La responsabilità limitata dei soci e la suddivisione delle partecipazioni in unità omogenee, le azioni, facilitano il finanziamento delle imprese con capitale di rischio, in quanto agevolano la sostituzione degli investitori mediante il commercio delle azioni in appositi mercati regolamentati. Lo spostamento del potere di gestione dall’assemblea verso gli amministratori spinge a trovare un assetto organizzativo della società che ne controlli l’operato affinché esso promuova l’interesse degli azionisti. L’ordinamento oscilla fra regole imperative stabilite per legge e regole affidate alla libera scelta dei soci mediante gli statuti; i mercati regolamentati spesso suggeriscono soluzioni appropriate per mezzo di codici di autodisciplina, a cui si adeguano le società quotate.
La società per azioni è uno strumento giuridico per destinare all’esercizio di un’attività economica un cospicuo capitale di rischio. A differenza di altri finanziatori, i quali vantano un diritto alla restituzione di quanto imprestato, i soci nutrono soltanto l’aspettativa che nel momento in cui la società si sciolga ed i suoi beni vengano liquidati, essi possano recuperare il loro investimento. Si dice perciò che la loro pretesa è subordinata al previo soddisfacimento di quelle altrui (residual claim). L’ammontare di questa dotazione finanziaria viene stabilito nell’atto costitutivo della società e rimane immutato nella cifra finché quest’ultima non si modifica.
Il rischio assunto da chi si obbliga a fornire il capitale sociale non supera però la somma promessa: se dunque l’attività economica svolta nei fatti non produrrà i risultati sperati, i soci non verranno colpiti nei loro patrimoni individuali da una responsabilità sussidiaria per onorare i debiti della società, a differenza da quanto accade nelle società in nome collettivo (art. 2291 c.c.). Tecnicamente questo principio è espresso mediante il riconoscimento della personalità giuridica alla società per azioni che viene iscritta nel registro delle imprese (art. 2331 c.c.): in tal modo si produce la nascita di un nuovo soggetto giuridico, distinto dai soci che lo hanno formato, il quale, conformemente alle regole del diritto civile, assumerà obbligazioni adoperando la propria denominazione sociale (art. 2326 c.c.) e risponderà del loro adempimento con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.).
Tradizionalmente il capitale di rischio, specialmente se l’importo è rilevante, è fin dall’origine ripartito fra numerosi finanziatori: si parla quindi di società, che viene costituita mediante un contratto e gli apporti promessi dai sottoscrittori sono chiamati conferimenti, parola che nella sua etimologia latina sta a significare che tutti insieme portano qualcosa che serve al raggiungimento dello scopo comune. Ma con la riforma recata dal d.lgs. 17.1.2003, n. 6., attuando più compiutamente sul punto la XII dir. 89/667/CEE del Consiglio del 21.12.1989, la società per azioni può essere istituita anche da un unico fondatore, che assuma su di sé l’intero onere finanziario (artt. 2326, 2342, 2362; v. anche l’art. 2250 c.c.). Questa opportunità era già da tempo offerta dalle leggi di altri Paesi, come gli Stati Uniti d’America, i quali considerano la personalità giuridica come un privilegio riconosciuto dal sovrano, magari in cambio di una tassa, indipendentemente dal numero dei promotori.
Il capitale con cui si costituisce la società è diviso in tante unità fra loro identiche, chiamate azioni, in quanto in linea di principio il possesso di una sola di esse è sufficiente a far valere verso la società, all’occorrenza anche con azioni giudiziarie, i diritti nascenti dalla partecipazione all’iniziativa economica. Tali diritti sono tendenzialmente uguali per tutte le azioni (l’atto costitutivo può tuttavia distinguere, al loro interno, categorie di azioni fornite di diritti diversi, nel qual caso la regola di eguaglianza vige all’interno di ogni categoria: art. 2348 c.c.; ma ne risulta complicata l’organizzazione della società: art. 2376). Di conseguenza le azioni possono essere considerate beni mobili fra loro fungibili, facilmente scambiabili su un mercato (borsa valori) se ne esiste una domanda ed un’offerta, ad un prezzo unitario oscillante che può essere segnalato ad un pubblico di potenziali investitori. Storicamente fino a tempi recenti le azioni venivano rappresentate da certificati di carta emessi dalla società, anche per tagli multipli (ad es. per 100 o 1000 azioni): infatti nulla vieta che i singoli soci partecipino per quote di ammontare differente, purché ciascuna di esse sia pari ad un’azione o ad un suo multiplo (è questo il principio della indivisibilità delle azioni: art. 2346 c.c.) ferma la necessità che moltiplicando il valore nominale eventualmente attribuito a ciascuna azione per il numero di quelle in circolazione si ottenga esattamente l’importo fissato come capitale sociale. Verso la fine del secondo millennio, tuttavia, incominciando dalle azioni delle società scambiate in borsa, cioè in mercati ufficialmente regolamentati, si è provveduto ad eliminare i titoli cartacei ed a sostituirli con scritturazioni elettroniche delle pretese dei milioni di possessori nei riguardi degli intermediari finanziari a cui essi debbono rivolgersi e, ad un secondo livello, dei diritti degli intermediari, cumulativamente calcolati in base alla loro clientela per ogni titolo trattato sul mercato, presso una società di gestione accentrata. Infatti la moltiplicazione delle compravendite ha reso complicata e costosa la consegna e la registrazione mediante girata su titoli cartacei deperibili dei trasferimenti che si susseguono a catena, onde anche nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (art. 2325 bis c.c.) nelle quali l’emissione di titoli azionari cartacei ancora è consentita (art. 2354 c.c.) si preferisce tuttavia escluderla contrattualmente nello statuto (art. 2346 c.c.). Per descrivere questo fenomeno si parla di dematerializzazione delle azioni.
L’esistenza di un mercato azionario offre due vantaggi: alla società, emittente le azioni, di collocarle più facilmente presso i sottoscrittori, onde la funzione primaria del mercato consiste nel favorire la conversione del risparmio in investimenti; ai singoli azionisti di rivendere facilmente per riottenere denaro liquido. Questa funzione “secondaria” del mercato è in realtà attualmente quella economicamente più importante: d’altronde, se non fosse agevole disinvestire, riuscirebbe assai più faticoso anche il ricorso al mercato primario, in quanto è proprio la liquidabilità dell’investimento che contribuisce a far sottoscrivere volentieri le azioni di nuova emissione. È grazie all’abbinamento di questi due tratti fondamentali, la responsabilità limitata sopportata dai soci e la libera trasferibilità delle loro partecipazioni, che il modello della società per azioni è storicamente divenuto quello dominante nell’economia capitalistica degli ultimi due secoli, soprattutto per dare una veste giuridica alle imprese di dimensioni maggiori. Comprensibilmente quindi la l. 3.10.2001, n. 366, di delega al Governo per la riforma del diritto societario, ha stabilito che «la disciplina della società per azioni è modellata sui principi della rilevanza centrale dell’azione, della circolazione della partecipazione sociale e della possibilità di ricorso al mercato del capitale di rischio», imponendo che ove tale opportunità sia sfruttata «le società saranno soggette a regole caratterizzate da un maggiore grado di imperatività» a tutela degli investitori (art. 4).
Pure le società che sono fondate da un solo partecipante godono di questa potenzialità espansiva: anche il loro capitale è suddiviso in azioni fra loro uguali, inizialmente possedute tutte dal medesimo unico azionista, ma successivamente commerciabili da parte di quest’ultimo, nel momento in cui esso reputi conveniente aprire l’iniziativa ad altri investitori.
Secondo i dati raccolti dalla Camera di commercio di Milano, al 31.12.2010, su 55.956 s.p.a. esistenti in Italia 7.182 (pari al 12,8%) contavano un azionista unico. A chi si domanda per quali motivi così sovente non si sfrutti la possibilità di mobilitare altri investitori per lo sviluppo dell’impresa, si risponde che può trattarsi di attività ancora in fase di avviamento oppure di persone giuridiche inserite in un’organizzazione di gruppo, ossia in insiemi di numerose società che si presentano come articolazioni organizzative di un’impresa diretta e coordinata (artt. 2497 ss.) da una società di vertice (si parla al riguardo di società figlie e di società madre, o più tecnicamente di società controllate da una medesima controllante: art. 2359 c.c.).
Considerando che la garanzia generica su cui i creditori sociali fanno affidamento è normalmente rappresentata dal solo patrimonio della società cui si attribuisce la personalità giuridica, l’ordinamento legislativo fissa alcune regole prudenziali inderogabili.
Anzitutto il capitale sociale, che corrisponde alla dotazione finanziaria di partenza, non può essere inferiore ad una cifra minima, attualmente fissata in 120.000 euro (art. 2327 c.c.; ma in un ammontare superiore per l’esercizio di attività bancarie, assicurative, ecc.). Per confermare la serietà degli impegni assunti gli originari sottoscrittori devono versare presso una banca in un conto intestato alla costituenda società almeno il 25% dei conferimenti promessi in denaro (art. 2342 c.c.). Se invece il conferimento è pattuito in natura (ad es. nella proprietà di un bene, nella cessione di un credito o di un’azienda, in una licenza di brevetto o di marchio ecc.) il suo valore deve essere attestato, con una relazione giurata, da un esperto nominato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società e viene comunque ricontrollato dagli amministratori, i quali dopo l’iscrizione redigono l’inventario e il bilancio di apertura e subito entrano nella disponibilità di quanto conferito (art. 2343 c.c.).
A protezione della effettiva consistenza del capitale sociale, affinché alla cifra nominale stabilita nell’atto costitutivo corrisponda un valore non inferiore del patrimonio netto della società, la legge cerca di impedire che i conferimenti vengano surrettiziamente restituiti ai soci, o più facilmente a taluno di essi, con pregiudizio non solo dei creditori sociali ma anche degli azionisti restanti: a forti cautele vengono sottoposti gli acquisti importanti di beni da soci nel biennio successivo alla costituzione da parte della società (art. 2343 bis c.c.), mentre si vieta a quest’ultima di assistere finanziariamente, con prestiti o garanzie, taluno affinché acquisti azioni emesse dalla stessa società (art. 2358 c.c.). È tuttavia consentito che l’emittente comperi proprie azioni utilizzando allo scopo utili o riserve disponibili (artt. 2357 e ss. c.c.), senza che questa operazione comporti automaticamente l’annullamento delle azioni, le quali possono così all’occorrenza essere rivendute, magari a propri amministratori o dirigenti ai quali come compenso incentivante si attribuisce un’opzione di acquisto ad un prezzo prestabilito (stock option), onde essi abbiano interesse a far salire il corso di borsa delle azioni per esercitarla e così realizzare un guadagno. Molte di queste limitazioni tuttavia sono state ultimamente allentate, per adeguare le legislazioni europee a quelle più flessibili degli Stati Uniti e di altre piazze finanziarie emergenti.
Anche durante la vita della società, gli amministratori devono costantemente vigilare affinché il patrimonio della società si conservi integro nel suo valore ed equilibrato nella sua composizione. Fondamentale al riguardo è la tenuta corretta della contabilità ed in particolare la redazione del bilancio, il quale con chiarezza «deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio» (art. 2423 c.c.) e si compone pertanto di due prospetti contabili (stato patrimoniale e conto economico) e di una nota integrativa recante gli opportuni chiarimenti, con l’accompagnamento di una relazione sull’andamento della società (art. 2428 c.c.).
Il bilancio completo deve essere presentato all’assemblea dei soci entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio per la sua approvazione (art. 2364 c.c.) o almeno, ove quest’ultima spetti al consiglio di sorveglianza, per deliberare sulla distribuzione degli utili (art. 2364 bis c.c.); ma, in tutte le società di dimensioni ragguardevoli, bilanci interinali più succinti sono esaminati nelle riunioni dell’organo amministrativo a scadenze fisse più ravvicinate, ad es. ogni tre mesi.
Il saldo negativo tra ricavi e costi derivanti dalla gestione caratteristica, ossia dallo svolgimento dell’attività scelta come oggetto sociale nell’atto costitutivo della società (art. 2328, co. 2, n. 3 c.c.), se non viene tempestivamente corretto conduce necessariamente a delle perdite di esercizio. Quando la società non dispone di riserve, formate in precedenti anni prosperi mediante utili non distribuiti e quindi destinati ad incrementare il valore del patrimonio netto, le perdite incidono economicamente sul valore capitale fornito dai soci coi loro conferimenti. Se per due esercizi il valore del patrimonio netto (che si ottiene deducendo dall’attivo le passività reali segnate nel passivo dello stato patrimoniale) resta inferiore ai due terzi della cifra stabilita come capitale sociale, la legge, per pareggiare le perdite, impone di ridurre quest’ultima con una modifica statutaria, in modo che la società non ostenti un capitale che più non corrisponde alla sua effettiva dotazione di mezzi propri ed i terzi vengano posti sull’avviso (art. 2446, ma v. anche l’art. 2250 c.c.). Se però il patrimonio netto, oltre ad esser sceso di oltre un terzo sotto il valore iniziale, risulta essere ormai anche inferiore a 120.000 euro, la società, se vuole continuare ad esistere in forma azionaria, deve senza indugio reintegrarlo riportandolo con nuovi conferimenti almeno oltre il minimo legale; altrimenti essa si scioglie (artt. 2447, 2484, n. 4, c.c.) e vien posta in liquidazione.
Il tempestivo provvedimento teoricamente dovrebbe permettere che le perdite gravino sul capitale di rischio fornito dai soci e che viceversa i creditori sociali ottengano integrale soddisfazione. In pratica, non è detto che la vendita dei beni possa avvenire ad un prezzo soddisfacente; ma anche nell’ipotesi che l’attivo netto superi ancora il capitale sociale può accadere che i beni che lo compongono (ad es. crediti a lunga scadenza, impianti o macchinari non riciclabili) non forniscano la liquidità di cui la società ha bisogno per pagare i suoi debiti alle scadenze concordate. In tal caso se l’attività esercitata ha natura commerciale la legge impone direttamente agli amministratori il dovere di chiedere il fallimento o lo stato di insolvenza, ovvero di presentare una proposta di concordato preventivo o di tentare in via stragiudiziale un accordo di ristrutturazione del debito coi principali creditori (artt. 6, 14, 160 ss., 182 bis, 217 l. fall.). Contravvenendo a queste disposizioni, anche per semplice negligenza, gli amministratori diventano responsabili dei danni patiti dai soci e dai creditori della società (artt. 2394, 2485, 2486 c.c.; 146 l. fall.).
All’atto costitutivo si affianca un documento avente pari forza contrattuale ed iscritto anch’esso nel registro delle imprese, che viene chiamato statuto in quanto contiene le regole di funzionamento della società. È una scelta di politica legislativa affidata ai singoli ordinamenti quella di determinare gli spazi di libertà che vengono lasciati ai privati contraenti: in uno sguardo comparativo si va da un massimo di rigidità, che si riscontra nell’Aktiengesetz tedesco del 1965 (il cui § 23(5) stabilisce che tutte le norme contenute in detta legge sono imperative, salvo che essa espressamente ne permetta la derogabilità), ad un massimo di libertà, che viene teorizzata dai pensatori ultraliberisti americani, secondo i quali gli Stati dovrebbero fornire modelli contrattuali interamente flessibili, che gli operatori privati possono adottare risparmiando sui costi che altrimenti dovrebbero sopportare per concordare le singole clausole (transaction costs),mentre riesce loro più agevole pattuire all’occorrenza delle varianti agli schemi legali ove intendano regolare diversamente i propri interessi (è il sistema detto di opting out). L’ordinamento italiano attualmente in vigore si colloca in una posizione intermedia, ma caratterizzata da una prevalente rigidità, che si accentua fortemente, come già si è detto, nelle società con azioni quotate in mercati regolamentati. Si aggiunga che, in tutti i Paesi dell’Unione Europea, un insieme rilevante di regole imperative deriva dall’osservanza di oltre dieci direttive emanate (dal 1968 in poi) per armonizzare le legislazioni degli Stati membri e rendervi equivalenti le garanzie che sono richieste «per proteggere gli interessi tanto dei soci, come dei terzi» (art. 44, co. 2, lett. g TFUE): infatti le disposizioni europee vincolano i Paesi membri al punto di impedire loro di introdurre modifiche legislative in contrasto colle direttive.
Dalle clausole statutarie in cui si esprime l’autonomia organizzativa dei soci vanno distinti i cosiddetti patti parasociali, che sono convenzioni stipulate tra alcuni o anche fra tutti gli azionisti, soltanto fra loro oppure anche con la società, le quali impegnano personalmente i partecipanti all’accordo, ma non vincolano i successivi acquirenti delle azioni i quali non vi aderiscano, mentre le norme statutarie sono obbligatorie per tutti i soci presenti e futuri finché non vengono modificate (si potrebbe dire che i patti vincolano gli azionisti che li stipulano mentre le norme statutarie circolano con le azioni). Rientrano in questa nozione le convenzioni (o sindacati) di voto, mediante le quali alcuni soci si coalizzano per esprimere una posizione comune nelle deliberazioni assembleari, soprattutto relative alle cariche sociali; ovvero i sindacati di blocco, coi quali dei soci si obbligano reciprocamente a non alienare le loro partecipazioni nel periodo concordato; oppure ancora i patti con cui i soci promettono alla società di sottoscrivere un aumento di capitale di cui si ipotizza l’approvazione e magari versano in anticipo le somme occorrenti per la futura sottoscrizione.
Esempi di regole statutarie sono invece quelle che introducono limiti alla libera trasferibilità delle azioni opponibili a qualsiasi acquirente, per cui saranno accettati come soci soltanto soggetti che abbiano determinati requisiti, o incontrino il gradimento dell’organo amministrativo o della maggioranza assembleare; oppure quelle che impongono di preferire, a parità di condizioni, come acquirente chi è già socio rispetto ai terzi (si parla rispettivamente di clausole di gradimento ovvero di prelazione: art. 2355 bis c.c.). Altre clausole introducono ipotesi di recesso dalla società ulteriori rispetto a quelle elencate dalla legge o ne sopprimono alcune (art. 2437 c.c.); oppure permettono alla società o ad un socio di riscattare, ossia di acquistare forzosamente, le azioni possedute da altri partecipanti (art. 2437 sexies c.c.). Frequenti sono le clausole che impongono di accantonare una percentuale degli utili risultanti dal bilancio di ogni esercizio per formare una riserva statutaria o viceversa che stabiliscono l’obbligo di distribuire annualmente almeno una quota minima di tali utili. Altre clausole permettono di delegare all’organo amministrativo la decisione di un aumento del capitale sociale (art. 2443 c.c.), offrendo ai soci oppure anche ad estranei il diritto di sottoscrivere a pagamento le nuove azioni (cd. diritto di opzione: art. 2441 c.c.). Già si è detto, inoltre, della possibilità di differenziare le azioni in categorie, attribuendo a ciascun insieme diritti diversi: al riguardo si deve però aggiungere che un diritto di voto pieno nelle assemblee generali va conferito alle azioni che rappresentano almeno la metà del capitale sociale (art. 2351 c.c.).
L’assemblea riunisce i soci: di regola ogni azione ha diritto a un voto (art. 2351 c.c.) ma lo statuto può istituire categorie speciali di azioni senza voto (ad es. quelle cd. di risparmio emesse dalle società quotate in borsa: art. 145 ss. t.u.f.) o con voto limitato a determinati argomenti, rispetto alle quali le azioni a voto pieno vengono chiamate ordinarie.
L’evoluzione storica della legislazione attesta un progressivo svuotamento dei poteri dell’assemblea. Essa inizialmente si presentava come organo sovrano della società, mentre gli amministratori si consideravano suoi mandatari, onde potevano ritenersi giuridicamente vincolati ad eseguire le direttive del mandante. In realtà, dove gli azionisti sono numerosi, emergono tutte le difficoltà di deliberare collettivamente una condotta unitaria; per giunta molti soci sono dei finanziatori, esclusivamente interessati a valorizzare il loro investimento ed a percepire gli utili distribuiti (art. 2350 c.c.). Di conseguenza l’assemblea finisce col conservare, come suo fondamentale potere, quello di nominare e, ove consentito, revocare gli altri organi sociali nonché i revisori legali dei conti, ma non interferisce più sulla gestione. Questa è oggi affidata esclusivamente all’organo amministrativo (art. 2380 bis c.c.). Tuttavia la legge o gli statuti possono chiamare l’assemblea ad autorizzare taluni atti, soprattutto se si profila il rischio di abusi degli amministratori o la scelta diventa strategica (art. 2364, co. 1, n. 5 c.c.). Il compimento delle operazioni autorizzate però è lasciato alla discrezionalità degli amministratori; solo in casi eccezionali la deliberazione dei soci è di per sé decisiva (ad es. nell’attribuire i compensi o promuovere azioni di risarcimento verso i componenti dell’organo amministrativo; v. inoltre l’art. 2361, co. 2, c.c.).
Lo spostamento dei poteri decisionali dall’assemblea agli amministratori ha aperto, da più di un secolo, il problema di una divaricazione dei rispettivi interessi: gli azionisti, che forniscono un capitale monetario, hanno bisogno di gestori professionalmente esperti ma devono sopportare dei costi elevati per monitorarli (agency costs). Dove c’è un socio che ha una partecipazione dominante, esso assume la funzione di controllo; se invece gli azionisti sono migliaia o milioni, non essendo per nessuno conveniente l’esercizio di una vigilanza attiva sulla conduzione manageriale, essi se ne astengono (apatia razionale) e preferiscono vendere i loro titoli in borsa (la regola di Wall Street, si afferma, è quella di non votare alzando la mano, ma con i piedi, cioè andandosene dalla società che dà risultati deludenti). Il calo delle quotazioni innesca però delle reazioni sul mercato e potrebbe ad es. suscitare una scalata ostile, attraverso la presentazione di una offerta pubblica di acquisto (opa) delle azioni.
L’assemblea, come già si è detto, deve esser convocata dagli amministratori almeno una volta all’anno, per approvare il bilancio dell’esercizio precedente, entro centoventi giorni dalla sua chiusura, e per decidere sulla destinazione degli utili: la parte che viene distribuita è chiamata dividendo ed ogni azione ne incassa matematicamente il quoto (artt. 2350, 2364, 2433 c.c.).
Dall’assemblea che per questa regolare periodicità è detta ordinaria, la legge distingue quella straordinaria, da convocarsi quando la si giudica opportuna: fra le sue competenze spiccano le modifiche dello statuto e la nomina dei liquidatori in caso di scioglimento della società (art. 2365 c.c.).
L’assemblea è un organo collegiale: ciò significa che devono adunarsi insieme, nella sede e ora indicate, gli azionisti con diritto di voto o i loro rappresentanti (l’art. 2372 c.c. richiede il rilascio di una procura scritta) ed essi assumono le decisioni a maggioranza, calcolata in base alle azioni legittimamente rappresentate dagli intervenuti. Le deliberazioni assunte vincolano tutti i soci, anche quelli dissenzienti, astenuti o assenti (art. 2377 c.c.): esse però devono esser prese nel rispetto delle regole legali e statutarie ed è quindi indispensabile seguire il complesso procedimento prescritto. La convocazione dell’adunanza è decisa dall’organo amministrativo (ed anche per questo motivo i primi componenti di quest’ultimo devono essere indicati nell’atto costitutivo: art. 2328, co. 2, n. 10, c.c.), eventualmente su richiesta di una minoranza qualificata di azionisti (art. 2367 c.c.), mediante pubblicazione di un avviso che contiene gli argomenti posti all’ordine del giorno. Il suo svolgimento è invece diretto da un presidente, normalmente individuato in base allo statuto, mentre il verbale è redatto da un segretario o un notaio. La legge, affinché la riunione sia valida, esige l’affluenza di una percentuale rilevante di azioni con diritto di voto (quorum costitutivo); sui presenti e votanti si calcola poi la maggioranza (ma anche qui per taluni argomenti si richiede come minimo una percentuale di consensi calcolata sul totale delle azioni circolanti con diritto di voto: quorum deliberativo). L’imposizione di quorum non è coerente con l’affermazione ricorrente che i soci non siano obbligati a partecipare all’assemblea: più conseguente è il diritto inglese, perché alla facoltà di intervenire alle adunanze corrisponde il calcolo della maggioranza (assoluta o rafforzata a seconda dell’oggetto della delibera) soltanto sulle azioni votanti, quale che sia il numero dei presenti e verso tale modello sono state orientate ultimamente anche le società quotate italiane. Il presidente constata la regolare costituzione dell’adunanza (se la percentuale delle azioni convenute è inferiore al quorum richiesto, si procede ad una seconda o ulteriore convocazione); apre la discussione sui punti all’ordine del giorno e man mano li pone in votazione proclamando i risultati.
La legge si preoccupa della tenuta delle deliberazioni societarie e pertanto limita fortemente i rimedi processuali per opporsi ai loro vizi. Essa classifica come annullabili le deliberazioni non prese in conformità colla legge o lo statuto e consente l’opposizione, mediante citazione in tribunale della società, a minoranze qualificate di soci che non abbiano votato a favore, nonché agli organi di amministrazione o di controllo: questi ultimi, però, se riscontrano vizi, preferiranno convocare nuovamente l’assemblea e farle sostituire la decisione difettosa con una corretta. Il termine per opporsi è breve (novanta giorni) e comporta decadenza dal rimedio. Nelle ipotesi più gravi, ossia quando l’oggetto della deliberazione è impossibile o illecito oppure se è mancata la convocazione o la verbalizzazione dell’assemblea, può essere dichiarata la nullità della decisione: il termine di decadenza è di tre anni, ma viene abbreviato quando si tratta di modificazioni del capitale sociale (artt. 2377 ss. c.c.). Si è voluto in tal modo ostacolare l’attivismo degli impugnatori professionali, che soprattutto si accaniscono contro le società quotate; però si è eccessivamente compressa la tutela dei piccoli azionisti, ai quali resta teoricamente aperta solamente la difficile strada di domandare giudizialmente il risarcimento del danno patito alla stessa società partecipata, onde per evitare che essi siano ristorati attingendo al patrimonio della società cui hanno contribuito, dovrebbe sostenersi che la società possa rivalersi sui soci che hanno approvato la deliberazione pregiudizievole e viziata, i cui nominativi risultano dal verbale dell’assemblea (art. 2375 c.c.).
Infatti il voto è una facoltà data al socio perché la eserciti nell’interesse della società (art. 1375 c.c.). Scegliere di volta in volta in cosa questo consista è valutazione di merito, lasciata agli azionisti e in caso di disaccordo alla loro maggioranza. Però il voto non può essere indirizzato a favorire un diverso e confliggente interesse proprio o di terzi: se dovesse prevalere una maggioranza inquinata da consensi deviati, la deliberazione potrebbe essere annullata (art. 2373 c.c.) per evitare un danno alla società.
La scelta più impegnativa per gli statuti è quella del sistema di amministrazione e di controllo adatto alla singola società. Accanto al sistema tradizionale, la riforma del 2003 ne ha previsti altri due (dualistico e monistico): mentre dura la società è consentito di modificare la scelta di sistema, senza che questo cambiamento comporti una trasformazione del tipo societario (artt. 2380, 2498 ss. c.c.).
Nel sistema tradizionale, quello più diffuso e di ordinaria applicazione (nel 99,23% dei casi), l’organo amministrativo può essere formato da un amministratore unico o da un collegio di più componenti detto consiglio di amministrazione: in tal caso occorre indicare a chi spetti il potere di rappresentare la società, di cui è invece automaticamente dotato l’amministratore unico. Nelle società importanti gli statuti prevedono che il consiglio affidi buona parte delle sue funzioni ad uno o più amministratori delegati ovvero ad un comitato esecutivo: i consiglieri che ricevono tali incarichi operano a tempo pieno e si collocano a capo dei massimi dirigenti che lavorano per la società, venendo a formare la struttura manageriale dell’impresa. Infatti nelle società per azioni l’amministrazione può essere affidata anche a non soci, cioè a dei professionisti della gestione (art. 2380 bis c.c.), adeguatamente compensati (art. 2389 c.c.). Di solito il consiglio si riunisce saltuariamente (ogni trimestre, o anche ogni mese; più raramente con cadenza settimanale) e delibera a maggioranza dei votanti con la presenza della maggioranza degli amministratori in carica, ma gli statuti possono imporre requisiti più stringenti (art. 2388 c.c.). Il potere tende perciò a spostarsi nelle mani dei consiglieri delegati, ma il consiglio può sempre ritirare o restringere la delega, mentre è necessariamente competente per talune importanti decisioni (ad es. l’approvazione del progetto di bilancio o le variazioni del capitale attribuitegli dalla legge o dallo statuto). I consigli sono convocati e diretti da un presidente, cui spetta un compito di raccordo cogli organi delegati, anche per predisporre la documentazione indispensabile ad una deliberazione informata (art. 2381 c.c.).
Il compito fondamentale degli amministratori è quello di gestire la società (art. 2380 bis c.c.) o almeno di curare che sia adeguato il suo assetto organizzativo, amministrativo e contabile affidato ai managers (art. 2381 co. 3, c.c.). Le loro decisioni devono ispirarsi all’interesse comune dei soci, senza che siano fuorviate da prevalenti interessi propri o di terzi (art. 2391 c.c.), specialmente se questi ultimi intrattengano legami finanziari stabili con la società amministrata ed assumano pertanto la posizione di parti correlate (art. 2391 bis c.c.). Nell’ottica liberista oggi prevalente l’obiettivo che gli amministratori dovrebbero perseguire è quello di valorizzare il capitale fornito dagli azionisti (shareholder’s value): la formula si presta tuttavia ad interpretazioni diverse quanto al periodo temporale da considerarsi per massimizzare il valore economico delle azioni emesse dalla società, soprattutto quando la maggioranza del capitale appartiene allo Stato o a un ente pubblico. Molte legislazioni stabiliscono peraltro che gli amministratori debbano tenere in considerazione gli interessi di altre categorie (dipendenti, clienti, comunità locali o nazionali: i cosiddetti stakeholders) sicché diventa dominante la preoccupazione di conservare stabile la solidità dell’impresa sul lungo termine. In concreto la scelta delle decisioni opportune è affidata alla discrezione degli amministratori: la legge si preoccupa soltanto che la deliberazione sia assunta dopo aver coscienziosamente esaminato le varie alternative e senza essere inquinata da interessi estranei (a questo principio si dà il nome di business judgement rule) mentre ai soci insoddisfatti resta la facoltà di sostituire gli amministratori.
Infatti per mantenere allineata la condotta dell’organo amministrativo con gli interessi comuni degli azionisti la legge imperativamente prescrive che essi vengano periodicamente nominati (l’incarico non può durare più di tre esercizi, ma in Italia gli statuti difficilmente abbreviano la scadenza, mentre negli Stati Uniti è usuale la riconferma ogni anno) e che possano anche esser revocati prima del termine (salvo indennizzo, ove vengano destituiti senza giusta causa). Inoltre se, con azioni od omissioni, nell’espletamento dell’incarico gli amministratori causano un danno alla società, essi ne rispondono, così come sono tenuti a risarcire i creditori sociali se ledono colpevolmente l’integrità del patrimonio della società debitrice fino a renderlo insufficiente (artt. 2392 ss. c.c.). Nell’interesse della società, l’azione risarcitoria può anche essere esercitata da una minoranza qualificata di azionisti (che lo statuto può fissare a non più di un terzo, o un quarantesimo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio: art. 2393 bis c.c.); mentre in caso di fallimento a chiedere i danni, anche nell’interesse dei creditori sociali, è il curatore (art. 146 l. fall.).
Sul corretto comportamento degli amministratori e più in generale sul rispetto delle regole legali e statutarie nella vita della società vigila il collegio sindacale, formato da tre o cinque membri professionalmente qualificati (art. 2397 c.c.). La legge si sforza di salvaguardarne l’indipendenza rispetto all’organo amministrativo; gli dà forti poteri ispettivi; ne fa un punto di riferimento per gli azionisti che vogliano segnalare fatti censurabili (art. 2408 c.c.) e più in generale gli impone di riferire all’assemblea, se necessario convocandola; gli affida anche valutazioni di merito, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento (art. 2403 c.c.) o sul compenso degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto (art. 2389 c.c.) o sull’inserimento di determinate poste nell’attivo dello stato patrimoniale (costi di impianto e di ampliamento, di ricerca, sviluppo e pubblicità, aventi utilità pluriennale; avviamento di aziende conferite o acquistate: art. 2426, nn. 5 e 6, c.c.); lo chiama a svolgere l’ordinaria amministrazione della società se vengono a mancare l’amministratore unico o tutti i consiglieri, in attesa delle nuove nomine (art. 2386 c.c.). I sindaci sono obbligati ad assistere alle riunioni degli altri organi sociali (assemblee, consigli di amministrazione, comitato esecutivo) e ne possono impugnare le deliberazioni viziate (artt. 2377, 2388 c.c.); possono anche esercitare l’azione di responsabilità contro gli amministratori che violano i loro doveri di diligenza e lealtà all’interesse sociale; infine, nei casi di fondato sospetto di gravi irregolarità, possono denunziare i fatti potenzialmente dannosi al tribunale perché ne promuova l’accertamento ed eventualmente revochi gli amministratori dall’incarico (art. 2409 c.c.: tale denunzia può essere presentata con ricorso anche da una minoranza qualificata di soci, non superiore al decimo o al ventesimo del capitale sociale, a seconda che la società faccia o no ricorso al mercato del capitale di rischio).
Nelle società isolate, che a differenza di quelle che controllano altre imprese non sono tenute a redigere anche un bilancio consolidato dell’attività del gruppo, il collegio sindacale può inoltre essere incaricato, per scelta dello statuto, della revisione legale dei conti, la quale è ormai affidata normalmente a un revisore o una società di revisione iscritti negli appositi albi (art. 2409 bis c.c., nel testo modificato con d.lgs. 27.1.2010, n. 39, il quale ha recepito le nuove regole europee).
Quando la società è di grandi dimensioni, come accade soprattutto in quelle quotate, si constata una sovrapposizione di ruoli fra collegio sindacale e consiglio di amministrazione. Il potere decisionale si concentra nel ruolo dominante degli amministratori delegati i quali soltanto sono responsabili delle operazioni rientranti nell’incarico (art. 2392 c.c.); il consiglio si limita ad impartire direttive e molto raramente si riprende la parola decisiva su taluni atti, ad es. per rimuovere i sospetti di conflitti di interessi fra amministratore delegato e società; provvede bensì a revocare la delega in caso di inefficienze o abusi, dovendo prevenire o impedire ulteriori danni. Peraltro i consiglieri esprimono le loro valutazioni sulla base della documentazione apprestata dagli organi delegati e dal presidente e possono chiedere altre informazioni solo nel corso dell’adunanza, non disponendo, a differenza dei sindaci, di poteri ispettivi individuali. E’ normale che il consiglio si riunisca poche volte all’anno e che dunque un suo componente dedichi all’incarico appena alcune decine di ore lavorative in ogni esercizio.
I poteri degli organi delegati sono resi più forti dalla regola che conferisce loro una rappresentanza generale (art. 2384 c.c.). Ciò significa che la società resta impegnata anche quando il rappresentante oltrepassa i suoi poteri, ad es. disattendendo le indicazioni del consiglio o addirittura non richiedendo una sua deliberazione, come lo statuto o la delega avrebbero preteso, oppure concludendo affari in settori estranei all’attività stabilita come oggetto sociale. Si può aggiungere che molte decisioni gestionali sono in realtà prese da dirigenti, ossia da lavoratori subordinati, contro i quali il datore di lavoro soltanto, ossia la società tramite il suo legale rappresentante (cioè proprio l’organo delegato), potrebbe agire per chiedere i danni da inadempimento. Solo raramente, in virtù di leggi speciali, taluni dirigenti sono resi responsabili verso altri soggetti, come i soci o i terzi (v. ad es. l’art. 154 bis t.u.f. per il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili di emittenti quotati). In sintesi, le imprese mostrano una vocazione autoritaria dei vertici aziendali, con zone franche da responsabilità: ad esse si contrappone una molteplicità forse eccessiva e costosa di controlli.
Tuttavia un bilanciamento più accorto di quella che si è soliti chiamare la corporate governance (il buon governo delle società) viene spesso tentato mediante codici di autodisciplina, promossi ad es. da organizzazioni di categoria o dai mercati in cui le società si quotano: i principi in essi enunciati esprimono una best practice, da cui peraltro le società possono scostarsi spiegandone pubblicamente le ragioni agli investitori (al riguardo si parla di soft law, per distinguere la raccomandazione dalla norma vincolante).
Nel sistema dualistico per scelta statutaria l’amministrazione ed il controllo sono esercitati rispettivamente da un consiglio di gestione e da un consiglio di sorveglianza (art. 2409 octies c.c.). Quest’ultimo assorbe alcune funzioni che nel modello tradizionale sono di competenza dell’assemblea: esso nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione, ne stabilisce il compenso, delibera ed esercita l’azione di responsabilità contro di loro; inoltre approva il bilancio di esercizio e quello consolidato (preparati dal consiglio di gestione). I suoi poteri sono di vigilanza attiva, ma, rispetto al collegio sindacale, esso è in grado di condizionare direttamente gli amministratori; inoltre lo statuto può conferirgli il compito di approvare o autorizzare le operazioni strategiche ed i piani per il futuro (art. 2409 terdecies c.c.). I controlli sulla contabilità sono svolti da revisori legali.
Rispetto alla legge tedesca, da cui il sistema dualistico deriva, l’organo di gestione italiano è meno indipendente (l’incarico non può superare i tre esercizi ed è sempre revocabile, l’assenza di giusta causa essendo soltanto ragione di indennizzo); inoltre è composto da due o più soggetti; se poi i componenti sono tanti, si possono istituire dei consiglieri delegati (art. 2409 novies c.c.): invece in Germania il Vorstand è formato esclusivamente da amministratori a tempo pieno e ne basta anche uno.
Pertanto questo modello di organizzazione, in sé più razionale, per il costo elevato si adatta ad imprese di dimensioni ragguardevoli: è stato utilizzato nel settore bancario, ma si presta anche ad accompagnare il passaggio da una generazione all’altra nelle società a conduzione familiare, potendo i più anziani transitare nel consiglio di sorveglianza e sgravarsi così delle incombenze quotidiane, conservando però un’influenza sulle scelte strategiche e sulla selezione dei managers.
Dal mondo anglosassone deriva invece il sistema monistico, nel quale l’organo amministrativo è necessariamente pluripersonale e collegiale, mentre il collegio sindacale è sostituito da un comitato per il controllo sulla gestione, formato da amministratori indipendenti dalla struttura manageriale e composto da almeno tre o due consiglieri, a seconda che la società faccia ricorso al mercato del capitale di rischio oppur no (art. 2409 octiesdecies c.c.). Tuttavia tale comitato, essendo selezionato dal consiglio al suo interno, ha minor autonomia in confronto ad un organo di vigilanza nominato dall’assemblea qual è il collegio sindacale, tanto più che i suoi componenti partecipano col voto alle deliberazioni del consiglio di amministrazione, sulla cui correttezza e conformità alle norme di legge e di statuto essi esercitano un controllo. Al 31.12.2010. dopo sette anni dall’entrata in vigore della riforma, risultavano aver adottato il sistema monistico 181 s.p.a., mentre 136 avevano preferito il dualistico.
Artt. 2325-2451; 2484-2497 septies c.c.; artt. 60 ter ss. d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (t.u.f.); r.d. 29.3.1942, n. 239; d.lg. 27.1.2010, n. 27; d.lgs. 27.1.2010, n. 39.
AA.VV., Diritto delle società – Manuale Breve, V ed., Milano, 2012; Angelici C., La società per azioni-Principi e problemi, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012; Campobasso G.F., Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, VIII ed., Milanofiori-Assago, 2012; Cottino G., Diritto societario, II ed., Padova, 2011; Ferrara, F. jr.-Corsi F., Gli imprenditori e le società, XV ed., Milano, 2011; Galgano F., Diritto commerciale – Le società, XVIII ed., Bologna, 2012; Tratt. Colombo-Portale., Torino, dal 1988; Il nuovo diritto delle società-Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da Abbadessa, P.-Portale, G.B., Milanofiori-Assago, 2006; Weigmann R., Società per azioni, in Dig. Comm., XIV, Torino, 1997, 338-423; Berle, A.A.-Means G.C., Società per azioni e proprietà privata, trad. it., Torino, 1966 (l’originale americano è del 1932); Clark, R.C., Corporate Law, U.S.A., 1986; Kraakman, R.R. e altri, Diritto societario comparato, ed. it. a cura di Enriques L., Bologna, 2006 (l’originale è del 2004, ma in inglese è ora disponibile la II ed., The Anatomy of Corporate Law, 2009).