Società e processi migratori
Dopo avere rappresentato, per quasi un secolo, uno dei principali Paesi di emigrazione verso le Americhe, l’Australia e l’Europa, l’Italia si è silenziosamente trasformata, nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso, in uno dei principali poli d’attrazione di flussi migratori dall’estero.
Comune a molti altri Paesi, il fenomeno della cosiddetta transizione migratoria – da nazione d’origine a Paese di destinazione – ha però assunto in Italia caratteri specifici: innanzitutto, la rapidità con la quale tale trasformazione è avvenuta; quindi l’assenza di legami storici (e coloniali) significativi con la gran parte dei Paesi d’origine; e ancora, l’aspettativa di maggiore stanzialità dell’immigrazione diretta verso l’Italia, anche in ragione della difficile spendibilità della lingua italiana fuori dei confini nazionali (ISTAT 2007). Secondo le ultime stime disponibili, il numero di stranieri provenienti da Paesi a forte pressione migratoria presenti in Italia ha ormai superato i 4 milioni, esito di un’evoluzione che, dai 573.000 censiti nel 1992, ha visto tale presenza superare la soglia simbolica del milione alla fine degli anni Novanta, per poi conoscere, nei primi anni del 21° sec., una crescita straordinaria: da circa 1 milione e 500.000 mila del 2002 si è passati a 2 milioni e 500.000 mila nel 2004, 3 milioni nel 2006, 3 milioni e 600.000 mila nel 2007, 4 milioni e 200.000 mila nel 2008, con un’inarrestabile tendenza ad aumentare ancora, sia in conseguenza della dinamica dei flussi, sia come effetto delle nascite da famiglie immigrate. Le simulazioni costruite prendendo in esame gli andamenti dell’ultimo quinquennio portano addirittura a stimare tra i 9 e i 25 milioni il numero di stranieri che potrebbero soggiornare in Italia nel 2031 (Fondazione ISMU 2008).
Peraltro, la vicenda italiana s’inquadra in uno scenario internazionale che ha registrato, nel passaggio al 21° sec., una straordinaria accelerazione della mobilità su scala globale, tanto da configurare un processo altrettanto dirompente della ‘grande migrazione’ del 19° e 20° secolo. Non a caso è ricorrente, tra gli studiosi, parlare di nuova immigrazione, con riferimento ai suoi volumi crescenti e alla sua maggiore eterogeneità dal punto di vista delle provenienze etniche e nazionali, delle figure sociali coinvolte, dei modelli d’incorporazione cui essa dà luogo. Indubbiamente, quel complesso di processi e trasformazioni che si è soliti definire globalizzazione costituisce uno dei principali fattori propulsivi delle migrazioni internazionali sia per gli sconvolgimenti cui dà luogo nei Paesi d’origine, sia per le accresciute possibilità di circolazione delle idee e delle persone. I migranti sono i protagonisti di un processo di ‘globalizzazione dal basso’ e gli attori sociali che meglio incarnano l’archetipo del ‘cittadino del mondo’, capace d’infrangere le barriere degli Stati-nazione e di dare vita a identità, appartenenze e sfere d’azione transnazionali.
Nell’epoca della globalizzazione, anche le migrazioni hanno assunto i caratteri di un fenomeno globale, arrivando a coinvolgere pressoché tutte le nazioni del mondo, in qualità di Paesi d’origine, di transito o di destinazione, o semplicemente svolgendo contemporaneamente ruoli diversi nel sistema migratorio internazionale: si può, al riguardo, parlare di mondializzazione dei processi migratori. Nelle tradizionali nazioni di destinazione – Australia, Canada e Stati Uniti – l’immigrazione proveniente dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina ha soppiantato il primato di quella d’origine europea, più facilmente integrabile secondo gli assunti del paradigma ormai desueto dell’assimilazione. Alle soglie del 21° sec., negli Stati Uniti, che restano la principale nazione d’immigrazione al mondo, i latinos hanno superato numericamente i blacks, che da sempre rappresentavano la principale minoranza del Paese. Attraverso la loro presenza e l’originalità del loro percorso d’integrazione, i migranti latino-americani hanno trasformato visibilmente il tessuto urbano e l’economia di molte città americane, imponendo un bilinguismo di fatto a cui l’America nel passato aveva sempre resistito. Le seconde generazioni nate dall’immigrazione asiatica e latino-americana si apprestano in misura copiosa a fare il loro ingresso nel mercato del lavoro e nell’arena pubblica, alimentando un vivace dibattito su quello che sarà il loro destino non solo dal punto di vista socioprofessionale, ma anche da quello delle affiliazioni politiche, culturali e religiose. Quanto ai Paesi europei, che per molti anni alimentarono le migrazioni verso le Americhe e l’Australia, si sono trasformati in meta dei flussi provenienti dall’Est e dal Sud del mondo. Ciò è avvenuto dapprima nei Paesi dell’Europa centro-settentrionale, in conseguenza dello smembramento degli ex imperi coloniali e delle esigenze della ricostruzione e della crescita economica postbellica e, successivamente, a partire soprattutto dagli anni Ottanta dello scorso secolo, anche nei Paesi dell’Europa meridionale. Italia, Spagna, Portogallo e Grecia si sono rapidamente, e quasi inconsapevolmente, trasformati in Paesi d’immigrazione, grazie alla crescita delle loro economie e all’integrazione nello spazio comune europeo, divenendo tra i principali poli attrattivi delle labour migrations. Secondo i più recenti dati diffusi da OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) e ONU, sono oltre 41 milioni gli stranieri legalmente presenti in Europa, la maggioranza dei quali vive in Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia. I saldi migratori positivi costituiscono la componente più significativa dell’evoluzione demografica nei Paesi dell’Unione Europea (UE), nonostante la maggior parte di essi abbia un regime d’ammissione considerato restrittivo. Tradizionalmente abituato a rappresentarsi come una società etnicamente omogenea, il Vecchio continente è dunque ormai, e sempre di più, una società multietnica e multiculturale, e i suoi principali centri urbani hanno visto rafforzarsi la vocazione cosmopolita al punto da farne un ingrediente delle strategie d’internazionalizzazione e d’attrazione turistica e commerciale.
Oltre ai Paesi sui quali si polarizza l’attenzione politica e dei mass media, le migrazioni interessano le svariate periferie del pianeta: circa il 40% dei migranti internazionali vive attualmente in un Paese del Terzo mondo. Il Giappone, tradizionalmente ostile verso gli stranieri, ha dovuto soccombere all’evidenza di essere divenuto meta di flussi consistenti, attratti dagli elevati livelli di benessere e in un certo senso resi inevitabili dal processo d’invecchiamento della popolazione. All’indomani dello shock energetico degli anni Settanta, i Paesi mediorientali dell’area del Golfo si sono scoperti improvvisamente ricchi e al tempo stesso con una popolazione ampiamente sottodimensionata rispetto ai fabbisogni dell’economia. Nazioni come gli Emirati Arabi, il Kuwait, il Qaṭar, l’Arabia Saudita hanno visto esplodere la presenza di lavoratori stranieri, al punto che essa ha raggiunto, in taluni momenti, percentuali attorno all’80% della popolazione attiva. E ancora, la transizione migratoria s’annuncia particolarmente accelerata per alcuni Stati asiatici come Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Malaysia dove, dagli anni Ottanta, ha cominciato a prendere forma un nuovo sistema migratorio. Quanto ai Paesi dell’Europa orientale, raffigurati all’indomani del crollo del muro di Berlino come probabili aree d’origine d’ingenti flussi verso l’UE, essi appaiono oggi come cruciali regioni di transito e destinazione e, a maggiore ragione, lo diverranno nei prossimi anni, parallelamente alla loro progressiva integrazione nello spazio unico europeo e tenuto conto delle dinamiche demografiche negative che li caratterizzano e che già hanno imposto ad alcuni di essi la necessità d’importare forza lavoro dall’estero. La Russia, infine, si è trasformata, nel giro di pochi anni, in un’area di destinazione d’imponenti flussi migratori – composti sia da ‘russi etnici’, sia da altre popolazioni – provenienti dagli Stati dell’ex Unione Sovietica, oltre che in un’area di transito per centinaia di migliaia di migranti che vi giungono dal continente africano e dall’Asia e l’attraversano nel tentativo di approdare in Paesi più sviluppati.
La mondializzazione, peraltro, oltre a riguardare le regioni di destinazione, coinvolge quelle d’origine dei flussi, determinando la costituzione di diaspore e comunità transnazionali. Si tratta di un fenomeno facilmente rilevabile anche in Italia dove, fin dall’inizio della transizione migratoria, il quadro delle presenze era composto da una moltitudine di nazionalità (che, a loro volta, spesso comprendono gruppi etnici e linguistici diversi). Sono oltre 100 i Paesi che vantano la presenza in Italia di almeno 1500 soggiornanti; molti di più quelli che registrano comunque una loro piccola rappresentanza. I Paesi a forte pressione migratoria – includendo anche quelli di più recente adesione all’UE – coprono quasi il 95% del totale dei residenti stranieri, una quota notevolmente superiore a quella che si poteva rilevare alcuni decenni fa, confermando la forte capacità attrattiva che l’Italia ha conquistato nel tempo. I primi anni del 21° sec. hanno decretato il primato dei Paesi dell’Est europeo (in particolare Albania e Romania), oltre a consolidare il ruolo, ridimensionato ma comunque di tutto rilievo, del Marocco, della Cina e delle Filippine. Ogni 10 immigrati presenti in Italia, 5 sono europei, 4 africani o asiatici, 1 americano. Concentrandosi sui soli iscritti all’anagrafe, le nazionalità albanese, marocchina, romena, cinese e ucraina sono quelle che contano il maggior numero di residenti, registrando però anzianità medie di presenza regolare molto diverse: oltre sette anni per i marocchini, quasi la metà per gli ucraini.
Invero, a emergere dalle statistiche internazionali è uno scenario costantemente in movimento, che registra l’avvicendarsi di correnti diverse ed eterogenee che mutano incessantemente i caratteri della popolazione straniera e sfuggono alle tipologie attraverso le quali era d’uso, in passato, classificare le migrazioni (come quella che le distingueva in volontarie e forzate, oppure in economiche e non economiche). In Europa, il processo d’allargamento dell’Unione ha contribuito all’egemonia delle migrazioni di provenienza dell’Est europeo, in particolare romena: insieme alla Spagna e alla Germania, l’Italia ha rappresentato la principale destinazione di questo imponente flusso, percepito dapprima come culturalmente più ‘vicino’ rispetto a molti che l’avevano preceduto, e successivamente destinato ad alimentare un particolare allarme sociale. Al di fuori del continente europeo, è invece l’Asia ad avere costituito, in questo decennio, la principale regione d’origine dei flussi migratori, con un ruolo prevalente di India e Cina. Quanto al continente africano, significativi sono i flussi interni che l’attraversano – dalla Guinea al Senegal, dal Ghana alla Nigeria, dal Burkina Faso e dal Mali alla Costa d’Avorio – mentre la migrazione diretta verso i Paesi a sviluppo avanzato ha tuttora una rilevanza decisamente marginale, specie se confrontata al flusso migratorio globale e allo stesso numero di migranti potenziali, stimabile in base ai livelli di ricchezza e ai trend demografici. La regione del Maġrib genera movimenti per nulla trascurabili verso l’Europa meridionale, tributari in primo luogo della prossimità geografica; vecchi legami linguistici e coloniali danno ragione di un flusso che dall’Africa subsahariana s’indirizza al Portogallo e al Regno Unito; nel recente passato, Senegal, Mauritania e Libia sono divenuti importanti snodi di transito di flussi diretti verso le destinazioni extracontinentali. Ma si tratta solo delle avvisaglie di un fenomeno che tutte le proiezioni stimano imponente: basti pensare che, nei prossimi due decenni, si prevede che l’Africa subsahariana genererà un fabbisogno aggiuntivo di circa 15-20 milioni di nuovi posti di lavoro per far fronte alla crescita dell’offerta dovuta ai trend demografici. Vi è ragione di ritenere che l’Italia, per la sua posizione geografica ma anche per i caratteri del modello italiano d’integrazione, si avvii a divenire una delle mete privilegiate della migrazione dall’Africa, con l’effetto di accrescere la componente somaticamente più distante dal ceppo italico e di innescare probabili dinamiche concorrenziali nell’accesso alle opportunità, innanzitutto lavorative, fruibili dagli immigrati.
Oltre che da un’accelerazione delle dinamiche migratorie, il passaggio a questo nuovo secolo è stato caratterizzato dalla centralità della questione nell’agenda politica di molti Paesi; centralità alla quale non è certo estranea l’impressione di una realtà che sfugge alle maglie dei controlli e si sottrae alle finalità delle politiche dei vari Stati. I caratteri delle migrazioni contemporanee possono così essere visti come l’esito di un complesso intreccio tra strategie d’emancipazione individuali e familiari, fattori d’attrazione presenti nei Paesi di destinazione, meccanismi di richiamo basati sulle catene migratorie, obiettivi espliciti e impliciti delle politiche promosse dai Paesi d’origine e di destinazione, iniziative della cosiddetta industria dell’immigrazione, nelle sue componenti legali (per es., le agenzie che offrono assistenza per l’espletamento delle pratiche), illegali (per es., le organizza-zioni che vendono documenti contraffatti ed esercitano il cosiddetto smuggling, cioè il traffico di clandestini e criminali (per es., la tratta a scopo di sfruttamento). Tale intreccio di elementi è stato ampiamente approfondito dai migration studies, che proprio in questi anni hanno conosciuto un particolare sviluppo, portando a un indiscutibile arricchimento nell’interpretazione dei processi migratori e dei percorsi d’integrazione dei migranti. Rinviando il lettore ad altri contributi per gli aspetti di carattere più propriamente teorico (Zanfrini 2004, 2007), ci occuperemo qui di segnalare e analizzare le principali tendenze consolidatesi nel corso di questo decennio quale effetto della combinazione dei fattori sopra richiamati.
Una prima tendenza riguarda la composizione per genere dei flussi, cui molti autori si sono riferiti parlando di femminilizzazione delle migrazioni, per dare conto non solo di una forte incidenza della componente femminile, che ormai sfiora il 50%, ma soprattutto della folta presenza di donne che migrano in maniera autonoma rispetto ai congiunti di sesso maschile. Si tratta di una tendenza rivelatrice di una ‘rivoluzione di genere su scala mondiale’ (B. Ehrenreich, A. Russell Hochschild, Global woman. Nannies, maids, and sex workers in the new economy, 2003; trad. it. 2004) che bene illustra come l’interpretazione dei processi migratori non possa prescindere dal considerare le trasformazioni in cui sono coinvolti Paesi d’origine e di destinazione. La crescente presenza femminile nel mercato del lavoro retribuito è un dato che accomuna i Paesi economicamente avanzati e quelli in via di sviluppo, concorrendo a una sorta di nuova divisione internazionale del lavoro riproduttivo: è la ricerca di un reddito e di emancipazione a spingere le donne dei Paesi poveri a emigrare; è l’aumento del tasso d’attività femminile nei Paesi ricchi a fare lievitare la domanda di prestazioni di sostegno al lavoro familiare con il suo potenziale di attrazione nei confronti dell’immigrazione femminile. L’Italia costituisce, a tal proposito, un caso esemplare: la transizione migratoria del Paese è stata annunciata, negli anni Settanta, dall’arrivo di un folto gruppo di donne eritree, filippine e capoverdiane disponibili a ricoprire il ruolo di domestica presso le famiglie borghesi delle principali città. In tutti gli anni successivi le famiglie italiane hanno continuato a dare lavoro a una quota rilevante della manodopera immigrata. Nell’ultimo decennio, la diffusione della figura dell’assistente familiare impegnata nell’accudimento di anziani e malati ha reso sempre più evidente il nesso che lega le dinamiche dell’immigrazione femminile alle specificità del modello italiano di protezione sociale, definito dagli studiosi come la variante ‘familistica’ dei regimi di welfare proprio in ragione del ruolo che la famiglia assume nella cura dei soggetti bisognosi, a fronte di uno sviluppo insufficiente delle politiche pubbliche. L’aumento del numero di anziani e ‘grandi anziani’ bisognosi di assistenza, insieme al rarefarsi della figura della casalinga, ha provocato la portentosa espansione di un mercato privato dei servizi alle famiglie – una sorta di welfare parallelo – che ha trovato nella lievitazione dell’offerta disponibile un ulteriore fattore d’incentivazione. Resta inoltre da aggiungere che ad alimentare il fenomeno della migrazione femminile, specie dagli anni Novanta, ha concorso anche la tratta a scopo di sfruttamento sessuale e lo stesso espatrio volontario di donne da avviare alla prostituzione, fenomeni che in Italia hanno raggiunto dimensioni particolarmente allarmanti, sebbene estremamente difficili da quantificare.
Un’altra tendenza delle migrazioni contemporanee è l’elevata incidenza della componente ad alta qualificazione. Essa accomuna tanto i vecchi Paesi d’immigrazione – a partire dagli Stati Uniti, che continuano a essere la destinazione privilegiata dei migranti altamente qualificati – quanto il continente europeo dove, negli ultimi tempi, si sono moltiplicati i dispositivi per il reclutamento di lavoratori in possesso di titoli di studio e competenze certificabili. Le stesse istituzioni dell’Unione Europea hanno ripetutamente auspicato che i Paesi membri possano divenire una meta competitiva con le più tradizionali aree d’approdo dei migranti ad alta qualificazione, anche attraverso il rilascio di una blue card che consenta la libera circolazione nel mercato del lavoro europeo. Un auspicio che deve necessariamente fare i conti con l’effettiva capacità di richiamo dei Paesi europei, che a sua volta si misura con le opportunità complessivamente offerte ai lavoratori stranieri e alle loro famiglie (considerazione che spiega il sostanziale insuccesso degli schemi di reclutamento lanciati da vari Paesi). Sebbene il tema sia comparso nella stessa agenda pubblica italiana, dove una significativa percentuale della forza lavoro straniera possiede un livello di studio medio-alto, a emergere dalle ricerche è piuttosto un processo di dequalificazione professionale che investe buona parte dell’immigrazione qualificata, in ragione di una concentrazione del fabbisogno di manodopera d’importazione in corrispondenza dei livelli più bassi della gerarchia occupazionale.
I dispositivi per l’importazione di manodopera qualificata sono riconducibili a una più complessiva tendenza costituita dall’avvento di politiche migratorie fortemente selettive dal punto di vista dei contingenti ammessi, delle caratteristiche dei migranti e delle condizioni di soggiorno. In molti, anzi, parlano esplicitamente, con riferimento alle politiche migratorie adottate da vari Paesi nel corso di questo decennio, di un ritorno in auge della figura del ‘lavoratore ospite’. Sollecitato dalle istituzioni comunitarie, in ragione dei negativi trend demografici del continente e delle penurie di manodopera registrate da diversi settori dell’economia, il timido rilancio di politiche migratorie attive – dopo un trentennio di frontiere sostanzialmente chiuse – ha così assunto in Europa la forma di schemi per l’importazione di lavoratori altamente qualificati, di lavoratori stagionali (una tipologia che assorbe in molti Paesi la quota di gran lunga preponderante degli ingressi ammessi) e di lavoratori a tempo determinato o contract workers. Ancora più significativo è constatare come quest’approccio, coerente con la tradizione europea, si sia progressivamente esteso anche alle vecchie nazioni d’immigrazione, un tempo orientate a favorire l’insediamento definitivo e la naturalizzazione dei migranti, per poi essere fatto proprio anche dai maggiori importatori di manodopera del continente asiatico. In questi ultimi, anzi, la logica funzionalistica ha modo di dispiegarsi senza i vincoli imposti dagli ordinamenti democratici, fino a precludere ai lavoratori (e alle lavoratrici) stranieri la possibilità di realizzare il ricongiungimento familiare, sposarsi con un autoctono, mettere al mondo un figlio.
L’attuale scenario continua, inoltre, a essere caratterizzato da una consistente pressione migratoria indipendente dai dispositivi che regolano gli ingressi di lavoratori; in altri termini, da un’immigrazione non voluta e sottratta alla facoltà di pianificazione degli Stati di destinazione. A tale tendenza concorrono tre principali determinanti.
In primo luogo, l’intensificarsi dei ricongiungimenti familiari e la progressiva trasformazione di un’immigrazione di lavoratori in un’immigrazione da popolamento, alimentata anche dalle nascite da famiglie immigrate, un processo che ha finito con l’investire anche quei Paesi – il caso più citato è quello della Germania – che avevano optato per un modello rotatorio, fondato su permanenze a tempo determinato e sulla figura del ‘lavoratore ospite’. Nel complesso delle nazioni a sviluppo avanzato, la migrazione familiare rappresenta oggi la quota preponderante dei flussi permanenti, per raggiungere addirittura il 70% degli ingressi negli Stati Uniti. D’altro canto, la possibilità di ridurne l’incidenza è estremamente limitata, quanto meno nei regimi democratici che tutelano il diritto all’integrità familiare. Nel corso dell’ultimo decennio, anche l’Italia ha conosciuto una rapida crescita dei ricongiungimenti e delle nascite da genitori stranieri: attualmente, oltre un terzo dei permessi di soggiorno di cui sono titolari gli stranieri presenti in Italia è stato rilasciato per motivi di famiglia.
La seconda determinante è costituita dalle migrazioni di carattere umanitario e, in particolare, dei richiedenti asilo, il cui numero è cresciuto vertiginosamente tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, sollecitando l’adozione di misure di contenimento da parte di diversi Paesi. Gli Stati dell’UE, grazie anche alla progressiva comunitarizzazione della materia e all’applicazione di quanto stabilito nella Convenzione di Dublino – per cui l’istanza di asilo va presentata al primo Stato dell’Unione nel quale si è transitati, o al primo Stato terzo definito sicuro, senza possibilità di duplicare la richiesta – hanno raggiunto l’obiettivo di ridurre fortemente il volume delle domande, anche al prezzo di rimettere in discussione, secondo i pareri più critici, lo stesso istituto del rifugio politico. Tale trend si è ulteriormente consolidato nel corso del primo decennio del 21° sec., portando il numero di rifugiati politici complessivamente accolti ogni anno dai Paesi OECD al di sotto delle 300.000 unità. Gli Stati che ricevono un maggior numero di asilanti sono Francia, Germania, Regno Unito, Austria, Canada e Stati Uniti, mentre in Italia, complice anche l’assenza di un quadro giuridico adeguato (sanata solo nel 2008, grazie all’adozione delle direttive comunitarie) il numero di istanze presentate è rimasto costantemente al di sotto di quelle inoltrate alle autorità delle altre maggiori nazioni europee. Si può però affermare che l’elevata ricettività nei confronti degli immigrati irregolari e clandestini ha fatto di questi ultimi una sorta di equivalente dei falsi asilanti che, negli altri Paesi europei, tentavano d’aggirare il blocco all’immigrazione economica legale. Comune a molti Stati è, inoltre, la presenza degli ‘asilanti in nero’, persone non ufficialmente riconosciute come rifugiati, ma, di fatto, tollerate sul territorio nazionale, soprattutto allorquando la situazione dei Paesi d’origine e lo stato dei rapporti diplomatici non consente la loro espulsione: molti dei soggetti che approdano clandestinamente in Italia, non potendo essere respinti in quanto protetti dalla clausola del non-refoulement stabilita dalla Convenzione di Ginevra, finiscono con l’ottenere permessi di soggiorno per ragioni umanitarie che, pur non offrendo i medesimi diritti associati allo status di rifugiato, scongiurano il rischio d’essere espulsi. Nel tentativo di ridimensionare il fenomeno, il governo, nel maggio 2009, ha adottato la strategia – giudicata decisamente discutibile e lesiva dei diritti umani da molti osservatori italiani e stranieri – di impedire lo sbarco sulle coste italiane delle imbarcazioni che trasportano migranti, rinviandole alle regioni d’origine.
Resta il fatto che le migrazioni di profughi e rifugiati hanno conosciuto in questi anni un’evoluzione drammatica, raggiungendo dimensioni tali da configurarsi come una vera e propria emergenza internazionale. Stime risalenti all’inizio del decennio parlano di almeno 14 milioni di rifugiati politici nel mondo, cifra alla quale andrebbero aggiunti quanti fruiscono di una protezione di carattere temporaneo; un numero imprecisato, ma senz’altro enorme, di internal displaced persons, ossia di persone costrette a fuggire dai loro luoghi di residenza senza però riuscire a espatriare (privi d’ogni forma di protezione, sono l’emblema di un’intollerabile gerarchizzazione delle vittime); un certo numero di ‘rifugiati in orbita’, esito di un rimpallo di responsabilità tra le varie nazioni, nessuna delle quali alla fine accetta di accoglierli; una quantità smisurata – che secondo le stime dell’UNHCR (Unit-ed Nations High Commissioner for Refugees) potrebbe nel giro di qualche anno raggiungere i 50 milioni – di rifugiati ‘ecologici’. Cifre drammatiche alle quali la comunità internazionale risponde con un sistema di protezione del tutto anacronistico e inadeguato. Inoltre, al di là dei problemi di ordine giuridico e politico sollevati dalle migrazioni di carattere umanitario, merita di essere segnalata l’evoluzione, o meglio l’involuzione, dell’opinione pubblica dei Paesi d’accoglienza, che ha visto un atteggiamento di complessivo favore cedere il passo al malcontento e all’ostilità verso una categoria percepita come parassitaria e non di rado divenuta vittima di reazioni xenofobe e razziste.
L’avvento di regimi migratori meno liberali rispetto a quelli del passato ha altresì comportato, dall’ultimo quarto dello scorso secolo, una crescita degli ingressi e delle presenze irregolari in molti Paesi d’immigrazione: una sorta di effetto fisiologico della sproporzione tra la pressione migratoria globale e le possibilità d’ingresso legale riconosciute dagli ordinamenti dei vari Paesi. Quantificare con esattezza il fenomeno dell’immigrazione irregolare è praticamente impossibile, ma si stima, per es., che vi siano circa 10 milioni di immigrati undocumented negli Stati Uniti, e che circa 500.000 ne varcassero annualmente le frontiere prima che il governo americano annunciasse, nel 2006, il proposito di costruire un muro difensivo lungo la frontiera con il Messico, dove si contava in media una morte al giorno tra coloro che tentavano di varcare la linea di confine. Le frontiere esterne dell’Unione Europea sono anch’esse teatro di ripetuti incidenti: l’anno peggiore è stato il 2006, con 1582 vittime accertate, di cui oltre mille sulle rotte per le Canarie. Nonostante questo pesante tributo di sangue e il forte inasprimento delle misure di contrasto all’immigrazione irregolare – una tendenza ormai generalizzata –, quest’ultima resta decisamente sostenuta e giunge anzi a interessare molti Stati tradizionalmente lontani dai riflettori. Ma quali sono le cause di un fenomeno che proprio nel corso di questo decennio ha fatto tanto parlare di sé in Italia e nel mondo?
Una prima ragione è indubbiamente rappresentata dagli enormi divari – in termini di diffusione del benessere, opportunità di lavoro e realizzazione personale, andamenti demografici e così via – che separano i Paesi sviluppati da quelli in via di sviluppo, alimentando un’irrefrenabile pressione migratoria, ben più consistente rispetto alle possibilità di migrazione legale offerte dai vari Stati. Anzi, alla luce di tale divario potrebbe semmai apparire decisamente sottodimensionato l’attuale volume dei flussi e quasi inevitabilmente destinato a crescere nel prossimo futuro, parallelamente all’integrazione di nuove regioni del pianeta nelle traiettorie della globalizzazione. La migrazione, infatti, è sempre un fenomeno selettivo, che annuncia un’incipiente modernizzazione piuttosto che essere la causa di un cronico sottosviluppo, e che accompagna i momenti di transizione e le congiunture critiche. Se, per es., si guarda a uno dei flussi che negli ultimi anni ha maggiormente contribuito ad alimentare l’immigrazione irregolare in Italia, quello dall’Europa dell’Est, i fattori incentivanti sono molteplici, ma tra essi spiccano la pressione indotta dalle profonde trasformazioni societarie che hanno accompagnato la transizione all’economia di mercato e un’integrazione economica con i Paesi dell’UE solo avviata, ma già tangibile attraverso la presenza di delocalizzazioni produttive. Un’altra causa dell’immigrazione irregolare è rappresentata dall’inadeguatezza del quadro normativo in rapporto alla capacità attrattiva esercitata dal mercato del lavoro dei vari Paesi. Un caso esemplare è costituito dalla Russia che, coinvolta in un accelerato processo di modernizzazione economica, si è rapidamente trasformata in area di destinazione d’ingenti flussi provenienti soprattutto dalle ex Repubbliche sovietiche: nel 2006, si stimava la presenza di circa 10 milioni di immigrati, la gran parte dei quali (addirittura l’80-90%) irregolari, un fenomeno che ha indotto il governo a un repentino mutamento d’approccio e al varo di una serie di provvedimenti legislativi per consentire la regolarizzazione dei presenti e l’ingresso legale dei new comers.
Anche in Italia sono in molti ad affermare che la principale causa dell’immigrazione irregolare è rappresentata da un regime d’ammissione sottodimensionato non solo rispetto alla pressione migratoria dall’estero, ma anche in rapporto al volume della domanda di lavoro potenziale, e soprattutto ai caratteri di quest’ultima, che mal si prestano a essere intercettati dal sistema di programmazione disegnato dal legislatore, che pertanto non appare in grado di svolgere una reale funzione disincentivante dei flussi irregolari. E ancora, non si può sottovalutare l’interesse dei Paesi d’origine dei migranti a incamerare il prezioso flusso delle rimesse che giungono dai propri connazionali all’estero, indipendentemente dalla condizione, regolare o irregolare, di questi ultimi: basti pensare che tale flusso è decisamente superiore non solo a quello degli aiuti internazionali allo sviluppo, ma anche al volume degli investimenti diretti all’estero. Un’altra causa di non poco conto è costituita dal rafforzamento delle organizzazioni specializzate nell’immigrazione clandestina, che lucrano enormi profitti imponendo a volte ai migranti di divenire loro complici nel commercio di stupefacenti (per es., fungendo da corrieri durante il viaggio) e in altre attività illecite. Il principale fattore d’incentivazione dell’immigrazione irregolare è però probabilmente costituito dalla diffusione dell’economia sommersa e dalla straordinaria capacità attrattiva che essa esercita nei confronti dei potenziali migranti. Esiste ormai una copiosa serie di studi e ricerche che attesta la relazione tra economia sommersa e immigrazione, non solo nei Paesi arretrati, ma nelle stesse nazioni a sviluppo avanzato, dove anzi la terziarizzazione dell’economia e il riammodernamento dei processi produttivi sono passati anche attraverso una tendenza all’informalizzazione dei rapporti di lavoro. Quanto all’Italia, il fenomeno del lavoro nero assume com’è noto dimensioni particolarmente allarmanti in ragione del radicamento culturale che lo contraddistingue e della diffusa tolleranza nei suoi confronti. Nelle regioni meridionali l’irregolarità costituisce una componente ‘normale’ di un modello di sviluppo e di funzionamento istituzionale a illegalità diffusa: le infrazioni alla normativa lavoristica hanno un carattere strutturale, con livelli di gravità diversi, che arrivano fino alla costituzione di imprese ‘fantasma’ che trovano nell’immigrazione clandestina un bacino di reclutamento particolarmente vantaggioso. In agricoltura, l’impiego in nero degli immigrati s’inserisce in un quadro di reciproche convenienze che riguardano datori di lavoro, immigrati di recente arrivo, lavoratori locali assistiti dai sussidi pubblici. In termini più generali, e con particolare riguardo alle regioni economicamente più dinamiche, l’occupazione irregolare degli immigrati costituisce un fenomeno contiguo e dai confini porosi rispetto all’attuale tendenza alla moltiplicazione dei bad jobs (i ‘cattivi’ lavori) e alla precarizzazione dei rapporti d’impiego, frammista all’utilizzo disinvolto di soluzioni contrattuali solo apparentemente legali.
La cronica insufficienza dell’attività ispettiva e la sostanziale inapplicazione delle sanzioni – anche di carattere penale – che la legge prevede per coloro che impiegano immigrati irregolari inibisce la portata dissuasiva di questi strumenti; ciò vale a maggiore ragione per il lavoro domestico e d’assistenza svolto presso le famiglie, che rappresenta ormai lo sbocco consueto per le new comers che entrano in Italia clandestinamente o con un visto turistico. Nell’interpretazione delle cause dell’immigrazione irregolare non si può, infine, trascurare l’inefficacia degli strumenti di contrasto, un problema di ordine generale ma che, ancora una volta, si presenta in Italia in forme paradigmatiche. Vale la pena, al riguardo, osservare che la lotta all’immigrazione irregolare – in Italia e non solo – si è diretta primariamente al controllo delle frontiere, associandosi a una politica liberale nel rilascio dei visti, specie a favore degli immigrati originari dall’Europa orientale che, non a caso, hanno rappresentato la parte più cospicua dell’immigrazione irregolare nel recente passato. All’opposto, ad alimentare quest’ultima è soprattutto il fenomeno degli overstayers, ossia il protrarsi del soggiorno oltre la scadenza del visto, e la permanenza di coloro che si sono visti rifiutare la richiesta d’asilo politico. Si tratta di problemi diffusi a livello internazionale e particolarmente radicati nel contesto italiano, in virtù della vocazione turistica del Paese, che si traduce in una relativa facilità di rilascio di un visto turistico, e, soprattutto, delle modalità scarsamente istituzionalizzate d’incontro tra domanda di lavoro e offerta immigrata. Prova ne sia che la gran parte degli immigrati regolarmente presenti in Italia è transitata da una fase più o meno lunga d’irregolarità, ha lavorato al nero e solo in seguito ha potuto regolarizzare la propria posizione, grazie a una delle sanatorie che si sono succedute dal 1986 al 2002 (quest’ultima in particolare ha raccolto quasi 700.000 domande) o simulando una chiamata nominativa dall’estero da parte di un datore di lavoro nell’ambito dei contingenti annuali d’ingresso fissati dal governo. Sostanzialmente insensibile al quadro normativo di contesto – nonostante tutte le modifiche legislative occorse nel tempo siano state preannunciate come finalizzate a contrastare l’immigrazione irregolare – il fenomeno dell’irregolarità va dunque imputato innanzitutto all’immagine dell’Italia come di un Paese in cui è facile risiedere e lavorare pur essendo sprovvisti dei requisiti di legge. La stessa autorizzazione di ampi contingenti d’ingresso di lavoratori immigrati nel corso dell’ultimo decennio non sembra avere inciso in modo determinante sulla dinamica dei flussi irregolari: così, al di là delle oscillazioni nel tempo della componente irregolare sul complesso della popolazione immigrata, la violazione delle procedure di legge resta la cifra distintiva dell’immigrazione in Italia, con conseguenze profonde che coinvolgono l’intero rapporto tra immigrati e società italiana.
Le migrazioni rappresentano innanzitutto un fattore di trasformazione demografica delle nazioni di destinazione. Sarebbe sufficiente, per rendersene conto, guardare all’attuale composizione etnica di molti Paesi – dagli Stati Uniti al Canada, dall’Argentina all’Australia, ma anche la Francia e la Gran Bretagna, solo per citare alcuni esempi – che è appunto il portato dei flussi migratori del passato. Non a caso, l’immigrazione è stata ripetutamente evocata, in questi anni, come un possibile antidoto al declino demografico che investe l’Italia e l’Europa (cfr. in particolare: United Nations, Replacement migration: is it a solution to declining and ageing populations?, 2001), sebbene essa rappresenti evidentemente una soluzione solo parziale rispetto a un problema che chiama in primo luogo in causa interventi di sostegno alla famiglia e alla natalità, cronicamente carenti in Italia. D’altro canto, è proprio grazie ai nuovi flussi e alle nascite da stranieri – favorite dalla loro maggiore propensione procreativa e dal fatto che si tratta in buona parte di soggetti giovani – che l’Italia è riuscita a scongiurare il rischio di un decremento della popolazione, ridimensionando al contempo gli effetti dell’invecchiamento. La popolazione straniera in Italia registra, infatti, un tasso di natalità del 20,6‰, oltre il doppio di quello riferito alla popolazione italiana (8,9‰); il tasso di mortalità, che risulta pari al 9,9‰ tra gli italiani, precipita all’1,2‰ tra gli stranieri; conseguentemente, il tasso di crescita naturale assume valore negativo per gli italiani (-0,9), ma decisamente positivo per gli stranieri: 10,6 (secondo dati riferiti al 2006).
Conformemente alle teorie sul ciclo migratorio, la popolazione straniera ha conosciuto, negli ultimi anni, un progressivo radicamento sul territorio e una trasformazione in immigrazione familiare e da popolamento: evoluzione attestata non solo dai nuovi nati, ma anche dai ricongiungimenti familiari; dai matrimoni contratti in Italia (oltre 35.000 nel 2006) e dallo stesso fenomeno dei matrimoni misti, tra coniugi di diversa nazionalità (la cui incidenza sul totale delle nozze celebrate in Italia ha ormai superato il 12%); dalla crescente propensione all’acquisto dell’abitazione; dall’apparire sulla scena pubblica delle cosiddette seconde generazioni (il numero di minori stranieri è arrivato nel 2008 a sfiorare le 770.000 unità, con un’irresistibile tendenza a crescere ancora), copiosamente presenti nel sistema scolastico (nell’anno scolastico 2006-07, il numero di alunni stranieri iscritti a scuola ha superato il mezzo milione, per raggiungere quota 574.133 nel 2007-08, pari al 6,4% degli studenti) e che s’apprestano, nei prossimi anni, a divenire una percentuale significativa dei nuovi ingressi sul mercato del lavoro; dall’aumento, infine, della componente inattiva della popolazione straniera, con un conseguente maggiore impatto sugli apparati di welfare e, in prospettiva, sullo stesso sistema pensionistico che si è fino a questo momento giovato soprattutto della contribuzione fornita da una popolazione straniera concentrata nelle fasce d’età attive. E ancora, gli immigrati hanno acquistato una crescente visibilità nello spazio pubblico: attraverso i loro percorsi insediativi e le loro pratiche di fruizione degli spazi pubblici, essi hanno anche contribuito a una risignificazione di molti luoghi, a una serie di microtrasformazioni del parco immobiliare, a un mutamento degli stili di vita della città, delle forme dell’abitare e delle relazioni pubbliche, dell’identità di alcuni quartieri. Gli immigrati sono anche grandi fruitori di spazi pubblici come parchi, piazze e stazioni, eletti a luoghi d’incontro e d’aggregazione. Queste abitudini spesso suscitano reazioni negative da parte degli altri abitanti e city users, che associano alla loro presenza la perdita di decoro dei quartieri, la crescita della delinquenza urbana, il sovraffollamento dei mezzi di trasporto pubblico, la diffusione del senso d’insicurezza.
L’immigrazione rappresenta anche un fattore di trasformazione dell’economia e del mercato del lavoro. A tale riguardo va in primo luogo osservato che in tutti i Paesi a sviluppo avanzato l’incidenza degli immigrati sulla forza lavoro ha continuato a crescere anche negli ultimi anni, nonostante i limiti stabiliti dai regimi d’ammissione. Ciò vale in particolare per l’Italia, dove la crescita ininterrotta del numero di lavoratori stranieri e la loro diffusione in segmenti diversi del mercato del lavoro ne hanno fatto una componente fondamentale dell’economia e della sua evoluzione. Inoltre, se la transizione migratoria dell’Italia si è realizzata in maniera del tutto spontanea, senza neppure un quadro normativo minimamente adeguato a regolare il percorso d’inserimento dei lavoratori immigrati, proprio gli anni a cavallo tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. hanno coinciso con i maggiori sforzi d’istituzionalizzazione dei processi migratori; sforzi che hanno trasformato l’Italia in uno dei principali importatori ufficiali di manodopera nello scenario internazionale contemporaneo. Riflettendo i caratteri più generali dell’inclusione lavorativa nelle economie postfordiste, anche in Italia il lavoro degli stranieri si concentra nei segmenti meno apprezzati socialmente e disertati dagli autoctoni (il cui esempio paradigmatico è rappresentato dal lavoro di collaboratore/trice domestico/a, non a caso il primo mestiere a essere investito da un processo di etnicizzazione). L’espansione dei lavori del terziario di servizio a bassa qualificazione è, infatti, un fenomeno internazionalmente associato ai processi di gentrificazione dei quartieri urbani, allo sviluppo del turismo d’affari, all’avvento della service society, che portano con sé una domanda di ‘nuove servitù’ in buona misura soddisfatta proprio da immigrati e minoranze etniche.
Oltre che da tali comparti, in Italia il fabbisogno di manodopera a bassa qualificazione è alimentato da quelli più tradizionali, in particolare dall’edilizia e dal sistema delle piccole e medie imprese manifatturiere (anche in ragione del peso, inusuale nel confronto con nazioni a simile livello di sviluppo, che tale settore continua a rivestire), che incontrano difficoltà nel reperire tutta una serie di figure professionali, considerato che le aspettative dei giovani italiani si sono innalzate parallelamente alla diffusione dell’istruzione superiore e universitaria. Alla crescita dell’occupazione straniera ha inoltre concorso il consolidamento di stereotipi e pregiudizi sul ruolo degli immigrati, tradottosi in un meccanismo d’etichettamento di alcuni mestieri (ridefiniti appunto come lavori da immigrati) e, in taluni casi, nella costituzione di ‘specializzazioni etniche’ (i filippini nel lavoro domestico, gli indiani nelle attività d’allevamento, i romeni e gli albanesi nell’edilizia); processi dai quali è derivata una sorta di preferenza, da parte dei datori di lavoro, a ricorrere agli immigrati nelle loro strategie di reclutamento, con possibili effetti di dumping sociale per le fasce più deboli della manodopera autoctona e il rischio di un progressivo deterioramento. Fenomeni che, come la storia insegna, sono quasi inevitabilmente associati all’arrivo di una manodopera particolarmente duttile e adattabile ma che, secondo molti esperti, finiscono con il risultare esasperati nel contesto contemporaneo, a causa di una più generale tendenza alla precarizzazione dei rapporti d’impiego e di un regime migratorio che, attraverso permessi di soggiorno vincolati alla condizione lavorativa, accresce la vulnerabilità dei lavoratori stranieri.
Gli immigrati sono anche annoverati tra i protagonisti dell’internazionalizzazione dell’economia: nelle ‘città globali’, che incorporano le funzioni strategiche per il funzionamento e il governo dell’economia mondiale, gli stranieri rappresentano una quota sempre più significativa della forza lavoro, concentrandosi ai due poli della gerarchia delle professioni, quello più alto (che comprende il management delle multinazionali, i dirigenti dell’industria culturale e della finanza, gli scienziati e i ricercatori, gli artisti e i personaggi del mondo dello spettacolo) e quello più basso (che ingloba i lavoratori manuali dell’industria e del terziario e, in particolare, di tutto quel complesso di attività di custodia, pulizia, facchinaggio, manutenzione, ristorazione, poco remunerate e a basso prestigio sociale che sostengono la vita quotidiana delle città). Negli ultimi anni, un’attenzione particolare è stata inoltre rivolta al fenomeno del lavoro autonomo e della cosiddetta imprenditorialità etnica. Interpretata dapprima come strategia d’ascesa sociale e di reazione alla mobilità bloccata sperimentata nel lavoro dipendente, la diffusione del lavoro autonomo tra gli immigrati è stata successivamente colta anche nei suoi profondi legami con i processi di riorganizzazione della produzione e di diffusione delle pratiche di outsourcing (che hanno aperto ampi spazi a operatori disponibili a comprimere drasticamente i tempi d’esecuzione delle commesse e i costi del lavoro) e con l’emergere di un nuovo segmento di consumatori costituito dalle stesse comunità immigrate (come nel caso dei phone centers e degli altri esercizi che offrono servizi di vario tipo, oppure dei negozi specializzati nella vendita di cibi e prodotti etnici).
Ma il legame tra migrazioni e internazionalizzazione delle economie locali emerge in modo ancora più evidente nell’esperienza degli imprenditori trasmigranti, che fanno della loro condizione di doppia appartenenza il principale vantaggio competitivo (nel caso, per es., di chi si specializza in attività di import/export tra il Paese d’origine e quello di destinazione), mettendo a frutto i legami che connettono i vari poli delle diaspore (come nel caso degli imprenditori che realizzano investimenti produttivi nel Paese d’origine e nelle altre mete della migrazione, coinvolgendo le risorse finanziarie e umane dei connazionali), sviluppando strategie di mercificazione dell’identità etnica e culturale in grado di intercettare i gusti e gli stili di vita sempre più diversificati dei residenti e dei visitatori di una metropoli contemporanea (come nel caso dei quartieri etnici che le iniziative commerciali e folcloristiche degli immigrati trasformano in luoghi d’attrazione turistica), creando opportunità di lavoro nei propri Paesi d’origine o in quelli da cui provenivano i loro antenati, ricongiungendo simbolicamente i due poli della storia migratoria familiare.
A tale riguardo merita di essere ricordato come l’inizio del 21° sec. abbia registrato anche un rinnovato interesse per il rapporto tra migrazioni e sviluppo dei Paesi d’origine, con la costituzione della Commissione globale sulle migrazioni internazionali e la stesura, da parte del segretario generale delle Nazioni Unite, di un rapporto preparatorio all’High-level dialogue dell’Assemblea generale dell’ONU, svoltasi nel settembre 2006. Il tono generale di queste iniziative è dato dall’auspicio di rendere il governo e la governance della mobilità umana uno degli elementi cardine delle politiche di sostegno allo sviluppo dei Paesi arretrati, valorizzando il ruolo che i migranti possono giocare, sia come singoli, sia nelle loro espressioni organizzate che danno visibilità alle diaspore.
Si tratta di un tema che riflette, da un lato, la maggiore consapevolezza del potenziale che gli emigranti rappresentano, data la loro capacità di creare ricchezza e realizzare risparmi per le economie dei Paesi in via di sviluppo (di cui la manifestazione più eclatante è costituita dall’ingente flusso di rimesse) e, dall’altro, il ripensamento in atto delle politiche di gestione della mobilità umana e di contenimento della pressione migratoria. E si tratta di un tema esplicitamente fatto proprio dall’Unione Europea che, negli ultimi tempi, ha ripetutamente affermato la sua opzione per il cosiddetto cosviluppo – definito dal Parlamento europeo (risoluzione n. 2244 del 2005) una strategia basata sulla valorizzazione del potenziale rappresentato dalle comunità migranti stabilitesi nei Paesi ricchi a favore dello sviluppo dei loro Paesi d’origine –, sebbene tale enfasi non trovi corrispondenza nel quadro giuridico che regola le migrazioni, obbediente piuttosto a una logica di securization e di ammissione selettiva. Per quel che riguarda i Paesi di emigrazione, si registra un loro crescente attivismo per riallacciare contatti con quanti vivono all’estero, perorare la doppia cittadinanza, promuovere un’immagine positiva dei propri migranti, creare istituzioni incaricate di lavorare con i diversi poli della diaspora, sostenere le associazioni, attrarre rimesse e investimenti.
Tra gli effetti delle migrazioni internazionali va annoverato il venir meno di quel principio di coincidenza tra un popolo, una nazione, un territorio in cui si esercita la sovranità statuale e la cittadinanza che il nazionalismo ha posto a base del funzionamento istituzionale delle società moderne. In altri termini, l’immigrazione obbliga le società a ripensare ai criteri che definiscono la membership alla nazione e regolano l’accesso ai diritti di cittadinanza. Un’esigenza divenuta sempre più pressante in questi ultimi anni, sia in ragione della crescita dei migranti internazionali – tale da rendere improrogabile la ricerca di soluzioni che ristabiliscano una coincidenza tra la comunità dei residenti (e dei contribuenti) e quella dei cittadini – sia in ragione di una serie di processi che riguardano la progressiva istituzionalizzazione di spazi sopranazionali, la mobilitazione delle diaspore e delle appartenenze transnazionali, gli sviluppi della dottrina dei diritti umani universali, lo stesso dibattito sul multiculturalismo e sul governo delle società plurietniche.
Secondo la soluzione tradizionale, la membership alla comunità politica si basa sulla cittadinanza, e lo status del cittadino è nettamente differenziato da quello dello straniero. In questa prospettiva, un’importanza fondamentale hanno le modalità per l’ottenimento della cittadinanza alla nascita e le procedure per la naturalizzazione, oggetto di una vasta operazione di ripensamento proprio sulla scorta dei problemi e delle tensioni che l’immigrazione ha fatto emergere. Gli ordinamenti basati primariamente sul principio di discendenza (ius sanguinis), tutto sommato coerenti con uno schema migratorio a tempo e scopo determinati, mostrano i loro limiti nel momento in cui la presenza straniera si stabilizza e dà vita alle seconde generazioni, con il rischio di rafforzare la costituzione di enclave autoreferenziali e il senso di disaffezione – o di aperta rottura – nei confronti della società in cui si vive da stranieri. Quelli invece basati sul diritto di suolo (ius soli) sono più consoni allo status di Paese d’immigrazione, ma possono svilire l’istituto della cittadinanza, accentuandone la componente strumentale a dispetto di quella identitaria e valoriale. Si spiega così come, negli ultimi anni, molti Paesi abbiano modificato le proprie legislazioni, vuoi rendendo più facile l’acquisizione della cittadinanza per gli immigrati e per i loro figli, vuoi riducendo gli automatismi e subordinando la naturalizzazione a un qualche tipo di verifica sull’effettivo grado d’integrazione socioculturale. In questo quadro, l’esperienza italiana appare in controtendenza, avendo la l. 5 febbr. 1992 n. 91 accentuato il carattere ereditario della cittadinanza – anche allo scopo di favorirne la riacquisizione da parte dei discendenti degli emigrati italiani all’estero – proprio nel momento in cui l’Italia si avviava a divenire uno dei principali Paesi d’immigrazione; di qui l’esigenza, da più parti avvertita, di adottare soluzioni legislative più congrue all’attuale ruolo del Paese nello scenario migratorio internazionale.
La soluzione tradizionale non esaurisce peraltro il complesso delle questioni poste dalla relazione tra migrazioni, cittadinanza e diritti di cittadinanza, laddove è possibile individuare – in letteratura così come nella prassi politico-amministrativa – altre vie d’uscita all’impasse in cui versa l’istituto stesso della cittadinanza. Tra di esse va in primo luogo ricordata la progressiva estensione dell’istituto della denizenship, una sorta di status intermedio tra quello di cittadino e quello di straniero. Di esso è attualmente titolare, nell’ambito degli Stati democratici, un numero cospicuo di stranieri che, oltre ad avere maturato una certa anzianità di residenza, possiede taluni requisiti che ne attestano l’integrazione (quali un lavoro regolare, un certo livello di reddito, un’abitazione adeguata). I denizen godono dei diritti civili e sociali in condizioni di tendenziale parità con i cittadini, mentre sono di norma esclusi dai diritti politici (salvo in alcuni Paesi, dove però il godimento dei diritti d’elettorato passivo e attivo è in genere limitato alle elezioni locali). Lo status di denizen si completa, infine, attraverso la concessione di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, che affranca dall’onere di doverne periodicamente richiedere il rinnovo. Nell’ordinamento italiano, tale istituto è stato introdotto con il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero del 1998, che ha previsto il rilascio di una carta di soggiorno (successivamente ridefinita, ai sensi della normativa comunitaria, permessi di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo) a coloro i quali abbiano maturato un’anzianità di residenza regolare di almeno cinque anni. La denizenship realizza sostanzialmente un’estensione della membership ai migranti lungo-residenti, come riconoscimento del loro contributo alla società e all’economia, portando alla progressiva disgiunzione tra la nazionalità e il godimento dei privilegi connessi alla cittadinanza. Tutto ciò non toglie che i diritti accordati ai denizen abbiano una natura intrinsecamente provvisoria, alla quale non è evidentemente estranea la loro esclusione dalla partecipazione politica, ed è proprio in relazione a tale aspetto che si profila una serie di elementi problematici. In numerosi Paesi, infatti, l’estensione ai migranti dei diritti sociali ha fomentato il malcontento dei cittadini ‘proprietari dello Stato’, che lamentano l’onerosità per i bilanci pubblici di una popolazione – quella appunto immigrata o di origine immigrata – che acquista in questo modo la facoltà di accedere a tutti i diritti e le protezioni sociali.
L’accelerazione della mobilità umana, inscrivendosi nello scenario del transnazionalismo, ha dato corpo a un’ulteriore forma di cittadinanza, definita appunto cittadinanza transnazionale. Prendendo atto del crescente coinvolgimento dei migranti in pratiche transnazionali capaci di infrangere i confini degli Stati, sia dal punto di vista pratico, sia da quelli simbolico e identitario, così come della varietà d’espressioni della processualità migratoria (per es., le migrazioni di ritorno, o migrazioni circolari), questa prospettiva configura una nuova forma d’adattamento alla società ospite, che non implica la rottura con il contesto d’origine, ma al contrario s’avvantaggia proprio del mantenimento di costanti legami con esso. L’ipotesi della membership transnazionale prevede dunque la possibilità, per una persona, di essere contemporaneamente membro sia della società d’origine, sia di quella di residenza, attraverso il possesso di una doppia cittadinanza e il godimento di diritti (anche politici) in entrambi i Paesi. La moltiplicazione dei titolari di doppia cittadinanza è in effetti un fenomeno emergente a livello internazionale, al quale hanno concorso sia le modifiche legislative introdotte in questi ultimi tempi negli ordinamenti di vari Paesi di emigrazione e d’immigrazione (che non impongono più la rinuncia della cittadinanza d’origine a chi richiede la naturalizzazione), sia la crescita dei matrimoni misti e delle nascite da coppie miste, sia le norme sulla parità di genere (che non obbligano più la donna a rinunciare alla propria cittadinanza nel momento in cui acquisisce quella del marito). Oltre che attraverso il superamento del vecchio dogma dell’unicità della cittadinanza, la membership transnazionale si traduce da un lato nell’estensione del diritto di voto agli emigranti soggiornanti in Paesi stranieri (come previsto dalle legislazioni di molti Stati di vecchia e nuova emigrazione, tra i quali l’Italia) e, dall’altro, nel riconoscimento dei diritti politici agli stranieri soggiornanti sul territorio di uno Stato, una soluzione introdotta in vari ordinamenti (in forme estensive o subordinate alla clausola di reciprocità) e attualmente oggetto di dibattito anche in Italia.
L’idea di cittadinanza transnazionale, pur sconfessando un fondamentale principio organizzativo dello Stato nazione (la fedeltà a un’unica nazione), non prevede il superamento degli Stati, assumendoli piuttosto come unità geografiche e sociali sempre più interconnesse e dai confini sempre meno impermeabili. Non così l’idea di membership postnazionale, che opera una deterritorializzazione dei diritti della persona, entrando in collisione, specie nelle sue versioni più radicali, con la logica stessa della cittadinanza nazionale. Tale prospettiva tenta di superare il fondamentale paradosso di un ordine internazionale Stato-centrico e territorialmente definito, ossia il conflitto tra la logica dei diritti umani universali e le pretese di sovranità da parte dei singoli Stati, cogliendone le manifestazioni negli sviluppi del diritto internazionale in materia di protezione di apolidi e rifugiati, nell’istituzionalizzazione transnazionale dei diritti dei migranti e nella crescente porosità delle frontiere statuali, che si realizza attraverso la costituzione di spazi sovranazionali.
Invero, l’influenza della dottrina dei diritti umani universali sul trattamento degli stranieri è un dato incontrovertibile, almeno per quel che concerne i Paesi democratici, con la conseguenza di rendere sempre più visibile la tensione tra il principio di territorialità – al quale è ancorata la sovranità statuale – e l’affermazione di diritti esigibili dagli individui in quanto persone (al di là del loro status di cittadino o di straniero ed, entro certi termini, di straniero regolare o irregolare), anche a prescindere da una specifica volontà a riconoscerli degli Stati in cui risiedono. Peraltro, il concetto di cittadinanza postnazionale sembra al momento avere una valenza sostanzialmente normativa: la cittadinanza nazionale conferisce infatti una serie di diritti, protezioni e opportunità che rendono tuttora determinante il discrimine tra cittadino e straniero; al contempo, il diritto d’emigrazione, solennemente sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, non trova corrispondenza in un diritto d’immigrazione; così come al diritto di chiedere asilo non fa riscontro un dovere di garantirlo da parte dei singoli Stati. La stessa possibilità di movimento attraverso i confini degli Stati viene di fatto goduta soprattutto dai cittadini dei Paesi che sono economicamente e politicamente dominanti, a causa di una politica di gestione dei visti decisamente asimmetrica; infine, non esiste alcun regime internazionale che disciplini la materia della cittadinanza, che è dunque lasciata alla facoltà di scelta dei singoli Stati.
L’incoerenza tra una processualità sociale sempre più globale e un mondo che resta diviso in Stati-nazione, così come le difficoltà di un ipotetico passaggio alla cittadinanza postnazionale, hanno indotto molti a guardare con interesse alla prospettiva di una membership sovranazionale, ossia alla costituzione di sintesi politiche che uniscano molteplici Stati. L’esempio oggi più avanzato a livello internazionale è rappresentato dall’Unione Europea, sia per la significativa riallocazione di competenze sottratte ai singoli Stati membri, anche in materia di politiche migratorie e di trattamento dei cittadini dei Paesi terzi (questioni oggetto in questo decennio di una comunitarizzazione assai più decisa di quanto non fosse avvenuto negli anni passati); sia per il riconoscimento di una cittadinanza europea che, senza sostituire la cittadinanza nazionale, vi aggiunge dei diritti supplementari; sia ancora per il processo di europeizzazione della cittadinanza che, mediante l’imposizione agli Stati dell’obbligo di modificare le proprie legislazioni in conformità alle direttive comunitarie, ha contribuito a democratizzare le società nazionali attraverso, per es., l’adozione di misure in materia di pari opportunità, diritti delle donne, contrasto della discriminazione nei confronti delle minoranze etniche, promozione dei disabili, affermazione dei diritti umani universali. La cittadinanza europea, istituita dal Trattato di Maastricht (1992), è attribuita automaticamente a tutti i cittadini dei Paesi dell’Unione Europea che si trovano così a godere, in particolare, dei diritti alla libera circolazione nel territorio dell’Unione, di elettorato attivo e passivo alle elezioni locali ed europee nello Stato in cui risiedono (anche se diverso da quello di cui si è cittadini), di fruire della protezione da parte delle autorità diplomatiche di altri Stati membri nel territorio di un Paese terzo, di presentare petizioni al Parlamento europeo.
Quella europea è una forma di cittadinanza derivata da quella nazionale, che non può in alcun modo essere acquisita autonomamente: ciò significa che, nel caso degli immigrati d’origine extraeuropea, lo status di cittadino dell’Unione può essere raggiunto in modi diversi, che riflettono l’eterogeneità delle normative nazionali. Ma ciò significa anche che i milioni di stranieri che risiedono stabilmente in uno dei Paesi dell’Unione sono formalmente esclusi dalle prerogative riconosciute ai cittadini europei, nonostante a essi siano garantiti, proprio in virtù della residenza prolungata, una serie di diritti civili, sociali e a volte perfino politici. Anzi, un sistema di stratificazione civica che discrimina positivamente i cittadini dei Paesi membri rispetto a quelli degli Stati terzi ha semmai l’effetto di rendere più tangibili, anche dal punto di vista simbolico, le limitazioni che colpiscono questi ultimi. E ancora, in molti segnalano come nel processo di costruzione europea siano prevalse le tendenze e le richieste di omologazione agli standard dettati dai Paesi più forti e dalla parte più influente della società civile europea, con una sottovalutazione della ricchezza e dell’eterogeneità che la caratterizzano, anche grazie alla presenza di minoranze autoctone e alloctone. Merita infine di essere ricordato che il recente ingresso nell’Unione Europea di alcuni dei principali Paesi esportatori di manodopera (la Romania e la Polonia in particolare) ha reso palese il carattere artificioso e contingente delle categorizzazioni date per scontate (come appunto quella che distingue gli immigrati comunitari da quelli extracomunitari), ma anche più evidenti i privilegi della cittadinanza europea. Tale ingresso ha, infatti, sottratto una percentuale rilevante dell’offerta di lavoro immigrato dal raggio di competenza della disciplina legislativa in materia d’immigrazione, rendendola intestataria dei diritti e delle libertà che competono ai cittadini dell’Unione.
Nell’ambito di una riflessione sul rapporto tra cittadinanza e migrazioni internazionali non si può, infine, eludere il tema della cittadinanza multiculturale. Punto di partenza di tale prospettiva è la constatazione di come le migrazioni internazionali, rafforzando il pluralismo etnico, culturale e religioso delle società statual-nazionali, abbiano reso sempre più palese la natura arbitraria e fittizia dei confini delle nazioni, sottolineando la necessità di denaturalizzare il concetto di cittadinanza. All’idea della nazione come comune discendenza, esso contrappone quella della nazione come realtà che si aggiorna e si rinnova attraverso ricorrenti processi d’autocostituzione; la cittadinanza e i diritti di cittadinanza sono strumenti finalizzati non tanto a rendere le persone più ‘uguali’, quanto a organizzare il pluralismo e le differenze, coniugando le istanze di riconoscimento identitario con la salvaguardia della coesione sociale.
La cittadinanza multiculturale prevede il riconoscimento, la protezione e l’attribuzione di diritti speciali alla diversità culturale, in relazione alla convinzione che, insieme alla libertà e all’uguaglianza, anche l’identità culturale sia un bene costitutivo della dignità umana. Ciò implica il passaggio dall’universalismo di una natura umana astratta alla sua storicità, ponendosi come ulteriore sviluppo della teoria dei diritti umani e arrivando a concepire anche il riconoscimento di diritti e trattamenti differenziati in base alle specifiche affiliazioni di ciascun individuo, con l’obiettivo di preservare la differenza. È proprio ciò a rendere tale ipotesi particolarmente problematica, dato che nella tradizione delle democrazie occidentali i trattamenti differenziati sono stati di norma ammessi solo al fine di ridurre le disuguaglianze sociali. Invero, il riconoscimento delle istanze identitarie dei migranti e degli appartenenti alle minoranze etniche e culturali può avvenire secondo i modi consoni alla tradizione liberale, ossia riconducendo tali istanze alla prospettiva dei diritti individuali (si pensi, per es., alla libertà di culto).
La portata provocatoria dell’idea di cittadinanza multiculturale risiede, invece, nell’evenienza in cui essa si realizzi secondo una logica comunitarista, cioè attraverso la creazione di dispositivi istituzionali ad hoc per le comunità immigrate e l’attribuzione di diritti – e trattamenti – differenziati non ai singoli individui, bensì ai gruppi di cui essi fanno parte (o sono presunti far parte, atteso che quello di delimitare i confini dei gruppi e i criteri in base ai quali un individuo dovrebbe entrarne a far parte rappresenta uno dei problemi più delicati riguardo a tale soluzione). Si presume dunque l’esistenza di ordini comunitari e la possibilità di riconoscere quelli che diversi autori hanno definito diritti etnici, il cui significato innovativo risiede nel loro essere costituzionalmente diversi da quelli che li hanno preceduti: civili, politici, sociali. Questi ultimi sono diritti individuali, laddove i diritti differenziati sono diritti collettivi, forieri di compromettere il principio dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico (‘la legge è uguale per tutti’) sul quale si fondano le moderne democrazie, legittimando la differenziazione dei regimi di cittadinanza.
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