SOCIOLOGIA (XXXI, p. 1019; App. III, 11, p. 761)
La diffusione della sociologia alla fine della seconda guerra mondiale. - La s., per lo più ridotta a tecnica specialistica negli S.U. e in generale priva di autonomia nelle università europee in quanto insegnata come materia ausiliaria soprattutto nelle facoltà di filosofia e di giurisprudenza con qualche rara apparizione, sub specie criminologica, in quelle di medicina, al termine del conflitto esercita una forte attrazione sui giovani in cerca di novità come sugli ambienti più ligi alla tradizione. Le ragioni di ciò toccano piani diversi e anche contrapposti. La tendenza a considerare il successo di una disciplina scientifica o di una corrente ideale in termini di pura logica delle idee, quasi che per la pura e semplice forza interna del ragionamento sia possibile a uno specifico sistema di pensiero partire da un singolo ricercatore o da un gruppo ristretto di pensatori per giungere infine a porsi come cultura dominante, è una tendenza inficiata d'intellettualismo nel senso che vede lo sviluppo, il successo e il declino delle idee come un processo determinato e spiegabile solo ed esclusivamente sul piano delle idee stesse. I rapporti fra cultura, situazione storica e domande della società indicano in realtà un insieme di condizionamenti di vincoli e di pesi assai complesso che chiama simultaneamente in causa gli orientamenti di valore, la struttura istituzionale e il livello scientifico-critico raggiunto in una determinata epoca storica.
Con riguardo allo sviluppo della s. nel corso degli ultimi trent'anni (1945-75), ai ritmi e alle forme peculiari che esso ha assunto, distinguiamo due ordini fondamentali di ragioni esplicative: ragioni intrinseche; ragioni estrinseche, legate al contesto storico e politico. Le ragioni intrinseche riguardano in primo luogo l'evoluzione stessa del concetto di scienza. Fin dalle origini la s., nel momento in cui veniva proposta da A. Comte come scientia scientiarum, soffriva in realtà di un acuto complesso d'inferiorità di fronte alle scienze della natura o scienze esatte come impropriamente si era soliti dire. Le scienze della natura apparivano come scienze a titolo pieno mentre le scienze sociali venivano considerate come scienze sui generis, o scienze per grossolana approssimazione. Fra le scienze della natura e le scienze sociali, o della cultura, si profilava uno iato che con la tradizione storicistica romantica doveva porsi come una frattura qualitativa, se non un abisso. Si pensava alle scienze naturali come a imprese conoscitive fondate sull'esattezza rigorosa delle procedure e delle misurazioni quantitative, rese possibili dalla peculiarità dell'oggetto che si supponeva infinitamente malleabile, sperimentabile e docile, tanto che il conoscere veniva equiparato al misurare. Le scienze storiche, o sociali o della cultura, chiamate anche nella cultura tedesca "Scienze dello Spirito" (Geisteswissenschaften), erano invece considerate come esposte necessariamente allo scacco, in radice problematiche, incapaci di misurazioni rigorose, legate al carattere sfuggente del soggetto umano e all'ambiguità delle sue motivazioni. Più che determinare le condizioni di emergenza dei fenomeni o la matrice causale dei fatti, si riteneva che le scienze umane potessero al più giungere a una certezza soggettiva del ricercatore attraverso un processo interiore di Erlebnis, vale a dire mediante il rivivere le situazioni umane analizzate. Si notava inoltre che, mentre le scienze naturali potevano essere veramente libere da valori etici o socio-politici, questo non era il caso per le scienze sociali. L'oggettivitä scientifica in senso proprio si supponeva a queste ultime preclusa.
È appena necessario osservare che l'evoluzione del concetto di scienza nel suo complesso, sia come scienza della natura che della cultura, ha fatto giustizia di questi assunti, rivelandone la natura di pregiudizi dogmatici. La scienza non è più considerata come un sapere assoluto, o divino, quasi una sorta di surrogato dell'antica fede rivelata. La scienza emerge dalla crisi epistemologica e politica dei primi anni del Novecento come un'impresa umana essenzialmente problematica. Non è più l'inventrice e la dispensatrice, come nel Sei e nel Settecento, di leggi universali, necessarie e necessitanti. Dopo Einstein e Heisenberg, la stessa scienza della natura si pone come un'impresa conoscitiva problematica. Da ultimo, con la presa di coscienza ecologica, legata alla necessità di comprendere e preservare l'equilibrio fondamentale fra uomo e ambiente e fra popolazione e risorse, le scienze esatte sono state investite da un'ondata critica che ha scosso l'ingenua fiducia nella possibilità di conoscenze totalmente libere da valori etici e socio-politici. La scienza appare sempre più legata al processo sociale; ne condivide la responsabilità quanto agli orientamenti politici di fondo; riflette l'insieme degl'interessi sociali e politici; ha una valenza economica che è impossibile trascurare. Non può più pretendere di elaborare leggi di portata universale; deve contentarsi di uniformità tendenziali, ossia di generalizzazioni probabilistiche.
Quella che un tempo appariva come una ragione d'inferiorità per la s. emerge oggi come la ragione fondamentale del suo primato. Il concetto critico di scienza riscopre la s. come scienza in tensione, ossia come scienza del sociale e della sua crisi. Nel mondo postbellico, ancora scosso dagli effetti tragici del conflitto, la s. si configura come la scienza della solidarietà perduta e come lo strumento per ricostruirla. Una certa vocazione sociologica insieme con un genuino impegno sociale viene scoprendosi anche nei pensatori e negli scrittori più schivi e aristocraticamente appartati.
Nessun dubbio, con riguardo al peso crescente della s., può ragionevolmente alimentarsi rispetto alla presenza degli Stati Uniti, ormai in posizione egemonica su scala mondiale. Già durante il conflitto la ricerca sociologica era stata utilmente impiegata, soprattutto nello studio del morale delle truppe e delle culture altre, con cui le forze alleate venivano in contatto. Basterebbe in proposito citare la monumentale ricerca diretta da S. Stouffer sul soldato americano. Al termine delle operazioni belliche, non è senza significato che la prima opera sociologica, una vasta ricognizione descrittiva e storicoconcettuale tendente a legare l'Europa e gli Stati Uniti, sia stata curata, auspice l'UNESCO, da W. Moore e da G. Gurvitch.
Secondo un'ottica deweyana, la ricerca sociologica si delinea nel 1945 e negli anni che seguono come lo strumento, scientifico e democratico nello stesso tempo, mediante il quale le società distrutte o scosse dalla guerra possono procedere all'inventario di sé stesse e iniziare la ricostruzione non tanto in base ad astratti schemi ideologici o dottrinari, che sembrano servire più a fuggire dalla realtà sociale che a conoscerla empiricamente, quanto invece sulla scorta dell'analisi sociologica la quale si presenta come tecnica di accertamento, ma nello stesso tempo come coscienza collettiva degli scopi da raggiungere e del tipo di società da realizzare. In questo senso la s., oltre che valore strumentale, veniva a porsi come una delle fonti della nuova legittimità democratica. In paesi come l'Italia e la Germania, la s. si affermava come un succedaneo dell'ideologia. Nello stesso tempo, veniva riconosciuta come il fondamentale strumento di auto-ascolto e di auto-direzione razionale per delle società che avevano ormai deciso di modernizzarsi mediante l'industrializzazione su vasta scala.
È tuttavia sul piano dell'epistemologia che la s. ottiene il riconoscimento più importante. L'evoluzione del concetto tradizionale di scienza ha come corollario il passaggio dalla definizione dogmatica alla definizione operativa. Le scienze non sono più definite in base all'oggetto specifico, concepito come proprietà esclusiva, bensì in base all'ottica operativa e al modo concreto di procedere nelle operazioni di ricerca. In questa prospettiva, la s. emerge come una tipica scienza di raccordo. Quella che poteva apparire come una sua debolezza, la sua genericità, appare ora come una caratteristica eminentemente positiva in quanto consente e rende operativamente possibile l'impostazione inter-disciplinare della ricerca. Lo stesso oggetto dell'analisi scientifica viene, simultaneamente e coordinatamente, investito secondo una molteplicità di approcci metodologici tipici di differenti discipline, le quali potranno così arricchire, ma anche controllare, i risultati delle loro indagini specialistiche e necessariamente settoriali.
Ma altrettanto importanti, con riguardo al successo della s., sono le ragioni di ordine estrinseco. In particolare, va nuovamente sottolineata l'influenza giocata in proposito dagli Stati Uniti. Specialmente con lo struttural-funzionalismo, nelle versioni elaborate a livello pieno e a media portata da T. Parsons e da R. K. Merton, la s. è tornata a contare anche presso culture, come quella tedesca e italiana, in cui era scomparsa sia dal mondo accademico che come forza intellettuale in generale. Del resto, anche in Francia, dove la grande couvade di E. Durkheim aveva sempre fatto sentire la sua presenza, l'influenza nordamericana si è rivelata tutt'altro che trascurabile. Basti pensare ad autori come A. Touraine, M. Crozier, E. Morin.
È certamente straordinario che in questi paesi la s. sia tornata senza preliminarmente collegarsi con la tradizione sociologica indigena, per così dire, ma importando, qualche volta all'ingrosso e non sempre criticamente, concetti e tecniche specifiche d'indagine dagli Stati Uniti. In questo senso, si potrebbe affacciare l'ipotesi che la s., specialmente dal punto di vista delle tecniche di ricerca, sia stata uno strumento di pressione e d'influenza culturale non indifferente da parte degli Stati Uniti nei confronti dell'Europa. Ma non va trascurata l'ipotesi che, per le società tendenti a modernizzarsi e quindi a porsi come società post-tradizionali, caduta la tradizione come fonte e criterio di legittimazione, sia proprio la s., con i suoi strumenti concettuali e le sue tecniche euristiche, a fornire quelle conoscenze empiriche sui processi sociali, sufficientemente dettagliate e tempestive, di cui una società funzionale, come quella industriale, ha bisogno. Non è infatti per caso che la s. si sviluppa oggi su scala mondiale in concomitanza con l'affermarsi del processo d'industrializzazione come processo sociale globale e modo tipico di progresso e di modernità per i paesi emergenti. Le società tradizionali, pastorali o agricole in senso più o meno arcaico, non hanno bisogno della s. perché sono essenzialmente statiche e non presumono di esprimere dal loro interno i valori legittimanti su cui si fondono e che ritrovano invece nell'autorità della tradizione. Le società industriali, anche solo mediamente sviluppate, sono invece essenzialmente dinamiche e non possono garantirsi i mezzi di sopravvivenza e perpetuazione se non continuando indefinitamente a svilupparsi. Ciò comporta una programmazione razionale del ciclo economico, la costituzione di una struttura burocratica impersonale e, al limite, la razionalizzazione di tutta la vita sociale. Per ciascuno di questi compiti la s. giuoca un ruolo essenziale. Essa garantisce, in particolare, il raccordo fra i diversi settori della società burocratizzata e le previsioni a medio termine che aiutano a superare le strozzature eventualmente determinate dalle opzioni degl'individui e di gruppi ristretti.
Dall'affermazione alla crisi. - In questo quadro concettuale e politico non stupisce che lo struttural-funzionalismo divenga presto la volgata del pensiero sociologico e nello stesso tempo la corrente dominante anche dal punto di vista politico non solo negli Stati Uniti ma più ancora in Europa e nella stessa Unione Sovietica. Solo l'America latina, da decenni costretta a una posizione di dura subordinazione rispetto al Nordamerica, cerca di esprimere posizioni teoriche originali, facendo perno sulle teorie sociologiche e politologiche del capitalismo dipendente e del dualismo centro-periferia. Le ragioni del trionfo della s. nei termini dello struttural-funzionalismo sono state già accennate più sopra. Qui però dobbiamo approfondire le ragioni teoriche del suo prevalere. Gli anni della ricostruzione post-bellica sono caratterizzati, comprensibilmente, dall'esigenza di stabilità sociale e insieme di riordinamento politico. Lo struttural-funzionalismo si presta mirabilmente a fornire sia lo schema concettuale sia le tecniche metodologiche che possono soddisfare, entro certi limiti, questa esigenza.
Il concetto fondamentale è infatti quello di struttura, definita come l'insieme di elementi o parti variando una delle quali tutte le altre vengono sottoposte ad alterazione. Ciascuna di esse si presenta pertanto come indispensabile e nello stesso tempo come tendente alla situazione primitiva. Rispetto a Spencer, così sensibile alla biologia e invece così sordo ai problemi dello sviluppo storico, si è fatto un passo innanzi. La struttura non viene più confusa, nella sua accezione di struttura sociale, con la struttura in senso biologico né si riduce la sua dinamica al risultato di pulsioni biologiche elementari, ma piuttosto a delle variabili di natura culturale, o storica o morale, le quali, globalmente considerate, costituiscono il sistema sociale.
Questo si pone dunque come uno schema onni-comprensivo, sotto cui si ordinano sotto-sistemi che corrispondono alle unità fondamentali di ogni convivenza umana mentre ne definiscono le istituzioni portanti e sottraggono l'apparato teorico-concettuale, cui tocca descrivere e spiegare la società, sia alla classica fallacia del fattore predominante in senso evoluzionistico-biologico sia alle unilateralità e alle impazienze delle costruzioni storicistiche e dialettiche. Lo struttural-funzionalismo, nella versione estrema parsonsiana e ìn quella moderata di R. K. Merton, non tende a reificare la realtà sociale, secondo i canoni meno provveduti del positivismo storico, ma si limita a fornire una specie di "griglia" per chiarire le interrelazioni fra struttura, cultura e personalità, assumendo nella spiegazione sociologica il sistema della personalità individuale, o la psicologia, e il comportamento razionale dotato di senso, o l'economia, insieme con tutte le motivazioni, o valori, che sottendono le linee di condotta intelligibili, ossia suscettibili di descrizione, interpretazione ed eventualmente di spiegazione scientifica.
Il carattere sistematico della costruzione struttural-funzionalistica veniva incontro a un bisogno, teorico e politico, profondo. Dopo miriadi di ricerche grandi e piccole, ma tutte sostanzialmente frammentarie, qui si offriva nuovamente, dopo l'età classica dei grandi pensatori solitari, la possibilità di riannodare le sparse briciole di realtà sociale accertata in un quadro che sembrava assicurare alle ricerche sul campo quell'unitarietà flessibile d'indirizzo di cui si avvertiva, fin dal Knowledge for What? di R. S. Lynd (New York 1939), un acuto bisogno.
Restava però scoperto il problema del mutamento sociale. Il sistema di Parsons si presentava con la stessa completezza del marxismo. Non offriva però alcuna chiave interpretativa dei rapidi cambiamenti sociali. Nella misura in cui proiettava sul piano teorico l'esistenza storica degli Stati Uniti e ne idealizzava l'immagine, come "attivismo strumentale", fino a farla coincidere con quella della società industriale in quanto tale, tanto che gli Stati Uniti divenivano in questa prospettiva il termine normativo e di confronto per ogni società in via di sviluppo, il sistema parsonsiano era nello stesso tempo la risposta nordamericana al marxismo e la giustificazione dello statu quo. Ma quando la situazione esistente negli stessi Stati Uniti appariva, verso la fine degli anni Sessanta, gravemente contraddittoria e strutturalmente instabile, il sistema parsonsiano, che aveva potuto essere visto come non privo di aperture e certamente meno dogmatico del marxismo, non tardava a rivelare il suo limite costitutivo: l'impossibilità di spiegare in termini non puramente personali o volontaristici, cioè in termini sistemici, il cambiamento strutturale. Circostanze politiche esterne, come la guerra nel Vietnam e i movimenti di protesta della gioventù, dovevano accelerare e rendere maggiormente visibile questo limite. Esso dipendeva però non da quelle circostanze; era una caratteristica interna del sistema struttural-funzionalistico. In Parsons il limite era più visibile che in altri per il fatto che Parsons aveva portato i presupposti dello struttural-funzionalismo alle loro estreme conseguenze logiche.
I movimenti di contestazione e di dissenso avevano un effetto demistificante sulla nozione di sistema sociale con riguardo a problemi fondamentali. Per esempio, mostravano chiaramente l'inadeguatezza del concetto parsonsiano di potere. Nella prospettiva parsonsiana il potere non è a somma-zero per la semplice ragione che la realtà sociale è fondamentalmente unitaria, tende a coerire, e il potere dunque non è altro che la "generalizzata capacità di mobilitare le risorse della comunità" nel suo interesse, cioè nell'interesse di tutti. Il potere è come il denaro nei processi economici o, meglio ancora, è come il sangue nel sistema circolatorio di un organismo animale. Queste metafore sono già di per sé rivelatrici. Il potere non sorge né viene percepito come problema. La condizione umana è quella che è. È difficile a questo proposito non concordare con A. W. Gouldner quando scrive che "Parsons ha generalizzato l'alienazione, trasformandola da una condizione storica nel fato universale degli uomini. In questo sta la sua risposta più generale a Marx. Per Parsons l'uomo non è alienato solo sotto il capitalismo, ma lo è in qualsiasi società; e questa sua alienazione è la condizione che gli permette di essere umano e libero" (A. W. Gouldner, La crisi della sociologia, p. 291; corsivo nel testo).
È però importante notare come il sistema sociale di Parsons, in quanto esplora e determina i nessi fra i differenti piani e le diversificate funzioni della vita di una società complessa, si adatta a chiarire, in una situazione storica e sociale relativamente statica, i rapporti fra il sistema generale, o centrale, e i sotto-sistemi che ne costituiscono, per così dire, l'ossatura periferica. Quella che si può elaborare in base agli schemi concettuali parsonsiani è una genuina sociologia dell'ordine o amministrativa, che tende a fare dello statu quo, quale che sia, un nec plus ultra invalicabile, come se l'evoluzione umana avesse toccato il suo culmine. In questo senso, R. Dahrendorf ha potuto parlarne come di un'utopia nel senso che un sistema sociale che pretenda di aver previsto ogni comportamento umano possibile e di averlo, in qualche modo, scontato nella triplice "griglia" della struttura, cultura e personalità, ammonta di fatto a un blocco dello sviluppo storico e a una perfezione, quanto meno formale, che congela e, anzi, rende improponibile o, come scriverebbe Parsons, "disarmonioso" (disruptive) qualsiasi cambiamento. Mentre è stata proposta, forse artificiosamente data l'eterogeneità radicale dei due mondi di pensiero, la sintesi fra il sistema statico di Parsons e il sistema dinamico di Marx, è forse suggestivo rilevare come il parsonsismo, nelle vesti di una s. amministrativa e ausiliaria rispetto alle decisioni politiche, abbia trovato accoglienza favorevole nell'Unione Sovietica.
Tentativi di soluzione della crisi: interazionismo simbolico, sociologia dell'azione, costruzione mentale della società, etnometodologia. - La crisi dello struttural-funzionalismo, esplosa con la crisi oggettiva della società americana, ferma davanti a contraddizioni laceranti, ma non mediabili sul piano puramente culturale (per es., la guerra nel Vietnam), e di riflesso con le ripercussioni sui paesi appartenenti alla sfera egemonica statunitense, ha indotto in una prima fase a battere la strada degli approcci socio-psicologici allo scopo di aggirare le difficoltà di ordine strutturale. Nella tradizione sociologica degli Stati Uniti non mancavano certo i precedenti, anche illustri, a cominciare dalle teorizzazioni di G. H. Cooley intorno al "gruppo primario" e alla nozione di società come "insieme fluido di gruppi non strutturati stabilmente" e come complesso di ruoli e "rete di relazioni inter-personali" (cfr. G. H. Cooley, Social organisation, New York 1909). Si poteva inoltre contare sugl'importanti contributi di G. H. Mead, le cui nozioni di "ruolo", "aspettative di ruolo" e di "altro generalizzato" fornivano i concetti mediatori fondamentali per colmare il salto fra il livello psicologico individuale e il livello macro-sociologico strutturale. Il problema del cambiamento veniva così avviato a soluzione attraverso la concezione di un orientamento delle relazioni interindividuali invece che mediante lo scontro dialettico fra situazioni strutturali dotate di quella durezza, che secondo E. Durkheim era l'attributo fondante dei fatti sociali. Lo stesso lavoro di C. W. Mills, in collaborazione con H. Gerth, sui rapporti fra carattere e struttura sociale risentiva di questo orientamento fondamentalmente psicologistico.
Il teniativo più maturo di dar conto del cambiamento sociale in termini relazionali, ossia in base ai rapporti inter-personali e ai significati di cui sono espressione e veicolo, in un'ottica non dimentica dell'insegnamento dei classici, da G. Simmel a L. von Wiese, è però da attribuirsi a H. Blumer e alla sua teoria dell'"interazionismo simbolico". Nel pensiero di Blumer la società reale è quella che si configura non tanto e non solo nelle strutture istituzionali formalmente codificate, bensì nei processi sociali, vale a dire nel movimento costante, essenzialmente fluido, che sta dietro, che preme e talvolta, storicamente, erompe fuori dal quadro istituzionale dell'ufficialità e lo modifica attraverso quelle rotture istituzionali che sono le rivoluzioni. In realtà, sia detto di passata, vige sempre la continuità giuridica e più ancora quella del costume o dei valori latenti, tanto che accade che le rivoluzioni non siano altro che l'estensione quantitativa delle caratteristiche del vecchio ordine politico e sociale.
La società "reale" di Blumer è composta da interazioni fra individui orientate dalle immagini, o simboli, che ne motivano, consciamente o inconsciamente, il comportamento osservabile. Questo comportamento, l'analisi di esso, la spiegazione e la valutazione delle sue forme peculiari costituiscono, secondo Blumer, l'oggetto specifico della s., una disciplina in cui confluiscono a suo giudizio psicologia, storia, diritto ed economia. In generale, l'enfasi sulle dimensioni socio-psicologiche ha come risultato, negli Stati Uniti come in Europa, ma anche in altre parti del mondo, l'affievolirsi dell'interesse per i problemi strutturali della società e del suo mutamento. In Blumer, invece, le cose stanno diversamente. Il suo tentativo di ricercare e stabilire la polpa sociologica effettiva del processo sociale dietro la facciata delle codificazioni formali ha come effetto di richiamare fortemente la vocazione umanistica dell'analisi sociologica contro ogni tentazione di conformistico allineamento alle esigenze di una società burocratizzata e tendenzialmente totalitaria.
È interessante notare come Blumer si ricolleghi così, per misteriose vie sotterranee, alla critica della società "totalmente amministrata" elaborata a Francoforte da M. Horkheimer. In questo senso Blumer è l'erede dei pionieri della s. negli Stati Uniti (W. Graham Sumner, A. Small, e altri), la cui preoccupazione per l'individuo non è da intendersi come frutto della conservatrice tendenza a psicologizzare i problemi oggettivi, bensì riflette il fondo libertario dell'individuo autonomo e padrone di sé stesso, un'esigenza egualitaria non del tutto disgiunta dalla grande utopia anarchica cui non è estranea la nascita storica degli Stati Uniti.
Una differente valenza politica, conseguenza diretta di una differente struttura teoretica, hanno i contributi di altri relazionisti sia negli Stati Uniti che in Europa e presso altre culture. In E. Goffman, per es., la preoccupazione di rilevare lo stigma d'inferiorità o semplicemente di diversità che s'imprime su certi individui è così profonda e strutturalmente così poco garantita da consolidare il nudo dominio che intenderebbe invece denunciare. In altri sociologi, debitori certamente verso A. Schütz e forse anche G. Garde, la diluizione in termini psicologizzanti della prospettiva sociologica sembra quasi completa. Ma essa è addirittura teorizzata, con dovizia di esempi e in base a un attacco radicale contro tutte le categorie teoriche e i metodi dei classici, dagli etnometodologi. Questi fondano le loro fortune sulla crisi dello struttural-funzionalismo e nello stesso tempo approfittano dei limiti indubbi della quantificazione e della ricerca sociale applicata così com'è stata teorizzata e promossa su scala industriale da P. F. Lazarsfeld.
La convergenza fra l'analisi rigorosamente quantitativa di P. F. Lazarsfeld e il lavoro teorico degli etnometodologi va sottolineata poiché non è visibile a prima vista. Essa ha luogo infatti nel processo riduzionistico in base al quale Lazarsfeld riduce il comportamento umano a una sequenza di items atomistici, perfettamente intercambiabili allo scopo di poterli manipolare quantitativamente, mentre gli etnometodologi vedono nei fatti sociali e nelle azioni umane puri e semplici patterns of communication, vale a dire quadri o modelli di comunicazione. In ambedue i casi la psicologizzazione del sociale è evidente. Qui s'incontrano anche altre correnti sociologiche non prive d'interesse, come la sociologie de l'action di A. Touraine e la costruzione mentale della realtà sociale di P. L. Berger e T. Luckmann. Cio che le accomuna è la tendenza, sia sul piano teoretico che su quello delle tecniche specifiche di ricerca, a privilegiare la dimensione psicologica, o motivazionale, del fatto sociale, a vedere in esso la proiezione di fantasmi mentali o di aspirazioni individuali o ancora di pulsioni psichiche piuttosto che una struttura oggettiva dotata d'una sua logica di sviluppo che non può essere alterata, e ancor meno abolita, dal puro e semplice desiderio dei singoli attori sociali. Sarebbe difficile negare a questa impostazione psicologizzante acutezza analitica o ingegnosità metodologica. Non mancano neppure i contributi sostanziali di una certa originalità, specialmente con riferimento alle dinamiche interne delle istituzioni totali e in generale ai problemi posti dalla devianza. Resta tuttavia acquisito, a nostro giudizio, che la stessa radicalità dell'analisi etnometodologica è la matrice dei suoi limiti invalicabili. Infatti, una volta riconosciuto come oggetto fondante ed esclusivo dell'analisi sociologica il processo di costruzione mentale della realtà sociale, è chiaro che le istituzioni, gli oggetti sociali già esistenti vengono di necessità trascurati come dati irrilevanti e l'analisi sociologica stessa non può evitare di trovarsi equiparata all'analisi fenomenologica, di cui deve logicamente condividere i limiti e le aporìe.
Problemi di milieu e problemi di struttura: fra teoria astratta ed empirismo frammentario. - Sospeso fra la grand theory, o teoria astratta a livello pieno, di T. Parsons, e l'empirismo astrazionistico di P. F. Lazarsfeld, Ch. W. Mills tenta negli anni Sessanta una terza via, capace di restituire alla ricerca sociologica la corposità di un orientamento politico sicuro e nello stesso tempo il rigore scientifico cui non può rinunciare senza annullarsi. Questo sforzo è per gran parte fallito in quanto non è andato al di là della fase programmatica. A W. Mills mancano infatti gli strumenti teorici per sottrarsi simultaneamente alle aporìe simmetriche dell'astrattismo e dell'empirismo. Il tentativo di mediare positivamente la contraddizione fra il carattere dei singoli e l'oggettività istituzionale della struttura sociale non gli riesce poiché resta estranea alla meditazione e alle ricerche millsiane qualsiasi idea di dialettica in senso storico specifico. Così la maggior parte dei contributi di Mills si ridurranno, a ben guardare, all'espressione di una sorpresa. È la sorpresa del buon democratico, che ha preso alla lettera la promessa del preambolo jeffersoniano alla Costituzione degli Stati Uniti e che crede nelle verità autoevidenti, salvo a scandalizzarsi rumorosamente, con le convulsioni della persona massiccia e l'ironia della lingua franca da buon texano, quando finalmente si avvede che, nella realtà storica specifica, le verità e i diritti democratici sono sistematicamente traditi. Tutti ì libri di Ch. W. Mills sono la storia di siffatta delusione. In The new men of power, scopre che i lavoratori organizzati nei sindacati non devono solo lottare contro i loro padroni, ma anche, se non più duramente, contro i loro sindacalisti; in White collar dimostra che i famosi ceti medi, secondo la pubblicistica corrente spina dorsale e ago della bilancia dell'equilibrio politico e sociale dell'America, sono in realtà una folla di gente paurosa, stretta fra l'élite dominante e il proletariato organizzato, piena di fobie, di risentimenti e di vaghe, angoscianti incertezze; in The power élite, finalmente, allinea gli elementi empirici per provare che, lungi dall'essere un paese per antonomasia democratico e senza classi rigide, gli Stati Uniti sono in realtà dominati da un'élite formata dai "signori della guerra, della politica e dell'economia", vale a dire dalle interconnessioni che si stabiliscono fra questi tre settori dominanti i quali, attraverso le amicizie, le scuole comuni, i matrimoni, i legami finanziari, si perpetuano al vertice della nazione americana, monopolizzando e piegando ai propri interessi di casta tutto il potere economico, sociale e culturale disponibile.
È indicativo che Mills usi il termine paretiano di élite invece del concetto marxiano di classe dirigente. Il fatto è che Mills, come si può vedere anche dalla sua opera The marxists, non ha veramente mai compreso il senso e la valenza del concetto marxiano di dialettica ed è rimasto sostanzialmente un democratico jeffersoniano che tendeva a tradurre in imperativi etici le crisi economiche e sociali di cui non riusciva a darsi conto sul piano conoscitivo. Gli va tuttavia riconosciuto il merito, in una fase dello sviluppo sociologico in cui trionfava lo struttural-funzionalismo, di avere mosso i primi passi verso la "sociologia critica" secondo un iter teorico che sarà percorso da molti, in SUA e in Europa, da I. L. Horowitz a N. Birnbaum, mentre veniva sviluppandosi, in relativa autonomia, ma con altrettanto spirito radicale, la "sociologia umanista" di A. McClung Lee, anch'essa erede della tradizione dei muckrakers e del radicalismo libertario di ascendenza jeffersoniana. Il punto debole di questa sociologia critica si fa evidente nella proposta di uno dei suoi fautori più influenti, A. W. Gouldner, là dove propone, dopo una critica di rara acutezza nei confronti di Parsons, da una parte, e del marxismo sovietico ufficiale, dall'altra, la "sociologia riflessiva" (reflexive sociology).
Le istanze critiche fatte valere da Gouldner contro la s. dell'ufficialità, sia accademica che politico-amministrativa, appaiono legate a una specifica "struttura di sentimenti (structure of sentiments) e non attingono pertanto il livello strutturale in senso proprio; permangono invece a un livello "sub-teoretico". Più chiaramente: non arrivando a intaccare la struttura, le critiche di Gouldner restano critiche interne, una specie di querelle fra accademici.
Oltre la "sociologia critica" verso la resa dei conti fra sociologia e marxismo. - Il merito indubbio dei sociologi critici odierni, negli Stati Uniti, in Europa e in altre parti del mondo, consiste nell'avere riproposto con chiarezza la domanda fondamentale che sta alla base del ragionamento sociologico: qual è la variabile "decisiva" nella costruzione del sistema sociale? A questa domanda i marxisti ortodossi, quelli del Diamat, ossia i marxisti ufficiali dell'Unione Sovietica e dei paesi dell'Est europeo, rispondono in modo e secondo un'ottica intellettuale sostanzialmente uni-fattoriale (lo Unterbau economico). Allo stesso modo rispondono però gli struttural-funzionalisti, ossia T. Parsons e i suoi numerosi discepoli, insistendo sull'importanza decisiva delle pattern-variables ancorate ai valori. Ma questa domanda è anche rivelatrice delle debolezze teoriche e d'impianto concettuale che sembrano proprie della "s. critica". Il ruolo dei valori in N. Birnbaum è fondamentale non solo nel senso che una trasformazione strutturale, per es., sarebbe di per sé, benché necessaria, tutt'altro che sufficiente ai fini della razionalizzazione sostanziale del sistema sociale. Esso si pone anche come un prius nel senso della coscienza problematica rispetto alle iniziative sociali da intraprendere. Nel caso di Gouldner, il limite è anche più evidente. In lui la struttura ambivalente del sistema americano non è connotata da indici materiali o strutturali comunque definiti, bensì da atteggiamenti etico-politici, che possono essere orientati all'"ordine sociale", come in Parsons o nei social-accademici, oppure alla "giustizia ed eguaglianza", come in lui stesso.
Una funzione prioritaria, comunque, spetta sempre agli atteggiamenti etici o alla struttura dei sentimenti oppure, secondo la formula più comune, ai valori, e non alle caratteristiche oggettive della struttura di fatto così come è determinata dai rapporti di produzione e dai rapporti sociali che con questi appaiono necessariamente collegati. Si chiarisce pertanto che il discorso aperto dalla s. critica porta ad affrontare la questione dei rapporti fra la s. e il marxismo.
Nel corso degli ultimi anni, specialmente a partire dagli anni Settanta, Marx è stato ampiamente rivalutato dai sociologi e riconsiderato come uno dei pionieri, se non dei fondatori, della s., insieme con Saint-Simon, Comte e Proudhon. Questo riconoscimento postumo era doveroso, ma naturalmente non chiude il problema dei rapporti fra s. e marxismo. Nessun dubbio che, dal marxismo come costruzione teoretica, la s. possa derivare concetti e suggerimenti. In particolare, è lo stesso livello analitico macrosociologico, essenzialmente rivolto alla scoperta delle "leggi" che regolano il sistema sociale, così caratteristico del marxismo, a richiamare la s. al suo compito e alla sua natura profonda di "scienza della società globale". La s., specialmente negli Stati Uniti fra le due guerre, si è spesso specializzata al punto da perdere di vista la società come realtà complessiva, ossia come insieme di variabili dialetticamente legate e inter-reagenti. La nozione problematica del concetto di dialettica che sta al fondo della costruzione marxistica è in questo senso, per la s., un richiamo importante. Si può dire che, fra i sociologi, solo M. Weber abbia tentato un'interpretazione del sistema sociale di pari ampiezza di quella di Marx. Ma in Weber, mentre meritoriamente si compie lo sforzo di un esame coordinato e simultaneo delle variabili decisive dell'"agire sociale significativamente orientato" (sinnvolles Handem), si collocano poi tutte le variabili sullo stesso piano, non si riconosce fra di esse alcuna priorità e pertanto non è possibile dar conto dello sviluppo storico in termini dialettici e si va incontro alla stasi assoluta, che potrà essere interrotta solo grazie a un'irruzione sul piano storico della "irrazionalità" carismatica.
Nel marxismo si dà invece conto della dinamica sociale, e non in base a qualità personali, bensì in forza dell'agire impersonale delle variabili che costituiscono nel loro insieme il sistema sociale, economico e politico. Il punto debole della costruzione dialettica marxiana è dato dall'arco delle ipotesi storico-evolutive su cui si fonda: un arco troppo ampio per riuscire scientificamente, cioè empiricamente, verificabile. L'ipotesi marxiana tende così a porsi più come profezia che come previsione scientifica. La stessa dialettica non si libera di un certo grado di meccanicismo dogmatico invece di porsi come "dialettica specificata" del sociale. Sconta gli esiti del processo storico senza aver apprestato gli strumenti operativi che ne garantiscano l'effettiva trasformazione razionale. Lo stesso obbiettivo della rivoluzione sociale viene così a configurarsi come una terra promessa invece che come un compito storico. La razionalità che sottende il marxismo rischia così di ridursi a una razionalità mitica, al più di giungere allo statuto di una razionalità tecnico-normale senza attingere il piano della razionalità sostanziale. Lo stesso concetto di sviluppo storico resta un concetto di storia come storia di vertici, in cui la classe operaia si vede riconosciuta una funzione importante, ma per definizione strumentale, in quanto la coscienza rivoluzionaria viene ad essa portata dall'esterno, ad opera degl'intellettuali rivoluzionari generalmente di origine borghese.
Rispetto alla s., i limiti del marxismo sono limiti strumentali. Lo schema che si esprime nella formula "problema-ipotesi-verifica" è ancora, in esso, troppo ampio, troppo "filosofico" in senso tradizionalmente speculativo per essere suscettibile di verifica in senso scientifico rigoroso. La s. è debitrice del marxismo quanto al necessario orientamento e alla valenza politica, in senso lato, di ogni impresa conoscitiva la quale, per quanto astratta e formale, deve rispondere alla domanda: "per chi? Contro chi? Per che Cosa? Contro che Cosa?". Ma il marxismo a sua volta, se non s'intenda congelarlo in dogma contro i suoi stessi presupposti, ha bisogno delle tecniche di ricerca dell'analisi sociologica per determinare gli effetti sociali specifici della sua presenza, il costo delle riforme sociali decise e praticamente applicate, la reazione dal basso della società al comportamento dei vertici.
I rapporti fra marxismo e s. indicano un'area problematica di grande complessità destinata a essere discussa per i prossimi anni secondo un'ottica che, per riuscire positiva, richiederà un riorientamento e probabilmente una radicale ridefinizione sia del marxismo storico che della s. accademica. È stato osservato a questo proposito che "il marxismo e la s. classica sono entrambi riflessioni sul capitalismo e la società borghese. Entrambi esprimono a loro modo una delusione per la rivoluzione borghese, mediata attraverso un'intellighenzia sviluppata. Tuttavia le somiglianze finiscono qui e sono sommerse dalle differenze. Da una parte, un'intellighenzia accademica solidamente affermata; dall'altra, un individuo perseguitato ed esiliato. Da una parte, un attaccamento di fondo alla borghesia e alla sua società; dall'altra, una dedizione alla rivoluzione proletaria. Non c'è un solo eminente sociologo del mondo capitalistico che, come sociologo, abbia fatto parte di un movimento militante dei lavoratori; quand'anche ci siano altre differenze fra i sociologi, hanno tutti in comune questo. Tale fondamentale distacco fra marxismo e s. accademica è particolarmente importante da tenere a mente adesso che le idee marxiste sono oggetto di discussione fra i sociologi e che si sostengono teorie sulla convergenza o sulla fecondazione reciproca. In realtà questa differenza di classe arriva proprio alle radici della teoria sociale marxista" (G. Therborn, La classe operaia, p. 144).
Nessun dubbio sulla crucialità fondante del concetto di "classe" per il marxismo. Ma è appunto il rischio di un'accezione mitologica ed empiricamente non garantita di questo concetto cruciale che rende l'analisi sociologica fondamentalmente importante anche per il marxismo: contro le involuzioni burocratiche che dànno luogo alle "nuove classi"; per un uso non dogmatico del marxismo; per la specificazione in termini sociali concreti della dialettica a evitarne un uso perverso nell'esclusivo interesse di nuovi gruppi privilegiati.
Bibl.: Opere generali: F. Ferrarotti, Trattato di sociologia, Torino 1968; F. Jonas, Storia della sociologia, Bari 1968; Trattato di sociologia, a cura di G. Gurvitch, 2 voll., Milano 1968; F. Ferrarotti, Sindacati, Industria, Società, Torino 1970; L. Cavalli, Il mutamento sociale, Bologna 19712; S. N. Eisenstadt, Mutamento sociale e tradizione nei processi innovativi, Napoli 1974; A. Izzo, Storia della sociologia, vol. I, Le origini, Bologna 1975; vol. II, I classici, ivi 1976; vol. III, I contemporanei, ivi 1977; R. Cavallaro, La sociologia dei gruppi primari, Napoli 1976; R. Gubern, Immagine e messaggio nella cultura di massa, ivi 1976; G. Barbiellini Amidei, U. Bernardi, I labirinti della sociologia, Bari 1977; F. Ferrarotti, Il pensiero sociologico da A. Comte a M. Horkheimer, Milano 19772.
Nel corso dell'articolo si fa riferimento ai seguenti autori: G. H. Cooley, Social organization, New York 1909; G. Gurvitch, W. E. Moore, Twentieth Century Sociology, ivi 1945, II vol.; R. K. Merton, Social theory and social structure, ivi 1949, trad. it., Bologna 1965; T. Pearsons, The social system, ivi 1951, trad. it., Milano 1967; H. Gerth, Ch. W. Mills, Character and social structure, Londra 1954, trad. it., Torino 1970; T. Bottomore, Classes in modern societies, ivi 1956; Ch. W. Mills, The sociological imagination, New York 1959; H. Blumer, Symbolic interactionism, ivi 1960; T. Parsons, Structure and process in modern societies, ivi 1961; P. L. Berger, T. H. Luckmann, The social construction of reality, Garden City 1966, trad. it., Bologna 1973; P. F. Lazarsfeld, Metodologia e ricerca sociologica, a cura di V. Capecchi, Bologna 1967; F. Ferrarotti, La sociologia del potere, Bari 1972; A. W. Gouldner, La crisi della sociologia, trad. it., Bologna 1972; A. Touraine, Production de la société, Parigi 1973; N. Birnbaum, Toward a critical sociology, New York 1974; E. Morin, De la méthode, Parigi 1977; G. Therborn, La classe operaia e la nascita del marxismo, in Comunità, 178 (ag. 1977).
Sociologia industriale. - Alla fine del sec. 18° e agl'inizi del 19°, insieme con l'esplosione del fenomeno industriale, si sviluppa l'indagine e la riflessione critica sulle strutture e sui processi che stanno alla base della società umana: fin dal suo inizio la scienza sociologica si pone sostanzialmente come studio sistematico della società occidentale, che si va profondamente trasformando. Tuttavia nell'ambito più generale della nuova disciplina si può individuare un'attenzione più precisa e più specializzata, che ha per oggetto specifico il processo di produzione industriale in quanto tale, e le sue connessioni con la società, con il lavoro umano, con l'uomo.
In questa corrente d'interessi si colloca in una posizione di assoluto rilievo e di singolare importanza C. Marx, anche se il suo pensiero non si può classificare nei confini limitati della disciplina sociologica, che del resto egli supera largamente per la vastità e la complessità dei problemi trattati. La sua analisi critica delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, la sua rilevazione delle condizioni strutturali di alienazione e di sfruttamento del lavoro operaio, la sua interpretazione dei conflitti che contrappongono le classi sociali, restano termini di riferimento inevitabili per lo studio e la comprensione dei principali fenomeni della nostra società.
Per poter riconoscere un'attenzione specifica della s. in quanto tale verso i problemi interni dell'industria e verso l'analisi del lavoro e dell'organizzazione industriale, occorre però arrivare alla fine del sec. 19° e agl'inizi del 20°. È in questa fase che si delineano gl'interessi più specializzati sulla base dei quali si sarebbe poi costituita una disciplina a sé stante, sufficientemente autonoma e definita.
Tali interessi andavano dalle caratteristiche e dal ruolo degl'imprenditori (Th. Veblen), alla funzione e alla posizione sociale dei lavoratori (S. e B. Webb), ai problemi della divisione del lavoro sociale (E. Durkheim). Lo studioso che dà un'impronta decisiva a questa fase di passaggio dell'analisi sociologica della società industriale è M. Weber, il quale si pone principalmente come teorico, sia delle origini storiche e culturali del fenomeno (Über die protestantische Ethik und der "Geist" des Kapitalismus, 1904), sia delle istituzioni burocratiche che traducono in organizzazioni sociali specifiche le strutture economiche della società (Wirtschaft und Gesellschaft, Tubinga 1922). M. Weber si può considerare l'interprete dell'agire "razionale", che si propone come legittimazione delle strutture sociali e organizzative di una società industriale capitalistica. A lui si deve pure un contributo decisivo alla fondazione della s. dell'industria e dell'azienda, come scienza basata sull'indagine empirica all'interno delle organizzazioni produttive, e convalidata da un'impostazione metodologica rigorosa (programma di ricerche "sulla scelta e sull'adattamento dei lavoratori della grande industria" per il Verein für Sozialpolitik, 1907).
Nei primi decenni del sec. 20° la s. dell'industria si caratterizza per lo sviluppo della ricerca empirica nelle aziende, sostenuta da metodologie sempre più affinate e intrapresa da istituzioni specializzate (Industrial health research board, in Inghilterra; Harvard fatigue laboratory, negli SUA; Verein für Sozialpolitik, in Germania). In particolare è negli SUA che la s. industriale si costituisce come vera e propria disciplina autonoma (Industrial sociology), che dà luogo a una vasta attività di ricerca nelle organizzazioni industriali, e affida a tecniche e a metodologie minuziose e precise la garanzia della sua oggettività e scientificità.
Nell'ambito della s. industriale americana si compie inoltre una svolta decisiva, considerata usualmente come l'atto di nascita formale della concezione dell'azienda quale sistema sociale. Secondo tale concezione, il sistema di relazioni fra uomini e fra gruppi, e le motivazioni umane, rivelano un'importanza almeno pari a quella dei tradizionali fattori economici della produzione. Gli esperimenti e le ricerche compiute dal Department of industrial research dell'università di Harvard con il contributo determinante di E. Mayo (celebre è rimasta la ricerca compiuta presso le officine Hawthorne della Western Electric Company di Chicago, 1927-1932) dànno origine a quella corrente delle human relations che porrà in crisi le concezioni tradizionali e classiche sul lavoro umano: il contributo dell'uomo alla produzione non poteva essere misurato esclusivamente come aveva ipotizzato l'"organizzazione scientifica del lavoro" di F. W. Taylor con parametri impersonali, meccanicistici ed economici.
Se si considera il quadro generale della s. industriale americana, si può constatare però che essa non si libera della latente finalità di assorbire e ricomporre le contraddizioni del processo industriale nell'ambito di modelli sociali, culturali ed economici tipici della società capitalistica e considerati come scontati e immutabili. A ciò si aggiunga la mancanza, spesso, di uno sforzo verso interpretazioni più generali dei fenomeni parziali osservati, dispersi nell'analisi dettagliata del caso per caso. A fronte di questa tendenza si collocano alcune importanti istanze critiche, che però non sembrano trovare uno sbocco organico e sistematico (Ch. W. Mills, R. S. Lynd, A. W. Gouldner e altri).
Il contributo anglosassone alla conoscenza dell'azienda industriale e dei suoi rapporti interni comprende gli studi sull'organizzazione e quelli sui sistemi socio-tecnici (Travistock Institute of human relations di Londra), le analisi sulle conseguenze psicologiche e sociali dell'organizzazione del lavoro (movimento per la Quality of working life), gli studi delle industrial relations, che si occupano prevalentemente delle cause, degli sviluppi e delle possibilità di composizione della "conflittualità industriale".
In Europa lo studio sociologico della società industriale prende un orientamento decisamente più critico, col tentativo di porre in discussione le strutture di fondo della società stessa, analizzandone le contraddizioni.
Un salto qualitativo lo si trova già nella s. francese che, con G. Friedmann, P. Naville, P. Rolle, A. Touraine e altri, ribalta l'oggetto della ricerca che diventa, invece dell'azienda come fatto istituzionale a sé stante, il lavoro umano, come fatto sostanziale e centrale dell'esperienza dell'uomo. È in relazione a questa centralità che viene studiato tutto il resto: dall'impresa ai costumi, dal tempo libero all'alienante organizzazione produttiva, intese come altrettante condizioni poste al lavoro stesso dall'evoluzione delle strutture produttive. In particolare, questa scuola conserva una profonda convinzione di ottimismo nei riguardi delle capacità liberanti dello sviluppo tecnologico, che subisce però una seria scossa sotto l'incalzare degli eventi e delle crisi, succedutisi dai movimenti di contestazione del 1968 fino alle più recenti involuzioni del sistema economico-produttivo. Di maggior forza critica, da questo punto di vista, è la scuola sociologica di Francoforte che, attraverso il lavoro dei suoi studiosi (Th. W. Adorno; M. Horkheimer; J. Habermas), prende come suo oggetto preferenziale la struttura e la logica profonda di una società caratterizzata da un'industrializzazione capitalistica e razionale.
La crisi culturale ed economica iniziata con il 1968 dà luogo, specialmente in Europa, a un processo di sfiducia verso sé stessa della scienza sociologica: lo sconvolgimento di tutti i modelli in qualche modo dati per scontati, promuove una revisione critica della ricerca scientifica sulla società, sospetta, nelle sue tecniche consolidate, di essere partecipe e sostegno ideologico dei meccanismi di dominio della società.
In particolare la ricerca sull'industria e sul lavoro, attraverso una serie di analisi dirompenti specie in Francia e in Italia, viene definita come compromissione del pensiero scientifico con le finalità di potere del sistema produttivo industriale. Queste analisi traggono origine dagli stimoli critici provenienti dalle varie correnti (principalmente quella marxista) che hanno in qualche modo anticipato le contraddizioni della società. Di qui derivano una serie di movimenti e di ricerche che pongono di nuovo il lavoro industriale al centro delle loro attenzioni, mettendolo a confronto con tutte le condizioni economiche, politiche, culturali e ambientali che lo determinano. Queste ricerche si pongono il problema fondamentale del superamento della metodologia "positivistica" nella scienza delle strutture sociali, mediante l'introduzione di una metodologia "dialettica" che si basa sulla partecipazione diretta degli attori del processo produttivo, non più come oggetti, ma come soggetti dell'analisi che li riguarda.
Questa ripresa della s. dell'industria e del lavoro industriale pone il tema della partecipazione della scienza sociale al processo di sviluppo e di cambiamento della società, mediante il superamento di strutture sociali e produttive, invecchiate e contraddittorie.
Bibl.: Una bibliografia organica si trova in: Sociologia industriale e dell'organizzazione, a cura di A. Carbonaro e A. Pagani, Milano 1970.
Opere generali: F. Ferrarotti, La Sociologia industriale in America e in Europa, Torino 1960; G. Friedmann, P. Naville, Trattato di sociologia del lavoro, trad. it., Milano 1963; R. Dahrendorf, Sociologia dell'industria e dell'azienda, trad. it., ivi 1967; P. Rolle, Sociologia del lavoro, Bologna 1973; A. Anfossi, Prospettive sociologiche sulla organizzazione aziendale, Milano 1976.
Alcune opere significative: F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, trad. it., Roma 1955; R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, trad. it., Bari 1963; C. Kerr, J. R. Dunlop, F. H. Harbison, C. A. Myers, L'industrialismo e l'uomo nell'industria, trad. it., Milano 1969; M. Crozier, Il fenomeno burocratico, trad. it., ivi 1970; A. W. Gouldner, Modelli di burocrazia aziendale. Lo sciopero a gatto selvaggio, trad. it., ivi 1970; C. A. Walker, R. H. Guest, L'operaio alla catena di montaggio, trad. it., ivi 1973; J. Habermas, Crisi della razionalità nel capitalismo maturo, trad. it., Bari 1974; A Touraine, L'evoluzione del lavoro operaio alla Renault, trad. it., Torino 1974; Lotte operaie e sindacato in Italia, a cura di A. Pizzorno, Bologna 1975; J. Woodward, Organizzazione industriale. Teoria e pratica, trad. it., Torino 1975; F. Butera, La divisione del lavoro in fabbrica, Venezia 1977.