Società partecipate
Il fenomeno delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche aveva subìto molte critiche, soprattutto per l’eccessivo numero delle partecipate e la dilatazione del relativo campo di attività, non sempre rispondenti a reali esigenze di interesse pubblico. Nel contempo, era innegabile che le partecipazioni pubbliche rappresentassero (e rappresentino) uno strumento non solo consentito dal diritto europeo e costituzionale, ma anche concretamente utile, se correttamente gestito. Il t.u. n. 175/2016 costituisce dunque un atteso strumento normativo per la razionalizzazione delle partecipazioni pubbliche.
Il d.lgs. 19.8.2016, n. 175 reca il «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica», in attuazione della delega contenuta negli artt. 16 e 18 della legge (Madia) 7.8.2015, n. 124, che ha previsto numerosi interventi per il riordino delle amministrazioni pubbliche. In estrema sintesi, si può osservare che il t.u. si muove del tutto in linea con la posizione mediana già rinvenibile nell’art. 41 Cost.: accanto all’attività economica privata, che è espressione di libertà, si può avere un’attività economica pubblica, non però senza limiti, ma – in definitiva – in coerenza con il criterio di sussidiarietà orizzontale1.
La nuova disciplina definisce e regolamenta la “partecipazione pubblica” come «la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi» (art. 2, lett. f). Importante rilevare che molte norme del t.u. precisano essere applicabili unicamente alle società “in controllo pubblico” (definite nell’art. 2 lett. b ed m); comunque, il t.u. in generale si applica solo alle “società a partecipazione pubblica” che vengono identificate nelle: x) società a controllo pubblico nonché nelle altre y) società “partecipate direttamente” da amministrazioni pubbliche o z) in quelle partecipate da società a controllo pubblico (art. 2, lett. n, g), mentre le ipotesi differenti non vi ricadono.
Questo nuovo t.u. non si applica inoltre ai casi di «partecipazione di amministrazioni pubbliche a enti associativi diversi dalle società e a fondazioni» (art. 1, co. 4, lett. b)2. Neppure si applica alle cd. “società legali” o “società legificate”, la cui costituzione o configurazione sia disposta o basata sulla legge speciale e non su di un contratto di società; a queste ipotesi vuole riferirsi il t.u. nella parte in cui dispone che restano ferme «le specifiche disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali, che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse » (art. 1, co. 4, lett. a)3.
Conformemente all’esigenza di non incontrare forme di responsabilità illimitata per i soggetti pubblici partecipanti, i tipi di società in cui è ammessa la partecipazione pubblica sono «esclusivamente» (art. 3) le s.p.a. e le s.r.l., anche in forma cooperativa o con scopo consortile (cfr. art. 2615 ter c.c.).
La circostanza che si dovesse trattare, come in effetti si tratta, di un testo unico prevalentemente di “coordinamento” normativo dimostra, anzitutto, che nell’ordinamento italiano era presente una non esigua normativa sulle società con partecipazione pubblica diretta ed indiretta; normativa assai sparsa e frammentata, tanto che l’emanando d.lgs. aveva il «fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina» e «la semplificazione normativa» (art. 18, co. 1, l. n. 124/2015).
La normativa ora riordinata è peraltro relativamente recente, come si ricava anche dall’art. 28 del t.u., che elenca le norme abrogate: la più risalente nel tempo, tra dette norme, è solo dell’anno 2000. Sono relativamente recenti anche le altre norme dettate su questa materia, non abrogate dall’odierno t.u. ma che, con esso, dovranno essere applicate in correlazione; infatti, pure queste altre norme sono state emanate quasi interamente a partire dal 1990 (ma molte tra esse furono già riordinate nel t.u.e.l., d.lgs. 18.8.2000, n. 267: artt. 112-120).
Le norme sulle società a partecipazione pubblica erano state determinate in conseguenza di quattro principali fattori: – l’esigenza che la natura ed il regime privato delle società partecipate da amministrazioni pubbliche non fossero la causa di elusione di norme o di regole a tutela dell’interesse pubblico; – la trasformazione di molti enti pubblici in società, con la correlata soppressione di apparati amministrativi propri della situazione precedente; – l’indirizzo politico finalizzato ad una privatizzazione sostanziale attraverso dismissioni delle partecipazioni pubbliche; – l’esigenza di una riduzione della spesa nelle (e per le) società partecipate dalle amministrazioni pubbliche anche in ragione dei risultati economici negativi o comunque deludenti di varie società.
Questi fattori hanno – anzitutto – determinato una legislazione amministrativa riferita alle società a partecipazione pubblica, avente per oggetto il mantenimento o l’applicazione ad esse di alcune regole proprie delle (o comunque omogenee con le) amministrazioni pubbliche (es. art. 29 della l. 7.8.1990, n. 241; art. 1, co. 725 ss. della l. 27.12.2006, n. 296; art. 18 d.l. 25.6.2008, n. 112 conv. in l. 6.8.2008, n. 133; art. 11 del d.lgs. 14.3.2013, n. 33). Inoltre, specularmente a quanto ora segnalato, sono state dettate anche norme di limitazione della loro capacità operativa per evitare che le società a partecipazione pubblica potessero beneficiare di privilegi rispetto alle imprese private alterando la competizione (es. art. 13 del d.l. 4.7.2006, n. 223 conv. in l. 4.8.2006, n. 248). L’ultimo tra i fattori indicati ha determinato la previsione normativa di programmi di riordino, anche attraverso la riduzione del numero, delle partecipazioni pubbliche (es. art. 1, co. 550 ss., della l. 27.12.2013, n. 147 e soprattutto art. 1, co. 611 ss., della l. 23.12.2014, n. 190).
Il riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, ora stabilito in modo organico dalla legge delega e dal t.u., era stato anticipato dall’art. 23 del d.l. 24.4.2014, n. 66 conv. in l. 23.6.2014, n. 89, ma relativamente alle sole partecipate dalle amministrazioni locali. La disposizione è stata attuata dal Commissario straordinario per la spending review con il «Programma di razionalizzazione delle partecipate locali» (7.8.2014)4 che, di per sé, ha avuto solo la portata di un documento di studio, e però importante presupposto di misure legislative future. L’esigenza di riordino venne estesa con il ricordato art. 1, co. 611 e ss. dalla l. n. 190/2014, con prevista più ampia applicazione alle Regioni, Province autonome, Enti locali, Camere di commercio, Università, Istituti di istruzione universitaria pubblici e Autorità portuali, tenuti ad un processo di razionalizzazione delle società e partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute5. Nell’odierno t.u., i programmi di razionalizzazione devono invece essere avviati da tutte le amministrazioni pubbliche, loro consorzi e associazioni «per qualsiasi fine istituiti», gli Enti pubblici economici e le Autorità portuali (art. 2, co.1, lett. a); le amministrazioni pubbliche, come ormai consolidato nel nostro ordinamento, sono quelle elencate nell’art. 1, co. 2, d.lgs. 30.3.2001, n. 165.
Il riordino stabilito con il t.u. riguarda non solo siffatti programmi di razionalizzazione (revisione) delle esistenti società partecipate, ma anche: – il regime giuridico di esse; – le finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche; – gli atti deliberativi dell’amministrazione partecipante per l’acquisto, la gestione e l’alienazione di partecipazioni; – i controlli e il monitoraggio sulle partecipate.
Si può dunque rilevare che il riordino permette di ritenere superati molti equivoci sul complesso e controverso fenomeno delle partecipazioni delle amministrazioni pubbliche. Nel contempo, non si può sottacere che questo intervento risponde ad un indirizzo politico di riduzione dell’iniziativa economica pubblica, perché essa non viene negata e neppure aprioristicamente limitata ma riceve varie prescrizioni condizionanti, seppure giustificate dalle distonie che si erano registrate finora (eccessivo numero delle partecipate, gestioni non rispettose del criterio di economicità, elusione di garanzie e regole a tutela dell’interesse pubblico).
Come si è anticipato, la spinta principale all’emanazione di un t.u. sulle partecipazioni pubbliche è stata rappresentata dall’esigenza di disporre di un quadro di riferimento univoco che eliminasse le criticità, da molti riscontrate6. A queste criticità aveva iniziato a sovvenire – negli scorsi anni – una normativa valutata però disorganica e dettata per «perseguire finalità di volta in volta imposte da esigenze contingenti», senza «un disegno coerente di lungo periodo»7.
Gli obiettivi che il t.u. voleva perseguire sono chiaramente ricavabili dalla “Analisi di impatto della regolamentazione” allegata allo schema di d.lgs. per le procedure di approvazione. In tale sede si dichiara che le nuove norme sono finalizzate nel “breve periodo” a: – limitare la costituzione di nuove società pubbliche; – rendere trasparenti i bilanci delle società in controllo pubblico; – ridurre il numero di società pubbliche; – impedire il proliferare di società non necessarie. Nel “medio periodo” a: – ridurre le aree di intervento delle società pubbliche; – eliminare o limitare le società pubbliche non in equilibrio economico; – ridefinire il sistema di gestione del personale delle società a controllo pubblico; – garantire che l’attività delle società a partecipazione pubblica sia maggiormente efficiente. Nel “lungo periodo” a: – miglioramento dei servizi erogati a cittadini e imprese; – maggiore credibilità e trasparenza della pubblica amministrazione; – favorire il migliore utilizzo delle risorse pubbliche, mediante l’efficiente allocazione delle stesse e la rimozione delle fonti di spreco. Si tratta di una schematizzazione probabilmente prolissa e ripetitiva, che però dimostra come l’eccesivo numero delle attuali partecipate pubbliche e la loro gestione, spesso non pienamente rispondente ad economicità, rappresentavano e rappresentano una criticità seria nell’ambito dei generali problemi della pubblica amministrazione, criticità che aveva richiamato anche l’attenzione delle istituzioni europee8.
Si deve preliminarmente dare atto che il riordino disposto dalla legge delega e dal t.u. qui considerato costituisce, nell’ordinamento repubblicano, la seconda occasione di riordino significativo delle partecipazioni pubbliche in società.
Il primo riordino è stato, infatti, rappresentato dal superamento (1992-1993) del sistema delle partecipazioni statali, che annoverava uno specifico Ministero egualmente denominato “delle partecipazioni statali” ed enti pubblici di gestione delle medesime, soggetti a direttive e formalmente operanti secondo “criteri di economicità”. Questo sistema era stato configurato con la l. 22.12.1956, n. 1589 che, dopo aver istituto il nuovo Ministero aveva appunto previsto l’inquadramento delle partecipazioni in enti autonomi di gestione9.
Dopo la trasformazione in società per azioni dei principali enti di gestione delle partecipazioni statali (IRI ed ENI), stabilita con il d.l. 11.7.1992, n. 333 conv. in l. 8.8.1992, n. 359 (cfr. in particolare art. 15), furono dettate disposizioni per la soppressione del Ministero delle partecipazioni statali (d.l. 23.4.1993, n. 118 conv. in l. 23.6.1993, n. 202), la cui legge istitutiva era stata, peraltro, oggetto di referendum abrogativo celebrato il 18.4.1993 (d.P.R. 5.6.1993, n. 174).
La soppressione del Ministero e la trasformazione in società degli enti pubblici di gestione delle partecipazioni statali hanno rappresentato il profilo formale del primo riordino che si sta ricordando. Il profilo sostanziale ha preso l’avvio con il d.l. 31.5.1994, n. 332, conv. in l. 30.7.1994, n. 474 che ha introdotto «Norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni»10. Si è così aperta l’epoca delle privatizzazioni11, che ha interessato anche gli istituti di credito di diritto pubblico, le poste e telecomunicazioni, le ferrovie ed altre attività e servizi di interesse generale. In alcuni casi le privatizzazioni sono rimaste solo formali, perché le amministrazioni pubbliche, sono tuttora i soli azionisti delle società rinvenienti dalla trasformazione dei preesistenti enti pubblici.
Dunque, il superamento del sistema delle partecipazioni statali non ha eliminato né ridotto in modo decisivo le partecipazioni pubbliche, anche perché, se molte tra esse sono state effettivamente dismesse (perché cedute a privati, anche investitori), se ne sono determinate sempre di nuove per effetto delle anzidette trasformazioni di enti pubblici in soggetti giuridici di diritto privato. Si deve infatti ricordare che, mediante l’art. 18 del d.l. n. 333/1992, venne prevista la possibilità generale di deliberare la trasformazione in società per azioni di enti pubblici economici «qualunque sia il loro settore di attività», oltre ad aver stabilito la trasformazione diretta in società di altri importanti enti pubblici (INA ed ENEL) oltre a quelli di gestione delle partecipazioni statali.
A livello locale, la possibilità di trasformare enti pubblici, aventi il carattere di azienda speciale, in società era stata introdotta con l. 15.5.1997, n. 127 (art. 17, co. 51 ss.). Tali trasformazioni, disposte peraltro con atto unilaterale (come non poteva non essere trattandosi di enti pubblici), venivano ad integrare – come lo sono tutte le trasformazioni – un fenomeno di continuità o comunque di successione universale dall’ente pubblico precedente alla società rinveniente. Per questa ragione, vi era la convinzione che non ci si trovasse di fronte a vere e proprie società rette interamente dal codice civile, almeno fino a che non venissero a realizzarsi le dismissioni delle partecipazioni, intese come la cessione della partecipazione esclusiva o maggioritaria dell’ente pubblico socio12.
Si è così pervenuti all’attuale momento e al secondo riordino delle partecipazioni pubbliche stabilito con il t.u.
Il t.u., in conformità alla legge delega, è basato sulla distinzione tra società in relazione all’attività svolta, alla misura e qualità della partecipazione e al relativo carattere diretto o indiretto.
Si tratta di un criterio che riprende una consolidata e convincente giurisprudenza costituzionale. Ci si riferisce, in particolare, alle sent. 1.8.2008, n. 32613 e 4.5.2009, n. 14814, ove si è posto l’accento, quale elemento centrale di inquadramento, sull’oggetto sociale delle partecipate dalle amministrazioni pubbliche e di conseguenza sulla distinzione tra “attività amministrativa in forma privatistica” e “attività d’impresa di enti pubblici”: «L’una e l’altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza» (cfr. sent. n. 326/2008)15.
Le due sfere di attività devono essere separate per evitare che un soggetto che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività di impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto amministrazione pubblica. La libertà di iniziativa economica delle amministrazioni pubbliche non è negata ma esse devono esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando ad una frequente commistione distorsiva della concorrenza.
Da tutto ciò la possibilità (e opportunità) che il legislatore stabilisca alcune regole particolari per le società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, profili per i quali deve sussistere una uniformità a livello nazionale; pertanto, il t.u. riprendendo e razionalizzando precedenti disposizioni, ha, da un lato, prescritto che le società in house hanno come oggetto sociale esclusivo le attività per le quali sono state costituite o partecipate (art. 4, co, 4). Sotto altro profilo, è fatto divieto alle cd. società strumentali (aventi per oggetto l’autoproduzione di beni o servizi per l’ente o gli enti pubblici partecipanti nel rispetto del diritto europeo sui contratti pubblici) di costituire nuove società e di acquisire nuove partecipazioni in società (art. cit., co. 5).
Alla distinzione tra oggetti delle società, che si riflette sul loro regime giuridico, segue un ulteriore profilo – ora stabilito dal t.u. – relativo alle finalità (pubbliche) perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche; anche questo profilo è stato ricostruito dalla sopra citata giurisprudenza costituzionale. Nella sent. n. 148/2009, giudicando della costituzionalità dell’art. 3, co. 27 ss., l. 24.12.2007, n. 244 si richiama la relazione al relativo disegno di legge e si sottolinea che, pur essendo la creazione di società per lo svolgimento di compiti di rilevanza pubblica uno strumento utilissimo per perseguire maggiore efficienza a vantaggio della collettività, occorre evitare forme di abuso che sottraggono l’agire amministrativo ai canoni della trasparenza e del controllo da parte degli enti pubblici e della stessa opinione pubblica nonché occorre tutelare la concorrenza e il mercato. Per queste ragioni sono possibili (e opportune) norme dirette ad evitare che le amministrazioni pubbliche «svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse generale», norme miranti a realizzare dette finalità «con modalità non irragionevoli» e cioè senza «carattere di genericità» ma esclusivamente nei casi «nei quali non sussista una relazione necessaria tra società, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche, e perseguimento delle finalità istituzionali» (sent. ult. cit.). Per queste ragioni, il t.u. identifica le attività rispetto alle quali le amministrazioni pubbliche possono, direttamente o indirettamente, costituire società ed acquisire o mantenere partecipazioni in società. Tale identificazione è tassativa («esclusivamente per lo svolgimento delle attività sotto indicate» art. 4, co. 2).
Prima di richiamare l’identificazione contenuta nel t.u. (v. avanti § 2.7), conviene ricordare che questa impostazione, già anticipata con il cit. art. 3 della l. n. 244/2007, era stata riassunta e ricostruita in maniera veramente completa da Cons. St., A.P., 3.6.2011, n. 1016. Non è ammessa la costituzione e il mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche di società commerciali con scopo lucrativo il cui campo di attività esuli dall’ambito delle rispettive finalità istituzionali né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie17.
«Un conto è, dunque, la costituzione di una società in house, da parte di un ente pubblico senza fine di lucro, che è in sé un modulo organizzativo neutrale, che rientra nell’autonomia organizzativa dell’ente, con il limite intrinseco che ogni forma organizzativa è sempre e necessariamente strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente medesimo, e salvi specifici limiti legislativi. Un altro conto è la costituzione, da parte di un ente pubblico, di una società commerciale che non operi con l’ente socio, ma operi sul mercato, in concorrenza con operatori privati, e accettando commesse sia da enti pubblici che da privati. La società commerciale facente capo ad un ente pubblico, operante sul mercato in concorrenza con operatori privati, necessita di previsione legislativa espressa, e non può ritenersi consentita in termini generali, quanto meno nel caso in cui l’ente pubblico non ha fini di lucro» (ancora Cons. St., A.P.).
Nel t.u., riveste importanza centrale la norma dell’art. 1, co. 3: «Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato». Si tratta di un’affermazione non scontata perché la sempre più ampia presenza di società partecipate da amministrazioni pubbliche e l’eterogeneità dei loro oggetti, così come il relativo collegamento finalistico con gli interessi pubblici, poteva far dubitare, qualcuno, che il regime giuridico fosse sempre quello dettato dal c.c. Con minore incisività ed anche con minore risalto, una previgente disposizione, inserita in un d.l. recante misure urgenti per la spending review, aveva già stabilito che «Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salve deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali» (art. 4, co. 13, d.l. 6.7.2012, n. 95 conv. in l. 7.8.2012, n. 135).
Deve essere sottolineato, perché molto significativo, che il t.u. parla di “deroga” al c.c. e alle norme privatistiche, riferendosi alle eventuali specifiche (integrative) disposizioni sulle società a partecipazione pubblica. È infatti noto che la norma derogata e la norma derogante si ordinano in modo tale che la efficacia della prima si estende fin dove le fattispecie concrete già non rientrino nella previsione della seconda; di modo che l’una costituisce regola valida in genere, l’altra eccezione valida solo per le ipotesi specifiche e limitate18.
Viene pertanto ribadita una ricostruzione che era già propria della giurisprudenza e della dottrina, le quali non avevano mancato di sottolineare che la partecipazione pubblica, anche integrale, non muta la natura della società partecipata e che da un atto di autonomia privata (e cioè dalla costituzione o partecipazione a società secondo le modalità previste nel c.c.) non può sorgere un ente pubblico o organo, in senso proprio, dell’ente pubblico, se non interviene la legge ad operare tale qualificazione19.
La volontà di determinare una identità di disciplina privatistica, nonostante la partecipazione pubblica, rende conto dell’esigenza che le deroghe (ossia regole particolati integrative) si concretino solamente in alcuni aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche e non diano luogo ad una disciplina eccessivamente derogatoria o peggio del tutto speciale ed atipica rispetto al paradigma del contratto di società, perché altrimenti ci si troverebbe di fronte ad un ente pubblico o apparato dell’organizzazione amministrativa in senso stretto.
La disciplina del t.u. è effettivamente completa perché riguarda i profili della «costituzione» di società nonché dello «acquisto», «mantenimento» e «gestione» delle partecipazioni (art. 1, co. 1). Pertanto, viene superato l’equivoco che aveva contraddistinto il fenomeno delle partecipazioni pubbliche e cioè la tendenza a mantenerle anche nel caso di forti perdite gestionali o di superamento della reale rispondenza all’interesse pubblico, a causa dell’intervenuto mutamento delle situazioni di fatto.
Il t.u. prevede le misure della «revisione straordinaria delle partecipazioni» detenute, direttamente o indirettamente, alla data di entrata in vigore del t.u. (art. 24) in continuità e sviluppo delle previsioni dell’art. 1, co. 611, l. 23.12.2014, n. 190, ma anche la doverosità di una «razionalizzazione periodica delle partecipazioni», attraverso una verifica annuale (art. 20). Revisione e razionalizzazione saranno poste in essere con la prefigurazione ed i conseguenti atti di fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione, delle partecipazioni, nelle ipotesi in cui si tratti di: – partecipazioni pubbliche riguardanti attività o settori per i quali il t.u. non le ammette; – società partecipate prive di una vera azienda (nel significato dell’art. 2555 c.c.), perché prive di dipendenti o con un numero di amministratori superiore; – partecipazioni duplicative; – partecipazioni in società con fatturato esiguo (non superiore a un milione di euro); – partecipazioni in società con risultati negativi per quattro dei cinque esercizi precedenti (salvo che svolgano servizi di interesse generale). A queste ipotesi, che delineano casi stringenti, il t.u. ne aggiunge due ulteriori rimesse a valutazioni più discrezionali: – necessità di contenimento dei costi di funzionamento; – necessità di aggregazione di società (cfr. art. 20, co. 2).
Le disposizioni del t.u. non si applicano alle società quotate in mercati regolamentati (art. 1, co. 5) e neppure – per un periodo transitorio – a quelle per le quali sia stata deliberata la quotazione (art. 26, co. 4). Si tratta del consolidamento di una linea già seguita dal legislatore in numerose occasioni, a partire dal 2006. Tuttavia, per il futuro non sarà più valida l’equiparazione tra società propriamente quotate e società che emettono strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati (art. 2, lett. p). L’esonero per una società quotata è evidentemente giustificato dalla circostanza che esse operano pienamente sul mercato e sono sottoposte, anche per quanto attiene ai poteri degli azionisti pubblici, alla speciale disciplina del d.lgs. 24.2.1998, n. 58 recante il t.u. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria ed al relativo ordinamento sezionale.
Anteriormente al t.u. ed alla recente legislazione che esso coordina, si era consolidata l’opinione che gli enti pubblici fossero legittimati a costituire società di capitali e/o ad assumere partecipazioni sulla base della generale capacità di diritto privato loro riconosciuta dall’ordinamento, nel rispetto dei seguenti limiti: a) corrispondenza allo scopo istituzionale perseguito dall’ente e conseguente permanenza dell’operato delle società nell’ambito funzionale di quello; b) esclusione di ogni elusione di divieti normativi sulle attribuzioni dell’ente ovvero di norme precettive poste a garanzia di un corretto uso delle risorse pubbliche; c) impossibilità per l’ente di spogliarsi, in tutto o in parte, di compiti istituzionali implicanti l’esercizio di pubbliche funzioni. Dunque, si assisteva ad una ammissibilità alquanto ampia delle partecipazioni societarie.
Oggi, il t.u. restringe non poco i casi in cui è ammessa l’acquisizione e il mantenimento di partecipazioni pubbliche (v. sopra § 2.5). Si dovrà anzitutto trattare – anche per le partecipazioni di minoranza – di attività di produzione di beni e servizi «strettamente necessarie» per il perseguimento delle «finalità istituzionali» delle amministrazioni (art. 4, co. 1), da intendere come specularità con le «rispettive competenze» (art. 2, lett. h). Inoltre, fermo restando questo limite generale, si dovrà trattare di partecipazioni (dirette o indirette) «esclusivamente» per lo svolgimento di una serie di attività puntualmente elencate nell’art. 4, co. 2: servizi di interesse generale (lett. a); società pubbliche di progetto di cui all’art. 193 del d.lgs. 18.4.2016, n. 50 (lett. b); società di partenariato pubblico-privato di cui all’art. 180 del d.lgs. cit. (lett. c); società in house strumentali (lett. d); servizi di committenza (lett. e); società di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (co. 3).
Il ristretto perimetro in cui le partecipazioni pubbliche sono ammissibili dopo il t.u. spiega le numerose eccezioni stabilite. È stata fatta salva la possibilità di partecipare a società: in attuazione di alcuni regolamenti europei (art. 4, co. 6) e per la gestione di fondi europei per conto dello Stato e delle regioni (art. 26, co. 2); per la gestione dei quartieri fieristici e l’organizzazione di manifestazioni fieristiche (art. 4, co. 7); per la realizzazione e gestione di impianti di trasporto a fune per la mobilità turistico-sportiva in aree montane (art. 4, co. 7); per spin off e start up universitari e degli enti di ricerca (art. 4, co. 8); per forme di sperimentazione gestionale in campo sanitario in applicazione dell’art. 9 bis del d.lgs. 30.12.1992, n. 502 (art. 26, co. 6); per l’attuazione di patti territoriali e contratti d’area per lo sviluppo locale, in attuazione della delibera Cipe 21.3.1997 fino al completamento dei relativi progetti (art. cit., co. 7) ed inoltre per tutte le società elencate nell’all. A del t.u., tra le quali compaiono molte società statali e le cd. società finanziarie regionali originariamente costituite in applicazione dell’art. 10 della l. 16.5.1970, n. 281 (art. cit., co. 2).
Inoltre, è prevista un’ampia possibilità di sottrarre determinate società pubbliche dall’applicazione del t.u., seppure a condizioni e procedure particolarmente garantistiche: «Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze o dell’organo di vertice dell’amministrazione partecipante, motivato con riferimento alla misura e qualità della partecipazione pubblica, agli interessi pubblici a essa connessi e al tipo di attività svolta, riconducibile alle finalità di cui al comma 1, anche al fine di agevolarne la quotazione ai sensi dell’articolo 18, può essere deliberata l’esclusione totale o parziale dell’applicazione delle disposizioni del presente articolo a singole società a partecipazione pubblica. Il decreto è trasmesso alle Camere ai fini della comunicazione alle commissioni parlamentari competenti» (art. 4, co. 9).
Il t.u. fornisce indicazioni precise su due figure che avevano sollecitato dottrina e giurisprudenza a ricostruzioni non agevoli, vuoi in ragione della assoluta particolarità di una società in house rispetto all’amministrazione pubblica, vuoi in ragione della perdurante assenza di una disciplina normativa europea sul partenariato pubblico privato20.
Le “società” sottoposte a controllo analogo dell’amministrazione pubblica partecipante sono solo una tra le figure che possono essere utilizzate per il modello in house providing (cui può rispondere anche un ente pubblico o un’azienda speciale); peraltro, la società rappresenta la figura alla quale il modello è applicabile con maggior complessità. Da ciò è derivata un’ampia giurisprudenza comunitaria e nazionale, i cui apporti sono stati ripresi nelle direttive 2014/23/UE (art. 17), 2014/24/UE (art. 12), 2014/25/UE (art. 28) e nel nostro d.lgs. n. 50/2016 (spec. artt. 5 e 192). Ora il t.u. indica con esplicitazione e chiarezza (art. 16) quando ricorrono i requisiti del capitale interamente pubblico (con tassativa eccezione di ammissibilità di capitale privato comunque non determinante) e dell’esercizio sulla società del “controllo analogo”, con svolgimento della parte più importante dell’attività con l’amministrazione o le amministrazioni di riferimento. Il t.u. precisa solo per le società in house che esse sono tenute all’acquisto di lavori, beni e servizi secondo la disciplina di cui al d.lgs. n. 150/2016 (art. cit., co. 7).
Le società miste sono disciplinate nell’art. 17 del t.u., attraverso disposizioni che colmano una vera e propria lacuna normativa, posto che la legislazione italiana non ne aveva trattato se non con norme ormai superate ed inadeguate al sopravvenuto diritto comunitario (d.P.R. 16.11.1996, n. 533)21. Sembra di poter rilevare – anche se non esplicitato dal t.u. – che il ruolo del socio privato scelto con procedura di gara a doppio oggetto sia quello del gestore integrale del servizio e non semplicemente di una fase o più fasi del servizio, secondo quanto – del resto – già indicato da convincenti pronunce amministrative22.
Per il resto il t.u. indica dettagliatamente le percentuali di partecipazione pubblica e privata nella società mista (art. cit., co. 1); i presupposti e i criteri della gara per la scelta del socio privato (co. 2); la caratteristica della posizione del socio privato ad tempus (co. 3); i diritti ed obblighi reciproci dei soci (co. 4 e 5); gli aspetti e relativi limiti per i quali alle società miste si applica il codice dei contratti pubblici (co. 7).
Come si è detto, il t.u. afferma la primarietà della disciplina rinvenibile nel c.c. anche per le società a partecipazione pubblica.
Ovviamente, questo non può essere sufficiente per garantire la corrispondenza al modello civilistico e per ciò le amministrazioni dovranno, anzitutto, comprendere a pieno che l’acquisizione e la gestione di una partecipazione in società impongono il rispetto del criterio di economicità, del tendenziale conseguimento di utili, del divieto di accollo di oneri impropri.
Per parte sua, e nonostante il carattere di normale legge ordinaria del t.u., il futuro legislatore non dovrà aggiungere altre deroghe alla disciplina civilistica. Infatti, quella della società non è l’unica figura che può essere messa in campo come struttura operativa per il conseguimento dei fini pubblici; si può anzi dire che in tutti i casi in cui non si pongano esigenze di un azionariato composito (in particolare, misto), il modello dell’ente pubblico o dell’azienda speciale (anche in forma consortile o associativa) o della istituzione possono essere più efficacemente predisposti e utilizzati.
Un ruolo decisivo nell’attuazione del t.u. potrà essere svolto dalla struttura per il controllo ed il monitoraggio presso il MEF (art. 15) soprattutto in punto di adozione di “orientamenti e indicazioni” e di promozione delle “migliori pratiche”. Queste indicazioni non dovranno tuttavia tradursi in appesantimenti, perché la regolarità gestionale può anche passare da semplificazioni, come dimostrato dall’art. 6, co. 1 del t.u. che ha sostituito all’obbligo di separazione societaria (che provoca numerosità) l’obbligo di seguire sistemi di contabilità separata per le società a partecipazione pubblica che svolgono contestualmente attività in monopolio e attività in concorrenza.
Molto importanti sono gli oneri di motivazione analitica e cioè non meramente enunciativa (come invece si è verificato ed è stato accettato in questi ultimi decenni), che devono essere seguiti dalle amministrazioni per la costituzione e l’acquisto di partecipazioni (art. 5). Le deliberazioni sui momenti fondamentali delle vicende societarie sono attribuite ad organi non esecutivi (artt. 7; 8, co. 1; 9, co. 5; 10, co. 11; 18), ma la generalità delle decisioni sulla gestione delle partecipazioni pubbliche è attribuita all’organo esecutivo competente nei vari ordinamenti degli enti (art. 9); anche questo è un confine che dovrà essere seguito senza timore.
Non è del tutto chiara la disciplina dei limiti per l’assunzione di cariche in società perché sembra esservi contraddizione tra i co. 1 e 14 dell’art. 11, quanto all’applicabilità del d.lgs. 8.4.2013, n. 39.
La puntualizzazione sulla responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate, contenuta nel t.u., risulta del tutto in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione e fornisce un’indicazione, in diretta attuazione dell’art. 103, co. 2, Cost., che presenta l’incisiva formulazione di una massima giurisprudenziale: «1. I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2. 2. Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione» (art. 12)23.
Importante conferma del carattere di impresa della società ancorché a partecipazione pubblica si rinviene nell’art. 14 del t.u., a mente del quale: «Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi» (co. 1).
Significative anche le disposizioni sui limiti al reclutamento del personale (art. 19) e sui ripiani dei risultati negativi nelle società pubbliche (art. 21), profili che rappresentavano – in effetti – aspetti tra i più critici delle distonie registrabili in questo genere di società.
In generale, si ripete che solo il rigoroso rispetto di quanto previsto nel c.c. permetterà di non rendere necessari ulteriori interventi per correggere e scongiurare un enfatico utilizzo dello strumento societario da parte delle amministrazioni pubbliche e dunque bene ha fatto il t.u. ad operare continui richiami a disposizioni del c.c. ed a proporre un’applicazione rigorosa (come ad es. nel caso della nozione di controllo ex art. 2359 c.c., che è del tutto diversa da quella di “controllo analogo”, che può essere anche congiunto).
Alquanto enfatica, anche se talora si è esorbitato da moderazione e reale merito, la disciplina (art. 11) sul numero degli amministratori (è previsto «di norma» un amministratore unico), sui compensi massimi attribuibili, sul divieto di cumulo di funzioni e deleghe gestionali.
Note
1 I parametri della predetta posizione mediana o di equilibrio si rinvengono anzitutto nei trattati europei e sono, ad esempio, esplicitati nella direttiva 2014/23/UE: – le autorità nazionali, regionali e locali possono decidere di espletare i loro compiti di interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse (anche in cooperazione con altre amministrazioni) o conferendoli a operatori economici esterni; – il diritto europeo fa salvi i regimi di proprietà esistenti negli Stati membri e non richiede la privatizzazione delle imprese pubbliche; – le amministrazioni trattano gli operatori economici (pubblici o privati) su un piano di parità (cfr. art. 2 e 3 direttiva cit.).
2 Con la l. 6.6.2016, n. 106 è stata attribuita delega al Governo per la riforma del terzo settore (inteso – art. 1 l. cit. – come il complesso degli enti aventi natura giuridica privata costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che promuovono e realizzano attività di interesse generale) ed è dunque attesa la revisione della «disciplina del titolo II del libro primo del c.c. così come della disciplina speciale e delle altre disposizioni vigenti relative agli enti del terzo settore». Nei conseguenti d.lgs. potrebbe essere stabilita anche una disciplina dei casi di partecipazione delle amministrazioni pubbliche a siffatte figure soggettive.
3 La giurisprudenza ha bene evidenziato che nonostante la veste di società di capitali, vi possono essere casi di figure aventi natura sostanziale di ente pubblico (cfr. Cass., S.U., 22.1.2015, n. 1159 e 13.11.2015, n. 23306; entrambe con ulteriori richiami). Si possono richiamare i casi della RAI Radiotelevisione italiana s.p.a. di cui alla l. 28.12.2015, n. 220 e della CDP-Cassa depositi e prestiti s.p.a. di cui all’art. 5 del d.l. 30.9.2003, n. 269 conv, in l. 24.11.2003, n. 326, In dottrina Gruner, G., Enti pubblici a struttura di spa. Contributo allo studio delle società “legali” in mano pubblica di rilievo nazionale, Torino, 2009; Ibba, C., Società legali e società legificate, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, 1 ss.; Renna, M., Le società per azioni in mano pubblica: il caso delle spa derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici e aziende autonome statali, Torino, 1997.
4 Cfr. Caia, G., Le novità introdotte dal d.l. n. 66 del 2014, in Libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015, 252 ss.
5 La non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, promosse con ricorso regionale, è stata dichiarata da C. cost., 16.6.2016, n. 144, anzitutto per la ravvisata circostanza che i piani di razionalizzazione previsti sono disciplinati con una disposizione di principio «che lascia ampio margine di manovra all’autonomia regionale e dunque è espressione di “coordinamento della finanza pubblica”». I criteri direttivi per la razionalizzazione sono stati ritenuti conformi a Cost. perché rispondono alla «finalità di evitare abusi del “tipo” societario», con la conseguente tutela della concorrenza e la finalità di risparmio di spesa.
6 Significativi i rapporti annuali della Corte dei Conti sez. autonomie su “Gli organismi partecipati dagli enti territoriali”. La Relazione 2015 è stata adottata con deliberazione n. 24/SEZAUT/2015/FGR (Pres. Squitieri, R., Rel. De Girolamo, A. e Corsetti, A.).
7 Così il parere Cons. St., comm. spec., 21.4.2016, n. 968, Pres. Frattini, Est. Bellomo, F., Lopilato, V., ove puntuali e ricostruttivi commenti allo schema di d.lgs. e circa la materia considerata.
8 Per le istituzioni europee il riordino delle società a partecipazione pubblica, ed in particolare di quelle a partecipazione locale, assume un particolare rilievo. Nel «Documento di lavoro dei servizi della Commissione» del 26.2.2016, SWD (2016)81final recante la «Relazione per paese relativa all’Italia 2016, comprensiva dell’esame approfondito sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici» si legge «Molteplici sono i fattori all’origine delle inefficienze delle imprese a partecipazione pubblica. Anche se in linea di principio le partecipate locali sono soggette al diritto privato, numerose deroghe a tale principio e una serie di disposizioni speciali hanno creato un quadro complesso per la gestione e l’organizzazione di queste imprese. I tribunali hanno seguito approcci divergenti e non uniformi nel dare attuazione alle leggi, in funzione delle peculiarità delle diverse categorie di imprese statali, dando luogo a incertezza giuridica e a procedure onerose» (così alla pag. 75 del documento cit.).
9 In argomento v. per tutti Cassese, S., Partecipazioni pubbliche ed enti di gestione, Milano, 1962; D’Albergo, S., Partecipazioni statali, in Nss. D.I., Appendice, V, Torino, 1984, 731 ss.; Massera, A., Partecipazioni statali e servizi di interesse pubblico, Bologna, 1978; Merusi, F., Le direttive governative nei confronti degli enti di gestione, II ed., Milano 1977; Roversi Monaco, F., Gli enti di gestione, Milano, 1977 e Saraceno, P., Partecipazioni statali, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 43 ss.
10 La disciplina ivi contenuta rimane in vigore perché l’art.10, co. 4, del t.u. recita: «È fatta salva la disciplina speciale in materia di alienazione delle partecipazioni dello Stato».
11 Cfr. Pres. Cons. Min., Uff. centr. coordin. attività normativa, Le norme sulle privatizzazioni, Roma, s.d. (ma 1994); Ammanati, L., La privatizzazione delle imprese pubbliche in Italia, Milano, 1995 e Angeletti, A., a cura di, Privatizzazioni ed efficienza della pubblica amministrazione alla luce del diritto comunitario, Milano, 1996.
12 C. cost., 28.12.1993, n. 466 (Pres. Casavola, F.P., Red. Cheli, E.) e Cons. St., sez. IV, 27.5.2002, n. 2922 (Pres. Paleologo, G., Rel. Cintioli, F.).
13 Pres. Bile, F., Red. Cassese, S.. Per un commento, v. Ursi, R., La Corte costituzionale traccia i confini dell’art. 13 del decreto Bersani, in Giorn. dir. amm., 2009, 11.
14 Pres. Amirante, F., Red. Tesauro, G. Per un commento v. Bottino, G., Le amministrazioni pubbliche e la costituzione, o la partecipazione, di società a capitale pubblico: la legittimità costituzionale dei limiti previsti nell’odierna legislazione statale, in Giur. cost., 2009, 1606 ss.
15 La distinzione tra società che svolgono attività amministrative e società di capitali che svolgono vera e propria attività economica è stata ripresa dal legislatore, ad esempio nell’art. 29 della l. 7.8.1990, n. 241 in materia di procedimenti amministrativi; ivi si stabilisce che le disposizioni della legge «si applicano, altresì, alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative».
16 Pres. De Lise, P., Est. De Nictolis, R.
17 Infatti, sempre secondo quanto segnalato dall’A.P. del Cons. St. si deve tenere conto delle seguenti coordinate fondamentali: a) l’attività di impresa è consentita agli enti pubblici solo in virtù di espressa previsione; b) l’ente pubblico che non ha fini di lucro non può svolgere attività di impresa, salve espresse deroghe normative; c) la possibilità di costituzione di società in mano pubblica, operanti sul mercato, è ordinariamente prevista da espresse disposizioni legislative; non di rado è la legge a prevedere direttamente la creazione di una società a partecipazione pubblica; d) la costituzione di società per il perseguimento dei fini istituzionali propri dell’ente pubblico è generalmente ammissibile se ricorrono i presupposti dell’in house (partecipazione totalitaria pubblica, esclusione dell’apertura al capitale privato, controllo analogo, attività esclusivamente o prevalentemente dedicata al socio pubblico), e salvi specifici limiti legislativi.
18 Cfr. per tutti Rescigno, G.U., voce Deroga (in materia legislativa), in Enc. dir., XXII, Milano, 1964, 303 ss., e più in generale Giannini, M.S., Problemi relativi all’abrogazione delle leggi, Padova, 1942, 32 ss.
19 Cfr., tra le molte, Cass., S.U., 4.1.1993, n. 3 e Cass., S.U., 15.4.2005, n. 7799. In dottrina si deve ancora oggi rinviare a Galgano, G., (da ultimo in) Galgano, F.Genghini, R., Il nuovo diritto societario, II ed., tomo I, Padova, 2004, 449 ss.; Giannini, M.S., Diritto amministrativo, vol. I, III ed., Milano, 1993, 232; Roversi Monaco, F., Brevi note in tema di società per azioni «pubblica», in Cons. Stato, 1972, II, 950 ss. («la società a partecipazione pubblica è, salvo eventuali deviazioni da valutarsi caso per caso, integralmente disciplinata dal diritto privato: è, quindi, ente privato … soltanto una serie di deviazioni dallo schema societario privatistico che siano tali da concretare una disciplina in senso pubblicistico sostanzialmente difforme da quella dettata dal codice civile permetterebbe di affermare la natura pubblica di una società per azioni»).
20 In dottrina cfr. Aicardi, N., Le società miste, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, vol. I, Milano, 2008, 231 ss; De Nictolis, R.Cameriero, L., Le società pubbliche in house e miste, Milano, 2008; Di Cristina, F., Il partenariato pubblico privato quale “archetipo generale”, in Giorn. dir. amm., 2016, 482 ss.; Dugato, M., Le società a partecipazione, ibidem, 2013, 855 ss.; Garofoli, R., L’affidamento diretto a società in house e a società a capitale misto: ricognizione degli indirizzi sul tappeto, in www.giustamm.it, 2007; Sandulli, M. A. Aperio Bella, F., L’evoluzione dell’in house providing, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016, 228 ss.; Veltri, G., L’in house nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 2016, 488 ss.; Volpe, C., L’affidamento «in house»: situazione attuale e proposte per una disciplina specifica, in www.giustamm.it, 2014.
21 Cfr. Caia, G.Nanni, L.Lugaresi, N., Regolamento recante norme sulla costituzione di società miste in materia di servizi degli enti territoriali, in Nuove leggi civ., 1997, 586 ss.
22 Cons. St., sez. II, 18.4.2008, n. 456 (Pres. Barberio Corsetti, L., Est. Carbone, L.).
23 Resta comunque in vigore l’art. 16 bis del d.l. 31.12.2007, n. 248, conv. in l. 28.2.2008, n. 31 («Per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario. Le disposizioni di cui al primo periodo non si applicano ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto»).