Abstract
Lo scritto analizza il fenomeno delle società a partecipazione pubblica, nel quadro della dicotomia tra società “di mercato” e società “quasi - amministrazioni”. Le società a partecipazione pubblica sono esaminate considerando, per un verso, le caratteristiche fondamentali della s.p.a. come forma organizzativa dell’impresa e del rapporto tra la sua naturale vocazione lucrativa e gli interessi generali perseguiti dagli azionisti pubblici; per altro verso, si tiene conto del vincolo funzionale e dei principi istituzionali che l’amministrazione deve osservare anche nell’esercizio della propria attività privatistica, con alcune peculiarità che riguardano quella imprenditoriale.
Si apprezzano, quindi, le conseguenze che derivano, invece, da una qualificazione pubblicistica della società partecipata, guardando sia alla normativa più recente, sia, e ancor prima, ai principi costituzionali e istituzionali che regolano l’“amministrazione”.
Per “società pubbliche” s’intende comunemente il fenomeno delle società per azioni, più raramente s.r.l., partecipate direttamente o indirettamente dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali. La relativa partecipazione normalmente non muta la natura, di per sé privata, dell’ente societario. Non mancano tuttavia, nel diritto positivo, figure di “enti pubblici in forma societaria”, oggi anche denominati “quasi – amministrazioni” (Clarich, M., Società di mercato e quasi-amministrazioni, in Dir. amm., 2009, 253, ss.).
A tale distinzione conseguono regimi di disciplina che tendono ad acquisire contorni sempre più definiti, grazie all’elaborazione della dottrina e della giurisprudenza, con l’avallo, talvolta, del legislatore, in ragione, per un verso, del necessario rispetto della tutela della concorrenza e degli imperativi di origine europea; per altro verso, dell’ossequio alle fondamentali garanzie e ai principi costituzionali e istituzionali riferiti all’“amministrazione” (Romano, A., Relazione di sintesi, in Raimondi, S.-Ursi, R., a cura di, Fondazioni e attività amministrativa, Torino, 2006; Cerulli Irelli, V., Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, 2011, 39 ss., v. ora il d.d.l. di riforma dell’amministrazione: Atto Senato n. 1577, art. 14).
Altri profili di regolazione, che in genere riguardano singoli modelli di società partecipata, più che intere categorie, derivano dal proliferare, nella recente legislazione, di norme finalizzate a potenziare il confronto competitivo tra le imprese in ambito nazionale oltre quanto imposto dallo stesso diritto europeo, a realizzare una certa “moralizzazione” nella governance delle società partecipate, a ridurre il peso che le medesime hanno finito per determinare sulle finanze pubbliche, limitando, ad esempio, il relativo numero (v., da ultimo, art. 1, co. 611, l. 23.12.2014, n. 190)o il numero dei membri degli organi sociali (v. ad es. art. 1, co. 729, l. 27.12.2006, art. 6, co.5, d.l. 31.5.2010, n. 78, art. 4, d.l. n. 6.7.2012, n.95 e s.m.) e ponendo limiti ai relativi compensi (v., ad es., art. 1, co. 725 ss., l. n. 296/2006, art. 3, co. 44, l. 24.12.2007, n. 244, art.6, co. 6, d.l. n. 78/2010, art. 23 bis, co. 5-bis, d.l. 6.12.2011, n. 201, art. 4, co. 4 d.l. 6.7.2012, n. 95 e s.m.) o imponendo, per l’acquisto di beni e servizi, il riferimento a parametri di qualità e prezzo forniti dalla Consip s.p.a. (v., ad es., art. 1, co. 465 e co. 734, l. 27.12.2006, n. 269; art. 3, co. 32 bis, l. 24.12.2007, n. 244; art. 3, co. 15, l. n. 244/2007, art.1, co. 611, l. n. 190/2014), inserendo determinate società nella disciplina della contabilità pubblica (ex art. 1, l. 31.12.2009, n. 196 e s.m., ecc.) o ancora, ad esempio, definendo limiti alle spese, anzitutto per il personale (v., ad es., art. 18 co. 2-bis, d.l. 25.6.2008, n. 112, art. 3, co. 7-bis, d.l. 31.8.2013, n. 101, art. 1, co. 565 ss., l. 27.12.2013, n. 147, art. 4, co. 12-bis e art. 20 d.l. 24.4.2014, n. 66), ecc. Si tratta, in genere, di normative dal carattere episodico, con riflessi eventuali e indiretti sul piano teorico-sistematico. Dal relativo ambito applicativo sono normalmente escluse le società quotate in mercati regolamentati.
La figura storicamente più importante di società per azioni a partecipazione pubblica è quella della “società – impresa” operante nel libero mercato, tipica immagine dello “Stato – imprenditore” nello scorso secolo, nella lunga vigenza del “sistema” delle “partecipazioni statali”.
Le privatizzazioni avviate negli anni Novanta hanno ridotto molto la presenza dello Stato nell’economia attraverso lo strumento societario ma non ne hanno segnato il definitivo abbandono. Oggi lo “Stato – azionista” si trova impersonato, come in altri ordinamenti europei e secondo quella tendenziale “unicità” della “Ownership Entity” suggerita dagli indirizzi globali di governance delle State Owned Companies, principalmente dal Ministero dell’economia e delle finanze, azionista ora diretto, ora indiretto, di ancora numerose s.p.a.; più raramente socio di s.r.l. (v. ora art. 3, co. 27 bis, l. 24.12.2007, n. 244 e cfr. OECD, Guidelines on Corporate Governance of State Owned Enterprises, 2005; OECD, Accountability and Transparency. A Guide for State Ownership, 2010). Non mancano, tuttavia, ipotesi di società in mano ad altri dicasteri ma rispetto alle quali il MEF coopera alla definizione delle fondamentali linee organizzative e degli indirizzi strategici (v., ad es., Difesa Servizi s.p.a., ex art. 535, d.lgs. 15.3.2010, n. 66).
L’azionariato statale indiretto si esercita in buona misura attraverso enti strumentali organizzati in forma societaria, che ripropongono, in mutate sembianze e in chiave moderna, l’immagine dei vecchi enti di gestione. Si tratta di alcune delle molte società, attualmente rinvenibili nell’orizzonte giuridico, di origine legale o esito della privatizzazione ex lege di preesistenti enti pubblici (v. ad es., tra le prime: Invitalia s.p.a., Italia Lavoro s.p.a.; tra le seconde: Cassa Depositi e Prestiti s.p.a., ecc.).
La partecipazione in società commerciali è peraltro una realtà nota da tempo anche in ambito locale – in cui s’inquadrano, ad esempio, le “società per lo sviluppo” (tra cui quelle previste dal d.l. 31.1.1995, n. 26) –, e regionale, tra le quali fenomeno particolarmente diffuso è quello delle c.d. società “finanziarie”, le quali tuttavia, spesso lambiscono una natura piuttosto pubblicistica.
Sono ancora “società - imprese” a partecipazione pubblica ma sostanzialmente private, le società a capitale misto che integrano il cd. “partenariato pubblico-privato”, ovvero una «cooperazione tra le autorità pubbliche e il mondo delle imprese» e «che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un'infrastruttura o la fornitura di un servizio» nei confronti della p.a., ovvero la gestione di un servizio pubblico e che trovano una tipizzazione nel nostro diritto positivo anche sulla scorta degli indirizzi europei (Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, Com (2004) 327; Comunicazione interpretativa della Commissione sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI ),Com (2008) 91/02; v., ad es., art. 3, co. 15 ter, d.lgs. 12.4.2006, n. 163). Si parla di partenariato “istituzionalizzato”, in tendenziale contrapposizione ai partenariati puramente “contrattuali”.
La società che lo incarna, ove destinataria di affidamenti diretti relativi allo svolgimento di attività economica, è compatibile con le regole e i principi europei posti a tutela della concorrenza a condizione che il socio privato sia selezionato con procedure a evidenza pubblica e che quest’ultima abbia per oggetto sia l’appalto o la concessione da aggiudicare all’organizzazione a capitale misto, sia il contributo operativo del partner privato all’esecuzione delle prestazioni e/o il suo contributo amministrativo alla gestione della società. La “legittimità comunitaria” si misura sulla sussistenza di una gara “a doppio oggetto”, senza che sia necessaria, sembra, alcuna previsione in merito alle percentuali di partecipazione (pubblica e privata) (v. il Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati, cit., Comunicazione interpretativa della Commissione europea 5.2.2008, «sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI)»; per l’espressa previsione di società miste a capitale pubblico minoritario per la gestione dei s.p.l. non di rilevanza economica, cfr. art. 116 del T.u.e.l.).
Le società miste finiscono così per rappresentare una «forma di affidamento a terzi nell’ambito di un contesto societario» (Scotti, E., Servizi pubblici locali, in Dig. disc. pubbl., Agg., 2012), una struttura soggettiva unitaria in cui confluiscono «due autonomie profondamente diverse» (Chirulli, P., Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, Padova, 2005, 151) e «uno dei risvolti giuridici del principio di sussidiarietà sociale ed amministrativa» (ex art. 118 Cost.) (Chiti, M.P., I partenariati pubblico-privati e la fine del dualismo tra diritto pubblico e diritto comune, in Chiti, M.P., a cura di, Il partenariato pubblico-privato, Napoli, 2009, 1 ss., e cfr. Dugato, M., Le società a partecipazione pubblica, in Giorn. dir. amm., 2013, 855 ss. che ricorda anche Cons. St., 28.2.2013 n. 1225; per il settore degli appalti, v. specificamente l’art. 32, d.lgs. n. 163/2006).
Le medesime hanno conosciuto, negli ultimi anni, alterne fortune, muovendosi tra il riconoscimento della più piena capacità organizzativa e di scelta in capo alle amministrazioni (Cavallo Perin, R., Comuni e province nella gestione dei servizi pubblici, Napoli, 1993, 129 ss.) e le spinte del legislatore interno verso un radicale ricorso al mercato e l’implementazione delle liberalizzazioni, ad ogni livello di governo, in particolare, nel settore dei servizi pubblici locali (v. art. 35, co. 12, l. n. 448/2001, che modificava gli artt. 112 ss. del T.u.e.l.; disciplina subito rivista dal d.l. 30.9.2003, n. 269, conv. in l. 24.12.2003, n. 350; v. art. 4 del d.l. 13.8.2011, n. 138, dichiarato illegittimo da C. cost. n. 199/2012). Sembrano ad ogni modo uscire rivitalizzate nell’attuale orizzonte giuridico, operando il legislatore, proprio nel problematico ambito della gestione dei s.p.l. di rilevanza economica, un diretto rinvio ai principi europei (v. art. 34, co. 20 ss., d.l. 18.10.2012, n. 179; per la relativa previsione nella disciplina generale dei contratti pubblici, v. artt. 1, co. 2 e 32, d.lgs. n.163/2006, cit., v. ora, per una futura disciplina, Atto Senato n. 1577, artt. 14 e 15).
Ciò non è in contraddizione con alcune limitazioni all’operatività delle società stesse, come quelle oggi previste dal nostro diritto positivo, sia pur con vistose eccezioni, per «evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato» e «assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale» (v. art. 13, del d.l. 4.7.2006, n. 223, conv. in l. 4.8.2006, n. 248).
Sono al confine con questa figura, appartenendo a un genus comune, le società di trasformazione urbana, previste dall’art. 17, co. 59, della l. n. 127/1997, quindi dall’art. 120 del T.u.e.l., per realizzare interventi di «trasformazione urbana in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti». Nulla sembra, invero, escludere che il capitale possa essere interamente pubblico senza che ciò si risolva, di per sé, in una alterazione della natura, comunque privata, della società stessa (sul tema, per tutti: Dugato, M., Oggetto e regime delle società di trasformazione urbana, in Dir. amm., 1999, 3-4, 511 ss.; in termini un po’ diversi: De Lucia, L., Le società di trasformazione urbana nell’ordinamento italiano, in Riv. giur. edil., 2, 1998, 67).
Non sono certo nuove ma certamente più diffuse negli ultimi decenni, le società in mano pubblica, in genere, anzi, a partecipazione pubblica totalitaria, a genesi “legale”, ovvero direttamente istituite dalla legge, o delle quali la legge prevede come obbligatoria o quantomeno autorizza la “istituzione” ad opera delle amministrazioni, anzitutto statali (Ibba, C., Le società legali, Torino, 1992). Il legislatore ne prevede contestualmente “soci necessari”, oggetto sociale, denominazione, sede, meccanismi particolari di nomina dei membri degli organi sociali, sottoposizione a poteri, di varia intensità, d’indirizzo esterno sulla gestione, talvolta espressa applicazione di alcuni istituti tipici del diritto amministrativo e riferiti agli enti pubblici, come i controlli sulla gestione della Corte dei conti ex art. 12 della l. 21.3.1958, n. 259, o la facoltà di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ecc. A queste società, che tendono ad aumentare negli ultimi decenni, anche in ragione della privatizzazione formale di preesistenti enti pubblici, sono generalmente affidati compiti pubblici se non funzioni pubbliche in senso proprio, ponendosi in tal caso le stesse certamente fuori dal “mercato”. La relativa istituzione non sembra, dunque, porre problemi in termini di rispetto della concorrenza; piuttosto di “non elusione” dello statuto dell’“amministrazione” (Cerulli Irelli, V., Pubblico e privato nell’organizzazione amministrativa, in Raimondi, S.-Ursi, R., a cura di, Fondazioni e attività amministrativa, Torino, 2006, 15 ss.).
Se si tratta di figure di fronte alle quali la dottrina del diritto commerciale e soprattutto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno tradizionalmente ragionato in termini di “pregiudizio” della natura privata imposto dalla struttura organizzativa (Ibba, C., La GEPI s.p.a. fra diritto pubblico e diritto privato, in Giur. comm., 1991, II, 914 ss.), nella dottrina amministrativistica, naturalmente più incline a ravvisare la sostanza pubblicistica “oltre” le forme giuridiche (v., ad es., Rossi, G.P., Gli enti pubblici, 1991, 170 ss., Gli enti pubblici in forma societaria, in Serv. pubbl. app., 2004, 221 ss.), anche sulla scorta della prospettiva europea, si è fatta strada una diversa ricostruzione, memore degli importanti insegnamenti che la nostra elaborazione ha prodotto in tema di ente pubblico (Romano, Alb., Relazione di sintesi, in Raimondi, S.-Ursi, R., a cura di, Fondazioni e attività amministrativa, Torino, 2006, 1 ss.), e di “ente strumentale”, secondo la nota ricostruzione di Ottaviano, V. (Considerazioni sugli enti strumentali, ora in Scritti giuridici, 1992, I, 329 ss.) e di Miele, G. (La distinzione fra ente pubblico e privato, ora in Scritti giuridici, 1987, I, 365 ss.). I sopra menzionati caratteri delle società ex lege, siano esse frutto di una nuova istituzione o di trasformazione di preesistenti enti pubblici,sono invero agevolmente interpretabili come indici della relativa “strumentalità” e “funzionalizzazione”, quindi “pubblicità” (v. ex multis: Cons. St., IV, 2.3.2001, n. 1206; Cons. St., VI, 5.3.2002, n. 1303;Cons. St., VI 17.10.2002, n. 4711;Cass., S.U., 15.6.2005, n. 7799; Cons. St.,V, 19.9.2006, n. 5467,Cons. St, VI, 23.11.2010, n. 5379; Cons. St., IV, 24.5.2013, n. 2829).
La stessa Corte costituzionale, che già nel 1994 aveva osservato come la dicotomia tra ente privato ed ente pubblico fosse venuta stemperandosi (C. cost., 28.12.1993, n. 466, in Foro amm., 1995, 298), ha più nettamente aderito, qualche anno più tardi, alla suddetta ipotesi ricostruttiva, qualificando una società legale come Italia Lavoro s.p.a., appunto “ente strumentale”, rientrante nella materia dell’“ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. g), Cost. (C. cost., 19.12.2003, n. 363, in Foro amm. – Cons. St., 2003, 3566; per la figura affine, ma problematica, delle società finanziarie regionali, v. Sanviti G., Società finanziarie regionali, in Enc. giur. Treccani, XXIX, 1993).
L’ascrizione delle società ex lege deputate allo svolgimento di compiti pubblici alle “amministrazioni” ha consentito una svolta decisiva nel dibattito in ordine al relativo trattamento giuridico, nella misura in cui la medesima, in una con la natura sostanzialmente amministrativa dell’attività svolta, chiama in gioco, nella prospettiva della teoria istituzionale, l’applicazione dell’ordinamento amministrativo, derivato dall’ordinamento generale (Romano, Alb., Relazione, cit., e, più in generale, Id., Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, 1 ss.). Pertanto, la disciplina privatistica, più che prevalere in ragione della pretesa natura privata dell’ente in forma societaria, si dispiegherà ove non derogata dalla disciplina “singolare” e nei limiti della “compatibilità” con la sostanza pubblicistica del soggetto e dei relativi compiti (Renna, M., Le società in mano pubblica,Torino, 1997, 152), dunque nei limiti in cui quest’ultima non determini la naturale applicazione delle norme “funzionali”.
L’appellativo di società in house, talvolta riferito anche alle società legali, sembra dover essere più rigorosamente utilizzato per indicare, secondo l’immagine disegnata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, società costituite da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi o la gestione di attività finali o, più spesso, strumentali, di cui esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, ivi comprese le prestazioni rese agli utenti per conto dei medesimi, e la cui gestione sia per statuto assoggettata ad un controllo analogo rispetto a quello esercitato dalle amministrazioni sui propri uffici. Sono requisiti che devono sussistere cumulativamente perché una società possa dirsi effettivamente tale e perché, dunque, siano legittimi affidamenti diretti, senza gara, delle predette attività, da parte dei soggetti che esercitano il “controllo analogo” (per le prime emersioni della figura, v. Libro bianco del 1998 della Commissione europea, con riferimento al settore degli appalti pubblici e v. C. giust. CE, 18.11.1999, C-107/98, Teckal; più di recente, ex multis: C. giust. UE, 10.11.2005, n. 29; v. ancora, ad es., C. giust. UE, 11.1.2005, n. 26; C. giust. UE, 8.4.2008, n. 337; C. giust. UE, 13.10.2005, n. 458; C. giust. UE, 11.5.2006, n. 340; C. giust. UE, 17.7.2007, n. 371; C. giust. UE, 29.11.2012, n. 182). Tali condizioni sono poi soggette a interpretazione restrittiva, che pur ha conosciuto una certa evoluzione (per tutte: C. giust. UE, n. 458/2005, cit.; nella giurisprudenza interna: Cons. St., A.P., 3.3.2008, n. 1; Cass., S. U., 25.11.2013, n. 26283; C. cost., 23.12.2008, n. 439).
Si parla in proposito di “non impresa” o di “impresa dimezzata”, considerando che la vocazione commerciale, comunque acquisita, attraverso l’ampliamento dell’oggetto sociale, l’apertura obbligatoria a breve termine della società ad altri capitali, l’espansione territoriale dell’attività, ecc., rendendo precario il controllo analogo, si rivela di per sé incompatibile con la società in house (Cavallo Perin, R.-Casalini, D., L’in house providing: un’impresa dimezzata, in Dir. amm., 2006,1, 51 ss.).
Se la definizione di società in house emerge anzitutto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, non mancano oggi riferimenti normativi, nel diritto derivato (v. la dir. UE n. 2006/123, Cass., S.U., n. 26283/2013, e ora, più esplicitamente, la dir. UE n. 2014/24, la quale precisa che la persona giuridica controllata deve svolgere più dell’80% delle proprie attività nell’esecuzione di compiti a essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice che esercita il controllo o da altre persone giuridiche controllate da tale amministrazione aggiudicatrice).
Coerentemente con i limiti di esistenza del modello disegnati a livello sovranazionale, il legislatore statale impedisce alle società in esame, tranne quelle costituite per l’esercizio di s.p.l., di svolgere sul mercato ulteriori attività accanto ai comuni operatori economici (v. art. 13 del d.l. 4.7.2006, n. 223, conv. in l. 4.8.2006, n. 248, cit.; Cons. St., 6.7.2012, n. 3954; Cons. St., 3.6.2013, n. 3022); con ciò, si assume, avrebbe rimarcato la legittima e necessaria distinzione tra società di mercato e società deputate a svolgere attività sostanzialmente amministrativa (C. cost.,1.8.2008, n. 326).
Più infelice è stato il tentativo di ostacolarne radicalmente l’utilizzo secondo una scelta tutta di politica legislativa interna, che si è scontrata con l’autonomia organizzativa, costituzionalmente garantita, delle regioni (v. art. 4 del d.l. 6.7.2012, n. 95, e C. cost., 23.7.2013, n. 229).
Ancora più infruttuoso è stato, infine, l’imporre a regioni ed enti locali severi limiti al ricorso alle menzionate forme organizzative ai fini della gestione dei s.p.l. (v. art. 23 bis, d.l. 25.6.2008, n. 112). Scelta colpita dal referendum del 12-13.6.2011, abrogativo della suddetta disciplina restrittiva, poi sostanzialmente ripetuta, anzi con una più forte spinta “liberalizzatrice” e favorevole al riconoscimento di ruoli essenzialmente regolatori in capo all’ente territoriale, dall’art.4, d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. in l. 14.9.2011, n. 148, dichiarato, quindi, a sua volta, costituzionalmente illegittimo (C. cost., 20.7.2012, n. 199; per l’utilizzo del modello a fini, invece, di gestione delle reti, v. art. 113, co. 4, d.lgs. 18.8.2000, n. 267).
In tale contesto, oggi, come per le società miste, il diritto nazionale si limita a rinviare alle norme sovranazionali imponendo, tuttavia, adeguate regole di trasparenza in ordine alle scelte effettuate e alle relative ragioni (art. 34, co.20 ss., d.l. n. 179/2012). Dunque, le società c.d. di “autoproduzione” hanno un discreto diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento e, in ogni caso, la relativa limitazione sembra non aver direttamente a che fare con i vincoli europei.
Se le società in house, come le società legali – enti pubblici, sono ritenute entità “sostanzialmente pubbliche” equiparabili alle p.a., ciò avviene secondo un ragionamento diverso. Mentre le seconde sono ormai qualificate come ente pubblico dalla forma organizzativa privatistica, senza che se ne neghi l’alterità soggettiva rispetto all’amministrazione territoriale, delle prime si preferisce ragionare, data appunto la “funzionalità” della figura a escludere l’applicazione delle norme dirette alla tutela della concorrenza, nei termini anglosassoni del piercing the corporate veil (Cass., S.U., 25.11.2013, n. 26283) e della negazione dell’alterità soggettiva rispetto all’amministrazione partecipante (C. cost. 20.3.2013, n. 46); si osserva che «l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi dell’amministrazione stessa» (Cons. St., A.P.,7.1.2008, n. 1); non può più parlarsi di vera società di capitali come autonomo centro decisionale. L’uso del vocabolo “società” serve solo a indicare che, «ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario» (Cass., S.U., n. 26283/2013).
La partecipazione degli enti pubblici a società per azioni involge importanti questioni di teoria generale, a partire dall’autonomia degli enti pubblici, intesa come possibilità «di darsi un ordinamento giuridico» (Santi Romano, Autonomia, in Id., Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947), e come «relazione tra ordinamenti» (Romano, Alb., Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. pubbl., 1987, II, 30 ss.) e dalla loro “capacità”, ovvero idoneità ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive (Romano, Alb., I soggetti e le situazioni giuridiche soggettive nel diritto amministrativo in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2005, 145 ss., 175 ss.; Cerulli Irelli, V., Amministrazione pubblica, cit., 71 ss.).
Se in alcune fasi storiche si è certamente dubitato della capacità generale degli enti pubblici, tale da consentire il pieno utilizzo di strumenti privatistici, a prescindere da specifiche norme che lo prevedessero, la questione può ormai ritenersi superata. In materia societaria, utili indicazioni si coglievano già nella legge sulle municipalizzazioni (l. 29.3.1903, n. 103) e nel relativo regolamento di esecuzione (r.d. 10.3.1924 n.108 e s.m.), poi nel testo unico delle leggi comunali e provinciali (r.d. 3.3.1934, n. 383), quindi nel codice civile del 1942, che pare aver presupposto proprio tale capacità generale dettando norme speciali per le società di capitali partecipate da enti pubblici (artt. 2458 ss. c.c.; ora artt. 2449 ss. c.c. Tra le prime pronunce: Cons. St., 14.12.1988, n. 818; Cons. St., 12.3.1990, n. 374).
Altro è il problema della natura dell’autonomia dell’amministrazione: ovvero se sia configurabile in capo ad essa l’autonomia privata, quindi la “libertà” nell’utilizzo del diritto privato, ovvero necessariamente un’autonomia funzionale, di cui l’attività privatistica e per essa l’attività imprenditoriale sia in ogni caso espressione; tesi che, se non pacifica, sembra in effetti prevalere.
Nel primo caso, sarebbe in radice inutile qualunque disquisizione sull’influenza dell’interesse pubblico soggettivizzato nell’amministrazione sugli istituti privatistici utilizzati e si verificherebbe una piena ed esclusiva sottoposizione dell’amministrazione al diritto privato (ad es.: Giannini, M.S., Diritto amministrativo, 1988, I, 490, G. Greco, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato, Milano, 1986). Nel secondo caso, l’intera attività amministrativa chiamerebbe in gioco le norme funzionali (ad es.: Romano, Alb., La concessione di un pubblico servizio, in AA.VV., La concessione di pubblico servizio, Milano, 1995, 11; Dugato, M., Atipicità e funzionalizzazione dell’attività amministrativa per contratti, Milano, 1996, 21).
La riflessione su tali aspetti non può oggi trascurare la norma di cui all’art. 3, co. 27 ss., della l. n. 244/2007 che ha posto, peraltro in coerenza con altri ordinamenti europei, severi limiti nei confronti delle amministrazioni alla costituzione e al mantenimento di partecipazioni societarie, consentendole per le società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi «strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali» (previsione confermata dall’art.1, co. 611, l. n. 190/2014, cit.). Si tratta di regole che s’iscrivono nel recente percorso legislativo volto a ridurre l’uso, ma soprattutto l’abuso dello strumento societario, essenzialmente al fine del contenimento della spesa pubblica. Nessun divieto riguarda, ad ogni modo, la costituzione di «società che producono servizi d’interesse generale e che forniscono servizi di committenza, o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici».
Da più parti si è ritenuto che in virtù della citata disposizione si abbia un ritorno, nel nostro sistema, alla capacità speciale degli enti pubblici, per cui la partecipazione societaria necessiterebbe di apposita autorizzazione ex lege, ed oggi sarebbero autorizzate le sole società ivi indicate (ad es.: Cons. St., A.P., 3.6.2011, n. 10).
In realtà, sembra piuttosto che la norma ribadisca principi immanenti all’ordinamento, presupponendo l’“autonomia funzionalizzata” degli enti pubblici, per cui anche la capacità di diritto privato che trova espressione nell’acquisto di quote societarie e nella partecipazione a società di capitali non potrebbe naturalmente essere esercitata che per i fini pubblici propri dell’ente pubblico socio o azionista, da cui, è idea diffusa, esulerebbe lo scopo meramente speculativo (v. già Cons. St., 1.2.1985, n. 130, in Foro it., 1987, III, 436). Di qui l’autonoma rilevanza e la natura amministrativa della fase prodromica alla vicenda societaria, la sua possibile illegittimità ove in contrasto con le norme “funzionali”, tra cui quelle in esame (Cons. St., 20.3.2012, n. 1574; TAR Cagliari, Sardegna, 5.4.2013, n. 269; C. conti Reg. Lombardia, sez. contr., 17.6.2010, n. 675). L’acquisto o il mantenimento di quote sociali contra legem, si risolve in un difetto di legittimazione più che di capacità, con conseguente semplice annullabilità della decisione illegittima di acquisire o mantenere partecipazioni vietate.
La naturale attenuazione dello scopo lucrativo della società privata a partecipazione pubblica maggioritaria o di controllo in ragione dell’interesse generale extrasociale istituzionalmente perseguito dal socio pubblico pone in primo piano il quesito circa i limiti di elasticità della causa societaria.
Nella dottrina del diritto commerciale la prospettiva privilegiata è quella dell’analisi dell’esperienza e della naturale vocazione della società di capitali, e in particolare della società per azioni, a porsi in prospettive di lungo periodo, tali da condurre a non ravvisare o non ravvisare più, nei moderni ordinamenti giuridici, nella massimizzazione del profitto, né dal punto di vista oggettivo, né dal punto di vista soggettivo, la caratteristica essenziale del tipo organizzativo. Ciò specie ove si concepisca la s.p.a. in termini “istituzionalistici” (Rathenau, W., La realtà della società per azioni. Riflessioni suggerite dall’esperienza degli affari, in Riv. soc., 1960, 912 ss.; Asquini,T., I battelli del Reno, in Riv. soc., 1959, 617 ss.) piuttosto che in termini “contrattualistici” (Ascarelli, T., Sui poteri della maggioranza nelle società per azioni e su alcuni loro limiti, ora in Studi in tema di società, Milano, 1952, 99 ss., Interesse sociale e interesse comune nel voto, ivi, 147 ss.).
La negazione del fine della massimizzazione dell’utile come causa societaria tipica non conduce però ad affermare de plano l’avvenuta “neutralizzazione” della medesima, pur talora affermata (per tutti: Santini, G., Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali,in Riv. dir. civ., 1973, I, 151 ss.). Tale esito è bensì predicabile ove si pensi all’attuale galassia delle società partecipate, in molte delle quali si trova effettivamente annichilito lo scopo lucrativo per lasciare spazio a una diretta funzionalizzazione dell’ente societario a fini d’interesse generale. In queste ipotesi sembra però potersi dire con sufficiente certezza che siamo al di fuori del “tipo” (o “sotto-tipo”) generale organizzativo “s.p.a.” disegnato dal codice civile, mentre la vocazione all’utile rimane caratterizzante la società per azioni in senso proprio e, più in generale, la società commerciale come forma di organizzazione dell’impresa destinata a operare nel mercato (Marasà, G., Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, 165 ss.).
Il dibattito può ormai dirsi superato alla luce del diritto generale europeo e dalle fondamentali regole del mercato unico. A livello sovranazionale si presuppone l’aspirazione di ogni imprenditore a un’adeguata remunerazione e si considera quest’ultima effettivamente attenuata, non certo eliminata, per le grandi imprese organizzate in forma societaria, specie se nel ruolo di holdings e, comunque, per i gruppi imprenditoriali, almeno nel breve periodo. Per i medesimi lo scopo di utile immediato tende a lasciare il posto, si osserva, a tensioni diverse, come ad esempio, all’aumento del volume della produzione, alla conquista di nuovi mercati, all’accrescimento della propria potenza economica, mentre la causa sociale, secondo non recenti analisi, si determina in concreto attraverso la considerazione di interessi altri rispetto a quello lucrativo: gli interessi dei diversi stakeholders, lavoratori, creditori, consumatori, fino all’interesse alla protezione dell’ambiente o della stessa collettività sociale nell’ambito della quale l’impresa opera (cfr. anche: OECD, Principi di governo societario dell’OCSE, 2004,su www.oecd.org,§ VI. Punti A e C, 43-44. V. già: OECD, Tripartite Declaration of Principles concerning Multinational Enterprises and Social Policy, 1977, e OECD, Guidelines for Multinational Enterprises, 2004).
Sulla base di questa innegabile realtà, le istituzioni europee misurano la legittimità del concreto operare dello “Stato-imprenditore” e dello “Stato-azionista”. D’altra parte, asserire che una società a partecipazione pubblica veda di per sé neutralizzata la finalità lucrativa colliderebbe inevitabilmente con il divieto di aiuti di Stato di cui all’art.107 del TFUE (salvo autorizzazione). Il predetto divieto, nella materia in esame, si traduce proprio nell’imporre al soggetto pubblico il quale, con l’acquisizione e il mantenimento di partecipazioni almeno di controllo in imprese, acquisti a sua volta le vesti di “imprenditore”, non solo di assicurare la trasparenza delle relazioni finanziarie con le medesime (v. dir. CE n. 2006/111, 16.11.2006), ma di agire secondo le logiche dell’«imprenditore privato in un’economia di mercato» e dell’«imprenditore accorto», ponendo in essere investimenti redditizi, sia pur secondo una visione di ampio respiro (v. per tutte: C. giust. CE 14.9.1994, n. 42, C-42/93, Commissione CE c. Germania; C. giust. CE, 14.9.1994, C-278/92, C-279/92, C-280/92, Spagna c. Commissione CE).
Si tratta di un ulteriore passo verso la piena, sia pur forzosa, equiparazione della società a partecipazione pubblica, delle sue modalità di azione alla comune società di capitali costituita per lo svolgimento di attività imprenditoriale e che, se certamente imposta dall’ordine economico europeo, trova ora significativi momenti di emersione nella più recente legislazione nazionale (v. gli attuali art. 5, co. 8-bis, d.l. 269/2003, e art. 1, co. 2, d.lgs. n. 1/1999 relative alle partecipazioni assumibili da CDP s.p.a. e Invitalia s.p.a.).
3.3 La disciplina dell’attività delle società tra “impresa” e fini di interesse generale
In termini in parte nuovi, si ripropone dunque la questione dei termini in cui il vincolo del fine d’interesse generale influisce sull’attività imprenditoriale svolta attraverso società di capitali.
Il problema risente dell’accezione accolta del principio di legalità dell’azione amministrativa, almeno di quella svolta in forma privatistica e, in particolare, di quella esercitata attraverso attività imprenditoriale. Nella misura in cui è anch’essa funzionale al perseguimento d’interessi generali, la medesima sembra ragionevolmente inquadrarsi, nell’“attività amministrativa di diritto privato”, piuttosto che nella semplice “attività privata” dell’amministrazione, non potendosi, in effetti, ritenere estranea al vincolo di scopo del perseguimento dell’interesse generale (per cui v. Amorth, A., Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato, in Arch. dir. pubbl., 1938). Trattandosi di attività imprenditoriale come tale e complessivamente preordinata al fine di realizzare interessi generali, il singolo atto in cui la medesima si esprime sembra incapace di cadere sotto l’impero del principio di legittimità dell’azione amministrativa. Il vincolo di scopo si traduce qui in necessario apprezzamento del “risultato” complessivamente raggiunto rispetto al quale il principio di legalità si declina in termini di “legalità-indirizzo” (per cui v. Marzuoli, C., Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione,Milano, 1982,133 ss., 144 ss.).
Ciò comporta che sussistano, da un lato, definite politiche pubbliche, anche tradotte in specifici atti d’indirizzo da parte dello “Stato – azionista” verso le società holdings, che definiscano gli obiettivi da raggiungere; per altro verso, si palesa la necessità di meccanismi atti a misurare gli esiti dell’attività svolta rispetto ai fini prefissati. Il tutto andrebbe poi inquadrato in un complessivo sistema, capace di assicurare l’accountability dell’insieme delle imprese pubbliche, sia di fronte agli organi rappresentativi della comunità territoriale, come ad esempio dal Parlamento in esito ai controlli eseguiti e alle relazioni presentate dalla Corte dei Conti, sia nei confronti degli stessi amministrati. In quest’ultimo senso, in particolare, sono ad esempio da apprezzare gli obblighi pubblicitari e informativi che incombono sulle amministrazioni azioniste in virtù della nostra recente disciplina (v., ad es., art. 22, d.lgs. 14.3.2013, n. 33).
In tale direzione si muovono anche quei documenti dell’OCSE che disegnano l’intelaiatura di regole entro la quale dovrebbe legittimamente muoversi lo “Stato - azionista” (come formula di sintesi dei diversi enti territoriali), e le necessarie garanzie di trasparenza che dovrebbero assistere la Public Ownership nel mercato globale (v., ad es., OECD, State Owned Enterprises, Governance Reform, 2011).
L’autonomia funzionalizzata dello Stato e degli altri enti territoriali, che si esprime nella partecipazione societaria, genera questioni sul come le finalità proprie del socio pubblico siano passibili di risolversi in concreta influenza sulla gestione sociale e se ciò giustifichi deroghe al diritto comune.
Nel nostro ordinamento, la società partecipata, anche quando in mano pubblica, è stata pienamente sottoposta al diritto societario, all’insieme delle “norme di relazione”, dell’ordinamento generale, poste per tutti i soggetti, a prescindere dalla sua natura giuridica, con la sola eccezione di quel “diritto privato speciale”, in materia di nomina e revoca dei membri degli organi sociali, che consentiva il conferimento all’azionista pubblico, da parte dell’atto costitutivo o dello statuto della società, del potere di nominare uno o più amministratori o sindaci, da essi stessi soltanto revocabili (art. 2458 c.c.; dopo la riforma del diritto societario art. 2449 c.c.; analoga possibilità era peraltro prevista in mancanza di partecipazione azionaria dall’art. 2459 c.c., poi 2450 c.c., ora abrogato).
Altra eccezione è intervenuta con la disciplina della c.d. golden share dettata per le imprese pubbliche privatizzate operanti in settori strategici e di pubblico servizio (art. 2, d.l. 31.5.1994, n. 332, conv. in l. 30.7.1994, n. 474): poteri pubblicistici, in realtà inseribili non in un titolo azionario ma negli statuti delle s.p.a., chiaramente esorbitanti rispetto al diritto comune, e attribuiti al Ministero azionista: poteri di gradimento, di veto, di nomina extra assembleare di membri degli organi sociali).
Tuttavia, il diritto europeo, se ammette certamente l’impresa pubblica, stante l’asserita neutralità rispetto ai regimi proprietari (art. 345 TFUE), vieta, come anticipato, normative di privilegio, imponendo la parità di trattamento (art. 106 TFUE), il rispetto delle libertà fondamentali (in particolare la libera circolazione dei servizi e dei capitali: artt. 26 e 63 TFUE), la trasparenza nelle relazioni finanziarie tra gli Stati e le proprie imprese (dir. CE 2006/111), il divieto di aiuti di Stato (art. 107 TFUE). Ed è, anzitutto, il necessario rispetto delle libertà di circolazione, quali pilastri del mercato unico, ad aver condotto la Corte di Giustizia a censurare le menzionate norme codicistiche (C. giust. 6.12.2007, C-463/04 e 464/04, Federconsumatori e altri e Associazione Azionariato Diffuso dell’AEM SpA e altri c. Comune di Milano) e a dichiarare illegittimi i suddetti “poteri speciali” (C. giust. 23.5.2000 n. 58; C. giust., 26.3.2009, n. 326).
Si tende così verso l’uniformazione del diritto societario e un diritto privato che, regolando essenzialmente rapporti “paritari”, sembra mal tollerare regimi speciali riferiti a soggetti pubblici (D’Alberti, M., Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2013, 88 ss.).
In quest’ultimo senso possono leggersi, da un lato, le persistenti lievi deviazioni al diritto societario comune attualmente poste dall’art. 2449 c.c., specie per le società non quotate (laddove il potere di nomina e non il semplice diritto di voto è proporzionale alla partecipazione detenuta dal socio pubblico), ancora di dubbia legittimità (v. anche la disciplina transitoria di cui all’art. 1, co. 381, l. 23.12.2005, n. 266); d’altro lato, la versione “attenuata” dei “poteri speciali” del socio pubblico introducibili negli statuti di alcune società operanti in settori strategici per la sicurezza e la difesa nazionale, oggi esercitabili solo a fronte di una minaccia effettiva di un pregiudizio grave per i suddetti valori, tali da mettere a repentaglio la stessa “tenuta” dell’ordinamento e a rischio le prerogative sovrane dello Stato (d.l. 15.3.2012, n. 21, conv. in l. 11.5.2012, n. 56), apparentemente in linea con la prospettiva europea.
È, dunque, nelle maglie elastiche dell’ordinamento generale e del diritto privato comune che vanno principalmente ricercati gli spazi per il dispiegarsi dell’interesse pubblico soggettivizzato nell’amministrazione azionista, rispetto al quale il principio di legalità che si esprime nel vincolo di scopo rileva in termini di “risultato” dell’attività di gestione delle partecipazioni azionarie in termini unitari e complessivi.
Nella misura in cui il diritto positivo ha operato un uso sempre più spregiudicato dello strumento societario per l’esercizio di pubbliche funzioni e di attività strumentali, mentre dalle stesse privatizzazioni degli enti pubblici economici sono scaturite “società anomale”, si è conosciuta, di reazione, ad opera della giurisprudenza, una consistente espansione del diritto amministrativo, finanche eccessiva. Gradualmente, sono stati introdotti correttivi a questa tendenza, sulla spinta della dottrina e talvolta ad opera dello stesso legislatore, fino al raggiungimento, in ordine alle maggiori questioni, di discreti punti di equilibrio.
Dalla natura privatistica della comune società a partecipazione pubblica, quindi del rapporto che lega ad essa i membri degli organi sociali, si ricava oggi, piuttosto pacificamente, la natura privata degli atti di nomina e revoca degli amministratori, secondo il meccanismo disegnato dall’art. 2449 c.c., quindi, il radicarsi sui medesimi, coinvolgenti posizioni di diritto soggettivo, della giurisdizione ordinaria (v., ad es.,Cass., S.U., 15.4.2005, n. 7799; Cons. St., 13.6.2003, n. 3346; TAR Campania, Napoli, 10.3.2008, n. 1184; TAR Lazio, Latina, 9.1.2013, n. 17, TAR Lazio, Roma, 10.1.2014, n. 271).
Quanto alla natura della responsabilità degli amministratori della società partecipata, quindi del giudice avente giurisdizione, secondo una lettura funzionale ed evolutiva delle norme di cui al d.P.R. n. 3 del 1957 e alla l. n. 20 del 1994 (v. Cass., S.U., 26.2.2004, n. 3899), dopo alcune incertezze e un’innegabile tendenza della Corte dei conti a dilatare oltremisura i confini della propria giurisdizione, è intervenuto l’art.16 bis del d.l. 31.12.2007, n. 248, secondo cui «per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario».
Per le ipotesi non ricadenti in tale previsione, si tende ad affermare che per il danno provocato a una semplice società partecipata, anche in quota maggioritaria o totalitaria dall’ente pubblico, dai suoi amministratori, questi ultimi rispondono secondo la disciplina codicistica e il diritto societario comune (v., per le s.p.a., artt. 2392 ss. c.c. e art. 2395 c.c.), con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. Solo gli amministratori dell’ente pubblico socio che abbiano omesso di promuovere l’azione sociale di responsabilità risponderebbero a titolo di danno erariale «direttamente causato al valore della partecipazione pubblica e al patrimonio dell’ente» (Cass., S.U., 19.12.2009, n. 26806). Tuttavia, laddove la condotta illecita degli amministratori della società sia idonea di per sé a produrre un danno diretto all’ente pubblico socio, vi sarebbe spazio per una loro responsabilità amministrativa e per la giurisdizione contabile; così, ad esempio, nelle ipotesi di danno all’immagine ex art. 17, co. 30 ter, l. 3.8.2009, n. 102 (Cass., S.U., 19.12.2009, n. 26806). Tali considerazioni si riferiscono sia alle comuni società operative che producono e scambiano beni e servizi nel libero mercato sia, ad esempio, alle società a partecipazione pubblica per l’esercizio dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (v., ad es., Cass., S.U., 15.4.2005, n. 7799; TAR Sicilia, Catania, III, 25.1.2010, n. 89; TAR Lazio, Latina, I, 9.1.2013, n. 17).
Ancora, guardando strettamente all’ambito delle società a partecipazione statale, può rilevarsi come i controlli esercitati dalla Corte dei conti sulla gestione degli enti cui lo Stato stesso contribuisce in via ordinaria, non potrebbero svolgersi nelle forme previste dall’art. 12, l. 21.3.1958, n. 259 su semplici società a partecipazione pubblica, potendo semmai operare nelle forme previste per gli enti privati cui lo Stato «contribuisce in via ordinaria».
Non è, poi, certamente rinvenibile alcuna possibile deroga all’istituto del fallimento in ragione della semplice partecipazione dell’amministrazione al capitale (Trib. Santa Maria Capua Vetere, sez. fall., decr. 9.1.2009, Cass. civ., sez. I , 6.12.2012, n. 21991, da ultimo: Tribunale di Palermo, IV, 8.1.2013).
Con riguardo all’accesso all’impiego, si conosce, per le società non quotate, una estensione di garanzie. Si prevede che le società a partecipazione pubblica totale o anche solo di controllo «sono tenute ad adottare, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità» (art. 18, co. 2, del d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133). Si ritiene, ad ogni modo, trattarsi di selezioni di natura privatistica, senza spostamenti di giurisdizione dal giudice ordinario al giudice amministrativo, salvo il caso di esercizio di attività autoritative. Alle sole società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica è imposto di adottare, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma dell’art. 35, d.lgs. 30.3.2011, n. 165. Si avrebbe in questo caso pubblico concorso e conseguente giurisdizione del g.a. (Cass., S.U., 22.12.2011, n. 28330; Cons. St., 4.12.2012, n. 6178; Cass. civ., sez. VI, 9.3.2012 n. 3831, in Giust. civ. Mass., 2012, 3, 311; cfr. anche, C. cost., 3.3.2011, n. 68, in Giur. cost., 2011, 2, 1053).
In via interpretativa e, sempre più spesso secondo esplicite previsioni poste dallo stesso legislatore, le società legali “strumentali” e le società in house hanno finito per conoscere, come già accennato, una “quasi equiparazione” alle p.a. tradizionalmente intese, stante la rilevanza dell’ingresso dell’interesse pubblico nello stesso schema societario.
Già prima di ogni espressa previsione, attraverso un ragionamento sistematico, la natura sostanzialmente amministrativa dell’attività svolta richiamava l’applicazione dei principi “istituzionali” dell’azione amministrativa, mentre la natura pubblica del soggetto, l’inerire i ruoli pubblici alla stessa capacità di soggetti organizzati in forma privatistica (Romano, Alb., Relazione, cit.), è apparsa idonea a produrre ulteriori conseguenze (Cerulli Irelli, V., Amministrazione, cit., 59 ss.).
Così, gli atti di nomina e revoca dei membri degli organi sociali risentono inevitabilmente del disegno di ciascuna società ex lege; se, in genere, spettano al Ministero azionista, il MEF, sia pur in esito a previ indirizzi o concerti con altre amministrazioni, talvolta sono attribuiti a un Ministero terzo. Gli amministratori vedono poi la propria azione, non ispirata a libere scelte imprenditoriali ma dal doveroso, diretto perseguimento d’interessi generali, come ulteriormente definito da atti esterni di indirizzo. Tutto ciò consente di ravvisare in atti di nomina extra assembleare di membri degli organi sociali delle società legali qualificate come enti pubblici strumentali, diversamente da quanto accede per le comuni società partecipate, “atti amministrativi”, in cui è palese che la p.a. nominante interviene come “autorità”, con conseguente radicarsi della giurisdizione del giudice amministrativo (Cons. St., 11.1.2013, n. 122; TAR Lazio, Latina, 9.1.2013, n. 17).
Peraltro, nel caso di “società – enti pubblici” persino quando la nomina e la revoca siano disposte attraverso delibera assembleare sostanzialmente esecutiva di una direttiva pubblicistica, quindi ad essa legata da stretta consequenzialità, andrebbe presentato al giudice amministrativo il ricorso avverso l’atto prodromico, con effetto caducante dell’eventuale annullamento sulla successiva delibera dell’organo sociale (TAR Lazio, Roma, 16.11.2007, n. 11271).
Così, ancora, è proprio con solo e specifico riguardo alle società istituite come strumento per la realizzazione di specifiche politiche pubbliche, che può trovare spazio di operatività la previsione di cui all’art. 6 della l. 15.7.2002, n. 145, che estende il meccanismo del c.d. spoils system agli incarichi conferiti dagli enti pubblici presso enti, società e agenzie, assumendo rilevanza la relativa funzionalità della società ad assicurare l’indirizzo politico-amministrativo perseguito dal Governo neo insediato (Cons. St., sez. VI, 22 novembre 2010 n.8123, in Foro amm. – CdS, 2010, 11, 2462).
Diversamente poi da quanto visto accedere per le comuni società partecipate anche quando in pubblico comando, per la società-ente pubblico o “quasi amministrazioni” il regime della responsabilità degli amministratori tende ad assestarsi lungo la linea della conformità al trattamento riservato agli amministratori degli enti pubblici (ora anche economici: Cass., S.U., 22.12.2003, n. 19667), riconoscendosi la sua natura amministrativa, con conseguente giurisdizione della Corte dei Conti; con riguardo alle “società – legali” perché il danno è prodotto al patrimonio di un ente “sostanzialmente” pubblico (Cass., S.U., 22.12.2009, n. 27092 riferita alla RAI s.p.a.); per le società in house, perché, data la mancanza di alterità soggettiva rispetto alle amministrazioni partecipanti, è come se il danno fosse prodotto direttamente al patrimonio di queste ultime (Cass., S.U., 26.3.2014, n. 7177).
Quanto al sistema dei controlli sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, è stato chiarito, fin dalla nota pronuncia della Corte costituzionale n. 466/1993, che su enti “anomali” in forma societaria, dalla sostanza pubblicistica, il controllo sulla gestione della Corte dei Conti continua a svolgersi nelle forme previste dall’art. 12 della l. 21.3.1958, n. 259 per gli enti pubblici, quindi con la presenza di un magistrato alle sedute degli organi sociali.
Ed è ancora sulla scorta delle considerazioni della “sostanza” delle figure in esame, valorizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza recenti a dispetto della forma organizzativa, ma anche della natura dell’attività svolta, quale che ne sia il soggetto autore, che lo stesso legislatore estende espressamente l’ambito applicativo dei fondamentali istituti di disciplina dell’azione amministrativa ai soggetti privati. Così in materia di accesso ai documenti (art. 22, co. 1, lett. e), l. n. 241/1990) e di obblighi di pubblicazione ai sensi della recente disciplina sulla trasparenza amministrativa (art. 11, co. 2, d.lgs. n. 33/2013), così, in materia di principi dell’azione amministrativa (art. 1, co. 1-ter, l. n. 241/1990). E, tuttavia, le “società con totale o prevalente capitale pubblico” – tra cui certamente le società legali e le società in house – che esercitano pubbliche funzioni, non risultano solo sottoposte ai principi generali che regolano l’esercizio della pubblica funzione, bensì, all’intera disciplina di cui alla l. n. 241/1990 (art. 29, l. n. 241/1990).
Diversamente, manca una coraggiosa equiparazione delle società pubbliche alle p.a. in materia di disciplina dell’accesso all’impiego, laddove si dovrebbe vedere una completa applicazione della regola del pubblico concorso di cui all’art. 97 Cost., in luogo di quelle già richiamate norme di cui all’art. 18, co. 2, d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133, dal contenuto più limitato (per significativi spunti: v. Corte cost., 1.2.2006, n. 29).
Sembra poi pacifico che, in assenza di “privatizzazione sostanziale”, le società-quasi amministrazioni siano sottratte al fallimento, in ragione della natura amministrativa dell’attività svolta, quand’anche in forme private, quindi dell’assenza in capo ad esse della qualità di imprenditore commerciale e comunque in ragione della natura pubblicistica del soggetto (art. 2221 c.c.)., come è certamente sia per le società legali strumentali (Gruner, G., Enti pubblici a struttura di S.p.A., Torino, 2009, 212), sia per le società in house, considerate, anche ai presenti fini, meri “patrimoni separati” (Trib. Napoli, 9.1.2014).
Molta strada, nel tentativo di sistematizzare le poliformi figure di società pubblica, è stata fatta ma il percorso non è certamente esaurito, essendo questo il campo su cui forse più di ogni altro si misurano le tensioni, il dinamismo, il continuo “farsi” di un ordinamento e dei rapporti tra ordinamento generale e ordinamento amministrativo, ma anche nel quale la “natura delle cose” sembra infine manifestarsi a dispetto di ogni possibile qualificazione formale.
Artt. 345, 106, 107 TFUE; art. 2449 c.c.; art. 3, l. 24.12.2007, n. 244; art. 2221 c.c.; art. 34, co. 20 ss., d.l. 18.10.2012, n. 179;d.l. 15.3.2012, n. 21, art. 3, co. 15 ter); artt. 1, co. 2, 3, 15 ter, 32, d.lgs. 12.4.2006, n. 163; artt. 112-116, 120, d.lgs. 18.8.2000, n. 267; art. 13, d.l. 4.7.2006, n. 223; art. 22, co. 1, lett. b), d.lgs. 14.3.2013, n. 33; art. 16 bis, d.l. 31.12.2007, n. 248; art. 12, l. 21.3.1958, n. 259; art. 18, co. 2, d.l. 25.6.2008, n. 112; art. 1, co.1 ter, 22, co.1, lett. e), 29, l. 7.8.1990, n. 241.
Angiuli, A., La società in mano pubblica come organizzazione, in AA.VV., L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, I, Napoli, 2009, 157 ss.; Cammelli, M.-Dugato, M., a cura di, Studi in tema di società a partecipazione pubblica,Torino, 2008;Caputi Jambrenghi, V., Azione ordinaria di responsabilità ed azione di responsabilità amministrativa in materia di società in mano pubblica. L’esigenza di tutela degli interessi pubblici, in AA.VV., Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile ad un decennio dalle riforme, Atti del LI Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione, Milano, 2006; Casalini, D., L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003; Cassese, S., Partecipazioni pubbliche ed enti di gestione, Milano, 1961; Cavallo Perin, R., Comuni e province nella gestione dei servizi pubblici, Napoli, 1993, 129 ss.; Cerulli Irelli, V., Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, 2011, 39 ss.; Chirulli, P., Autonomia pubblica e diritto privato nell’amministrazione, Padova, 2005, 151; Cintioli, F., Disciplina pubblicistica e corporate governante delle società partecipate da enti pubblici, in www.giustamm.it;Clarich, M., Società di mercato e quasi-amministrazioni, in Dir. amm., 2009, 253, ss., D’Alberti M., Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2013, 88 ss.; De Leonardis, F., Soggettività privata e azione amministrativa,Padova, 2000; Della Scala, M.G., Società per azioni e Stato imprenditore, Napoli, 2012; Dugato, M., Le società per la gestione dei servizi pubblici locali, Milanofiori, 2001; Goisis, F., Contributo allo studio delle società commerciali in mano pubblica come persone giuridiche, Milano, 2004; Gruner, G., Enti pubblici a struttura di S.p.A. Contributo allo studio delle società legali in mano pubblica di rilievo nazionale, Torino, 2009; Guerrara, F., a cura di, Le società a partecipazione pubblica, Torino, 2010; Ibba, C., Le società legali,Torino, 1992; Lazzara, P., La pubblica amministrazione come imprenditore privato, in AA.VV., L’atto autoritativo: convergenze e divergenze tra ordinamenti”, Napoli, 2012; Luciani, F.,La gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni,in Dir. amm., 1995, 2, 275; Marasà, G., Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, 165 ss.; Maltoni, A.-Palmieri, M., I poteri di nomina e revoca in via diretta degli enti pubblici nelle società per azioni ex art. 2449 c.c., in Dir. amm., 2009, 2, 267 ss.; Massera, A., Impresa pubblica, in Diritto online Treccani, 2014; Napolitano, G., Le società pubbliche tra vecchie e nuove tipologie,in Riv. soc., 2006, 5-6, 999; Pizza, P., Le società per azioni di diritto singolare tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi, Milano, 2007; Police, A., Dai concessionari di opere pubbliche alle società per azioni “di diritto speciale”: problemi di giurisdizione,in Dir. amm., 1996, 158; Renna, M., Le società in mano pubblica: il caso delle s.p.a. derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici ed aziende autonome statali, Torino, 1997, 324 ss.; Romano, Alb, La concessione di un pubblico servizio, in AA.VV., La concessione di pubblico servizio, Milano, 1995, 11;Romano, Alb., Relazione di sintesi, in Raimondi, S.-Ursi, R., a cura di, Fondazioni e attività amministrativa, Torino, 2006, 1 ss.; Rossi, G.P., Gli enti pubblici in forma societaria, in Serv. pubbl. app., 2004, 221 ss.; Scoca, F.G., Il punto sulle c.d. società pubbliche, in Dir. econ., 2005, 239 ss.; Scotti, E., voce Servizi pubblici locali, in Dig. pubbl., Agg., Torino, 2012; Ursi, R., Le società ad evidenza pubblica, Napoli, 2012, 293 ss.