Sociobiologia
Il lemma sociobiologia è entrato nel lessico scientifico corrente nel corso degli anni settanta, proposto dall'entomologo statunitense Edward O. Wilson, dapprima limitatamente alle società degli insetti (v. Wilson, 1971), poi con un'accezione estesa a tutte le specie animali, Homo sapiens incluso (v. Wilson, 1975). Nel vasto disegno di Wilson esso denota "lo studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento sociale", secondo lo stretto criterio neodarwiniano per cui "ciascun fenomeno è valutato per il suo significato adattativo" (ibid.; tr. it., p. 4). Non tutti i biologi del comportamento accolgono tale ambiziosa definizione: nell'autorevole sinossi di Irenäus Eibl-Eibesfeldt (v., 1983), per limitarci a un esempio significativo, la sociobiologia non è che uno tra i vari rami della più consolidata etologia. Va inoltre ricordato che il nome 'sociobiologia' designa talora indirizzi teorici diversi da quello wilsoniano (v., ad esempio, Parisi, 1989). In questa sede è tuttavia giocoforza concentrarsi sulle nozioni e sulle ambizioni che, in particolare con Sociobiology: the new synthesis, di Wilson, hanno imposto all'attenzione degli studiosi un nuovo programma di ricerca.
Il programma della sociobiologia nasce nell'ambito della genetica di popolazione, un campo di ricerche caratterizzato dalla focalizzazione sui fattori ultimi dei processi evolutivi (selezione e riproduzione dei pools genici) e dalla propensione metodologica per la modellizzazione matematica di tali processi. Seguendo la classificazione di Niko Tinbergen (v., 1963), questo campo di ricerche afferisce a una delle quattro grandi aree di analisi biologica del comportamento, accanto a quelle che studiano, rispettivamente, i meccanismi fisiologici, la storia dei singoli individui, la storia delle specie.
La prima traccia sulla quale si svilupperà in seguito la sociobiologia è fornita da un ingegnoso modello di genetica popolazionale noto come idoneità complessiva (inclusive fitness: v. Hamilton, 1964). Tale modello si propone di risolvere una vistosa anomalia presente da tempo agli studiosi che, a partire dallo stesso Darwin, si sono occupati di comportamento in chiave evoluzionistica: la discrepanza tra gli assunti individualistici della teoria (survival of the fittest) e i numerosi comportamenti altruistici osservati in tutte le specie animali, ovvero quei comportamenti che appaiono più vantaggiosi per l'idoneità (fitness) di uno o vari alter che per quella di ego. Dalla formica operaia che antepone la riproduzione del formicaio a quella dei propri geni, all'uccello ferito che attira su di sé l'attenzione del predatore avvantaggiando così i propri affini biologici, all'adozione di scimpanzé orfani da parte di fratelli maggiori, alla madre che, in varie specie, si prende cura per interi periodi assai più della prole che di se stessa, ai vari esempi di spartizione del cibo, e così via, i sociobiologi hanno ormai prodotto o sollecitato un campionario estesissimo di comportamenti che non è possibile ricondurre all'idea 'classica' di evoluzione per selezione dei caratteri che mantengono o migliorano l'idoneità individuale.
I vari tentativi teorici di risolvere tale anomalia sono risultati o semplicistici, come numerose ipotesi dell'altruismo innato (per un esempio paradigmatico, v. Kropotkin, 1902), o fragili, come l'ipotesi della selezione di gruppo (v. Wynne-Edwards, 1962). Del resto, la questione dell'altruismo rimane aperta anche nella tradizione delle scienze sociali (v. Manghi, 1995), cui si deve tra l'altro il termine stesso 'altruismo', coniato da Comte, che gli conferì una marcata connotazione biologica.
L'argomentazione con cui l'ipotesi dell'idoneità complessiva aspira a risolvere l'anomalia dell'altruismo riposa peraltro su un duplice caposaldo del neodarwinismo: a) il gene come unità su cui opera la selezione (ruolo che il darwinismo classico assegnava all'organismo); b) la significatività dell'influenza genotipica sul fenotipo (dove il fenotipo comprende, insieme ai tratti anatomici e fisiologici, anche quelli comportamentali). A tale duplice caposaldo l'ipotesi dell'idoneità complessiva aggiunge tuttavia uno sviluppo formale innovativo così riassumibile: il comportamento di ego non tende a massimizzare tanto la sua fitness individuale, ovverosia la riproduzione dei suoi geni nella generazione successiva, quanto la fitness che risulta dalla riproduzione sua e dei suoi consanguinei (per questo definita complessiva), ossia di organismi con i quali condivide una parte significativa di geni (mediamente il 50% se si tratta di figli, il 25% se di nipoti o cugini, e così via). Detto altrimenti: la selezione non opera sui singoli individui né sui singoli geni, ma sui legami di parentela, tanto diretti quanto collaterali (v. West Ebherard, 1975). Per questo si parla anche di selezione di parentela (kin selection). Le azioni di ego cui consegua un maggior beneficio per alter che per ego stesso (sempre nel senso della probabilità di riproduzione dei propri geni nella generazione successiva) possono in tal modo risultare formalmente coerenti con i presupposti neodarwiniani. L'altruismo comportamentale osservato a livello individuale può essere infatti ricondotto al criterio autoreplicativo che la teoria assegna al livello dei pools genici - ovvero, metaforicamente, all'egoismo del gene (v. Dawkins, 1976).
Il modello dell'idoneità complessiva non aspira soltanto a eliminare una discrepanza tra protocolli osservativi e premesse teoriche evoluzionistiche; esso prospetta anche una innovazione nell'ambito stesso della teoria, attraverso la ridefinizione di uno dei suoi concetti cardine: il concetto, come si è visto, di fitness, che neppure la riformulazione in chiave genetica intervenuta negli anni trenta (teoria sintetica dell'evoluzione) aveva svincolato dai presupposti individualistici. È in forza di tale innovazione teorica che la sociobiologia si candida non soltanto a spiegare una certa classe di comportamenti quali quelli altruistici, ma anche a prospettare una matrice teorica generale per spiegare l'origine e l'evoluzione della socialità in tutte le specie animali, dagli insetti all'Homo sapiens.
Tale estensione ha suscitato accese polemiche, puntuali obiezioni, ipotesi alternative, e insieme articolate variazioni del programma sociobiologico. Di queste vicende e sviluppi verrà dato conto in seguito, con particolare attenzione a quel settore della sociobiologia che si occupa dei comportamenti umani. Due punti vanno tuttavia chiariti preliminarmente, in considerazione degli equivoci che hanno spesso generato.Il primo concerne lo statuto epistemologico del termine altruismo. L'altruismo di cui stiamo parlando è per la gran parte degli studiosi privo di determinazioni immediatamente morali. Il modello dell'idoneità complessiva, per quanto effettivamente caricato di implicazioni morali da più d'un sociobiologo (incluso talora lo stesso Wilson), si limita a postulare la compresenza in ogni ego di tendenze comportamentali innate tanto egoistiche quanto altruistiche, insieme a un nesso ineludibile tra il comportamento di ego e i gradi di consanguineità con gli alter con i quali si trova a coevolvere e interagire. Tale a-moralità dell''altruismo genetico' è stata sottolineata, tra gli altri, anche da un acuto critico della sociobiologia come Jon Elster (v., 1977).
Il secondo punto concerne la supposta capacità, da parte di ego, di calcolare i gradi di consanguineità e, insieme, il rapporto tra costi e benefici genetici delle proprie azioni. Più di uno studioso ha obiettato che l'abilità calcolatoria degli animali non può avvalersi della matematica (v. Sahlins, 1976). Questo argomento, per un verso ineccepibile, appare tuttavia inconsistente non appena si separi il problema dei metodi consapevoli di calcolo escogitati dagli scienziati dal problema dei sofisticati mezzi, largamente o del tutto inconsapevoli e ancora scarsamente accessibili all'indagine scientifica, ai quali ricorrono le varie specie animali, Homo sapiens incluso, per modulare ogni comportamento. Sull'idea che tale abilità si estenda alla discriminazione tra diversi gradi di consanguineità concordano anche etologi che pure non nascondono le loro perplessità verso le spiegazioni sociobiologiche (v. Bateson, 1982).
I modelli cui ricorrono i sociobiologi possono essere distinti in tre gruppi: modelli imperniati sulla relazione gene-comportamento, modelli di ottimalità ispirati alla teoria dei giochi e modelli che mirano a integrare nel programma sociobiologico anche principî esplicativi di ordine culturale e psicologico. Quest'ultimo gruppo sarà oggetto di un apposito capitolo (v. sotto, cap. 3). Qui analizzeremo i primi due, che hanno maggiormente contribuito all'identità della sociobiologia, per averne caratterizzato sia le prime trattazioni generali (v. Wilson, 1975; v. Dawkins, 1976; v. Barash, 1977; v. Trivers, 1985), sia le prime sintesi in ambito specificamente umano (v. Wilson, 1978; v. Alexander, 1979; v. Lopreato, 1984). Essi rimangono inoltre alla base di gran parte delle ricerche sperimentali di sociobiologia umana (pubblicate in particolare dalla rivista "Ethology and sociobiology").
Il più rilevante fra i modelli gene-comportamento è quello, già citato, dell'idoneità complessiva. Accanto a questo, notevole attenzione ha ricevuto il modello dell'investimento parentale (v. Trivers, 1972), con il quale viene riformulato in termini di successo riproduttivo dei geni un punto chiave della dinamica evolutiva: il rapporto genitori-figli.
Nella gran parte dei casi, e in particolare tra i mammiferi, l'esercizio della funzione riproduttiva - dalla formazione della cellula sessuale, alla scelta del partner, fino all'allevamento della progenie - richiede una spesa energetica decisamente maggiore alle femmine che non ai maschi. Rispetto a questi ultimi, le femmine affidano inoltre per lo più la discendenza dei propri geni a un numero più ristretto di figli, ottenuto da un numero più limitato di accoppiamenti. A ciò corrisponde una competizione intrasessuale generalmente più marcata nei maschi che nelle femmine. In tale complesso intreccio i figli non figurano soltanto come strumento passivo degli interessi riproduttivi parentali, ma intervengono attivamente, in competizione sia tra loro, anzitutto per l'accesso alle cure parentali, sia con i genitori.Il modello dell'investimento parentale si propone di spiegare in termini unitari i vari modi in cui gli individui di sesso diverso, nelle varie specie, tendono a massimizzare la propria discendenza, a partire dall'evidenza che nell'arco di un ciclo di vita le risorse da spendere per la prole sono limitate. L'unitarietà della spiegazione è ottenuta, come nel modello dell'idoneità complessiva, tramite il rinvio a un'unica 'unità di conto': il gene. Il modello, su questa base, prevede che la misura dell'investimento da parte del genitore sia direttamente proporzionale al grado di certezza che la prole sia sua consanguinea. Ora, poiché tale grado di certezza, come noto, è in generale assai più elevato nelle femmine che nei maschi, ciò spiegherebbe la maggior propensione delle prime a sacrificare una parte della propria idoneità individuale in favore della prole, nonché, quando ciò sia necessario alla sopravvivenza della prole stessa, in favore del partner. Per il maschio risulterebbe invece geneticamente più vantaggioso moltiplicare gli atti copulatori e i partners, salvo nei casi in cui può contare su una significativa certezza della propria paternità genetica.
Le ricerche orientate su questi modelli non si propongono tanto di ricostruire le complicate catene causali che si suppone uniscano geni e comportamenti (percorso a tutt'oggi manifestamente impraticabile, anche nel giudizio di quanti lo ritengono teoricamente cruciale), quanto di produrre evidenze osservative e sperimentali che confermino le predizioni tratte dalla teoria.
In ambito umano i modelli gene-comportamento hanno trovato impiego anzitutto nel campo dei comportamenti più immediatamente connessi alle dinamiche sessuali e riproduttive (rapporti conflittuali e cooperativi entro e tra i sessi, entro e tra le generazioni), in competizione con le spiegazioni strutturaliste e culturaliste dell'antropologia. Tra i temi affrontati in questo campo ricordiamo: le diverse strutture matrimoniali e familiari (v. Van den Berghe, 1979; v. Melotti, 1981); l'evoluzione della donna (v. Hrdy, 1981); le modalità di competizione intrasessuale in vista dell'accoppiamento (v. Brin, 1995); la correlazione positiva tra status sociale elevato e successo riproduttivo (v. Ellis, 1995). E inoltre: il tabu dell'incesto, le implicazioni adattative dei comportamenti individualmente non riproduttivi (omosessualità) o in apparenza contro-riproduttivi (infanticidio, aborto), il riconoscimento del viso del neonato da parte dei genitori, la tendenza all'accoppiamento tra partners caratterizzati da qualche tratto somigliante, le preferenze nei lasciti testamentari, e altri ancora.
Al di fuori di tale campo, sono stati inoltre trattati numerosi altri aspetti del comportamento umano, fra cui il manifestarsi di certi disturbi mentali (v. McGuire e altri, 1994), la funzione di adattamento all'ecosistema svolta dalle religioni (v. Reynolds e Tanner, 1983), la competizione fra gli attori del sistema economico (v. Becker, 1976), la persistenza degli etnocentrismi (v. Reynolds e altri, 1987), il rapporto tra eredità genetica e condotta criminale (v. Nachson, 1982).
I modelli di ottimalità sono strumenti matematici per simulare interazioni sociali di varia complessità tra due o più individui vincolati alla funzione di massima riproduzione possibile della loro idoneità. Nelle ricerche sociobiologicamente orientate i più ricorrenti fra tali modelli sono quelli dell'altruismo reciproco (reciprocal altruism: v. Trivers, 1971; per una rassegna v. Taylor e McGuire, 1988) e delle strategie evolutivamente stabili (Evolutionary Stable Strategies, ESS: v. Maynard Smith e Price, 1973).Il primo, nelle sue diverse versioni, concerne l'evoluzione dei comportamenti cooperativi, ovvero lo scambio di atti reciprocamente vantaggiosi tra individui diversi, siano o meno essi consanguinei - ne sono esempi la caccia di gruppo, la formazione di coalizioni o la spartizione di cibo. Diversamente da quanto si suppone nell'altruismo, nel comportamento cooperativo esisterebbe anche un vantaggio di ritorno per ego. Tuttavia ciò comporta ugualmente una capacità di differire il tornaconto individuale la cui genesi e la cui riproduzione richiedono, in termini evoluzionistici, una specifica attenzione teorica.
È in questa prospettiva che va considerato il modello dell'altruismo reciproco. Esso presuppone che ciascun ego, per massimizzare il proprio vantaggio, possa ricorrere nel rapporto con alter a due tipi d'azione: cooperare e defezionare. Gli algoritmi del modello evidenziano come le probabilità che nell'interazione emergano e si stabilizzino patterns comportamentali cooperativi siano tutt'altro che nulle, senza che sia necessario postulare istanze costrittive esogene analoghe a quelle riassunte dalla scienza politica nella figura del Leviatano. Per esempio, nella versione detta 'colpo su colpo' (tit for tat) tali probabilità risultano molto elevate, alla semplice condizione che ego effettui una mossa cooperativa, anche non premeditata, al suo primo incontro con alter, limitandosi poi, nelle interazioni successive, a ripetere l'ultima mossa compiuta da quest'ultimo - ovvero premiando i 'colpi' altruistici e punendo quelli egoistici (v. Axelrod, 1984).
Condizioni cruciali per l'evoluzione della cooperazione sono l'alta frequenza delle interazioni sociali e la presenza dei requisiti mentali che consentono l'anticipazione del futuro e il riconoscimento degli alter a ogni nuovo incontro. Queste condizioni, che permettono di cautelarsi dal 'falso altruismo' di quanti, ricevuto un aiuto, tendono a non ricambiare, sono significative in particolare in taluni uccelli, nei mammiferi marini e terrestri, e in particolare nei primati (v. De Waal e Luttrell, 1988). Nella nostra specie i fenomeni riconducibili al modello in esame sono ovviamente numerosi, a livello sia microsociale - amicizia, gratitudine, simpatia, senso di equità, gesti riparativi - sia macrosociale - stabilizzazione di sistemi morali e di controllo della devianza, formazione di coalizioni o regolazione di rapporti tra soggetti collettivi (gruppi, istituzioni, Stati).
Le coordinate teoriche di questi modelli sono tratte, come si diceva, dalla teoria dei giochi (dilemma del prigioniero, in primo luogo), e pertanto restano indipendenti, virtualmente o di fatto, dagli assunti 'geneticisti' del programma di ricerca sociobiologico (v. Rothsein e Pierotti, 1988). Quel che è proprio della sociobiologia è l'intento di spiegare la genesi e la stabilizzazione delle condotte di reciprocità come estensione di un più ristretto altruismo 'genetico', vincolato a un bilancio positivo del rapporto costi/benefici (idoneità complessiva). Si assume cioè, per un verso, "che la cooperazione abbia avuto inizio tra consanguinei e successivamente, una volta divenuta comune, si sia estesa ai non consanguinei" (v. Maynard Smith e Szathmáry, 1995, pp. 261-262), e per l'altro, che tuttora l'altruismo 'genetico' svolga una funzione di ancoraggio motivazionale rispetto alle forme 'non genetiche' di altruismo - si fa notare per esempio come i figli adottivi possano incrementare, per via di reciprocità, l'idoneità genetica complessiva di chi li adotta (v. Lindgren e Pegalis, 1989). Il secondo dei modelli di ottimalità sopra citati, quello delle ESS, più ancora che in sociobiologia ricorre in un campo di studi del comportamento animale non umano con essa convergente, sviluppato per lo più nel contesto nordamericano, detto ecologia comportamentale (v. Krebs e Davies, 1991; cfr. anche la rivista "Behavioural ecology and sociobiology"). Una certa strategia, ovvero una certa linea di condotta, è da considerarsi stabile in termini evolutivi quando si dimostri in media la più efficace, tra quelle virtualmente disponibili, a massimizzare l'idoneità riproduttiva degli individui in presenza di altri individui che tendono al medesimo risultato. Una volta stabilizzata, tale strategia verrà tendenzialmente riproposta in ogni singola interazione malgrado gli insuccessi che la sua adozione può comportare di volta in volta.
Per esempio, la prevalenza della lotta ritualizzata sulla lotta all'ultimo sangue nei combattimenti tra vertebrati, che gli etologi tendono a spiegare con l'esigenza di non indebolire la comunità riproduttiva cui appartengono i contendenti, viene ricondotta dal modello in esame alla semplice evidenza matematica che i combattimenti rituali presentano maggiori vantaggi, espressi in unità di fitness genetica individuale, di quelli mortali. Tali vantaggi non saranno tuttavia mai assoluti. Ogni individuo, pertanto, disponendo di due modalità di combattimento, quella mortale ('falco') e quella rituale ('colomba'), cercherà di combinare variamente queste due modalità. In particolare, agirà da falco quando sarà detentore della risorsa contesa e da colomba in caso contrario. Tale conclusione risulta da un confronto quantitativo tra gli esiti delle interazioni falco/falco, colomba/colomba e falco/colomba. È a questa attitudine opportunistica ('borghese') che si dà il nome di ESS.
Oltre che nello studio delle forme di combattimento, il modello delle ESS è stato adottato, tra l'altro, nella ricerca sulle arene di corteggiamento collettivo, sulla regolazione del rapporto quantitativo tra i sessi entro una popolazione (sex ratio), sulla selezione dei tipi di habitat. Sebbene abbia trovato applicazione anche nell'analisi evoluzionistica della trasmissione di tratti culturali (v. Feldman e Cavalli-Sforza, 1976), esso ricorre di rado nello studio di comportamenti umani. Un caso significativo è rappresentato dalla ricerca svolta negli Stati Uniti su oltre un secolo di statistiche della Major League di baseball (una disciplina sportiva molto vincolata alle statistiche). Tale ricerca ha posto in evidenza, in particolare, la progressiva stabilizzazione di una strategia di gioco consistente nell'opporre preferenzialmente ai battitori un lanciatore di analoga lateralizzazione: destro a destro, mancino a mancino (v. Goldstein e Young, 1996). Siffatta strategia si sarebbe affermata sulla base dell'osservazione che contro un lanciatore destro i battitori mancini godono mediamente di qualche vantaggio in più rispetto ai battitori destri.
Il campo dell'indagine sociobiologica sul comportamento delle specie dotate di tradizioni culturali, e naturalmente in particolare dell'Homo sapiens, non si esaurisce con i modelli a base genetica. Diversi studiosi, sia sviluppando potenzialità già incluse nel programma sociobiologico, sia reagendo a una parte delle numerose critiche ricevute da sociologi e antropologi, hanno elaborato modelli che sostituiscono alla causalità biologica una causalità bioculturale o biopsicoculturale. Questi modelli, che potremmo chiamare di seconda generazione, pur mantenendo l'ispirazione neodarwiniana introducono una netta discontinuità teorica rispetto a quelli esposti in precedenza. Il sociobiologo Richard Dawkins, tra i precursori di tale discontinuità, ha scritto a un solo anno dalla pubblicazione di Sociobiology: "Per comprendere l'evoluzione dell'uomo moderno noi dobbiamo cominciare col buttar via il gene come unica base delle nostre idee sull'evoluzione" (v. Dawkins, 1976; tr. it., p. 164).Con qualche approssimazione, i modelli in questione possono essere divisi in due gruppi: da un lato quelli che pongono l'accento sulla coevoluzione di geni e cultura, dall'altro quelli che pongono l'accento sul ruolo cruciale delle competenze biopsichiche.
Nei modelli del primo tipo i comportamenti vengono spiegati attraverso l'interazione tra unità replicative di ordine biologico (geni) e unità replicative di ordine culturale, che si evolvono entrambe per massimizzazione dell'idoneità complessiva. La raffigurazione della cultura come aggregato di tratti elementari non è peraltro un'esclusiva dei sociobiologi. Strette analogie si trovano al riguardo nei citati modelli di 'trasmissione culturale' (v. Feldman e Cavalli-Sforza, 1976) e in affermati programmi di intelligenza artificiale (v. Minsky, 1986).
Nel citato suggerimento di Dawkins, che altri avrebbero in seguito sviluppato in forme assai più complesse (v. Durham, 1991), questi tratti elementari vengono designati con il termine di memi (neologismo ispirato al greco mimesis, imitazione, a sottolineare la proprietà autoreplicativa che le idee elementari condividerebbero coi geni). Sul piano metodologico ciò implica che l'evoluzione e la stabilizzazione delle condotte umane non si debbano spiegare e misurare nei termini della sola unità di conto genetica, ma tramite il riferimento congiunto a due unità di conto relativamente indipendenti, una genetica e una culturale. Il computo dell'idoneità complessiva richiesto al composito ego che risulta da tale intreccio coevolutivo non concernerà più la sua sola parentela genetica, ma una combinazione tra questa e la 'parentela' culturale, costituita dall'insieme dei suoi legami ideali, amicali, professionali, religiosi e così via.
Lo stesso Wilson, alcuni anni dopo Sociobiology, ha avvertito l'esigenza di includere la cultura nella spiegazione del comportamento, assegnando ai replicatori culturali il nome di culturgeni. Ne è risultato un articolato modello matematico, elaborato insieme al fisico Charles Lumsden, che prevede anche funzioni mentali, dette 'regole epigenetiche', preposte a mediare tra geni e culturgeni (v. Lumsden e Wilson, 1981). Tali funzioni, mentre da un lato limitano la variabilità dei comportamenti, dall'altro costituiscono un presupposto per lo sviluppo di diversità culturali e di attitudini all'apprendimento (v. Lumsden, 1989). Siffatta dinamica geni-mente-cultura rimane comunque ancorata, da un lato, al primato delle variazioni genetiche su quelle culturali, e dall'altro alla priorità dei processi popolazionali genetico e culturale sui meccanismi psicologici.
Se il successo evolutivo reso possibile alla nostra specie dalla comparsa della cultura è indubitabile (senza qui attribuire valenza morale al termine 'successo'), le ragioni per le quali un sistema di trasmissione delle informazioni così altamente dispendioso dovrebbe presentare vantaggi 'neodarwiniani' rimangono controverse, più spesso affidate a congetture generali che a ipotesi puntuali. Tra queste ultime è significativa quella avanzata da Robert Boyd e Peter Richerson, così riassumibile: "La cultura accresce la capacità media di adattamento se rende meno costosi e più accurati i processi di apprendimento che generano nuova conoscenza" (v. Boyd e Richerson, 1995, p. 134).
Il modello matematico sul quale si basa tale ipotesi mette a confronto vantaggi e svantaggi evolutivi associati all'apprendimento per imitazione, un'attitudine esaltata dai meccanismi della trasmissione culturale. A questo fine esso postula una popolazione ideale composta da due genotipi, ciascuno dei quali, a fronte delle variazioni ambientali, ricorrerà a un diverso modo di apprendere, ovvero a un diverso modo di tendere al comportamento evolutivamente ottimale: rispettivamente, imitazione e innovazione. Da un lato, imitare individui della generazione precedente limita il dispendio di energia e di tempo, mentre esplorare possibilità inedite comporta fatalmente costi e rischi più elevati. Dall'altro, l'innovazione consente una maggior accuratezza degli apprendimenti, ovvero una maggior adeguatezza alle condizioni create dalle variazioni ambientali, imprevedibili per la generazione precedente presa a modello dagli imitatori. Ora, osservano Boyd e Richerson, se gli innovatori raggiungeranno tendenzialmente sempre il comportamento ottimale, non è detto con ciò che agli imitatori tocchi necessariamente l'esito opposto. Va infatti considerato che nell'ambiente si alternano fasi di più o meno accelerata trasformazione e fasi di relativa, prolungata stabilità, e durante queste ultime sembra ragionevole attendersi che gli imitatori vedranno anch'essi accrescersi la loro fitness tramite una graduale capitalizzazione di progressivi microapprendimenti. Né va trascurato che, attraverso ripetute imitazioni, la cultura consente agli stessi prodotti dell'innovazione di persistere nel tempo, sopravvivendo al loro autore.Questi processi culturali non si limiterebbero peraltro a confermare precedenti disposizioni di ordine genetico. Nel lungo periodo le credenze culturalmente condivise retroagirebbero a loro volta sui genotipi, modificando le frequenze geniche della popolazione, secondo una dinamica coevolutiva che va manifestamente oltre i confini geneticisti del programma sociobiologico originario.
Allo schema imperniato sulla coppia geni-cultura viene preferito da vari autori uno schema imperniato sui meccanismi psichici che presiedono alla trasmissione culturale. La relativa stabilità osservabile nei tratti culturali non viene ricondotta in tal caso a processi paralleli di selezione e trasmissione gene-culturali (e tantomeno solo culturali, come nei lavori di Cavalli-Sforza), ma anzitutto alla relativa stabilità delle strutture cerebro-mentali deputate all'elaborazione delle informazioni (v. Tooby e Cosmides, 1989; v. Wright, 1994). La stessa nozione di 'trasmissione', tipica dei modelli gene-culturali, viene considerata fuorviante in quanto suscettibile di accreditare un'immagine dei soggetti come "recipienti più o meno passivi di influenze culturali [...] piuttosto che come attivi strateghi" (v. Daly e Wilson, 1989, p. 108).Per John Tooby e Leda Cosmides, promotori di una psicologia evoluzionistica, il punto cruciale è comprendere quali 'organi mentali' siano stati selezionati per affrontare le sfide evolutive incontrate dai primi uomini nelle condizioni ambientali del Pleistocene. Gli 'organi mentali' in questione coinciderebbero presumibilmente con quelle strutture computazionali (meccanismi di elaborazione delle informazioni) che sono attualmente oggetto privilegiato della psicologia cognitivista, e che si tratterebbe di ricondurre a una prospettiva neodarwiniana. Tali strutture, emerse nel corso del Pleistocene per rispondere alle sfide ecologiche di quello specifico contesto evolutivo, sarebbero risultate idonee a far fronte a tutte le sfide successive, fino ai nostri giorni, rivelando in altri termini capacità generalizzate di problem solving. Ciò renderebbe conto, tra l'altro, della straordinaria rapidità dell'evoluzione culturale, nella nostra specie, in rapporto all'evoluzione organica.
Da questo punto di vista appare fuori luogo attendersi, come suggeriscono invece tipicamente i modelli gene-culturali, che i tratti culturali e comportamentali osservabili oggi risultino largamente adattativi, in base all'assunto teorico per cui i tratti persistenti risponderebbero a una funzione adattativa: "Non c'è alcuna ragione a priori per supporre che qualche specifica pratica culturale o comportamentale moderna sia 'adattativa"' (v. Tooby e Cosmides, 1989, p. 35). Le proprietà adattative di specifici tratti di cultura e di comportamento andrebbero valutate in riferimento agli specifici contesti in cui sorgono, e non a un criterio aprioristicamente adattamentista. La ricerca, a smentire le ipotesi dei modelli gene-culturali, mostrerebbe che la differente velocità di sviluppo delle 'due evoluzioni', quella organica e quella culturale, produce vaste conseguenze biologicamente maladattative, implicanti cioè una riduzione della fitness.
Secondo Jerome H. Barkow (v., 1989), studioso particolarmente attento alle radici e alle funzioni biologiche della psiche umana, quelli genetici e quelli culturali non sono due processi paralleli, analoghi e convergenti, ma due processi di diversa natura, in continua, ineludibile e dinamica attrazione-repulsione reciproca. I processi genetici tenderebbero a eliminare o ridurre le informazioni maladattative che la cultura, viceversa, riprodurrebbe di continuo in diversi modi, in particolare favorendo l'alterazione degli equilibri ambientali, l'accumulazione degli errori prima che se ne evidenzino gli effetti dannosi, la concentrazione delle risorse nelle mani di gruppi sociali ristretti, nonché l'emergere di sempre nuovi, imprevedibili costi come effetto non voluto dei benefici procurati dall'innovazione tecnica (la deficienza di vitamina C era probabilmente sconosciuta prima del Neolitico, intere regioni ignoravano la malaria prima delle grandi irrigazioni, e così via). Il compito di controbilanciare tali tendenze maladattative e destabilizzanti, rivedendo di continuo la cultura e insieme concorrendo a stabilizzarla, verrebbe svolto dai meccanismi psichici che sono responsabili della trasmissione culturale. Il funzionamento di tali meccanismi, la cui conoscenza è secondo Barkow ancora a uno stadio preliminare, può essere osservato in una serie di comportamenti sociali caratteristici della nostra specie, come gli atteggiamenti ribelli dell'adolescenza, la resistenza all'oppressione da parte dei gruppi sociali subordinati, la tendenza dei bambini a imitare in prevalenza modelli della generazione precedente di status superiore.Queste linee di ricerca, pur collocandosi ancora entro il programma neodarwiniano, esplorano tuttavia percorsi alquanto discosti dalla sociobiologia umana delle origini, rivedendone in chiave biopsicologica, e non più genetica o gene-culturale, gli stessi modelli di base (v. Ridley, 1994).
Al suo primo apparire la sociobiologia ha suscitato accese controversie, amplificate dai mezzi d'informazione. Tanto clamore si spiega, anzitutto, con la deliberata ambizione wilsoniana di ricondurre le scienze sociali umane al paradigma neodarwiniano, ambizione affidata peraltro al solo capitolo, tra i ventisette del ponderoso Sociobiology, che possa dirsi superficiale, se non arrogante, verso le aree disciplinari esaminate. Questa spiegazione non è tuttavia sufficiente. Per comprendere tali reazioni occorre anche considerare, quantomeno, la forte pregnanza dei conflitti ideologici nel clima culturale degli anni settanta, e ancor più in particolare, trattandosi di temi inerenti la biologia umana, la natura di tali conflitti nell'area anglosassone. In tale contesto culturale, infatti, specie negli Stati Uniti, svolge una parte di rilievo la credenza 'socialdarwinista' che le disuguaglianze e le devianze sociali esprimano sottostanti differenze naturali di capacità o di talento, credenza che si esprime, tra l'altro, in un diffuso ricorso a test attitudinali di vario tipo. Per parte loro, i movimenti di opposizione sono venuti consolidando specularmente un'accentuata reattività alle spiegazioni naturalistiche dei fenomeni sociali.
Non desta pertanto meraviglia che la sociobiologia sia divenuta immediatamente oggetto di un'aspra contesa. L'opera di Wilson era appena apparsa, che un gruppo di studiosi legati alla sinistra radicale americana, tra i quali il brillante biologo Richard Lewontin, già ne additava le implicazioni ideologiche associate al marcato 'adattamentismo', ovvero alla fiducia nel valore esplicativo generale dei meccanismi selettivi (v. Science for the people, 1977). Come già in precedenza per l'ipotesi dell'aggressività innata, avanzata da Konrad Lorenz, il dibattito evocava gli eventi storici nei quali il biodeterminismo aveva giocato un ruolo importante, come la tragica politica eugenetica del nazismo, le leggi sulla sterilizzazione degli immigrati negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1930, oltre alla vasta gamma di esiti 'socialdarwinisti' associati all'ascesa del 'gladiatorio' evoluzionismo ottocentesco: la presunta superiorità maschile, lo sciovinismo, le discriminazioni giustificate con la fisiognomica lombrosiana o con teorie manipolatorie del quoziente intellettuale, e così via.La polemica antisociobiologica avrebbe trovato invece in Europa un'eco alquanto contenuta, in molti casi più interessata a elaborare programmi bioculturali alternativi che a ridurre la portata delle spiegazioni evoluzionistiche (per l'Italia v. Ingrosso e altri, 1982; per la Gran Bretagna v. King's College sociobiology group, 1982; per un confronto con le scienze sociali v. Wind, 1984, v. Berthoud, 1985; per una delle invero rare apologie ideologiche della sociobiologia, apparsa in Francia, v. Christen, 1979).
Un secondo ordine di contestazioni è venuto alla prima sociobiologia da parte di scienziati sociali, soprattutto antropologi, preoccupati di salvaguardare l'irriducibilità dell'umano al controllo genetico, e dunque interessati a ribadire l'autonomia delle scienze dell'uomo piuttosto che a contestare la 'correttezza politica' della biologia (v. Sahlins, 1976; v. Montagu, 1980).
Le accoglienze critiche iniziali, così come più meditate opere polemiche successive (v. Kitcher, 1985), hanno certo sensibilizzato gli studiosi e l'opinione pubblica circa i gravi rischi connessi alle semplificazioni biodeterministe. D'altra parte, va notato che l'insistenza su atteggiamenti unicamente negativisti, come alcuni critici hanno peraltro riconosciuto (v. Rose e altri, 1983, cap. 9), ha sottratto preziose energie alla ricerca di vie bioculturali diverse da quella deterministica. Ciò appare grave in particolare a quanti annoverano tra le fonti primarie delle perduranti violenze sociali e dei disastri ecologici sul pianeta Terra proprio quel dualismo mente-natura che nella nostra cultura ha salde radici (v. Bateson, 1979). Né va dimenticato che l'enfasi antisocialdarwinista rischia di sottovalutare gli effetti, non meno allarmanti, associabili alla opposta rappresentazione della natura umana, ovvero all'idea dell'Homo sapiens come tabula rasa plasmata da istanze sociali o normative. Tale idea appare implicata in pratiche sociali assai poco edificanti quali la cosiddetta rieducazione degli oppositori in vari regimi totalitari, la manipolazione delle coscienze e dei comportamenti, la diffusione di una medicina meccanicistica, la promozione incontrollata dell'innovazione tecnica, per non dire delle utopie eugenetiche spesso associate ai progressi della biologia molecolare.
In ambito anglosassone è particolarmente radicato un evoluzionismo ancorato a una visione ortodossa della 'teoria sintetica'. Ormai da tempo questa teoria è oggetto di importanti ipotesi di revisione che la sociobiologia, quantomeno nella fase iniziale, ha di fatto ignorato. Fra le altre merita qui ricordare: l'ipotesi 'neutralista', per la quale un elevato numero di mutazioni genetiche risulterebbe ininfluente in ordine al miglioramento delle abilità adattative (v. Kimura e Ohta, 1971); l'ipotesi che a essere premiati non siano i geni migliori ma pools genici dotati di elevata variabilità (v. Lewontin, 1974); l'ipotesi degli 'equilibri punteggiati', per la quale le trasformazioni evolutive non possono venir ascritte solo a micromutamenti graduali e continui, ma anche a veri e propri salti quantici (v. Eldredge e Gould, 1972; per sviluppi in parte attinenti alle scienze sociali v. Somit e Peterson, 1989); l'ipotesi, ripresa dal paleontologo Stephen J. Gould proprio nella sua disamina della sociobiologia, che il controllo del genotipo sul fenotipo non agisca per determinismi ma per definizione di potenzialità mai interamente prevedibili a partire dalle informazioni genetiche iniziali (v. Gould, Sociobiology..., 1980).
Queste ipotesi pongono in luce consistenti limiti in quel tipo di teoria evoluzionistica cui si affida il programma sociobiologico originario, ancorato a presupposti atomistici, gradualisti e fortemente fiduciosi nell'efficacia dei processi selettivi; ancorato, cioè, all'idea che i pools genici rispondano passo passo alle sfide ambientali venendo da queste selezionati in modo tendenzialmente ottimale e plasmando così gli organismi e i loro comportamenti. In forza di tali limiti - una sorta di metafisica provvidenzialistica, ha osservato più di un critico - la complessità dei fenomeni da spiegare viene alquanto compressa. Spesso, ad esempio, si trascura che l'assunto per cui una certa percentuale di geni (50, 25, 12,5 e così via) sarebbe identica in organismi discendenti l'uno dall'altro ha il carattere di una stipulazione convenzionale intorno a una media che prevede un'ampia varianza. Senza contare che il gene, unità di base indiscussa dei modelli popolazionali dei sociobiologi, può a fatica racchiudersi in una definizione unitaria e univoca per quanto concerne la sua struttura interna e il suo funzionamento. Tra i biologi c'è chi ha messo da tempo in discussione la nozione stessa di 'programma genetico', sottolineandone la natura speculativa, frutto di un trasferimento analogico dalla prima cibernetica alla biologia molecolare che avrebbe introdotto acriticamente nel rapporto genotipo-fenotipo indebite implicazioni finalistiche (v. Atlan, 1979). A tener conto, anche in parte, di queste ipotesi e osservazioni, la ricostruzione della lunga catena causale che andrebbe dal gene al comportamento non appare soltanto un'impresa da rinviare a tempi più maturi (a quando sarà conclusa, per esempio, la mappa del genoma umano), ma da sostituire con programmi di ricerca alternativi.
In effetti, le elaborazioni sociobiologiche che abbiamo definito di seconda generazione, e in particolare le 'psicologie darwiniane', hanno variamente assimilato alcuni aspetti delle ipotesi sopra elencate, in vari casi situandosi deliberatamente entro un orizzonte teorico alquanto distante da quello della prima sociobiologia. Per ritrovare i segni della continuità tra il programma sociobiologico originario e le psicologie darwiniane è necessario spostare l'attenzione su un comune presupposto generale: l'idea che la ricerca evoluzionistica sul comportamento debba portare alla luce gli universali della natura umana, ovvero strutture precedenti il pieno sviluppo delle culture. Un presupposto che, ha osservato un competente recensore, finisce per rimandare anche queste psicologie, come la sociobiologia, a una "rappresentazione della selezione come fissa e assoluta" (v. Masters, 1995), anche se in questo caso la spiegazione tramite un'idea 'fissa e assoluta' della selezione concerne, come si è detto, avvenimenti di un'epoca remota (l'emergere degli 'organi mentali' dell'Homo sapiens). Per gli scienziati sociali è tra l'altro agevole riscontrare le analogie formali che questa immagine del rapporto tra sfera biopsichica e informazioni culturali presenta con gli schemi funzionalisti di quell'antropologia (Malinowski) e di quella psicologia (Maslow) per le quali la cultura e il comportamento degli esseri umani sono ancorati a vincoli ('bisogni') preculturalmente costituiti.
Il pensiero evoluzionistico, secondo un'idea diffusa, è uno strumento di lavoro proprio delle discipline naturalistiche, al di là dell'auspicio, condiviso o meno, che esso varchi i loro confini. Questa non è però che una delle rappresentazioni dell'evoluzionismo. Esso, fin dalle sue origini, è stato inteso anche in un'accezione più estesa, non ancorata a uno specifico campo disciplinare, come uno dei più preziosi e complessi 'strumenti per pensare' congegnati dagli esseri umani per cercare di comprendere se stessi in quanto parte di più ampi sistemi interattivi in continua trasformazione. Come scrive Gould, uno degli studiosi contemporanei che hanno maggiormente concorso a rivitalizzare la teoria evoluzionistica, quest'ultima non esaurisce le sue potenzialità nella descrizione, più o meno ammirata, della vita animale: "Qualsiasi organismo è in grado di insegnarci molto di più. Ogni organismo nella sua forma e nel suo comportamento può offrirci messaggi generali, se solo impariamo a interpretarli. Il linguaggio che ci permette una tale interpretazione è la teoria dell'evoluzione" (v. Gould, The panda's..., 1980; tr. it., pp. 15-16).
Del resto, una massa crescente di studi etologici pone in luce aspetti sempre più sofisticati del comportamento negli stessi animali non umani: plasticità comportamentale, competenze comunicative, apprendimenti, tradizioni culturali, attitudini protomorali e prototecniche, singolarità individuali e così via; nel contempo, si va sviluppando una propensione 'ecologica' a situare le analogie tra la nostra specie e le altre, non già negli aspetti più semplici, meccanici e rozzi, ma negli "aspetti più complessi, gli aspetti estetici, involuti ed eleganti" (v. Bateson, 1979; tr. it., p. 17), in controtendenza rispetto al radicato canone antropocentrico.
In questo senso, l'evoluzionismo può essere inteso come un campo diversificato e vitale di paradigmi, teorie e modelli in trasformazione dinamica, non custodito da alcuna disciplina-guida. Peraltro, il confronto tra spiegazioni deterministiche e spiegazioni alternative del comportamento non coincide con quello tra scienze naturali e scienze umane, ma attraversa vitalmente entrambi i campi. Quel campo di studi che viene identificato dal termine biologia è tutt'altro che omogeneo. Gli ultimi cento anni hanno visto il divaricarsi, per molti aspetti, di due distinte biologie, una dedita allo studio della fisiologia degli organismi e delle interazioni funzionali organismo-ambiente, l'altra dedita allo studio dell'emergenza per evoluzione storica di quella fisiologia e di quelle forme interattive (v. Mayr, 1982). La prima si è venuta modellando sull'impronta meccanicista delle scienze fisico-chimiche, la seconda si è venuta definendo come scienza di tipo storico. Né il sorgere di nuove discipline pare aver ridotto tale divaricazione: "La genetica e la biologia molecolare si sono sviluppate nell'alveo della tradizione fisicalista e fisiologica. La paleontologia, l'ecologia, l'etologia hanno in larga parte condiviso con la tradizione evoluzionista molti presupposti e molti problemi" (v. Ceruti, 1995, p. 19). Le prime continuano a privilegiare la ricerca di costanti universali attraverso modelli quantitativi, le seconde l'esplorazione della variabilità e delle potenzialità attraverso narrazioni storico-evolutive e coreografie interattivo-sistemiche (v. Morin, 1980).
In questo secondo ambito sono venute sviluppandosi, negli ultimi decenni, nuove teorie dei sistemi che in vari casi hanno costituito una cornice teorica alternativa a quella 'geneticista' per modelli bioculturali di spiegazione del comportamento umano. Alcuni studiosi hanno sviluppato una teoria generale dell'evoluzione (v. Csány, 1982). Particolare attenzione ha ricevuto la teoria dei sistemi autopoietici, cioè dotati di proprietà 'morfogenetiche' di automantenimento, autorigenerazione e autoreplicazione (v. Maturana e Varela, 1980), che fornisce efficaci formalismi logici per sostituire alle unità di base atomistiche e ai principî causali lineari (gene-comportamento, meme-comportamento e simili), unità di base sistemiche e principî causali ciclico-ricorsivi.
Diversamente da tali correnti, che vengono talora definite postdarwiniane, il neodarwinismo cui fanno riferimento i sociobiologi mantiene la spiegazione dei processi evolutivi entro l'orizzonte meccanicista della biologia deterministica. Ciò non toglie che l'interrogativo di fondo intorno a cui nasce la sociobiologia, inerente i nessi tra dinamiche viventi e forme della socialità, umana e non, rimanga stimolante - come ha riconosciuto, fra gli altri, lo stesso Gould (v., 1977, cap. 33).
Diversi scienziati sociali hanno fatto del confronto critico con la sociobiologia un'opportunità per riflettere sulle premesse abiologiche delle loro discipline (v. in proposito Milanaccio, 1986), oppure un'occasione di arricchimento di propri modelli bioculturali alternativi. Tra questi ultimi, assai significativo è il modello di attore sociale elaborato da Luciano Gallino (v., 1987), denominato Ego. Con la sociobiologia, particolarmente nella versione coevolutiva gene-culturale, Ego condivide l'ipotesi che l'individuo tenda a ottimizzare la propria idoneità complessiva, attraverso una continua interazione tra numerosi referenti biologici e culturali di ordine sia 'egoistico' sia 'altruistico'. Tuttavia le differenze rispetto alla sociobiologia sono considerevoli. Anzitutto i componenti di base dell'architettura di Ego non sono particelle atomistiche, genetiche o gene-culturali, ma unità sistemiche; in altri termini, le proprietà costitutive e regolative del vivente poste in primo piano non sono quelle del controllo genetico, ma quelle 'morfogenetiche', assai più generali che non quelle genetiche, in quanto appartenenti all'intero genoma e all'organismo multicellulare che da esso si sviluppa.
In secondo luogo, l'interazione tra le componenti biologiche e culturali è organizzata in Ego da un sistema cerebro-mentale dotato di una propria autonomia, funzionante sulla base di una proprietà morfogenetica specifica dell'Homo sapiens, che va oltre quelle generali proprie di ogni sistema vivente: la proprietà, cioè, di sviluppare nel proprio sistema nervoso centrale, lungo l'arco della vita individuale, un insieme indefinito di strutture informazionali che rappresentano momento per momento lo stato del rapporto tra sé e i propri molteplici ambienti e 'parenti', orientando il comportamento e insieme a questo trasformandosi a propria volta di continuo. Ego si propone in modo esplicito come modello della mente dell'attore, di un attore però che non ha una mente ma è una mente.Tale mente, intesa come sistema bio-psico-culturale, non va confusa con gli 'organi mentali' della citata psicologia evoluzionistica, che si definiscono in chiave unicamente bio-psichica. Non a caso Gallino prende esplicitamente le distanze dal paradigma cognitivista (adottato da quella psicologia), per il quale la mente "contiene tutte le regole per giungere a una soluzione (consista questa nel decidere, comprendere, rappresentare, risolvere problemi)" (v. Gallino, 1987, p. 136); laddove invece, in Ego, la mente viene a esser formata e riformata anche dall'interazione con gli alter e con il contesto. In questo senso Ego può esser considerato un modello della mente individuale non di tipo individualistico-psicologico ma di tipo interattivo-sociale.
Una linea di ricerca sistemica diversa rispetto a quella incentrata sull'attore sociale è quella, più consueta, che persegue macromodelli di coevoluzione tra biologia e cultura. Tra questi, ci limitiamo a richiamare quello proposto da Kenneth Boulding (v., 1985), che mira a rappresentare il mondo come sistema 'totale' composto da sistemi fisici, biologici e sociali differenti ma al tempo stesso formalmente analoghi. In particolare, la 'biosfera' e la 'sociosfera' (manufatti, conoscenze, attività e organizzazioni umane) presenterebbero notevoli analogie. Tra le principali: processi di produzione generativa, da condizioni 'genotipiche' iniziali a stati 'fenotipici' successivi, senza con ciò trascurare il fatto che i prodotti biologici hanno due soli genitori, mentre quelli sociali ne hanno sempre molti; principî demografici di specie, sebbene nella sociosfera si assista assai più di frequente alla cooperazione tra molte specie (un'automobile è 'figlia' di fabbriche, organizzazioni professionali, esseri umani, ecc.); interazione ecologica, ovvero intreccio di dinamiche cooperative e conflittuali tra differenti popolazioni di sistemi in funzione dei rispettivi bilanci energetici; compresenza, in ogni specie vivente, di due tipi di 'genetica' variamente interconnessi, uno relativo alle condizioni iniziali (biogenetica) e uno alle strutture apprese (noogenetica, che nell'Homo sapiens è predominante); combinazione di stabilità e instabilità, dove l'imprevedibilità gioca un ruolo di primaria importanza, come mostra in particolare l'enigma del 'grande cervello' umano, inspiegabile per mera deduzione dalle condizioni biologiche che l'hanno preceduto (e come suggerisce inoltre l'ipotesi degli equilibri punteggiati: v. Boulding, 1989).Tali analogie non sono da prendersi in nessun caso, naturalmente, per identità. Il punto dirimente, per Boulding, è la considerazione della storia umana come fase del tutto peculiare del più ampio e unitario processo evolutivo del vivente.
Le scienze naturali e le scienze umane, a partire dal XVIII secolo, sono venute sviluppandosi assieme (tra l'altro, vale la pena ricordare qui come già nel lessico del sociologo Leopold von Wiese - v., 1924-1929 - comparisse il termine 'sociobiologia'). Per buona parte del Novecento esse hanno però proceduto separatamente, non solo per la memoria di tragici eventi nei quali le argomentazioni biologiche hanno svolto un infausto ruolo di primo piano, ma anche per l'affermarsi di rappresentazioni sociali ottimistiche circa l'adattabilità dei comportamenti umani in funzione di utopie 'espansive' - democrazia, felicità, benessere, socialismo. La gran parte delle scienze umane, a partire dagli anni venti, ha adottato immagini della natura umana sostanzialmente abiologiche e, come è stato scritto per l'opera di uno tra i più influenti sociologi del secolo, Talcott Parsons, 'ultrasocializzate'.
La fine del XX secolo, con l'emergere di corposi dubbi scientifici, e non solo morali, circa la modificabilità del comportamento umano in funzione di mete prefissate, con la crescente consapevolezza che siamo ormai in grado di alterare il vivente in radice, e con il diffondersi di una sensibilità ecologico-planetaria, produce nuove opportunità e nuove necessità di incontro tra saperi naturalistici e socioantropologici. Numerosi scienziati sociali, come si è detto, hanno espresso segnali di disponibilità verso quella che Gallino (v., 1992) ha chiamato l'incerta alleanza fra tali saperi (cfr. in particolare le riviste "Journal of social and biological systems" e "Politics and life sciences"). Non è questa, tuttavia, la sede per render conto di quei segnali, rimanendo qui prioritario l'obiettivo di delineare un profilo critico della sociobiologia. In questa prospettiva, i modelli bioculturali alternativi richiamati hanno anzitutto la funzione di ampliare l'ecologia delle idee all'interno della quale le questioni poste dalla sociobiologia prendono senso, al di là delle soluzioni teoriche, peraltro assai variegate, da essa suggerite.
A tale ampliamento fa ostacolo il persistere di una pratica frammentata del conoscere, tanto più grave in un'epoca, quale la nostra, in cui le occasioni di incontro tra linguaggi formati nell'ambito delle più diverse discipline si vanno accrescendo, sia in contesti di ricerca finalizzata sia in contesti di consulenza a decisori pubblici e privati. Vistosi malintesi cognitivi caratterizzano gli incontri interdisciplinari tra specialisti, senza scalfire in profondità i processi comunicativi attraverso cui quella frammentazione si alimenta. Difficile dire se l'epistemologia evoluzionistica, come qui si è cercato di abbozzarla, e cioè come pratica scientifica non confinata a priori in alcuna disciplina, e insieme come modalità autoriflessiva di esplorazione del nostro esser parte di più ampie dinamiche interattive naturali e sociali, potrà incidere sui processi comunicativi che generano frammentazione, o se verrà scambiata per l'ennesimo appello volontaristico a una generica interdisciplinarità. Difficile dirlo, anche perché le sorti di tale possibilità non dipenderanno, comunque, dalla sola efficacia teorica dell'azione discorsiva - quale può essere, fra altre, il presente 'elogio dell'evoluzionismo'. Come insegnano, infatti, due secoli e più di sociologia delle interazioni umane, imputare i malintesi cognitivi solo o principalmente a carenze di ordine discorsivo è quantomeno un'ingenuità. D'altra parte, per chi iscriva il proprio agire entro quell'affascinante ma esigente 'gioco linguistico' che chiamiamo scienza, a tale ingenuità non è dato sottrarsi. (V. anche Adattamento; Altruismo; Etologia; Evoluzione culturale; Genetica).
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