sociolinguistica
La sociolinguistica è il settore delle scienze del linguaggio che si occupa dei rapporti fra lingua e società. Pare che il termine sociolinguistics sia stato usato per la prima volta all’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo, ma il settore di studio si è venuto configurando come tale nel corso degli anni Sessanta, in connessione da un lato con gli studi sulla rilevanza del linguaggio nell’educazione del sociologo Basil Bernstein in Gran Bretagna e dall’altro lato, e soprattutto, con le ricerche sui correlati sociali della variazione linguistica di William Labov in America (per es., Labov 1966). L’assunto fondamentale che ha portato allo sviluppo della prospettiva sociolinguistica sui fatti di lingua sta nella constatazione che il linguaggio verbale, oltre a essere una delle capacità innate degli esseri umani, dotato su queste basi di una propria strutturazione autonoma, allo stesso tempo si realizza nella vita sociale e nei comportamenti interazionali degli individui. Si rende quindi necessario, per una comprensione globale dei fenomeni linguistici, tenere conto delle interrelazioni fra la lingua e l’ambiente sociale in cui questa viene impiegata. La lingua è per più aspetti un fenomeno sociale; e tale sua natura si manifesta sia nell’azione che fattori sociali, anche in senso lato, esercitano sulla lingua condizionando vari fenomeni linguistici, sia nella partecipazione della lingua a costruire essa stessa realtà sociali. La prospettiva sociolinguistica ha messo in evidenza come fenomeni che, pur molto diffusi ed evidenti, paiono avere scarsa importanza per lo studio del sistema linguistico (quali in primo luogo la variazione), siano dotati di significato sociale e abbiano la loro pertinenza nel contribuire alla comprensione complessiva dei fatti di lingua. Dato il ruolo primario che la variazione riveste quando si esaminano gli usi della lingua, la sociolinguistica si configura quindi anche come la branca della linguistica che si occupa della distribuzione sociale della variazione linguistica a tutti i livelli e in tutti i suoi aspetti. Le analisi dei rapporti fra lingue e società nei repertori delle comunità parlanti e delle tendenze in essi in atto, e più in generale i risultati della ricerca sociolinguistica, costituiscono anche la base per l’elaborazione della politica linguistica e per gli interventi di ➔ pianificazione linguistica.
Ci sono in sociolinguistica due fondamentali livelli di analisi. Un primo livello (a volte chiamato microsociolinguistico) è quello delle variabili sociolinguistiche (cioè dei punti del sistema linguistico che variano), dei caratteri delle varietà di lingua a cui queste danno luogo, e della loro presenza e distribuzione nei comportamenti linguistici dei parlanti. Un secondo livello è invece quello (detto a volte macrosociolinguistico) delle lingue e varietà di lingua viste nel loro complesso e nel loro impiego e distribuzione nella società.
In entrambi i livelli, dal punto di vista metodologico la sociolinguistica è fortemente orientata verso la realtà empirica concreta. Nel primo livello d’analisi i dati empirici sono costituiti da fatti linguistici, le produzioni effettive dei parlanti nei loro comportamenti linguistici con i caratteri specifici con cui queste si presentano nelle diverse situazioni. Nel secondo livello i dati empirici sono costituiti dagli usi e atteggiamenti dei parlanti e dalle presenze delle lingue e varietà di lingua nei diversi domini. La sociolinguistica quindi si procura dati essenzialmente con indagini sul campo: registrazioni di produzioni verbali autentiche e conversazioni spontanee ed elicitazioni, con diverse tecniche, di materiali linguistici, nonché raccolta di testi scritti, per l’analisi microsociolinguistica; osservazioni partecipanti, interviste, raccolta di documentazioni, rilevamenti con questionari su comportamenti, atteggiamenti e rappresentazioni dei parlanti, per l’analisi macrosociolinguistica. Le indagini con questionari, e in particolare quelle, consuetudinarie nella ricerca sociolinguistica, che chiedono ai soggetti interpellati autodichiarazioni del comportamento, presentano alcuni problemi in relazione all’affidabilità delle risposte e alla loro interpretazione, ma sono insostituibili se si vogliono avere dati quantitativamente apprezzabili e significativi anche dal punto di vista statistico, che permettano conclusioni generalizzabili.
Le nuove prospettive di analisi del linguaggio messe a fuoco dall’impostazione sociolinguistica si sono rapidamente espanse nel vecchio continente, trovando un terreno particolarmente fertile in Germania e in Italia, dove si sono potute innestare su una tradizione di studi di ➔ dialettologia italiana che già avevano posto l’accento sugli aspetti e sui valori sociali del comportamento linguistico. La situazione italiana presenta molti tratti che ne fanno un campo specialmente sensibile a una prospettiva sociolinguistica, data la travagliata storia politica e sociale del nostro paese, una frammentazione politica e culturale durata secoli, un’unificazione avvenuta tardi (➔ Risorgimento e lingua), e la persistenza di forti diversità linguistiche e diseguaglianze sociali ed educative. Le tematiche della sociolinguistica sono rapidamente entrate nell’ambiente culturale italiano, collegandosi negli anni Settanta alle analisi dei mutamenti della società italiana nel secolo postunitario e delle conseguenze dello sviluppo economico (con il prevalere di una società industriale e poi postindustriale, e con le cospicue migrazioni interne dal Sud al Nord), e partecipando al fervido dibattito sul rinnovamento della scuola e dell’educazione (➔ educazione linguistica; ➔ scuola e lingua) che si era allora avviato. Le ricerche si sono infittite e si sono estese a tutta la gamma degli usi linguistici, portando a una massa di indagini empiriche su singole situazioni e a un cumulo significativo di conoscenze sui rapporti fra lingua e società in Italia.
Temi rilevanti nella sociolinguistica italiana sono stati (e sono): il rapporto fra la lingua nazionale e i dialetti; le dinamiche linguistiche connesse ai mutamenti sociali; l’articolazione dell’italiano in varietà secondo diversi fattori di variazione; i cambiamenti nella lingua italiana dovuti alla rapida diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione (prima la televisione e poi, alle soglie del nuovo secolo, Internet e la comunicazione mediata dal computer; ➔ lingua e media); il rimescolamento delle classi sociali e il condizionamento della collocazione sociale (per gruppo di appartenenza, età, sesso, ecc.) dei parlanti sui loro usi e comportamenti linguistici; il ruolo della lingua nell’educazione scolastica e la discriminazione attraverso la lingua; la funzione del linguaggio nel regolare l’interazione e nel costruire rapporti sociali; le sorti delle lingue tagliate (come venivano designate negli anni Settanta le lingue delle ➔ minoranze linguistiche); i problemi linguistici e sociali della recente immigrazione (➔ acquisizione dell’italiano come L2). Fra le prime sistemazioni concettuali e descrittive di Berruto (1974) e la panoramica aggiornata di D’Agostino (2007) la quantità di conoscenze si è moltiplicata e la consapevolezza delle interrelazioni fra lingua e società si è precisata, dando corpo a una dettagliata immagine dell’Italia come un territorio sociolinguisticamente molto differenziato e con persistenti diseguaglianze anche linguistiche fra i cittadini. Il complesso degli studi sociolinguistici italiani si caratterizza per un’attenzione spiccata ai singoli dati empirici e alle dimensioni propriamente sociali e culturali dei fenomeni, con un ridotto interesse verso l’elaborazione di modelli teorici e di raffinate analisi statistiche quali hanno contrassegnato soprattutto la sociolinguistica anglosassone.
Il carattere essenziale del panorama sociolinguistico italiano è costituito dalla compresenza della lingua standard nazionale con numerose varietà dialettali dotate di una loro tradizione autonoma. Nelle varie regioni italiane coesistono infatti con l’italiano nell’uso dei parlanti da un lato varietà strettamente imparentate con la lingua standard a base fiorentina emendata: vale a dire gli attuali ➔ dialetti italiani derivanti dai ➔ volgari medievali; e dall’altro varietà non imparentate con l’italiano e portatrici di eredità culturali diverse: le lingue e parlate alloglotte minoritarie. Il rapporto fra italiano e dialetto è il fulcro su cui si innestano i principali problemi a cavallo fra lingua e società in Italia. L’italiano, che nei termini della sociologia del linguaggio presenta i caratteri tipici di una «lingua per elaborazione» (Ausbausprache; cfr. Berruto 1995: 210-212) pienamente realizzata, fornita dei mezzi linguistici per adempiere ai bisogni di tutte le sfere comunicative, ha sempre avuto una posizione privilegiata e dominante nel panorama sociolinguistico. Dal punto di vista della sociologia del linguaggio, rispetto ai dialetti italiani l’italiano è anche «lingua tetto», nel senso tecnico (Berruto 1995: 206) di lingua standard insegnata a scuola ai parlanti delle diverse varietà dialettali, verso cui i comportamenti linguistici in qualche modo devianti sono corretti, e che fornisce ai dialetti il modello per le innovazioni lessicali.
Tuttavia, per molti secoli l’italiano è rimasto una lingua di élite posseduta da una netta minoranza della popolazione: le stime su quanti fossero gli italofoni al momento dell’unità d’Italia variano dal 2,5% (De Mauro 1976: 43) al massimo di un 10% circa (Castellani 1982). Sino a fine Ottocento/inizio Novecento l’italiano era dunque una lingua alta, poco usata, e da pochi, nella conversazione ordinaria, e si trovava in regime di diglossia con il dialetto (➔ bilinguismo e diglossia). Quest’ultimo era infatti la lingua dell’uso parlato quotidiano, mentre l’italiano, per la parte della popolazione che lo possedeva, era riservato agli usi scritti e formali. Con il progressivo diffondersi dell’istruzione scolastica, con eventi quali l’introduzione del servizio militare obbligatorio e le due guerre mondiali, con trasformazioni (con funzione unificante e antidialettale dal punto di vista linguistico) quali il passaggio da società agricola a società industriale e postindustriale e l’avvento delle moderne comunicazioni di massa (De Mauro 1976: 51-125) avutesi durante l’ultimo secolo, l’italiano si è via via esteso a fasce della popolazione che di fatto non lo conoscevano o non lo praticavano se non in situazioni particolari, e a domini di impiego in precedenza tipico territorio del dialetto. Negli ultimi cinquant’anni la situazione di diglossia protrattasi per secoli si è quindi mutata in una situazione che tecnicamente si direbbe di dilalìa: l’italiano è oggi impiegato da una fascia consistente della popolazione anche nella conversazione quotidiana, accanto al dialetto.
Le dinamiche della seconda metà del XX secolo hanno infatti contribuito a rinforzare decisamente una tendenza già ben presente nel panorama sociolinguistico italiano: la regressione dei dialetti di fronte alla lingua nazionale (➔ italianizzazione dei dialetti). Lo spostamento progressivo dalla dialettofonia all’italofonia è visibile anche negli intervalli brevi. Dai primi rilevamenti statistici (avviati a livello nazionale negli anni Settanta dalla Doxa con campioni molto piccoli di parlanti, e più recentemente dall’ISTAT con grandi campioni), l’italofonia è in costante espansione: dal 25% nel sondaggio Doxa del 1974 la percentuale di chi dichiara a livello nazionale di parlare italiano in famiglia passa al 41,9% del rilevamento ISTAT del 1987-1988 e al 45,5% di quello del 2006.
Il rapporto negli usi fra italiano e dialetto varia molto da regione a regione. La fig. 1, basata su dati di un rilevamento ISTAT del 2006, riguarda la percentuale di persone che hanno dichiarato di usare solo o prevalentemente l’italiano in famiglia, e mostra la situazione dell’italofonia nelle diverse regioni italiane.
Tralasciando i casi della Toscana e in parte del Lazio, dove a causa delle vicende della formazione dell’➔italiano standard la differenza fra italiano e dialetto è assai meno evidente che nelle altre regioni, il dialetto appare sensibilmente più debole (meno usato) nelle regioni del Nord-Ovest, e le regioni meridionali sono più dialettofone di quelle settentrionali (escluso il Veneto). Va notato che, nelle risposte alla domanda su quale lingua è abitualmente usata in famiglia, in molte regioni una porzione consistente degli intervistati ha indicato «sia italiano che dialetto». Le risposte «solo o prevalentemente dialetto» in Piemonte, Liguria e Lombardia non hanno raggiunto il 10%, mentre in Veneto, che va considerato la regione più dialettofona d’Italia, sono ammontate quasi al 40%.
L’uso maggiore o minore di italiano e dialetto è poi in correlazione con i principali fattori sociali. Le classi d’età giovani sono assai più propense all’italiano che gli anziani: nel rilevamento ISTAT del 2006, il 58,4% degli intervistati della classe d’età fra i 6 e i 24 anni dichiara, a livello nazionale, di parlare solo o prevalentemente italiano in famiglia, contro il solo 30,3% degli ultrasessantacinquenni. Evidenti sono anche le differenze in base alla condizione professionale e al grado d’istruzione; sempre i dati ISTAT del 2006 mostrano come l’italofonia salga dal 32,4% presso gli intervistati con la sola licenza elementare al 73,5% presso i laureati.
Se si tiene conto che anche la dimensione e il carattere dei centri abitati, e il sesso dei parlanti (o genere; ➔ genere e lingua; ma essere uomo o donna influenza in generale molto meno l’uso di italiano e dialetto che gli altri fattori sociodemografici, ferma restando una lievemente maggior dialettofonia degli uomini) incidono sul grado di italofonia e dialettofonia, il sommarsi delle variabili sociali fa sì che il tipico parlante monolingue italofono sia una studentessa di città, mentre all’opposto il tipico parlante dialettofono sarà un anziano contadino. Recenti sintomi di un rallentamento della diminuzione della dialettofonia, o addirittura di una qualche ripresa dell’uso del dialetto (come potrebbero attestare presenze del dialetto in ambiti non tradizionali, quali la musica di gruppi giovanili, la pubblicità, la comunicazione in Internet, ecc.) sono difficili da valutare nella loro reale portata, e possono essere attribuiti più a una rivalutazione ideologica della collocazione del dialetto, non più visto come una varietà linguistica inferiore e stigmatizzata, negli atteggiamenti della comunità parlante, che non a un suo effettivo recupero nell’uso (Berruto 2006).
In conclusione, l’attuale popolazione nativa in Italia si distribuisce, quanto alla competenza e all’uso degli idiomi autoctoni, in tre fasce: una consistente percentuale (attorno al 45% a livello nazionale) di persone che parlano solo italiano e non parlano dialetto (di gran lunga predominante nelle giovani generazioni), una percentuale all’incirca altrettanto consistente di persone che parlano all’occorrenza sia italiano che dialetto, e una piccola minoranza (di entità assai difficile da quantificare, forse attorno al 5%, e da cercare prevalentemente fra coloro che sono privi di qualunque titolo di studio; ➔ analfabetismo e alfabetizzazione), soprattutto nelle generazioni più vecchie e in Italia meridionale, di persone che parlano solo dialetto.
L’utilizzazione di italiano e dialetto presso la parte della popolazione che si può considerare bilingue, in quanto conosce e sa adoperare entrambi gli idiomi, si distribuisce in maniera differenziata nei diversi domini. Com’era da aspettarsi, e come hanno mostrato nel corso degli anni diverse indagini su singole situazioni locali, il luogo elettivo di impiego del dialetto sono la famiglia (in particolare i membri delle vecchie generazioni) e la cerchia di amicizie. A parità di altre condizioni, il dialetto è molto meno usato con gli estranei, e in situazioni pubbliche; ed è da ritenere del tutto escluso in situazioni molto formali. L’uso parlato nella conversazione quotidiana del piccolo gruppo è ancora la nicchia di resistenza (molto variabile come si è detto da regione a regione e da situazione a situazione) del dialetto, tipica varietà orale. Anche se alcuni dialetti vantano una tradizione di scrittura letteraria tutt’altro che irrilevante (si veda, per es., per la sola poesia del Novecento, Brevini 1987), e se esiste produzione scritta amatoriale, soprattutto in versi, in una miriade di parlate locali, al giorno d’oggi un impiego scritto non a fini letterari del dialetto si rintraccia quasi esclusivamente presso militanti di gruppi ideologicamente impegnati a promuovere i dialetti locali (a volte in funzione politica antitaliana).
Qualche novità quanto all’uso scritto del dialetto è stata portata dalla comunicazione mediata dal computer, in rete e per sms, dove è stata notata un’occorrenza sia pur marginale ma imprevista di testi e messaggi formulati interamente o parzialmente in dialetto (➔ posta elettronica, lingua della). Tali testimonianze, ancorché statisticamente non significative, hanno tuttavia il valore di indizio della posizione attuale del dialetto nelle rappresentazioni dei parlanti, in quanto coinvolgono prevalentemente le fasce giovanili della popolazione, che sono quelle meno propense alla dialettofonia.
Il ruolo dei giovani e degli adolescenti (➔ giovanile, linguaggio) è naturalmente cruciale per determinare le tendenze in atto nella situazione sociolinguistica. Nella maggioranza dei casi essi non hanno avuto il dialetto come lingua della socializzazione primaria: fin dalla metà del XX secolo si è infatti diffuso nella società italiana un modello di comportamento linguistico familiare in cui l’italiano era lingua di prestigio necessaria per garantire la promozione sociale delle nuove generazioni, sicché genitori anche prevalentemente dialettofoni si sono messi a parlare solo in italiano con i figli. È quindi significativo che proprio presso queste fasce emerga una qualche conoscenza e impiego del dialetto, che, non essendo stato trasmesso direttamente dai genitori come prima lingua, deve essere stato imparato successivamente (sia pure nella maniera frammentaria e incompleta che molti degli impieghi rivelano), grazie alla sua presenza di sfondo nell’ambiente circostante (e deve rivestire importanza, in questa trasmissione del dialetto al di fuori del canale generazionale diretto, la funzione dei nonni). Il fatto che gli impieghi del dialetto in queste circostanze risultino avere di solito un valore chiaramente espressivo e ludico può essere un sintomo della ricollocazione del dialetto nel repertorio (➔ repertorio linguistico) come una tastiera supplementare a disposizione del parlante, e quindi come uno strumento in più accanto alla lingua nazionale, un arricchimento invece che un impedimento e una limitazione, com’è tradizionalmente stato visto. D’altro canto, una recente indagine (Ruffino 2006) sulla percezione del dialetto condotta presso circa novemila bambini delle scuole elementari in 167 località di tutte le regioni italiane mostra il persistere di uno stereotipo antidialettale negativo (abbondano negli scritti dei bambini affermazioni come «l’indialetto ha la faccia scura»). Ma qui le questioni sociolinguistiche si legano inestricabilmente con quelle relative all’educazione scolastica, da sempre ostile al dialetto (➔ scuola e lingua).
D’altra parte, l’aumento, attestato anche nei rilevamenti Doxa e ISTAT, dell’impiego alternato di italiano e dialetto è coerente col fatto che tale uso mistilingue emerga nella comunicazione scritta giovanile con le moderne tecnologie, e indica una situazione in cui quindi il dialetto certamente si indebolisce ma insieme si colloca come un codice secondario parallelo alla lingua nazionale. Questa pare infatti profilarsi come una delle tendenze principali del panorama sociolinguistico italiano. Un’indagine recente sugli usi e comportamenti linguistici dichiarati dagli studenti di 86 classi delle scuole primarie e secondarie della Sardegna mostra come il posto tradizionale del sardo nel repertorio della comunità parlante venga a essere sostituito dall’alternanza sardo/italiano (con un «processo di trasfigurazione sociolinguistica», come osserva Sobrero in Lavinio & Lanero 2008: 145). Va notato a questo proposito che la collocazione del sardo, che pure è considerato una lingua di minoranza, rispetto all’italiano è del tutto analoga, come mostra bene anche la ricerca citata, a quella dei dialetti italoromanzi.
Nel patrimonio linguistico storico del nostro paese si trovano anche, accanto al bilinguismo italiano/dialetto di parte della popolazione, situazioni di multilinguismo. È il caso di molte delle comunità alloglotte, e in modo particolare delle ➔ isole linguistiche, in cui viene spesso usato, oltre all’italiano e alla lingua o varietà minoritaria tradizionale del luogo, anche il dialetto italoromanzo dell’area circostante. Si ha in tal caso un effettivo trilinguismo, in cui gli usi si distribuiscono nei domini in maniera tale che la parlata locale e il dialetto italoromanzo condividono gli ambiti tipici della dialettofonia e vi si sovrappongono, cosicché spesso il dialetto italoromanzo circostante è il principale concorrente della parlata alloglotta sul suo terreno e contribuisce in tal modo al processo di perdita di vitalità in cui questa è coinvolta. Un esempio: a Timau (Tischlbong/Tamau), una località dell’Alta Carnia, frazione con circa 700 abitanti del comune di Paluzza (provincia di Udine), alla parlata tradizionale tedesca, il timavese (gruppo dialettale carinziano), si sono sovrapposti l’italiano e il friulano. Francescato & Solari Francescato (1994), in un’ampia indagine con questionari che ha raggiunto la quasi totalità della popolazione, rilevano come la diffusione del friulano superi addirittura quella della parlata locale: il 96% della popolazione dichiara di avere conoscenza passiva e quasi l’87% conoscenza attiva del friulano, contro l’86% e rispettivamente il 70% del timavese.
Un altro tratto caratterizzante la situazione sociolinguistica italiana è la presenza di un certo numero di varietà geografiche della lingua nazionale, gli italiani regionali (➔ italiano regionale), che sono diventati la norma media comune d’uso dell’italiano nelle diverse regioni, venendo a costituire una sorta di standard regionali. Nelle dinamiche sociolinguistiche del Novecento infatti non si è avuta una progressiva unificazione della lingua verso il modello rappresentato dall’italiano normativo scolastico a base toscana, ma al contrario un consolidamento delle varietà regionali urbane, con tendenza all’allontanamento dal modello fiorentino in direzione, piuttosto, prima di quello romano e poi di quello milanese-settentrionale (Galli de’ Paratesi 1984). La fissazione di caratteristiche locali, soprattutto nella pronuncia, è stata molto favorita dalla maniera in cui la lingua italiana si è diffusa nei decenni dopo l’unificazione nazionale. La divulgazione della varietà standard a base toscana è avvenuta fondamentalmente per via scritta, e solo dopo l’avvento del cinema, della radio e in seguito della televisione la grande maggioranza della popolazione italiana ha avuto contatto quotidiano anche con la forma parlata dello standard. A quel punto però le principali caratteristiche locali della pronuncia, basate oltreché sul ➔ sostrato dialettale anche su un orientamento della pronuncia improntato alla grafia (senza realizzazione, quindi, delle distinzioni non rappresentate in questa: con rese differenti dallo standard e diverse distribuzioni, per es., delle vocali medio-basse e medio-alte anteriori e posteriori, /e/ e /o/; o delle affricate alveolari, /z/ e /s/), si erano ormai consolidate.
Tale gamma di variazione a livello dell’italiano si sovrappone alla generale policromia della situazione linguistica italiana. L’Italia è infatti un paese in cui sono tutt’oggi parlati, oltre alla lingua nazionale nelle sue ➔ varietà diatopiche, diastratiche e diafasiche, una buona trentina di idiomi riconoscibilmente diversi: più di una quindicina di dialetti italoromanzi (ma si tenga presente che ogni dialetto conosce una molteplicità di differenziazioni interne località per località: ogni comune ha la propria parlata, diversa per certi elementi dalle parlate dei comuni finitimi, e a volte ulteriormente differenziata da frazione a frazione) e circa una quindicina di varietà alloglotte minoritarie.
Su questo panorama di forte differenziazione e frammentazione hanno però agito nel secondo dopoguerra controspinte unitarie. Rilevanti fenomeni di massa, fra cui in primo luogo le grandi migrazioni interne dal Meridione al Settentrione, hanno portato a un rimescolamento delle varietà di italiano, con la formazione nelle nuove generazioni di parlanti di varietà di italiano meno marcate localmente e che spesso inglobano tratti provenienti da diverse varietà regionali. A inizio del terzo millennio, pare infatti che la marcatezza regionale, almeno nella fonologia, sia nei giovani sensibilmente diminuita rispetto a venti o trent’anni prima. Adolescenti e giovani adulti hanno spesso (per effetto combinato sia delle migrazioni interne sia dell’aumentato grado di scolarizzazione sia degli scambi e della mobilità molto più diffusi e frequenti, ed esponenzialmente incrementati dalla fruizione di Internet) un italiano difficilmente riconducibile a questa o quella caratterizzazione regionale, o perché si presenta composito (costituito da tratti regionali di diversa provenienza), o perché la presenza di tratti regionalmente marcati è modesta. Già all’inizio degli anni Novanta un’indagine svolta a Roma (Conti & Courtens 1992) su un campione di 14-18enni studenti di un istituto tecnico, di ambiente piccolo-borghese, figli di immigrati nella capitale da varie regioni italiane (Veneto, Sardegna, Campania, Puglia, Basilicata …), nati a Roma o stabilitivisi all’età di 2/3 anni, mostrava un considerevole adeguamento della pronuncia alla varietà dei coetanei locali compagni di scuola, che a sua volta appariva, almeno nel registro più controllato, non drasticamente marcata in senso diatopico. I tratti fonetici considerati erano fra quelli più tipici dell’italiano di Roma (➔ Roma, italiano di): l’affricazione della fricativa alveolare sorda preceduta da nasale o laterale o vibrante ([ˈpεnʦo] per penso, [ˈpolʦo] per polso, [ˈforʦe] per forse); lo ➔ scempiamento della vibrante lunga intervocalica ([ˈgwεːra] per guerra); la realizzazione come approssimante, semiconsonante (➔ semivocali), della laterale palatale intervocalica ([ˈmojːe] per moglie); il rafforzamento o allungamento dell’occlusiva bilabiale e dell’affricata palatale sonore intervocaliche ([ˈabːile] per abile, [ˈadːʒile] per agile); la deaffricazione dell’affricata palatale sorda intervocalica (come in [ˈbaːʃo] per bacio); e la realizzazione come leni delle occlusive sorde [p, t, k] intervocaliche, come in [ˈkaːb̥o] per capo, [ˈdiːd̥o] per dito, [ˈbuːg ̥o] per buco (➔ indebolimento; ➔ laziali, dialetti).
Ora, pur se i tratti considerati appaiono molto diversi in termini di grado di marcatezza sociolinguistica, dall’analisi condotta risulta che le pronunce degli studenti non di origine romana si avvicinano parecchio a quelle dei coetanei romani, mostrando un grado di assimilazione non indifferente, pur in un contesto di grande variabilità (solo la pronuncia [ʃ] dell’affricata palatale sorda /ʧ/ è generale presso quasi tutti i parlanti intervistati). L’unico comportamento nettamente difforme rispetto a quello dei giovani romani si ritrova in una diciottenne di provenienza udinese a Roma da soli quattro anni, nella cui pronuncia tuttavia cominciano a emergere realizzazioni variabili non solo di [ʃ] per [ʧ], ma anche del raddoppiamento della occlusiva bilabiale e dell’affricata palatale sonore intervocaliche. A conferma dell’importanza del gruppo dei pari come modello di comportamento linguistico già dimostrata, in tutt’altre situazioni, da Labov (1977).
Tali dinamiche si intrecciano con quelle dei risvolti sociali delle immigrazioni. A Torino è stata, per es., osservata (Boario 2008) l’utilizzazione da parte di adolescenti piemontesi, come mezzo espressivo di sottolineatura di identità e stile personale, di un tratto fonologico estraneo alle abitudini di pronuncia locali, il ➔ raddoppiamento sintattico. Tale tratto giovanile socialmente connotato, che deve essersi affermato fra i torinesi nati da genitori di origine meridionale, viene poi adottato anche da adolescenti non nativi, figli di immigrati stranieri, col valore simbolico di creare un’identità assimilabile a quella dei coetanei nativi con cui sono in contatto.
Può essere interessante stimare anche il numero relativo di parlanti delle diverse varietà regionali. Canepari (19832: 46-47) valutava un quarto di secolo or sono, quanto alle caratteristiche di pronuncia, che circa il 45% degli italofoni parlasse un italiano di impronta regionale settentrionale, circa il 33% un italiano di impronta regionale meridionale e circa il 17% un italiano di impronta regionale centrale (compresa quella toscana). Un 3% avrebbe parlato un italiano non caratterizzabile con una specifica etichetta regionale (di cui un 2% costituito da parlanti un italiano composito, con fusione di caratteri appartenenti a diverse varietà regionali e non riconducibili a una provenienza regionale determinata; e un 1% di parlanti italiano standard). Non è facile valutare la situazione demolinguistica attuale, ma sembra ragionevole ritenere che sia sensibilmente aumentata la proporzione di parlanti un italiano composito o senza evidenti marcatezze regionali.
La stratificazione sociale ha indubbiamente molta rilevanza come correlato della variazione linguistica, ma la sua capacità esplicativa è divenuta via via più problematica con il venir meno delle distinzioni fra le tradizionali classi sociali e con il rimescolamento e la ridefinizione che condizioni professionali e modelli e stili di vita hanno subito nelle moderne società postindustriali. Il grado di istruzione risulta, per es., correlare sempre sufficientemente bene con il possesso dell’italiano, ma lo sviluppo delle ricerche ha mostrato come l’impiego di determinate varianti, i modi di realizzazione e le scelte linguistiche attuate sembrano dipendere in misura rilevante anche, se non soprattutto, dalla rete sociale di cui si è partecipanti. Col costrutto di rete (o reticolo) sociale si intende essenzialmente un insieme strutturato di relazioni sociali e comunicative che le persone intessono fra di loro, imperniato su un ego di riferimento. A seconda della natura e della struttura delle reti in cui si è inseriti cambiano le abitudini e gli orientamenti linguistici dei parlanti: una rete molto densa, a maglie fitte (con rapporti del maggior numero di membri della rete l’un con l’altro), e molteplice (con un’alta quantità di relazioni plurime fra i membri) tende a rinforzare le norme interne al gruppo, e quindi a essere linguisticamente conservativa; mentre se è poco densa, a maglie larghe, con relazioni più numerose e meno molteplici, tende a favorire la diffusione delle innovazioni. Le innovazioni linguistiche, e quindi anche la variazione, nascerebbero tipicamente presso parlanti che stanno ai margini di una rete poco densa e poco molteplice.
In tale prospettiva acquista particolare rilievo la situazione linguistica delle città, oggetto di studio della «sociolinguistica urbana» (Franceschini 2001), che ha visto come oggetti di attenzione non solo il plurimorfismo linguistico tipico delle complesse società urbane (si veda ad es. la grande gamma di variazione dell’italiano di Roma sottolineata fra gli altri da D’Achille 2004), ma anche e soprattutto gli stili comunicativi, i valori simbolici connessi ai codici linguistici, la manifestazione dell’identità e degli orientamenti socioculturali dei parlanti attraverso le scelte linguistiche e l’utilizzazione di certe varianti piuttosto che altre (Sornicola 2006).
La variazione diastratica, diafasica e diatopica è strettamente interrelata con questa gamma di fattori sociali. Oltre alla posizione sociale, come si è accennato, hanno rilevanza nel condizionare i comportamenti linguistici e la varietà di lingua usata anche l’età dei parlanti (sulla lingua in età avanzata, cfr. Taddei Gheiler 2005) e il sesso o genere. Quest’ultima variabile, essendo in parte mediata da altri fattori e norme sociali riguardanti la posizione del parlante nella società, risulta tuttavia, soprattutto ai nostri tempi, meno direttamente correlabile con i comportamenti linguistici; donne e uomini paiono differenziarsi linguisticamente molto più per lo stile di interazione che non per tratti specifici di variazione linguistica.
Una problematica sociolinguistica a lungo estranea alla situazione italiana ma venuta ampiamente alla ribalta nell’ultimo ventennio è legata alla consistente immigrazione straniera nel nostro paese, che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del secolo passato e l’inizio del presente. Dagli anni Ottanta l’Italia, da sempre paese di emigrazione, ha cominciato a diventare paese di accoglienza di cospicue ondate immigratorie da vari altri paesi europei ed extraeuropei (Marocco, Albania, Romania, Filippine, Cina, Tunisia, Senegal, Sri Lanka, Polonia, ex-Jugoslavia, India, Perù, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Ghana, Nigeria, ecc.), portatrici di decine di lingue e culture diverse. I grandi centri urbani e i loro quartieri, ma anche città medio-piccole, si sono trasformati in microcosmi plurilingui che danno una nuova e complicata dimensione al panorama sociolinguistico, introducendovi una nuova eterogeneità e problemi di pluralismo linguistico, di comunicazione interetnica, di conflitto, emarginazione e integrazione prima sconosciuti.
Bagna, Barni & Siebetcheu (2004) hanno, per es., censito nella sola provincia di Siena 10.177 residenti stranieri (il 4% dei 254.000 abitanti complessivi della provincia al momento del rilevamento) provenienti da ben 128 diversi paesi, e con varie decine di lingue materne diverse, delle quali alcune (albanese, arabo, bosniaco, hindi, inglese, polacco, romeno, serbo, tagalog, tedesco, wolof) sono rappresentate presso almeno il 2% della popolazione immigrata. Nel primo periodo di soggiorno nel nostro paese, quando non vi sia già una qualche conoscenza dell’italiano (non rara presso immigrati di provenienza mediterranea), lingue seconde in genere di apprendimento scolastico come il francese, l’inglese, lo spagnolo fungono da lingue veicolari. Presto però (anche a causa della poca dimestichezza con lingue straniere della media della popolazione indigena) vengono sviluppate varietà di apprendimento di italiano, che si diffondono in genere bene nelle comunità di immigrati (➔ acquisizione dell’italiano come L2). Con differenze tuttavia fra comunità etnica e comunità etnica, essendo, per es., lo sviluppo di interlingue italiane molto più lento presso gli immigrati cinesi, a motivo anche della struttura molto chiusa ed endocentrica dei gruppi e delle reti sociali emigratorie tipiche della comunità sinofona.
Le lingue immigrate spesso rimangono celate negli usi interni al piccolo gruppo familiare e amicale di coimmigrati, mentre l’italiano è la lingua dominante nei rapporti con non connazionali. Un’indagine su situazioni dell’Italia di Nord-Ovest (Chini 2004) mostra che presso gli adulti immigrati di prima generazione l’uso della lingua materna (L1) si mantiene mediamente in percentuali superiori all’80% in tutti i domini legati all’interazione con connazionali, mentre l’interazione al di fuori della rete di connazionali è dominata dall’italiano (scarse sono le tracce di uso di dialetti). Nella seconda generazione, in maniera differente in dipendenza da diversi fattori sociali e culturali, lo spostamento verso l’italofonia è molto netto. L’uso dell’italiano viene infatti consistentemente introdotto anche in famiglia, dando a volte luogo a un modello di interazione asimmetrico in cui i genitori si rivolgono ai figli nella L1 mentre questi si rivolgono ai genitori in italiano. L’uso misto di italiano e L1 risulta poi il modo comunicativo più frequente tra fratelli (coprendo in questo contesto specifico il 32% degli usi dichiarati, contro il 27-29% dell’uso della sola L1 e il 20% del solo italiano; Chini 2004: 305). I caratteri linguistici dell’italiano di stranieri e i comportamenti linguistici da essi esibiti nella conversazione sono stati molto studiati, anche in relazione alle diverse lingue di provenienza.
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