SOCIOLOGIA DELLE PROFESSIONI
Generalmente per ''professione'' s'intende un'attività lavorativa fortemente qualificata svolta da individui che hanno acquisito una competenza tecnica specifica dopo aver ottenuto un'adeguata formazione. Ciò è possibile in quanto viene riconosciuta alla ''professione'' stessa una chiara utilità sociale. Pertanto la s. delle p. costituisce una parte fondamentale della più ampia sociologia del lavoro. In effetti, la storia sociale e la sociologia hanno analizzato con un certo interesse il fenomeno delle professioni che per anni sono state studiate come occupazioni ''speciali'', vale a dire come occupazioni dotate di peculiari caratteristiche che le distinguono dalle altre attività lavorative.
Tra la fine del secolo 19° e i primi decenni del 20° la riflessione sociologica sul fenomeno delle ''libere'' professioni si fa più intensa a cominciare dalle analisi di E. Durkheim in Francia, Th. Veblen, L.D. Brandeis e A. Flexner negli Stati Uniti, S. e B. Webb e R.H. Tawney in Gran Bretagna. Nell'analisi di questi autori sembrano spiccare due caratteristiche peculiari che vengono a connotare le professioni liberali, e cioè una base di conoscenze scientifiche astratte e l'adesione a un ideale di servizio. La s. delle p. si basa su almeno tre contributi fondamentali, che rispettivamente si rifanno alle opere di E. Durkheim, M. Weber e T. Parsons.
Durkheim ha cercato d'indagare sulle origini di un'autorità legittima in grado di smorzare gli interessi contrastanti e la trama conflittuale di cui soffrono le società industriali per ricreare un tessuto di solidarietà e integrazione tra i suoi membri. Un'ancora di salvezza sarebbe rappresentata in questo senso, secondo Durkheim, dalle associazioni professionali o corporative che fanno sì che ogni professione venga sorretta da una peculiare deontologia che imporrebbe una certa disciplina in chi vi aderisce preservando dall'individualismo tipico delle società industriali e capitalistiche. C'è da notare che l'analisi di Durkheim, da questo punto di vista, si pone in una prospettiva ancora protostorica per quanto riguarda la tipologia differenziata delle organizzazioni che si presentano nelle società contemporanee, evitando in tal modo di entrare nel merito della distinzione tra organizzazioni professionali, organizzazioni associative e organizzazioni burocratiche.
Weber, dal canto suo, ha enfatizzato il ruolo fondamentale delle professioni nelle società moderne occidentali e, analizzando lo specifico processo di professionalizzazione, ha studiato a fondo il passaggio da un ordine sociale tradizionale a un ordine sociale in cui la competenza e la specializzazione rappresentano i parametri sociali all'insegna della razionalità del moderno. Da questo punto di vista la professione è vista come una ''vocazione'' connessa alla libera scelta dell'individuo tra i vari lavori possibili.
Con Parsons si apre, anche nella s. delle p., l'indirizzo funzionalistico che ha ispirato gran parte della letteratura sociologica sul fenomeno delle professioni. Tale analisi s'iscrive all'interno del più ampio quadro concettuale del funzionalismo sociologico; le professioni, in quest'ottica, vengono concepite come attività lavorative che si basano su due peculiari caratteristiche: in primo luogo, esse applicano un corpo sistematico di conoscenze teoriche; in secondo luogo, esse sono concentrate su tematiche intimamente collegate a valori a cui la comunità dà forte importanza. Chiaramente l'alto grado di competenza tecnico-scientifica necessario per l'esercizio delle professioni crea determinati problemi di controllo sociale: quest'ultimo può essere assicurato soltanto dall'orientamento deontologico verso la comunità, che dovrebbe sempre sottostare alle professioni attraverso un pedissequo controllo esercitato dalla comunità dei professionisti soprattutto a partire dalle norme del codice etico specifico della professione. Per esemplificare tali tesi Parsons porta l'esempio della professione medica che è orientata in vista della lotta contro i disturbi dell'individuo, cioè contro la malattia o contro l'infermità. Infatti, secondo lo schema funzionalistico, la salute fa parte dei bisogni funzionali di ogni singolo attore sociale, per cui, dal punto di vista del sistema sociale complessivo, un livello generale di salute troppo basso sarebbe non funzionale e quindi nocivo. Proprio in quanto la malattia non permette di svolgere perfettamente i ruoli sociali, la professione medica è organizzata sulla base dell'applicazione della conoscenza scientifica alle problematiche della patologia e della salute, che è a dire al controllo della malattia. Altri autori, che seguono in linea di massima il pensiero di Parsons, sono per es. B. Barber e W.J. Goode, i quali definiscono il processo di professionalizzazione come il mutamento più importante occorso nel sistema occupazionale della società moderna.
Il modello funzionalista ha ricevuto una serie di critiche; da un lato, infatti, è stato rilevato, per es. da H.L. Wilensky, come non sempre i contesti organizzativi delle professioni riescano a garantire la loro autonomia e il loro ideale di servizio; il problema quindi, in questo caso, è quello di combinare sia elementi del modello professionale, sia elementi del modello burocratico; dall'altro lato, autori come per es. C.W. Mills ritengono, invece, che ormai, per la maggior parte, i professionisti non sono più ''liberi'' ma dipendenti e stipendiati, soggetti quindi a un processo di standardizzazione che fa cadere il connotato peculiare della libertà e, sottoposti come sono agli assalti provenienti dal basso, sono costretti, per sopravvivere, a divenire managers. Ciò significa che il rapporto personale con il cliente viene a cadere e si sostituisce a esso l'impersonalità; parimenti l'ideologia altruistica del servizio non è che un velo per coprire i propri affari. È ciò che accade per es. in un preciso gruppo professionale come quello degli avvocati, che, soprattutto negli USA, ormai agiscono e lavorano in prevalenza, per non dire esclusivamente, nei grandi studi organizzati.
Per quanto riguarda le ricerche nel campo della s. delle p., esse non sono ancora numerosissime, anche se in Italia l'argomento è stato trattato con riguardo specie ai medici, agli avvocati, ai magistrati e agli insegnanti. Uno dei primi studi empirici sul fenomeno delle professioni è stato condotto da due economisti, M. Friedman e S. Kuznets, nel 1945. In esso si cerca di spiegare il forte scarto che c'è tra il reddito dei professionisti e quello degli altri lavoratori. Essi dimostrano che, a parità di età e di zona geografica, tenendo anche conto dell'investimento di capitale contenuto nel tipo di formazione specializzata, i redditi dei primi sono parecchio più alti di quelli dei secondi. Ovviamente anche la stratificazione sociale ed economica gioca un ruolo importante, in quanto non tutti i giovani che pur sarebbero orientati alla libera professione, possono, per motivi economici, disporre di fondi sufficienti per pagarsi le spese della formazione. Ciò significa, quindi, che un elemento fondamentale per l'analisi sociologica delle professioni è quello del potere che deriva da una sorta di mitizzazione delle professioni, i cui ordini professionali e i relativi albi vengono a costituire una sorta di casta, a tutto scapito di quel principio di universalità razionale che pure tradizionalmente è stato sempre declinato come presupposto di base caratterizzante le professioni.
Come si può notare, il processo di professionalizzazione è andato sempre più in parallelo con quello di burocratizzazione, con la conseguenza che, attraverso l'immissione di nuove professionalità nelle organizzazioni, il professionista si è trovato spesso subordinato a figure professionali meno competenti di lui. Tale presupposto ha dato luogo a una serie di ricerche, condotte su piccoli e grandi gruppi di scienziati e di tecnici di vario tipo, che ne hanno misurato il diverso grado di attaccamento ai valori scientifici. Ciò fa capire come il sistema delle ''abilitazioni'' rappresenti un formidabile strumento di controllo sociale e come la struttura di classe sia una variabile importante ai fini dell'analisi sociologica delle professioni. Da ciò deriva anche l'interesse per la questione del potere nelle professioni (v. sull'argomento gli studi di G. Gyarmati e T.J. Johnson) che in genere si sovrappone e smaschera l'ideologia della pura razionalità. W. Kornhauser (1962) ha posto l'accento sui caratteri corporativistici delle professioni, e J.M. Saussois ha messo in evidenza la discrasia che quasi sempre c'è tra interessi manageriali della razionalità economica dell'impresa e fini professionali basati sulla razionalità scientifica. In termini di analisi della struttura di classe, D. Bell, invece, si fa portavoce della tesi secondo la quale le professioni, per la loro struttura articolata e il loro effetto moltiplicatore, diventano il cardine di un nuovo tipo di società, aderendo così al filone delle teorie tecnocratiche contro le quali si sono espressi, spesso, in un'ottica marxista, autori come J. Habermas, H. Marcuse e A. Giddens.
In Italia lo sviluppo, peraltro assai differenziato, delle singole professioni è stato caratterizzato da alcune fasi comuni secondo una scansione cronologica e logica così riassumibile: a) esistenza di una formazione di base di specifiche conoscenze; b) genesi di associazioni professionali a livello nazionale e a livello locale; c) nascita di scuole specialistiche e riconoscimento di forme di protezione pubblico-statale. C'è comunque un collante ideologico nei vari tipi di professione così come si sono istituzionalizzati in Italia dall'unità in poi, a cominciare da quella degli avvocati e dei procuratori legali (1874) e da quella dei notai (1875). Tale ideologia professionale si concretizza attraverso il riferimento al rapporto tra libere professioni e stato, che coinvolge ovviamente, attraverso il pubblico riconoscimento, tutto il processo di istituzionalizzazione. Il fenomeno delle libere professioni in Italia può quindi storicamente essere interpretato come una strutturazione neocorporativistica, nella quale vige in ogni caso, assieme allo spirito di corpo, al riconoscimento pubblico con la relativa istituzione dell'albo e dell'ordine professionale, un codice etico fondamentale per lo stesso ''spirito di casta''. Infatti, in ogni magna charta professionale non può essere assente un corpus formalizzato di regole di autodisciplina, come punto di riferimento necessario nel processo di istituzionalizzazione delle professioni. Tali regole variano ovviamente da professione a professione, ma si possono senz'altro mettere in luce alcuni punti in comune, e precisamente: tutte tendono a compendiare e a esaltare la particolare e precipua specificità di ogni professione; tutte tendono a costruire un ''idealtipo'' in senso socioantropologico di professionista, con varie sfumature ideologiche che tendono, a loro volta, a sovrarappresentare spesso in maniera esplicita la singola professione; tutte tendono, per così dire, a ''dogmatizzare'' processi e dinamiche delle singole professioni attraverso una mediazione normativa tesa alla riduzione di possibili tensioni ed eventuali momenti conflittuali (una sorta di tendenza alla pace interna del corpo); d) il tutto viene infine a rispondere a un'esigenza di legittimazione morale interna ed esterna delle singole professioni.
Dal punto di vista sociologico, quelle che un tempo venivano chiamate ''libere'' professioni (oggi in genere professioni tout court) ostentano alcune variabili ben precise: la presenza di una struttura associativa che miri a tutelare l'interesse dei singoli specifici professionisti; l'oggetto della professione, come area di competenze tecnico-scientifiche ed esclusive della singola professione; il necessario processo formativo e il relativo investimento di tempo e denaro; gli aspetti ideologico-deontologici della professione (che possono andare dal rispetto della persona alla riservatezza delle informazioni, secondo un'istanza che aiuti la comunità interna alla professione a ''crescere'' e ''maturare'' dal punto di vista professionale; il riconoscimento pubblico della professione da parte della comunità attraverso l'istituzione di apposito ordine e albo professionale e le motivazioni che hanno giustificato il riconoscimento giuridico della professione; il tutto allo scopo anche di tutelare l'utenza dai possibili abusi della professione da parte di chi in realtà non è professionista. Tali elementi, che vengono anche a chiarire gli scopi e gli aspetti teleologici delle strutture professionali, possono quindi, in conclusione, far riconoscere nella professione un'attività lavorativa altamente qualificata e di utilità sociale svolta da individui che hanno acquisito una competenza specializzata dopo una lunga e (spesso) costosa formazione ad hoc. Pertanto, sul piano sociologico, la professione non può non dare un certo ''prestigio'' e un certo reddito a chi la esercita all'interno del sistema della stratificazione delle classi sociali. C'è da aggiungere che, se un tempo per professione s'intendeva generalmente la libera professione vista come lavoro autonomo (avvocati, medici, notai, architetti, commercialisti, ecc.), oggi si può intendere anche quella svolta a titolo di lavoro dipendente (come nel caso della dirigenza pubblica e privata).
In ogni caso nella s. delle p., almeno intesa in senso classico, ha prevalso soprattutto l'accezione più stretta, pur se non sono mancati specifici riferimenti e specifiche ricerche anche sul fenomeno degli impiegati, degli operai specializzati ad alto livello e in genere dei tecnici. Come si è visto, al centro dell'attenzione, comunque, sono in generale le professioni tradizionali. È chiaro, infine, che non si può disgiungere il fenomeno delle professioni, considerandole come torri d'avorio e corpi separati, dal fenomeno più ampio della divisione del lavoro, così come si è sviluppata nelle società industriali, e senza tener conto dei corrispettivi fenomeni di socializzazione e integrazione sociale connessi al reclutamento e alla formazione specifica ai quali il fenomeno dell'associazionismo contribuisce con un collante ideologico fondamentale. Lo status e i ruoli professionali non possono del resto, per la loro specificità, essere disgiunti dagli aspetti di ''potere'' derivato dal tipo di particolare ''prestigio'' che nella rappresentazione sociale si dà delle varie categorie di professionisti riconosciuti come tali.
Bibl.: S. e B. Webb, Industrial democracy, Londra 1902; L.D. Brandeis, Business: a profession, Boston 1914; R.H. Tawney, The acquisitive society, Londra 1920 (trad. it. in Opere, Torino 1975, passim); T. Veblen, The engineers and the price system, New York 1921 (trad. it. in Opere, Torino 1969, pp. 909-1010); M. Friedman, S. Kuznets, Incomes in the professions, in AA.VV., Income from independent professional practice, ivi 1945, pp. 81-94; W. Kornhauser, Scientists in industry, Berkeley-Los Angeles 1962; B. Barber, Some problems in the sociology of professions, in Daedalus, 92 (1963), pp. 669-88; H.L. Wilensky, The professionalization of everyone right?, in American Journal of Sociology, 70 (1964), pp. 137-58; C. Wright Mills, Colletti bianchi, Torino 1966; D. Bell, The end of ideology, Glencoe 1968 (trad. it., Milano 1991); T. Parsons, Professions, in International Encyclopedia of Social Sciences, vol. 12, New York 1968, pp. 536-47; W.E. Moore, The professions. Roles and rules, ivi 1970; T.J. Johnson, Professions and power, Londra 1972; M.R. Haug, Deprofessionalization: an alternate hypothesis for the future, in Professionalization and social change, a cura di P. Halmos, in The Sociological Review monograph, 20 (1973), pp. 195-211; D. Bell, The coming of post-industrial society, New York 1973, pp. 12-33; L. Gallino, Professioni, Sociologia delle, in Dizionario di Sociologia, Torino 1978; B.J. Herava, Sociology in the professions, Londra 1979; Sociologia delle professioni, a cura di W. Tousijn, Bologna 1979; G.P. Prandstraller, Sociologia delle professioni, Milano 1980; The sociology of the professions, a cura di R. Dingwall e P. Lewis, New York 1983; J.M. Saussois, Organiser le changement dans les entreprises et les organisations publiques, Parigi 1983; G. Gyarmati, Las profesiones. Dilemas del conocimiento y del poder, Santiago 1984; Nuove imprese e nuove professioni nell'organizzazione della cultura, a cura di E. Minardi, Milano 1994.