnie medievali e rinascimentali di maggiori dimensioni.
Non è questa la sede per ripercorrere, tappa dopo tappa, il percorso genetico ed evolutivo della società per azioni. Anche qui è però essenziale non confondere i prototipi con il tipo generalizzatosi nel XIX secolo in Europa e negli Stati Uniti. L'albero genealogico della società per azioni è lungo, complesso e controverso (v. Sayous, 1902; v. Goldschmidt, 1891; v. Luzzatto, 1932-1948; v. Mignoli, 1960). È comunque indubbio che il primo modello in cui se ne possono riconoscere, se pur incompiuti e per certi aspetti approssimativi, i tratti fisionomici essenziali - la responsabilità limitata, la partecipazione per quote o azioni, la loro libera circolabilità, la divisione di competenze tra amministrazione e assemblea - sia stato costituito dalle Compagnie coloniali, olandesi (1602 e 1621) e inglese (1600).
"Ciò che occorre al capitalismo è un insieme di regole e di istituzioni che permettano di raccogliere e utilizzare i capitali e assicurino a chi li detiene il predominio nella vita economica e anche in quella politica", scriveva Ripert (v., 1951). Le compagnie furono la prima risposta efficace, e coerente con quanto richiedeva sul piano operativo il capitalismo mercantile del Seicento, a questa esigenza.
Era una risposta ancora intrisa di elementi pubblicistici poiché legata a filo doppio al regime del privilegio, consustanziale alla 'filosofia' politica dei regimi assoluti, ma non per questo limitata nella sua forza d'urto economica, oggi diremmo imprenditoriale. La Compagnia olandese delle Indie Orientali era destinata - come lo fu, su scala minore, quella posteriore delle Indie Occidentali - a un'opera gigantesca di penetrazione e conquista che abbracciò immensi territori, dal Golfo Persico all'Indonesia; e che implicava, oltre all'esercizio di un'attività capillare di sfruttamento dei paesi colonizzati, il finanziamento, attraverso una larga raccolta di mezzi sul mercato del risparmio, degli strumenti della colonizzazione, ossia flotte, eserciti, amministrazioni civili e della giustizia. Essa era investita, pertanto, di poteri sovrani che le derivavano dall'octroi e dall'avallo del principe, e quindi dalla veste di persona giuridica pubblica in cui si travasavano ed esprimevano alcune essenziali prerogative dello Stato olandese. Un destino non dissimile ebbe la East India Company che, in un indisgiungibile intrico tra interessi economici e politica coloniale, creò le premesse della conquista dell'India e della formazione dell'Impero britannico.
La società per azioni del XVII secolo è stata, si è detto, uno strumento per mobilitare le risorse private al servizio del sovrano: ma anche lo strumento per creare un poderoso centro di potere economico e politico, e quindi, mutatis mutandis, un'anticipazione di quella che sarebbe stata la grande società azionaria contemporanea. "Il sorgere della moderna società per azioni - scrivevano sessantacinque anni or sono in un saggio rimasto giustamente famoso Adolf Berle e Gardiner Means (v., 1932) - ha portato a una concentrazione del potere economico tale da permetterle di competere da pari a pari con lo Stato moderno: potere economico contro potere politico, entrambi forti nei rispettivi campi". Ebbene, a parte quest'ultimo inciso che qualche dubbio potrebbe legittimamente sollevare, le compagnie coloniali furono, già nel Seicento, uno Stato nello Stato; Stato che gli amministratori della Compagnia olandese delle Indie Orientali potevano permettersi di così apostrofare: "Le colonie delle Indie Orientali sono degli acquisti fatti non dallo Stato ma da privati commercianti, che possono venderle a chi desiderano, persino al re di Spagna o a un altro nemico delle Province Unite" (il nascente regno di Olanda; v. Mignoli, 1960).
Dopo il Seicento le compagnie ebbero momenti di splendore e di decadenza; per gli abusi che con esse si consumarono a danno di sprovveduti risparmiatori subirono, in Inghilterra, provvedimenti restrittivi della loro libera costituzione (il Bubble act del 1720). Il decollo della società per azioni contemporanea non fu né rapido né rettilineo. Non lo fu durante il lungo arco di tempo in cui si consumò quella straordinaria serie di eventi che va sotto il nome di rivoluzione industriale, e nemmeno nell'ordinamento nato dalla Rivoluzione francese. La rivoluzione industriale vide ancora quali protagonisti gli individui - inventori, avventurieri, contraffattori, sognatori - più che l'anonima etichetta delle compagnie, mentre la Rivoluzione francese guardò con diffidenza al regime di privilegio di cui avevano fruito le compagnie e alle sue implicazioni monopolistiche.
Ma neppure in quell'era di solitari titani e di economia in sviluppo vennero meno la funzione propulsiva e la vocazione macroimprenditoriale delle compagnie. Loro compito precipuo fu dare strumenti giuridici adeguati alle prime banche private moderne e supportare, con la costruzione delle infrastrutture di base (porti, canali, vie di comunicazione), la gigantesca trasformazione tecnologica e sociale indotta nell'Europa occidentale dalla rivoluzione industriale.
Di questa trasformazione e delle successive fasi, di cui determinante quella americana, e perciò della formazione del capitalismo industriale e finanziario che ne scaturirono, la diretta erede delle Compagnie coloniali sarebbe stata nell'Ottocento lo strumento per eccellenza, la carta vincente di ogni intrapresa che dovesse coniugare limitazione della responsabilità, circolabilità delle azioni e reperibilità di risorse adeguate: il facsimile cui si sarebbero poi ispirate le altre due società di capitali (società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata).
Di qui le ragioni del suo successo: che portò negli Stati Uniti la società per azioni (corporation) a essere il meccanismo preferito delle attività imprenditoriali, anche delle più modeste, e soprattutto ad esercitare un crescente richiamo presso il pubblico dei risparmiatori. Negli anni quaranta dell'Ottocento la New York Central Railroad aveva 2.445 soci. Nel 1880 la Pennsylvania Railroad ne avrebbe avuti 12.000. Negli Stati Uniti, dove la società a responsabilità limitata non è mai stata introdotta, la corporation sarebbe rimasta la bonne à tout faire dell'impresa capitalistica, utilizzata anche per le formazioni minori e personalizzate (la close corporation). Ovunque, in puntuale collegamento con le origini, la società per azioni sarebbe stata, nelle sue varie denominazioni (société anonyme, company, Aktiengesellschaft), la forma tipica della grande impresa e pertanto il punto di forza dell'economia di mercato, di cui ha contrassegnato, in coerente contrappunto alla sua evoluzione, le progressive stratificazioni, le metamorfosi, la creatività strumentale. A differenza di quel che è accaduto per la società in nome collettivo e per l'accomandita semplice, l'espressione 'società commerciale' ha così assunto, nell'ambito della società per azioni, e più genericamente delle società di capitali, nuovi e spesso polivalenti significati.
Sarebbe ingannevole non tenerne conto. Osservata in vetrino la società per azioni parrebbe essere sempre eguale a se stessa, o pressapoco. Di fatto, essa è sempre diversa da se stessa (v. Galbraith, 1967).
Se di piccole e medie dimensioni funziona all'incirca come una società a base personale. Il suo apparato organizzativo - assemblea, amministratori, sindaci - costituisce una sovrastruttura più o meno ingombrante, che si deve formalmente rispettare quale prezzo della limitazione di responsabilità connessa al riconoscimento della personalità giuridica e dei vantaggi che questo tipo societario offre a chi lo adotta: ma che è sostanzialmente temperabile da modalità familiari di gestione o da patti collaterali tra i soci che ne regolano il funzionamento (sindacati di voto). Sicché le austere assise assembleari possono risolversi in un mero rito cerimoniale. La società stessa può risultare poco distinguibile da una società a responsabilità limitata a partecipazione ristretta e chiusa e financo, se non fosse per l'assenza degli accomandatari, da una società in accomandita per azioni.
Tutt'altro scenario si apre sulla società per azioni di grandi dimensioni e a capitale diffuso. Già negli anni trenta di questo secolo dieci fra le maggiori società americane annoveravano un numero di azionisti superiore alle 100.000 unità. Erano il preludio delle società per azioni giganti, con centinaia di migliaia di soci (v. Baran e Sweezy, 1966). Costituivano la premessa e la base di quella separazione tra proprietà e controllo, tra possesso azionario e potere che ne sarebbero state la prerogativa saliente.
Lo sparpagliamento delle azioni tra una moltitudine di risparmiatori avrebbe infatti consentito a minoranze qualificate - capitani di industria, famiglie, speculatori, finanzieri - di controllare le assemblee delle grandi società, rendendo inoffensive le maggioranze disorganizzate dei piccoli investitori. Avrebbe concentrato nelle mani dei managers, espressione diretta o indiretta degli azionisti di comando, l'esercizio di prerogative quasi sovrane e autoperpetuantisi (v. Berle e Means, 1932; v. Berle, 1959). Accadeva nelle grandi compagnie coloniali, la cui struttura era anche formalmente oligarchica: non vi era dunque ragione perché non accadesse nella grande società per azioni contemporanea.
L'alienazione del piccolo azionista è ormai un fenomeno generalizzato; anche nella molto reclamizzata public company, in cui la distribuzione capillare delle azioni propizia la formazione di forti gruppi 'di riferimento'. Se pur si preveda, come nei provvedimenti di privatizzazione delle imprese pubbliche italiane, che i singoli pacchetti azionari siano contenuti entro una certa percentuale, è pressoché fatale, fisiologico e strumentale ad una efficiente e stabile gestione imprenditoriale che i loro detentori (normalmente gli stessi gruppi che dominano l'economia) si coordinino e coalizzino per esercitare uniti una funzione di comando.
Questa logica evoluzione del potere non è sostanzialmente messa in discussione neppure dalla sempre più massiccia presenza (massiccia negli Stati Uniti, assai meno nel nostro paese) di investitori istituzionali: assicurazioni, fondi pensione e di investimento. Tali investitori perseguono l'obiettivo di una sana, prudente e redditizia amministrazione; non però lo scopo di interferire, se le regole sono osservate, nel governo della società, che essi controllano ma non esautorano e non hanno interesse a esautorare.La grande società per azioni è normalmente quotata in borsa (e comunque in mercati regolamentati). La borsa costituisce infatti lo strumento principale per collocare azioni di nuova emissione; il mercato dove si trattano su larga scala, se ne fissano i prezzi, si registrano, sotto le spinte della speculazione nazionale e internazionale, le oscillazioni dei valori.
La quotazione in borsa comporta l'assoggettamento della società ad una particolare disciplina, che va sempre più arricchendo quella codicistica con una corposa normativa speciale intesa non a caso a tutelare sia le minoranze che gli investitori che convogliano i loro risparmi verso le azioni con la correttezza e la trasparenza della gestione e delle operazioni. In Italia le società quotate sono sottoposte alla vigilanza della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) ed a restrizioni normative quando ne sia posta a repentaglio la consistenza patrimoniale: tale il divieto delle partecipazioni incrociate.
Dalla grande società per azioni al gruppo il passo è breve. Il gruppo rappresenta la versione aggiornata della società per azioni gigante (v. Baran e Sweezy, 1966). Alla stirpe delle solitarie dominatrici del mercato si sono affiancate le costellazioni articolate di imprese, governate da una società madre, controllante a sua volta, secondo proiezioni piramidali e a raggiera, una o più società figlie, nipoti, pronipoti, consanguinee e affini. Senza mutare la sostanza né modificare gli equilibri del potere, il gruppo ha realizzato un modo diverso e più efficace di organizzare l'attività imprenditoriale scomponendola giuridicamente in altrettante unità operative soggette alla direzione unitaria della società capogruppo. Ha aperto vasti orizzonti ed ha consentito la formazione di imperi sui quali, per dirla con Carlo V, non tramonta mai il sole.
Il segreto del successo della formula sta nella felice combinazione del pluralismo giuridico delle componenti con l'unità economica del tutto. La segmentazione in entità indipendenti, ognuna con la sua etichetta e con la sua personalità giuridica, avrebbe permesso alle singole pedine di muoversi e di agire autonomamente, adattandosi, come avviene nei gruppi multinazionali, alle talora ispide realtà locali; il loro assoggettamento alla direzione unitaria della controllante avrebbe dato loro coesione operativa piegandole al perseguimento di strategie comuni. Il gruppo non è necessariamente costituito da sole società azionarie; possono farne parte imprese di vario tipo o società a responsabilità limitata. Ma il perno della sua struttura organizzativa è rappresentato dalla società per azioni.
Il gruppo pone ulteriori problemi di tutela delle minoranze azionarie e dei creditori delle società dipendenti, potenzialmente sacrificabili sull'altare dell'interesse generale di gruppo, e della capogruppo: problemi che le varie legislazioni hanno affrontato più o meno globalmente e che si trovano tuttora in parte imbrigliati dal lento cammino di una proposta di direttiva comunitaria (la nona).
L'Italia non ha una disciplina organica dei gruppi; la disciplina vigente si limita a norme specifiche, che prevedono, tra l'altro, l'obbligo della redazione del cosiddetto bilancio consolidato. Il gruppo solleva inoltre delicate questioni sul piano degli equilibri economici e politici e, in ultima analisi, dei suoi rapporti con la 'società civile'.
Società per azioni giganti e gruppi di imprese hanno infatti aperto il sipario su un imponente scenario di contese e di conflitti tra i grandi potentati per la conquista della supremazia produttiva e finanziaria, conflitti ai quali la mondializzazione dell'economia ha dato dimensioni planetarie. Un nuovo strumentario giuridico ha arricchito gli arsenali tradizionali. Nuovi termini sono entrati nel vocabolario societario: OPA, leveraged buy out, insider trading, conglomerate. Con il lancio di un'Offerta Pubblica di Acquisto (OPA) ci si può impadronire del pacchetto di controllo di un'altra società e, attraverso esso, di un gruppo. Con il leveraged buy out si realizza la versione attualizzata della guerra di corsa. Il meccanismo è semplice ed ingegnoso. Viene costituita, con modesto capitale, una società detta raider. La raider ottiene un finanziamento bancario che le consente di acquisire il controllo di un'altra società, detta target o bersaglio. A operazione compiuta le due società si fondono e il prestito viene restituito utilizzando i mezzi patrimoniali della target. L'arrembaggio si consuma senza spargimento di sangue, ed esborso di denaro, per l''equipaggio' che lo compie. A farne le spese sono se mai le minoranze della target.
Non meno avventuroso è l'insider trading. Chi, grazie alla sua posizione, è istituzionalmente o occasionalmente a conoscenza di notizie sociali riservate può farne uso a proprio profitto con tempestivi e fruttuosi acquisti o smobilizzi di titoli. Oggi l'insider trading è penalmente perseguito, ma è forse prematuro azzardare la previsione che il suo ciclo sia esaurito. Le difficoltà di prova possono mettere in forse l'efficacia della disciplina.
In tutti questi casi la società per azioni non cambia formalmente pelle. Ma si inserisce in giochi di potere o in speculazioni che avvengono sopra la testa dei normali investitori, che da essi sono normalmente estraniati e ne sono, al limite, ignari. Si ha un elemento di turbativa anche quando non c'è per essi un danno diretto. L'insider trading fa guadagnare chi lo pratica, non necessariamente perdere chi ne è escluso. È comunque un grave sintomo di scorrettezza e di inaffidabilità dei suoi protagonisti.
Su un'analoga lunghezza d'onda si colloca il fenomeno delle conglomerate. Qui l'acquisto del controllo di una società avviene non al fine di costituire un gruppo o di realizzare una politica comune affinché la società acquirente assuma la veste di holding operativa (ad esempio la FIAT S.p.A.), ma per condurre in porto un buon affare ripiazzando, dopo un adeguato maquillage, il pacchetto di maggioranza sul mercato. Forse che, anche in questo caso, l'azionista di minoranza si trova nella stessa situazione del socio di una 'normale' società azionaria?
Il passo ulteriore verso la straniazione del piccolo azionista, ma con implicazioni di assai più vasta portata, è rappresentato dai gruppi multinazionali, detti così perché le imprese che ne fanno parte operano in paesi diversi sotto il controllo di una società madre situata in uno di essi.
La multinazionale - come abbreviatamente la si denomina - costituisce la variante estrema del tipo società commerciale. Pone, oltre ai normali problemi di disciplina delle grandi società e dei gruppi - trasparenza dell'operato e dei bilanci, tutela delle minoranze e dei creditori -, problemi che l'Unione Europea va gradatamente affrontando, una più delicata e complessa questione di fondo: la questione cioè del suo impatto sull'economia, sulla vita sociale, sulla politica degli Stati in cui opera.
Il gruppo multinazionale porta alle sue estreme conseguenze quella divaricazione tra i modelli ed entro i modelli cui si è più volte accennato. Conferma il dato sociologico del ruolo centrale assunto nell'ordinamento capitalistico dalle società per azioni, che, se pur costituiscono una minoranza delle imprese collettive operanti sul mercato, sono lo strumento essenziale di penetrazione in esso, di conquista della supremazia e di coagulazione dei raggruppamenti imprenditoriali che dominano l'economia e, posando la spada di Brenno sulla bilancia del potere, suscitano interrogativi che vanno ben oltre i limitati orizzonti esegetici e sistematori del giurista.
In un suo libro del 1969 Ralph Miliband denunciava l'azione insistente "svolta dalle società anonime per collegare non soltanto i loro prodotti, ma anche se stesse e, più in generale, il sistema capitalistico, con valori e norme approvati dalla società - integrità, fidatezza, sicurezza, amor paterno, innocenza infantile, spirito di buon vicinato, socievolezza, ecc. - e naturalmente con tutti i desideri e gli impulsi che le ricerche motivazionali dei persuasori occulti possono ritenere utile rafforzare e sfruttare".
Di là dalla verve polemica dell'autore, e mutato quel che vi è da mutare, Miliband descriveva una situazione reale e di stringente attualità. Morto il filantropo ottocentesco, nel secolo attuale la filantropia è trasmigrata tra le funzioni sociali della moderna società per azioni. Isola o arcipelago che fosse, sola o in unione con altre società ed istituzioni, essa avrebbe finanziato ospedali, ricerca medica e scientifica, enti culturali, squadre e manifestazioni sportive, sponsorizzato il recupero e il restauro di edifici, affreschi, cupole, cattedrali; organizzato attività artistiche di ogni genere e specie, dalle piccole alle grandi mostre, tagliato nastri inaugurali, proposto modelli alternativi nella scuola e nell'università. Avrebbe orientato gusti ed opzioni con gli avvolgenti e totalizzanti strumenti della persuasione pubblicitaria.
Avrebbe condizionato le scelte governative, sostenuto campagne elettorali e organi e canali di informazione, dalla stampa alla televisione. Prima delle elezioni britanniche del 1964, "le singole industrie siderurgiche e la Steel Federation of Britain spesero 1.298.000 sterline per una campagna contro la nazionalizzazione della siderurgia" (v. Miliband, 1969; tr. it., p. 249). Lobbies economiche e finanziarie sono ab immemorabili il serbatoio cui attingono fondi per le loro spese elettorali i due grandi partiti americani. Dove l'erogazione di denaro è vietata o si inaridiscono i canali dei contributi diretti o tangentizi provvedono i mass media a formare o a orientare scelte o indirizzi economici, politici, sociali. Oppure è lo stesso leader aziendale a scendere in campo mischiando nel partito-azienda bene pubblico e interessi privati.
La presa sull'economia e sulla vita collettiva dei gruppi multinazionali accresce esponenzialmente la rilevanza di questi problemi. Dovrebbero far riflettere le cifre sulla consistenza finanziaria e sul giro di affari di alcuni di essi. Secondo statistiche recenti la IBM ha una capitalizzazione di Borsa pari a 76 miliardi di dollari e un fatturato di 54; la Tokio Electric Power ha una capitalizzazione di 57 miliardi di dollari e un fatturato di 32. Nel 1995 i duecento maggiori gruppi realizzavano il 33,2% del prodotto lordo mondiale (v. Petrella, 1995). Se pur è vero che, viste individualmente, sono poche le imprese che si possono considerare onnipotenti, "attraverso i loro collegamenti esse hanno costituito una serie di reti che esercitano un dominio effettivo sul mondo" (ibid.). Rappresentano la punta avanzata di una nuova colonizzazione con la quale si dovranno misurare la capacità di contenimento e la volontà politica, di programmazione e di controllo, degli Stati democratici e dei loro ceti dirigenti.
Nell'attuale ondata di acritica celebrazione delle virtù del mercato e della deregulation questa capacità e questa volontà non sembrano essere per la verità molto spiccate. Tuttavia la questione esiste e non può essere indefinitamente elusa.
La diversificazione, dentro il modello, dei fenomeni societari non è un fatto rilevabile solo in apicibus.
La regola del numerus clausus è frequentemente messa in discussione - oltre che dalle variabili della prassi di cui si è innanzi discorso - da congegni giuridici e da interventi normativi che incidono in varia misura sulla struttura e sull'organizzazione della società, sia essa per azioni o a responsabilità limitata.
Si è accennato alla diffusione dei patti - detti sindacati azionari o di voto - con cui i soci che esercitano il controllo di una società, oppure intendano realizzarlo o consolidarlo, si obbligano a regolare insieme le fasi principali della gestione sociale, predeterminandone le opzioni fuori dalle sedi naturali dell'assemblea e del consiglio di amministrazione. Si tratta di accordi spesso sofisticati e complessi il cui risultato ultimo è di creare intelaiature organizzative parallele a quelle disegnate dalla legge per le società di capitali. Essi hanno il pregio di assicurare solidità e stabilità agli azionisti o quotisti di comando ponendo le decisioni strategiche e la gestione al riparo da azioni di disturbo. Presentano però l'inconveniente di svuotare di contenuto il funzionamento dell'organo sociale per eccellenza, l'assemblea, ridotta a cassa di risonanza di decisioni prese altrove. Gli azionisti di minoranza, che già contano poco, sono resi da essi del tutto impotenti. Il tipo è sostanzialmente sfigurato.
Della validità dei sindacati molto si è discusso in passato; ciò non ne ha impedito la proliferazione, che ha avuto anzi la sua 'benedizione' ufficiale in numerose recenti leggi speciali. Queste, pur non pronunciandosi esplicitamente sui limiti di liceità del patto, ne danno per scontata la presenza sotto svariati profili (ad esempio come strumenti di controllo di una società) e sembrano anzi accentuare, negli indirizzi riformatori più recenti, le spinte verso la loro legittimazione.
Un punto debole del sindacato di voto sta nell'efficacia meramente obbligatoria della convenzione, in altri termini nel fatto che la sua mancata osservanza sia priva di ripercussioni concrete sul voto dato in assemblea o nel consiglio di amministrazione. Il 'reprobo' può essere condannato a risarcire i danni ma il voto rimane valido ancorché difforme dagli impegni assunti (v. Cottino, 1997). Una soluzione più drastica consiste nell'introdurre nello statuto clausole atipiche, devianti cioè esplicitamente dal tipo. Senonché la libertà di enuclearle - un tema tentante è quello delle manipolazioni della responsabilità - urta contro la rigidità della disciplina delle società di capitali.
Più aperta a soluzioni elastiche è probabilmente, per la sua vocazione 'personalistica', la società a responsabilità limitata; ed infatti vi sono spiccate tendenze a proporla (v. Zanarone, 1985).
Non minore audacia ha mostrato il legislatore nel maneggiare i modelli. Lo schema della società di capitali, in particolare quello della società per azioni, è stato liberamente utilizzato per fini diversi da quelli perseguiti dall'imprenditore commerciale ordinario. Ciò è avvenuto modificando tout court il tipo con la previsione di società senza scopo di lucro (v. Marasà, 1984) o di società strumentali alla realizzazione di scopi di politica economica (le cosiddette società legali; v. Ibba, 1992), o comunque non coincidenti con quelli delle società commerciali ordinarie: dalle società consortili, alle società di gestione dei fondi di garanzia assicurativa, alle Società di Investimento Mobiliare (SIM), alle Società di Investimento Mobiliare a CApitale Variabile (SICAV), alle società di gestione dei fondi di garanzia cooperativa.
La diffusione delle società di diritto speciale è la prova più eloquente del successo della formula società per azioni, resa dalla sua duttilità particolarmente appetibile per l'operatore pubblico, che se ne è servito a piene mani, anche senza modificarne formalmente o modificandone marginalmente l'ordinamento, per intervenire quale imprenditore nell'economia.
È il fenomeno che va sotto il nome di Partecipazioni statali. Esso è consistito nell'ingresso indiretto dello Stato, tramite le due holdings IRI ed ENI, nel capitale di società per azioni private, operanti in settori nevralgici: finanza, siderurgia, metallurgia, cantieristica, navigazione, autostrade, idrocarburi. Ha profondamente inciso sul panorama dell'imprenditoria italiana, scrivendo pagine di storia economica di vario segno, ma sempre di significativa rilevanza (v. Cafferata, 1993; v. Cottino, 1998). Oggi i due grandi gruppi facenti capo all'IRI e all'ENI sono in fase di smantellamento: uno smantellamento (o quanto meno un radicale ridimensionamento) che passa attraverso la trasformazione in società per azioni dell'IRI e dell'ENI e la collocazione sul mercato delle azioni delle società controllate. Il vento delle privatizzazioni ha investito, in prosieguo di tempo, prima gli enti creditizi poi, allargandosi a macchia d'olio, l'ENEL, l'IMI (Istituto Mobiliare Italiano), l'INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni), le Ferrovie, le Poste.
Al centro delle metamorfosi in corso sta sempre, comunque, la società per azioni. Al centro anche degli sviluppi razionalizzatori ed armonizzatori del diritto comunitario europeo che di tali metamorfosi è stato il principale e più fedele interprete e catalizzatore. Dopo una prima miniriforma 'interna' del 1974 (la legge n. 216) è infatti attraverso le direttive e i regolamenti della Comunità che si sono risistemati in chiave unitaria alcuni punti nevralgici della disciplina azionaria e del mercato mobiliare; si sono raffinati gli strumenti della ristrutturazione economica e giuridica dell'ordinamento capitalistico europeo; si è messo ordine, sia pur attraverso una torrentizia profluvie legislativa, nell'esistente.
A partire dal 1969 sono state attuate importanti direttive in tema di tutela dei terzi contraenti, di costituzione e di validità della società, di conferimenti, di offerte pubbliche di vendita e di acquisto delle azioni, di bilanci, di fusioni, di scissioni e di controllo. Altre direttive (quelle sulla struttura della società e sui gruppi) sono tuttora in cantiere.
Mentre si licenzia questo lavoro è in dirittura di arrivo un importante provvedimento di riordino e di parziale riforma del mercato mobiliare, delle operazioni di intermediazione, dei suoi strumenti (SIM, SICAV, Fondi comuni di investimento), della vigilanza (Banca d'Italia, CONSOB); esso nel contempo ritocca e riformula, in chiave garantistica e di trasparenza, per le società quotate in mercati regolamentati, la disciplina del controllo sindacale e della revisione contabile nonché altri importanti aspetti della normativa societaria (partecipazioni incrociate, offerte pubbliche di acquisto, azioni di risparmio, assemblee, deleghe, sindacati di voto, insider trading).
Anni or sono un autorevole studioso, constatando il progressivo inaridimento delle fonti di canalizzazione delle risorse finanziarie dalla classe borghese alle imprese, aveva preconizzato un ruolo calante della società per azioni nell'economia. Gli eventi hanno dato alla previsione una piega diversa. Il calo, se vi è stato, è stato solo quantitativo, nel senso che ha investito il rapporto numerico, nell'ambito delle società di capitali, tra società per azioni e società a responsabilità limitata, rapporto che è diventato di 1 a 10. Qualitativamente, la società per azioni resta al centro delle strategie e delle scelte di fondo dell'economia e, come si è visto, anche delle attenzioni sistematrici del legislatore.
È diminuita, forse, l'importanza degli investimenti diretti delle famiglie, ma è corrispondentemente aumentato il peso degli investitori istituzionali. Le privatizzazioni si propongono dichiaratamente del resto il traguardo di una più capillare diffusione dell'investimento in azioni (il cosiddetto azionariato popolare).
Certo, le frontiere delle società commerciali sono divenute più mobili che in passato. Ma ancora e sempre di tale mobilità la società per azioni è stata una punta di diamante: il che è sintomo di buona salute e non di declino. Altri sono, se mai, come si è accennato, i problemi. Nel gigantesco acquario delle società commerciali nuotano pesci grandi, medi e pesciolini. È perfettamente naturale che essi si divorino l'un l'altro. Più intriganti sono - e si è cercato di renderne conto - gli interrogativi che il prepotere degli uni sugli altri e sulla società pone allo Stato democratico in termini di contenimento e di controllo.
Anche la munita fortezza della limitazione di responsabilità ha suscitato dubbi e perplessità a misura che da tale principio cardine del diritto societario possano uscire penalizzati interessi di creditori, di terzi, di cittadini e anche di soci (v. Weigmann, 1997). Ricorrenti disastri ecologici e clamorosi dissesti lo chiamano ricorrentemente in causa e sembrano giustificare gli sforzi dei giuristi di superarlo, to lift - si dice - the veil of incorporation. Forse, alle soglie del duemila, qualche certezza comincia a essere scalfita. Sovente, il re è nudo. Pare corretto non ignorarlo. (V. anche Commercio; Impresa; Titoli di credito).
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