Abstract
La nuova definizione codicistica della società cooperativa, introdotta con la riforma del 2003, ribadisce che essa si differenzia dalle società di capitali, strutturalmente per la variabilità del capitale sociale, funzionalmente per la mutualità.
La voce esamina le numerose criticità sistematiche sollevate dalla funzione mutualistica e sottolinea, in particolare, come la riforma abbia sì inteso accentuare la centralità sia dell’attività sia dello scopo mutualistico delle cooperative ma ciò senza trascurare le esigenze di una loro adeguata patrimonializzazione e di un rafforzamento del ‘sistema’ di cui esse fanno parte.
La comprensione del quadro normativo in materia di cooperative richiede la preliminare considerazione di due circostanze. La prima è che, oltre alla normativa sostanziale, l’art. 45, co. 1, Cost. («La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli il carattere e le finalità») ha generato un’infinità di norme agevolative di vario tipo, fiscali e non, che sono sparse in una moltitudine di contesti legislativi, nazionali e regionali e che suscitano spesso controversie interpretative, non essendo sempre chiaro se una disposizione di legge abbia valenza generale o debba essere osservata solo per poter fruire di una determinata agevolazione (v. anche infra § 14). La seconda è che – sia nell’ambito della disciplina sostanziale sia nell’ambito di quella agevolativa – trovano posto sia norme di carattere generale, applicabili a tutte le cooperative, sia norme settoriali, applicabili solo alle cooperative aventi un particolare oggetto sociale. Ne conseguono problemi di coordinamento sia livello di fattispecie ( cfr. art. 2520, c.c., su cui v. infra § 11) sia a livello di disciplina. Riguardo a quest’ultimo aspetto, per le cooperative regolate da leggi settoriali si rinvengono diverse regole di coordinamento con la disciplina generale, poiché è prevista: talora la diretta applicazione o disapplicazione delle norme generali (ad esempio, per la diretta applicazione di alcune disposizioni generali della l. 31.1.1992, n. 59 alle banche di credito cooperativo v. l’art. 21, co. 3, l. cit. mentre, per la disapplicazione di tutta la legge alle banche popolari, alle cooperative di assicurazione e alle mutue assicuratrici v. l’art. 21, co. 3, della stessa legge); talaltra l’applicazione nei limiti della compatibilità con la disciplina di settore, criterio, quest’ultimo stabilito dall’art. 2520, co. 1, c.c., per quanto riguarda l’applicabilità delle norme del Titolo VI del Libro V del codice alle cooperative regolate dalle leggi speciali.
Secondo l’art. 45 Cost., la cooperazione svolge una funzione sociale particolarmente meritevole (se e) in quanto connotata da una duplice caratteristica: la mutualità e l’assenza di fini di speculazione privata.
Della cooperazione così identificata il legislatore ordinario dovrà, secondo la direttiva del costituente, promuovere e favorire l’incremento con i mezzi più idonei ed assicurare con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. Da tale disposizione, come si è già sottolineato, trae fondamento anche la nutrita legislazione in materia di agevolazioni (infra § 14) e di controllo (infra § 15). Emerge, inoltre, la tendenziale contrapposizione tra la mutualità nei suoi molteplici significati e il fine di speculazione privata, proprio di altri fenomeni associativi e, anzitutto, della società lucrativa ex art. 2247, c. c.
La ‘cooperazione’ cui allude l’art. 45 Cost., può essere osservata da due prospettive: da quella dell’attività, presentandosi la sua disciplina come forma organizzativa dell’impresa a vocazione mutualistica, oppure da quella dei soggetti e della loro autonomia contrattuale, configurandosi allora come un particolare contratto associativo in cui i partecipanti, attraverso lo svolgimento in comune di un’attività d’impresa mutualistica, mirano al raggiungimento di uno scopo comune mutualistico.
Nella prima prospettiva sembrava porsi l’originario art. 2511, c.c., secondo cui le imprese con scopo mutualistico potevano costituirsi in forma di società cooperativa, mentre la seconda prospettiva sembra essere privilegiata dal nuovo art. 2511 – così come formulato a seguito della riforma del diritto societario ex d.lgs. 17.1.2003, n. 6 – che identifica nello scopo mutualistico un carattere qualificante della cooperativa come società.
Infatti, la nuova definizione dell’art. 2511, da un lato qualifica la cooperativa come società – con ciò evidenziando come la prima condivida con la seconda alcuni aspetti della fattispecie (conferimento di beni per l’esercizio in comune di attività economica) e della disciplina – d’altro lato, segnala i tratti distintivi della società cooperativa rispetto alla società ordinaria o lucrativa ex art. 2247, c.c., individuandoli nella variabilità del capitale (di contro al capitale fisso, normalmente caratterizzante le società lucrative) e nello scopo mutualistico (di contro allo scopo di produzione e divisione degli utili proprio delle società lucrative). Non attiene, invece, invece, al profilo definitorio della fattispecie l’iscrizione presso l’albo delle società cooperative che è stata successivamente inserita nell’art. 2511 dall’art. 10, co. 1, l. 23.7.2009, n. 99.
Al di là di queste notazioni preliminari sul vecchio e sul nuovo art. 2511, si deve, però, sottolineare che, per comprendere la disciplina delle cooperative, occorre tenere conto di entrambe le prospettive, nel senso che, come tra poco si verificherà, non si possono spiegare le caratteristiche delle cooperative come società con scopo mutualistico se non tenendo conto della loro natura di imprese mutualistiche.
Mutualità è, quindi, termine ambivalente potendo essere riferito sia all’attività d’impresa sia allo scopo che si prefiggono i cooperatori. Sotto il primo profilo, l’impresa è mutualistica se dei beni e dei servizi da essa prodotti usufruiscono gli stessi cooperatori-organizzatori dell’attività d’impresa, benché la coincidenza produttore-consumatore non sia tale in senso giuridico; infatti, l’ordinamento attribuisce alla cooperativa-produttore una distinta soggettività giuridica rispetto ai cooperatori-consumatori o utenti (cfr. artt. 2523, co. 2, 2331 e 2518, c.c.).
Sotto il secondo profilo, lo scopo è mutualistico se i cooperatori si prefiggono di ottenere quei beni o servizi a condizioni più vantaggiose di quelle praticate dagli altri imprenditori operanti sul mercato. Si tratta, quindi, di uno scopo economico egoistico – cioè, dell’aspirazione ad un beneficio apprezzabile attraverso la comparazione con il diverso e deteriore trattamento che i cooperatori-utenti subirebbero se si procurassero quegli stessi beni o servizi sul mercato – destinato ad assumere, poi, caratteristiche diverse a seconda del tipo di attività imprenditoriale svolta dalla cooperativa. Così, nelle cooperative che operano secondo lo schema delle cooperative di consumo (procurandosi beni o servizi attraverso rapporti con il mercato e scambiandoli poi con i soci) e che, conseguentemente, dai soci ottengono i ricavi (cfr. art. 2512, n. 1 e art. 2513, lett. a, c.c.) lo scopo mutualistico si configura per i soci come un risparmio di spesa o di costo mentre nelle cooperative che agiscono secondo lo schema delle cooperative di produzione o delle cooperative di lavoro (procurandosi beni o servizi attraverso rapporti con i soci e scambiandoli poi con il mercato) e che, conseguentemente, con i soci sopportano i costi (cfr. art. 2512, nn. 2 e 3 e art. 2513, lett. b e c, c.c.) lo scopo mutualistico si configura, rispettivamente, o come sovraremunerazione del prodotto apportato alla cooperativa o come sovraremunerazione della prestazione lavorativa resa in suo favore.
I due profili della mutualità sono strettamente collegati nel senso che la realizzazione dello scopo mutualistico richiede lo svolgimento dell’attività mutualistica. I cooperatori non potranno, infatti, conseguire i benefici economici cui aspirano se, nella fase attuativa del contratto, non instaurano rapporti mutualistici con la cooperativa, cioè se non “consumano” i beni o servizi da essa procurati o se ad essa non apportano le loro prestazioni lavorative o i loro prodotti.
Lo scopo mutualistico in esame, cd. egoistico, può, poi, essere realizzato direttamente, qualora, all’atto dello ‘scambio’ dei beni o servizi con i soci, la cooperativa pratichi condizioni più vantaggiose di quelle di mercato, oppure indirettamente qualora la cooperativa redistribuisca successivamente il ‘vantaggio’, di cui i soci non hanno beneficiato all’atto dello scambio, effettuando i cosiddetti ristorni, cioè restituzioni proporzionali alla quantità e qualità degli scambi mutualistici (cfr. art. 2545-sexies, c.c.).
Tuttavia, lo scopo mutualistico non si traduce nel riconoscimento ex lege di un diritto soggettivo dei soci nei confronti della cooperativa né a vedersi praticare condizioni più vantaggiose direttamente all’atto dello scambio né a ricevere i ristorni (tranne che ciò sia previsto da un’apposita previsione statutaria). La cooperativa, quindi, non ha un corrispondente obbligo in tal senso né ha l’obbligo di praticare ai propri soci condizioni migliori di quelle applicate ai terzi qualora offra i suoi beni o servizi anche a questi ultimi (v. infra § 8).
Nella disciplina della società cooperativa, come in tutti i cosiddetti contratti associativi, è presente una componente organizzativa ed una funzionale. La prima si compendia in quell’insieme di regole che riguardano le decisioni attinenti allo svolgimento dell’attività d’impresa, stabilendo a chi spetta la competenza in ordine alla loro assunzione e secondo quali modalità; la seconda riguarda lo scopo che i partecipanti si prefiggono dallo svolgimento dell’attività d’impresa.
Per quanto riguarda la componente organizzativa, la disciplina della cooperativa recepisce, con talune varianti, il modello cosiddetto corporativo che caratterizza tradizionalmente la società per azioni. Infatti, gli organi sociali sono l’assemblea (artt. 2538-2541, c.c.), il consiglio di amministrazione (artt. 2524 e 2544, c.c.) e il collegio sindacale (art. 2543, c.c.) ma è consentita anche l’adozione dei cosiddetti modelli gestionali alternativi (cfr. artt. 2521, co. 3, n. 10, 2544, co. 2-3). La disciplina delle società di capitali funge, poi, da riferimento per colmare le lacune della normativa specifica, sia pure nei limiti della compatibilità : si applicherà normalmente la disciplina della s.p.a. (art. 2519, co. 1) ma nelle cooperative di più piccole dimensioni, per numero di soci e per consistenza patrimoniale, i soci potranno statutariamente optare per la disciplina della s.r.l. (art. 2519, co. 2, c.c.).
Sotto il profilo in esame, ciò che maggiormente distingue la società cooperativa dalle società di capitali a fine di lucro è la posizione del capitale sociale. Esso è variabile (infra § 13) e non funge da misuratore del potere decisionale dei soci in assemblea, poiché nelle cooperative vige la regola democratica (art. 2538, co. 2) del voto capitario (una testa - un voto) – regola che può essere attenuata (art. 2538, co. 2-4) ma mai del tutto soppressa – di contro alla regola plutocratica del voto proporzionale alla quota di capitale che caratterizza le società di capitali a fini di lucro (art. 2351, co. 1, e art. 2468, co. 2). Quest’ultima differenza si spiega anche per la diversità funzionale, poiché la remunerazione del capitale sociale tramite dividendi, pur essendo consentita anche nelle cooperative (infra § 8), non ne costituisce lo scopo principale. Per quanto riguarda la componente funzionale, infatti, il dato qualificante è costituito dallo scopo mutualistico egoistico (supra § 4). In effetti, il raggiungimento dello scopo mutualistico si contrappone allo scopo di lucro proprio delle società ordinarie, nel senso che presuppone, logicamente, la rinunzia o alla produzione o alla divisione degli utili: in tanto i cooperatori possono realizzare direttamente lo scopo mutualistico (supra § 4) in quanto la società, praticando condizioni più vantaggiose di quelle di mercato, rinunzi (in tutto o in parte) alla produzione di utili e in tanto i cooperatori possono realizzare indirettamente lo scopo mutualistico (supra § 4) in quanto la società, redistribuendo ai soci, sotto forma di ristorni, gli utili conseguiti a loro carico, rinunzi alla divisione degli stessi sotto forma di dividendi, cioè in modo proporzionale ai conferimenti di capitale.
Secondo l’opinione tradizionale più accreditata, la cooperativa si distinguerebbe dagli altri contratti associativi più importanti (associazioni in senso stretto, società lucrative, consorzi con attività esterna) in base alla componente funzionale della fattispecie, nel senso che nelle cooperative i soci perseguirebbero un particolare scopo comune: quello mutualistico-egoistico. Questo approccio suscita, però, una serie di interrogativi dal momento che l’esame della disciplina positiva evidenzia almeno quattro snodi critici, così riassumibili: a) attività e scopi mutualistici possono realizzarsi anche attraverso altri contratti associativi, quali associazioni in senso stretto e consorzi; b) la funzione della cooperativa si presenta complessa, non essendo la realizzazione dello scopo mutualistico-egoistico l’unico obbiettivo prefigurato dal legislatore; c) lo scopo mutualistico-egoistico non sempre si configura come scopo comune dei soci; d) tale scopo è del tutto assente in alcune cooperative.
Il primo problema (supra § 6, sub a), cioè quello della presenza della mutualità anche in altri contratti associativi, viene risolto, con riferimento al rapporto tra cooperative e associazioni in senso stretto, ravvisando in queste ultime un particolare limite della mutualità, la quale, diversamente che nelle cooperative, non potrebbe mai tradursi in una ripartizione dei risultati tra gli associati né in forma di ristorni né in forma di dividendi. Anche nella mutualità consortile viene individuato un limite, ricavabile dalla stessa definizione dell’art. 2602, c.c., e consistente nell’essere mutualità riservata ai soli imprenditori, aspiranti, attraverso la creazione di un’impresa consortile ausiliaria, ad un risparmio di costi relativamente ad una o più fasi del ciclo produttivo o distributivo delle rispettive imprese. Peraltro quest’ultima constatazione non sembra decisiva, dal momento che agli imprenditori non è preclusa l’utilizzazione della forma cooperativa (arg. ex art. 2538, co. 4, c.c.), con la conseguenza che per essi cooperativa e consorzio con attività esterna si presentano come forme associative diverse quanto a disciplina ma alternativamente utilizzabili per la realizzazione di un’identica funzione mutualistica.
Ancor più complicato si presenta il secondo problema (supra § 6, sub b). Esso nasce dalla constatazione che nelle cooperative il legislatore, oltre allo scopo mutualistico egoistico, da un lato ammette la produzione e divisione degli utili tra i soci con criteri capitalistici, d’altro lato impone la destinazione altruistica di una parte degli utili. La previsione di questi altri obiettivi – che scaturiscono da regole autonome per quanto riguarda la produzione e divisione degli utili, da regole principalmente eteronome per quanto riguarda la destinazione esterna di una parte degli utili – dipende essenzialmente da ragioni di ordine imprenditoriale, cioè dalla considerazione della cooperativa, per un verso e in generale, come forma organizzativa di un’attività d’impresa, per altro verso e in particolare, come struttura produttiva imprenditoriale appartenente ad un più ampio ‘sistema’ della cooperazione che, ex art. 45 Cost., deve essere promosso e incrementato.
In ordine al primo profilo, la cooperativa, in quanto impresa, deve potersi confrontare ad armi pari con le altre imprese ordinarie concorrenti sul mercato. A tal fine deve poter contare, da un lato, su un mercato di sbocco più ampio di quello costituito dai soli cooperatori, non potendo altrimenti beneficiare delle cosiddette economie di scala, d’altro lato, sulla possibilità di dotarsi di adeguati mezzi propri, essenzialmente tramite i conferimenti di capitale dei soci.
Questa possibilità sarebbe, però, vanificata e la cooperativa sarebbe condannata ad una perenne sottocapitalizzazione, se non si consentisse un’adeguata remunerazione dei conferimenti tramite la distribuzione di dividendi. Da qui le disposizioni che consentono alle cooperative, per mezzo di previsioni statutarie, sia di svolgere la loro attività anche con i terzi (art. 2521, co. 2) sia di ripartire gli utili realizzati anche sotto forma di dividendi (art. 2545 quinquies).
In ordine al secondo profilo, il rafforzamento del ‘sistema’ della cooperazione ex art. 45 Cost., si realizza non soltanto tramite un’ampia normativa di agevolazione e di sostegno ma anche con forme di finanziamento dall’interno del sistema stesso e ciò tramite vincoli imposti alle singole cooperative per quanto riguarda la destinazione sia di una parte degli utili netti annuali – che nella percentuale stabilita dalla legge devono essere devoluti ai Fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (ex art. 2545 quater, co. 2) – sia di una parte del patrimonio per il quale è prevista la stessa sorte in caso di trasformazione (art. 2545 undecies) e di scioglimento (art. 2514, lett. d).
La molteplicità degli obiettivi pone al legislatore il problema del loro rapporto, cioè della ricerca di un punto di equilibrio tra il perseguimento della causa del contratto in termini di attività e di scopo mutualistico e la realizzazione degli altri obiettivi, autonomi ed eteronomi. Al riguardo si tratta di conciliare la centralità dell’attività e dello scopo mutualistico con le suindicate esigenze di autofinanziamento della singola impresa – che richiedono la remunerazione del capitale dei soci sotto forma di dividendi – e di sviluppo del sistema delle imprese cooperative, che esige il finanziamento dei Fondi.
Il problema è particolarmente delicato poiché queste destinazioni implicano sacrificio dello scopo mutualistico egoistico dei soci in quanto confliggono con la sua realizzazione e ciò quantomeno nel senso che gli utili destinati alla remunerazione del capitale in forma di dividendo e alla devoluzione ai Fondi sono sottratti alla restituzione ai soci sotto forma di ristorni.La questione ha avuto soluzioni storicamente diverse.
Per quanto riguarda il rapporto tra scopo mutualistico e scopo di lucro, prima della riforma del diritto societario nessuna disposizione di carattere generale poneva limiti all’operatività della cooperativa con i terzi né assicurava che la cooperativa praticasse ai soci condizioni più favorevoli di quelle di mercato, sia direttamente sia tramite ristorni. Infatti, le uniche disposizioni funzionalmente significative erano quelle che si preoccupavano di comprimere lo scopo di lucro dei cooperatori, limitando la raccolta del capitale dai soci e la sua remunerazione tramite dividendi. Al riguardo, è una costante della legislazione cooperativa la fissazione di un tetto alla quota di capitale detenibile da ciascun socio (cfr. ora art. 2525, co. 2) e alla distribuzione di utili sotto forma di dividendi (cfr. ora art. 2545 quinquies). Tuttavia, la circostanza che ciascun socio possa conferire capitale limitatamente e che il suo capitale non possa essere remunerato oltre un certo livello, se, da un lato, impedisce che lo scopo della cooperativa coincida con quello della società ordinaria, d’altro lato non garantisce, di per sé, né la preminenza dell’attività con i soci su quella con i terzi né che la soddisfazione dello scopo mutualistico sia anteposta alla remunerazione del capitale in forma di dividendo. Inoltre, la legislazione successiva al codice civile del 1942 ha progressivamente allentato i vincoli alla raccolta e alla remunerazione del capitale tramite dividendi – (cfr., ad esempio, art. 17, co. 3, l. 19.3.1983, n. 72 per quanto riguarda l’elevazione dei dividendi e artt. 3 e 7, l. 31.1.1992, n. 59 per quanto riguarda l’innalzamento della quota massima di capitale e la possibilità di superamento della stessa attraverso rivalutazione gratuita) – al fine di favorire l’incremento dei cosiddetti mezzi propri delle cooperative e, quindi, la loro competitività sul mercato. In relazione a tale obiettivo, gli artt. 4 e 5, l. n. 59/1992, hanno previsto la possibilità di raccogliere capitale attraverso apporti di particolari categorie di soci, quali i soci sovventori e gli azionisti di partecipazione cooperativa (su cui infra § 10).
Per quanto riguarda il finanziamento del sistema della cooperazione, la sua valorizzazione si concretizza nel momento in cui dalla previsione, generica e affidata all’autonomia statutaria, della possibilità di destinare una quota degli utili a, non meglio precisati, fini mutualistici (cfr. art. 2536, co. 2, testo originario, c.c.) si passa all’istituzione di specifici organismi associativi (s.p.a. o associazioni), cioè i Fondi mutualistici, preposti esclusivamente alla promozione e al finanziamento di nuove imprese cooperative e ad iniziative di sviluppo della cooperazione (artt. 11 e 12, l. n. 59/1992) e si impone a tutte le cooperative di destinare al loro finanziamento il 3% degli utili netti annuali e parte del patrimonio di liquidazione (art. 11, co. 4-5, l. n. 59/1992 e, ora, artt. 2545 quater, co. 2 e 2514, lett. d, c.c.).
Conclusivamente può affermarsi che – considerando nel loro insieme le tre componenti funzionali della cooperativa, cioè la mutualità tradizionale ed egoistica, la raccolta e la remunerazione del capitale, il finanziamento del sistema – la normativa anteriore alla riforma aveva privilegiato le ultime due a scapito della prima.
Invece, con la riforma della disciplina codicistica delle cooperative ex d. lgs. 17.1.2003, n. 6, il legislatore, pur senza rinnegare le precedenti scelte in punto di rafforzamento della patrimonializzazione delle singole cooperative e di finanziamento del sistema, si propone di accentuare la centralità dell’attività e dello scopo mutualistico, sino ad allora incrinata dall’assenza di una specifica disciplina che ne sottolineasse l’essenzialità e la preminenza.
a) Così, per quanto riguarda l’attività, si stabilisce che potrà essere svolta con i terzi solo in presenza di una specifica previsione dell’atto costitutivo (art. 2521, co. 2) – in assenza della quale, perciò, la cooperativa dovrà attenersi alla regola della mutualità ‘pura’, operando esclusivamente con i propri soci – e si affida poi alla disciplina dell’atto costitutivo e dei regolamenti (art. 2521, co. 2 e 5) la fissazione delle regole in ordine allo svolgimento dell’attività mutualistica (per esempio, di prevedere : se socio e cooperativa siano entrambi obbligati ad instaurare il rapporto mutualistico o entrambi facoltizzati o l’uno obbligato e l’altra facoltizzata o viceversa o, ancora, quali siano le condizioni che la cooperativa deve praticare ai soci). L’autonomia statutaria e regolamentare deve comunque esplicarsi in conformità alla regola legale che impone di rispettare il principio della parità di trattamento tra i soci nella costituzione e nell’esecuzione del rapporto mutualistico (art. 2516 c.c.). Sull’attività mutualistica devono, poi, riferire amministratori e sindaci nelle rispettive relazioni al bilancio (art. 2545 c.c.). Infine, i rapporti mutualistici costituiscono il parametro legale ai fini del diritto patrimoniale al ristorno (art. 2545 sexies) e, per previsione statutaria, possono assumere rilevanza, in casi particolari, anche ai fini del diritto di voto (artt. 2538, co. 4 e 2543, co. 2).
b) Per quanto riguarda lo scopo mutualistico, la nuova definizione dell’art. 2511 identifica in esso l’elemento causalmente qualificante della fattispecie società cooperativa, come è confermato indirettamente dal divieto di usare l’indicazione di cooperativa alle società che non hanno scopo mutualistico (art. 2515, co. 2). L’enunciazione di questo scopo si traduce, poi, nella introduzione della disciplina dei ristorni, volti a garantirne la realizzazione concreta (artt. 2521, co. 3, n. 8 e 2545 sexies, c.c.), colmando così il precedente vuoto legislativo sul punto. Ne consegue che i ristorni devono essere disciplinati nell’atto costitutivo in modo tale da assicurare che questa forma di ripartizione dell’utile – in quanto funzionale alla realizzazione dello scopo mutualistico attraverso la regola della proporzione alla quantità e qualità degli scambi mutualistici – sia prioritaria sulla ripartizione in forma di dividendo, pur limitatamente consentita (cfr. art. 2545 quinquies, c.c.).
Venendo al terzo problema (supra § 6, sub lett. c), la preminenza dello scopo mutualistico sullo scopo lucrativo è affermazione che riguarda i soci cooperatori, cioè i soci che aspirano alla realizzazione dello scopo mutualistico. Tale scopo, però, non sempre si configura come scopo comune fra tutti i soci, dal momento che il legislatore, per agevolare l’autofinanziamento delle cooperative, consente l’ingresso di particolari categorie di soci, miranti ad obiettivi esclusivamente lucrativi, quali i soci sovventori, gli azionisti di partecipazione cooperativa (artt. 4 e 5, l. n. 59/1992) e i soci finanziatori (art. 2526, c.c.). Il rischio che la loro presenza possa compromettere la mutualità nella gestione dell’impresa è attenuato dalle regole che si preoccupano di limitare il loro potere decisionale (cfr. art. 4, co. 2-3, l. n. 59/1992 e artt. 2526, co. 2, 2542, co. 4, 2543, co. 3, 2544, co. 2-3, c.c.). Resta il rilievo che la preminenza della mutualità nella funzione oggettiva della cooperativa non si traduce necessariamente in posizioni soggettive omogenee, dal momento che la ‘causa’ del conferimento per alcune categorie di soci può essere esclusivamente lucrativa.
L’ultimo problema (retro par. 6, sub d) nasce dalla constatazione che talvolta leggi settoriali legittimano fattispecie di cooperative non mutualistiche. Tale è, secondo l’opinione prevalente, il caso delle banche popolari (cfr. artt. 28-32, d. lgs. 1.9.1993, n. 385) che funzionalmente si comportano in modo del tutto simile alle società lucrative e tale è sicuramente il caso di quelle cooperative sociali (art. 1, co. 1, lett. a, l. 8.11.1991, n. 381) che non hanno per oggetto lo svolgimento di un’attività mutualistica in quanto producono servizi socio-sanitari ed educativi non destinati ai cooperatori, al fine di realizzare «l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione dei cittadini». In queste fattispecie le regole cooperativistiche del voto democratico, della porta aperta e della variabilità del capitale sopravvivono ma sono svincolate dalla realizzazione della funzione mutualistica, come sopra intesa (retro § 4).
A tali cooperative allude l’art. 2520, co. 2, c.c. («la legge può prevedere la costituzione di cooperative destinate a procurare beni o servizi a soggetti appartenenti a particolari categorie anche di non soci»),disposizione da cui può argomentarsi la più generale conclusione che cooperative funzionalmente anomale, cioè non mutualistiche, possono essere legittimate solo attraverso specifiche disposizioni legislative mentre la loro creazione non è consentita all’autonomia privata. Ad esempio, l’art. 1, co. 1, d.lgs. 24.3.2006, n. 155, autorizza la costituzione di cooperative prive di scopo mutualistico ove ciò sia funzionale all’acquisto della qualifica di ‘impresa sociale’.
Le cooperative devono essere costituite da un numero minimo di soci (art. 2522, c.c.) che normalmente sono portatori di un interesse omogeneo, derivante dalla loro appartenenza ad una stessa categoria socio-economica. Le tre categorie generali, previste dal codice civile, dei consumatori o utenti di beni o servizi, dei lavoratori e dei produttori di beni o servizi (cfr. artt. 2512, n. 1-3 e 2513, lett. a-c) possono essere ulteriormente circoscritte dalle discipline di settore.
Di conseguenza, il legislatore si preoccupa di mantenere un costante collegamento tra qualità di socio e appartenenza alla categoria socio-economica di riferimento. La regola della porta aperta ‘in entrata’, così come la disciplina in materia di recesso, esclusione e morte del socio, nonché di trasferimento della quota (cioè, della porta aperta ‘in uscita’), servono ad assicurare che la base sociale sia sempre composta da soggetti che, appartenendo tutti alla stessa categoria di riferimento, sono portatori di interessi omogenei. La società deve avere, anzitutto, carattere aperto in entrata e, perciò, l’atto costitutivo deve stabilire i requisiti per l’ammissione dei nuovi soci «secondo criteri non discriminatori coerenti con lo scopo mutualistico e l’attività economica svolta» (art. 2527, co. 1, c.c.). Peraltro, la regola porta aperta non si traduce nel riconoscimento in capo all’aspirante socio di un vero e proprio diritto soggettivo all’entrata, benché il procedimento di ammissione sia disciplinato in modo da evitare comportamenti discriminatori da parte degli amministratori, ai quali, in prima istanza, spetta la competenza a decidere sulle domande di ingresso (cfr. art. 2528).
In secondo luogo, se un socio cessa di far parte della categoria di riferimento, viene meno l’interesse al mantenimento del rapporto sociale sia da parte del socio stesso sia da parte della società; tuttavia, mentre la perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società configura ex lege causa di esclusione del socio (cfr. art. 2533, n. 3), la stessa vicenda può legittimare il recesso del socio solo in base ad una previsione statutaria (cfr. art. 2532).
Infine, viene tutelato l’interesse della società ad evitare che, a seguito della morte del socio o del trasferimento inter vivos della sua quota, possano entrare nella cooperativa soggetti estranei alla categoria di riferimento; da qui le regole della liquidazione della quota agli eredi del socio defunto – salvo che l’atto costitutivo preveda il loro subingresso nella quota, ove provvisti dei requisiti per l’ammissione (cfr. art. 2534) – e dell’inefficacia nei confronti della società della cessione inter vivos della quota se non autorizzata dagli amministratori, preposti a verificare il possesso dei requisiti di ammissione in capo al potenziale subentrante (cfr. art. 2530).
La regola della variabilità del capitale (art. 2511) è funzionale alla realizzazione della porta aperta. Poiché per effetto della porta aperta vi è un continuo ricambio della base sociale, attraverso l’ingresso di nuovi soci (che incrementano il capitale sociale) e l’uscita di altri (che lo riducono), «il capitale sociale non è determinato in un ammontare prestabilito» (art. 2524, co. 1) cosicché la sua variazione, in aumento o in diminuzione, non configura modifica del contratto.
Peraltro, l’aumento del capitale sociale può essere funzionale alla realizzazione della porta aperta o meno: nel primo caso non si applica la disciplina delle modificazioni dell’atto costitutivo (art. 2524, co. 2), nel secondo caso la deliberazione di aumento del capitale sociale, pur non comportando una modifica del contratto, sarà ugualmente soggetta, ex art. 2524, co. 3, alla disciplina delle modificazioni dell’atto costitutivo dell’art. 2436 (richiamato dall’art. 2545 novies, co. 1).
Si è già sottolineato (supra § 9) come la riforma del 2003, nell’intento di accentuare la centralità funzionale dell’attività mutualistica, abbia previsto che la cooperativa possa operare con i terzi solo previa specifica autorizzazione di una clausola statutaria (art. 2521, co. 2). Tuttavia, una siffatta clausola è quasi di stile e ciò per le ragioni di salvaguardia della competitività della cooperativa sul piano concorrenziale, dianzi illustrate (supra § 8). Ne è riprova la circostanza che la disciplina del codice è imperniata su una distinzione tra cooperative a mutualità prevalente e cooperative non a mutualità prevalente, che muove proprio dal presupposto che le cooperative non siano a mutualità esclusiva, cioè abbiano inserito nel loro statuto la clausola che permette l’operatività anche con terzi.
L’attribuzione della qualifica di cooperativa a mutualità prevalente dipende da un duplice presupposto: sia dalla circostanza che in fatto l’attività mutualistica sia prevalente sull’attività con i terzi, nei termini quantitativi da verificare con i criteri ‘bilancistici’ indicati dall’art. 2513, c.c., sia dalla limitazione statutaria dello scopo di lucro dei soci e ciò non con un generico tetto alla distribuzione dei dividendi – come quello previsto dall’art. 2545 quinquies per le cooperative non a mutualità prevalente – bensì con le più specifiche e rigorose clausole imposte dall’art. 2514. Tali clausole sono volte a comprimere lo scopo lucrativo con riferimento a tutti e tre i momenti in cui esso può realizzarsi: distribuzione periodica dei dividendi (2514, lett. a e b), scioglimento individuale del rapporto (per recesso, esclusione o morte) (lett. c) e scioglimento dell’intero rapporto (lett. d).
Peraltro, la collocazione della sottospecie della cooperativa a mutualità prevalente all’interno del codice civile è poco comprensibile perché – salvo quanto poc’anzi osservato in punto di una più accentuata compressione dello scopo di lucro dei soci – tale qualifica non comporta l’applicazione di regole peculiari sul piano del diritto privato. Infatti, la disciplina del codice vale indifferentemente per tutte le cooperative mentre la rilevanza della qualifica di cooperativa a mutualità prevalente è limitata al piano tributario, almeno stando al disposto dell’art. 223 duodecies, disp. att. c.c., secondo cui le agevolazioni fiscali sono riservate alle sole cooperative a mutualità prevalente.
Ne consegue che la previsione della categoria delle cooperative a mutualità prevalente sembra avere il solo obbiettivo di ridefinire in termini più restrittivi rispetto al passato le condizioni di accesso alle agevolazioni fiscali, richiedendo un duplice presupposto, quello di fatto (artt. 2512 e 2513) e quello statutario (art. 2514) mentre, secondo la normativa previgente, tutte le agevolazioni, fiscali e non, dipendevano esclusivamente dal rispetto dei requisiti statutari diretti a limitare lo scopo di lucro dei soci e previsti dall’art. 26, d.lg.C.p.S. 14.12.1947, n. 1577. Senonché anche sul piano tributario la rilevanza della qualifica è in gran parte svilita sia perché, in punto di fattispecie, svariate disposizioni di legge concedono la qualifica di cooperativa a mutualità prevalente a prescindere dalla sussistenza di un’operatività diretta con i soci nei termini stabiliti dall’art. 2513, c.c., sia anche perché, in punto di disciplina, agevolazioni fiscali sono dispensate anche alle altre cooperative, smentendo così la disposizione dell’art. 223 duodecies, disp. att. c.c.
La perdita della qualifica – che si determina quando per due esercizi consecutivi non viene rispettata l’operatività prevalente con i soci ex art. 2513 oppure quando vengono modificati i limiti statutari ai diritti patrimoniali dei soci ex art. 2514 – comporta l’obbligo di redigere un apposito bilancio per determinare «il valore effettivo dell’attivo patrimoniale da imputare alle riserve indivisibili» (art. 2545 octies); ciò, in funzione della sua successiva destinazione ai Fondi mutualistici nel caso di trasformazione della cooperativa in società ordinaria o in consorzio (artt. 2545 decies e 2545 undecies) o di suo scioglimento (art. 2514, lett. d).
Ai fini della disciplina di controllo non vi è differenza tra cooperative a mutualità prevalente e cooperative diverse. Tutte le cooperative sono, infatti, sottoposte a vigilanza (ex art. 45 Cost.) da parte sia dell’Autorità amministrativa (v. d.lgs. 2.8.2002, n. 220) sia dell’Autorità giudiziaria (art. 2545 quinquiesdecies, c.c.) e alle relative sanzioni della gestione commissariale e, nei casi più gravi, dello scioglimento (cfr. artt. da 2545 quinquiesdecies a 2545 octiesdecies, c.c. e art. 12, d.lgs. n. 220/2002). I controlli amministrativi e giudiziari sono coordinati secondo la regola della prevenzione per cui l’avvio dell’uno esclude l’altro e viceversa (art. 2545quinquiesdecies, co. 3-4, c.c.). La sottoposizione anche delle cooperative diverse alla disciplina della vigilanza si spiega per ciò che quest’ultima è funzionale all’accertamento dei requisiti mutualistici (art. 1, co. 2, d. lgs. n. 220/2002), cioè di quei requisiti che devono caratterizzare tutte le cooperative e in ragione dei quali esse godono, da parte del legislatore, di un trattamento privilegiato, non limitato alle sole agevolazioni fiscali. Anche l’insolvenza è disciplinata secondo la regola della prevenzione cosicché la dichiarazione di fallimento impedisce l’avvio della liquidazione coatta amministrativa e viceversa (art. 2545 terdecies).
Le cooperative possono compiere le stesse operazioni straordinarie consentite alle società lucrative, cioè fusioni, scissioni (art. 2545 novies) e trasformazioni (artt. 2545 decies e 2545 undecies). Per quanto riguarda le vicende trasformative previste dalla legge (art. 2545 decies), sono senz’altro eterogenee e, perciò, soggette alla relativa disciplina generale (art. 2500 novies), le trasformazioni di cooperative in società ordinarie e viceversa (art. 2500 septies) mentre, stante la rilevata affinità causale (supra § 7), dovrebbero considerarsi omogenee le trasformazioni in consorzi. Comunque tali operazioni sono fortemente scoraggiate dal legislatore e ciò a causa dell’effetto devolutivo che colpisce il patrimonio sociale (art. 2545-undecies); ne risulta marginalizzato il problema dell’ammissibilità di trasformazioni non previste dalla legge, come ad esempio, la trasformazione in associazioni in senso stretto, vicenda che, prima della riforma del diritto societario, era stata talvolta legittimata dalla giurisprudenza onoraria. Infine, ad esigenze di rafforzamento delle cooperative sul piano ‘concorrenziale’ (supra §8) si devono le disposizioni che consentono loro di costituire o partecipare a forme associative di secondo grado – quali cooperative (art. 27, d.lg.C.p.S. n. 1577/1947), consorzi (art. 27ter, d.lg.C.p.S. n. 1577/1947), società di capitali (art. 27 quinquies, d.lg.C.p.S. n. 1577/1947) – e di coordinarsi attraverso la formazione di gruppi cooperativi paritetici (art. 2545 septies, c.c.).
Normativa nazionale: art. 45 Cost.; d.lg. C.p.S. 14.12.1947, n. 1577 («Provvedimenti per la cooperazione»); l. 31.1.1992, n. 59 («Nuove norme in materia di società cooperative»); d.lgs. 2.8.2002, n. 220 («Norme in materia di riordino della vigilanza sugli enti cooperativi»); d.lgs. 17.1.2003, n. 6, che ha interamente sostituito il Titolo VI del Codice Civile del 1942; art. 10, l. 23.7.2009, n. 99. Oltre ad una ricca legislazione regionale, va ricordato, a livello sovranazionale, il reg. 1453/2003/CE del 22.7.2003 che disciplina la Società Cooperativa Europea.
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