Abstract
La soggettività coincide con la legittimazione alle conseguenze giuridiche: nella legittimazione di un centro d’imputazione a divenire titolare di situazioni qualificate, funzionali a interessi preordinati, riflessi nel fatto causale di quelle medesime situazioni. L’autonomia patrimoniale, espressione della disciplina positiva sulla responsabilità, costituisce il Begriffmerkmal del soggetto, in particolare di quello collettivo, rappresentando elemento indefettibile della nozione. I tratti costitutivi della soggettività appartengono al diritto civile o a quello pubblico negli stessi termini e con le medesime connotazioni con cui appartengono ad ogni altro ramo dell’ordinamento, compreso il diritto tributario, il quale può riferire situazioni giuridiche ad entità non qualificate come soggetti in altri settori, non essendo necessario che in essi sia compiuta la primogenitura della qualificazione. La soggettività tributaria non diverge dalla categoria generale della soggettività. In questo contesto si inseriscono le categorie schiettamente fiscali dei soggetti passivi (contribuente) e dei soggetti terzi (sostituto e responsabili) e una congerie ulteriore di “organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi” (trust, gruppi di società, fondi pensione e O.I.C.R., il G.E.I.E., l’associazione temporanea d’impresa, la stabile organizzazione, l’istituzione e l’azienda speciale).
È notazione diffusa che il diritto tributario si caratterizzi per la particolarità del procedimento di individuazione dei soggetti sottoposti al prelievo contributivo. Ed è opinione altrettanto diffusa che la necessità di contemperare il particolare angolo visuale nel quale si pone il sistema fiscale con la disciplina di istituti propri ad altri settori - compresa la disciplina civilistica sulla soggettività - discenda dalla ratio di quel sistema e dalla peculiarità degli interessi da esso protetti (Antonini, E., La soggettività tributaria, Napoli, 1965, passim, ma specie 74 ss.).
L’individuazione dei soggetti, pertanto, avverrebbe in maniera casistica o fenomenologica. Nella nostra materia, cioè, si assisterebbe ad una sorta d’inversione logica del procedimento d’identificazione: la priorità del fatto, ossia del presupposto del tributo (reddito, patrimonio, consumo, altre manifestazioni anche indirette di capacità contributiva), farebbe degradare loro a semplici punti di convergenza o di arrivo del procedimento di costruzione delle norme (Lavagna, C., Teoria dei soggetti e diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1961, I, 8 ss.).
Il legislatore, dunque, potrebbe riferire obblighi e obbligazioni non soltanto a soggetti estranei a quel fatto, ma anche a figure insuscettibili di qualificazione in termini soggettivi nell’ambito privatistico, privi, insomma, di capacità giuridica di diritto comune (Berliri, A., Principi di diritto tributario, I, Milano, 1967, 330 ss.; Giannini, A.D., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 206 ss.; Id., Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1968, 109 ss.; Vanoni, E., Del rapporto giuridico tributario, in Opere giuridiche, II, 123 ss.; Id., I soggetti del rapporto giuridico tributario, in Foro It., 1935, IV, 323 ss.; Ferlazzo Natoli, L., Fattispecie tributaria e capacità contributiva, Milano, 1979, 81 ss.).
Nella prospettiva del legislatore fiscale, si è detto, poco importa che i soggetti titolari di situazioni giuridiche proprie al rapporto d’imposta siano forniti di capacità giuridica generale o di personalità, essendo sufficiente che ad essi sia riferibile la capacità alla contribuzione. La legge d’imposta, allora, oltre ad assumere figure già previste in diritto privato o pubblico, ne introdurrebbe di nuove, ma al solo scopo di individuare “centri” cui riportare i presupposti impositivi o gli obblighi funzionali al prelievo, assegnando ad essi una capacità giuridica speciale - una capacità di diritto tributario - ancorata, nella sua radice principale, all’attitudine alla contribuzione (Micheli, G.A., Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I, 419 ss.; osservazioni critiche in Lavagna, C., Teoria dei soggetti e diritto tributario, cit., 8 ss.; Id., Capacità di diritto pubblico, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 83 ss.; Giardina, E., La capacità giuridica tributaria degli enti collettivi non personificati, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1962, I, 324 ss.; Gaffuri, G.F., L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969, 234 e 235).
Si tratta di osservazioni storicamente motivate, ma che, alla luce dell’evoluzione teorica su personalità e soggettività in ambito comune, non paiono più convincenti. Affermare che la capacità tributaria si differenzia da quella civilistica per non essere una qualità intrinseca del soggetto, incentrandosi sulla capacità economica, ed elevare, per i motivi anzidetti, questa capacità ad elemento costitutivo della soggettività tributaria, finisce per mischiare elementi strutturali di nozioni tra di loro diverse e rischia di determinare, per questa via, una sovrapposizione dei piani di ragionamento.
Infatti, una cosa è la capacità giuridica, intesa come attitudine alla titolarità o attitudine alla realizzazione degli interessi propri della condizione oggettiva della norma; altro è la capacità alla contribuzione, da intendere non già come elemento costitutivo della capacità giuridica, seppur di diritto tributario, ma, semplicemente, come requisito legittimante il prelievo. Come elemento, cioè, che solo in questo senso reagisce nella sfera giuridica della figura potenzialmente idonea a realizzare il presupposto d’imposta (Giovannini, A., Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, 21 ss.; Gallo, F., I soggetti del Libro I del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. dir. trib., 1993, 345 ss., e Id., La soggettività tributaria ai fini IRPEG, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 663 ss.; Fedele, A., Profilo fiscale delle società di persone, in Riv. not., 1988, III, 552 ss.). Lo ripeto con parole diverse: mentre la capacità giuridica, nella sua radice più profonda, secondo un insegnamento da me condiviso, è l’attitudine alla realizzazione degli interessi racchiusi in un fatto produttivo di situazioni giuridiche (Falzea, A., Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, passim), attitudine che solo dopo confluisce e si confonde con quella alla titolarità delle situazioni stesse; la capacità contributiva è criterio di riparto dei carichi pubblici, che esige la rispondenza del tributo a fatti economicamente apprezzabili, idonei, come tali, a giustificare il prelievo rispetto ai destinatari dell’imperativo.
Quali, allora, gli elementi costitutivi della soggettività? Depurando il ragionamento da sovrastrutture teoriche e andando al nocciolo della nozione, si può per prima cosa dire che la soggettività, categoria ideale del diritto, si radica e si esaurisce nella legittimazione alle conseguenze giuridiche: nella legittimazione di un centro d’imputazione a divenire titolare di situazioni qualificate, funzionali a interessi preordinati, riflessi nel fatto causale di quelle medesime situazioni (Falzea, A., Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, cit.).
Un soggetto intanto è qualificabile a questa stregua in quanto la legge lo individua espressamente o consente di individuarlo in via interpretativa come centro iniziale di riferimento di interessi qualificati e delle fattispecie che li incorporano, e come centro terminale d’imputazione delle situazioni giuridiche connesse (Falzea, A., Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, cit., 70 ss., e Ferrara sn., F., Le persone giuridiche, Torino, 1958, ristampa, 15, nonché, per la definizione dei soggetti come unità personificate delle norme giuridiche, Kelsen, H., La dottrina pura del diritto, Torino, 1990, 192 ss.).
Si può affermare, dunque, che, nel processo di astrazione della realtà legale e in quello d’interpretazione conseguente, la costruzione della soggettività ricalca idealmente un modello circolare, il quale, muovendo dalla valutazione concreta della relazione tra fattispecie ed entità portatrice d’interessi qualificati, si chiude con l’imputazione a questa entità delle situazioni giuridiche, situazioni discendenti, proprio, dalla realizzazione di quella fattispecie (Giovannini, A., Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, cit., 21 ss.). Soggetto e centro d’imputazione, così degli interessi, dei fatti, come degli effetti giuridici, s’identificano perfettamente. Detto in maniera ruvida: sono la stessa cosa.
Senza abbandonare la categoria della capacità giuridica, l’impostazione qui avanzata permette, in qualche misura, un suo assorbimento, riuscendo probabilmente a ricomprendere nel suo ambito anche i soggetti diversi dalle persone fisiche. La legittimazione, infatti, consente di passare dal concetto di mera attitudine, astratta ed irrelata, alla sfera delle concrete attribuzioni, al concetto, cioè, d’integrazione di interessi specifici e di fatti, altrettanto specifici, che riassumono in sé quegli interessi, la cui integrazione soltanto fa sorgere la situazione giuridica addenda e determina la sua imputazione (Falzea, A., Capacità, Teoria generale, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 44).
Di qui una conseguenza ulteriore: il requisito dell’autonomia patrimoniale (e della responsabilità patrimoniale autonoma) rappresenta non un elemento indipendente o esterno alla soggettività, come talvolta si ritiene, ma uno degli elementi nei quali si traduce il concetto di legittimazione alle conseguenze giuridiche, un elemento costitutivo interno che, nel suo nocciolo essenziale, non si differenzia da quest’ultimo concetto. L’autonomia patrimoniale, espressione della disciplina positiva sulla responsabilità, costituisce il Begriffmerkmal del soggetto, in particolare di quello collettivo, rappresentando un elemento indefettibile della nozione. Essa ha, per così dire, una doppia faccia: elemento garante degli interessi a contenuto economico del creditore, ma anche elemento integrante la nozione di soggettività, poiché il perseguimento concreto di tali interessi presuppone la titolarità del patrimonio stesso. Proprio in ragione di questo intreccio, insomma, l’autonomia patrimoniale concorre a connotare “in positivo”, a mo’ di barriera selettiva, entità plurisoggettive alle quali è possibile conferire veste di soggetti giuridici.
Ebbene, ragionando in questi termini, riesce evidente come i tratti costitutivi della soggettività, per come fin qui descritti, appartengono al diritto civile o a quello pubblico negli stessi termini e con le medesime connotazioni con cui appartengono ad ogni altro ramo dell’ordinamento, compreso il nostro. Il diritto tributario, pertanto, può riferire situazioni giuridiche ad entità non qualificabili o non qualificate come soggetti in altri settori, non essendo affatto necessario che il diritto privato o quello pubblico compiano la primogenitura della qualificazione. La soggettività tributaria, quanto ai suoi elementi costitutivi, non diverge dalla categoria generale della soggettività: in essa si immedesima e si esaurisce.
In teoria generale la soggettività si presenta come classe unitaria, scindibile, per così dire, in sottoclassi per esigenze rappresentative della disciplina applicabile alle singole figure. Quest’impostazione è valevole anche per il diritto tributario. Occorre dir subito, però, che da noi si è soliti distinguere i soggetti in due categorie: soggetti c.d. passivi e soggetti c.d. terzi. Questa suddivisione non ha utilità meramente didascalica, ma assolve, anzitutto, finalità di sistematizzazione concettuale, specialmente sul piano costituzionale.
Quanto ai soggetti passivi, i radicali mutamenti introdotti dalla riforma degli anni settanta e il progredire degli studi sull’art. 53 Cost., sembrano indirizzare verso un’interpretazione che valga a rivitalizzare il rapporto giuridico d’imposta e il suo profilo materiale. In questa chiave, si può affermare che soggetto passivo è colui che realizza il fatto sintomatico di capacità contributiva elevato a presupposto del tributo, concorrendo alle spese pubbliche in ragione, appunto, della sua capacità contributiva. La ricostruzione, in parole ancor più semplici e lapidarie, si compendia in questo cuore: nel collegamento tra presupposto e soggetto obbligato alla contribuzione. E la radice della qualificazione della soggettività passiva affonda, così e semplicemente, in detto collegamento e lì si esaurisce.
Rimane da accennare ai soggetti c.d. terzi. È stato osservato che un soggetto è “terzo” rispetto al presupposto, non già all’obbligazione d’imposta, la quale verrebbe in ogni caso “sviata” dalle norme secondarie da chi realizza il presupposto medesimo a chi deve eseguire il pagamento (Parlato, A., Il responsabile e il sostituto d’imposta, in Trattato dir.tTrib., diretto da Amatucci, A., II, Padova, 1994, 404 ss., 429 ss. e 442 ss.; Allorio, E., Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 140 ss.; De Mita, E., Sostituzione tributaria, in Nss. D. I., XVII, Torino, 1970, 998 ss.; Coppa, D., Gli obblighi fiscali dei terzi, Padova, 1990, 31 ss.; Tesauro, F., Istituzione di diritto tributario, Parte generale, Torino, 2011, 120 ss.).
Per la verità, guardando al diritto attuale, non sembrano riscontrabili casi nei quali il nesso di causalità principale, ossia quello dal quale discende l’obbligazione d’imposta, subisce interruzioni per il subentrare di altri soggetti in luogo di coloro che realizzano il fatto. La legge costantemente riferisce l’obbligazione connessa al presupposto a chi lo realizza, anche se spesso confina la rilevanza dinamica di quella obbligazione ai casi nei quali l’“intervento” del terzo non soddisfa il credito dell’amministrazione. Se le cose stanno in questi termini, sostituto e responsabile d’imposta, disciplinati dall’art. 64, d.P.R. 29.9.1973, n. 600, pur tenuti al pagamento del tributo in luogo o insieme con altri, sono configurabili, per forza di cose, alla stregua di soggetti terzi: terzi rispetto al presupposto, giacché non lo realizzano, ma terzi anche rispetto all’obbligazione d’imposta, la quale, per dar corpo all’art. 53 Cost., non può che riferirsi a chi integra, proprio, quel presupposto (Russo, P., Manuale di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2002, 176; Potito, E., Soggetto passivo d’imposta, in Enc. dir., Milano, 1990, XLII, 1228 ss.; Puoti, G., Il lavoro dipendente nel diritto tributario, Milano, 1975, 234 ss.; Cipolla, G.M., Ritenuta alla fonte, in Rass. trib., 1996, 854 ss.; Basilavecchia, M., Sostituzione tributaria, in Dig. comm., Torino, 1998, XV, 67 ss., specie 76 ss.).
Nel rinviare alle specifiche voci per approfondimenti ulteriori, qui si sottolinea solamente il fatto che la qualificazione adombrata non intende negare il collegamento strutturale tra sostituto o responsabile e soggetto passivo. Anzi, leggendo l’art. 64, già richiamato, si deve dire che tra fattispecie principale, alla quale si collega l’obbligazione d’imposta di quest’ultimo, e fattispecie secondaria, dalla quale deriva l’obbligazione di pagamento imputata ai primi, intercede un rapporto di pregiudizialità-dipendenza: l’obbligazione di pagamento intanto esiste in quanto esiste l’obbligazione d’imposta. Questo profilo, però, non deve essere confuso con la struttura che caratterizza la solidarietà c.d. dipendente, tipica della responsabilità d’imposta, anche in merito alla quale si è soliti parlare di pregiudizialità dipendenza. La relazione ora indicata qui viene in considerazione in una prospettiva diversa: non per costruire e giustificare quella forma di solidarietà, ma come fattispecie dalla quale germina l’obbligazione di pagamento. E questo procedimento di gemmazione è identico sia che l’obbligazione venga poi riportata a più soggetti legati da solidarietà; sia che essa venga imputata ad un solo soggetto alla stregua di obbligazione individuale, ovvero a più soggetti, ma sempre a questo identico titolo giuridico (di obbligazione individuale esternamente irrelata alle altre, almeno fino all’adempimento), come accade nei casi di sostituzione a titolo d’acconto o definitivo non riconducibili all’art. 35, d.P.R. 29.9.1973, n. 602. Una prospettiva sganciata, in conclusione, dalla dinamica del procedimento e dalle vicende plurisoggettive del rapporto.
Si è detto che il diritto tributario può imputare l’obbligazione d’imposta - o ulteriori situazioni - ad entità non qualificabili come soggetti per altri settori dell’ordinamento: a tal fine non è infatti necessaria la primogenitura della qualificazione da parte del diritto civile o di quello pubblico, atteso che i tratti costitutivi della soggettività tributaria sono identici a quelli altrove rilevanti.
Il fatto che l’art. 73, co. 2, del testo unico delle imposte sui redditi (e prima l’art. 87, co. 2, del medesimo d.P.R. 22.12.1986, n. 917) contempli una categoria residuale di soggetti passivi dell’IRES non modifica il ragionamento. La struttura della norma, anzi, lo rafforza, giacché, nel qualificare come soggetti le “organizzazioni” nei confronti delle quali il presupposto d’imposta si realizza in maniera unitaria ed autonoma, pone la condizione che esse non appartengano ad altri soggetti passivi. In parole diverse, il diritto tributario può conferire soggettività – anche con norme ellittiche come quella citata – ad entità altrove non qualificate, purché esse non siano riconducibili a figure alle quali sia già possibile guardare come a centri d’imputazione della fattispecie e dell’obbligazione.
Nell’interpretazione della disposizione, nondimeno, permangono divisioni su una pluralità di aspetti e, in particolare, sulla nozione di organizzazione e sulle modalità di produzione del reddito (Magnani, C., I soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in Dir. prat. trib., 1973, I, 1147 ss.; Croxatto, G., Redditi delle persone giuridiche (imposta sui) (Irpeg), in Nss. D. I., Appendice, Torino, 1986, 415 ss.).
L’organizzazione, anzitutto, può essere osservata come elemento integrante categorie giuridiche complesse, quali l’impresa o l’azienda, oppure come elemento suscettibile di rappresentare una categoria giuridica autonoma. L’organizzazione, in sostanza, può essere vista sia come elemento costitutivo della più ampia categoria nella quale si inserisce; sia come centro di riferimento di situazioni giuridiche e centro d’azione per la realizzazione delle fattispecie presupposto delle situazioni stesse.
È da ritenere che, conformemente allo scopo del co. 2 dell’art. 73 - di “chiudere” il sistema in funzione di tipologie associative non definite in un momento storico dato - la locuzione “altre organizzazioni” qui indichi una categoria giuridica dotata del carattere dell’autosufficienza: le “altre organizzazioni” identificano centri d’imputazione indipendenti, siano essi costituiti dalla combinazione di beni o persone, oppure di beni e persone. L’”organizzazione”, e non sembri un gioco di parole, per poter essere qualificata alla stregua di soggetto passivo, deve essere in sé configurabile come soggetto e, dunque e per questo motivo, non deve essere riconducibile alle figure già individuate nel primo comma, né deve costituire un loro segmento o una loro articolazione operativa.
Il co. 2 dell’art. 73 detta un requisito ulteriore: il presupposto d’imposta si deve verificare “in modo unitario ed autonomo”. L’espressione è ambigua, ma, privilegiando il contesto nel quale è inserita, si può ritenere che essa voglia indicare, affinché operi la diretta imputazione, la necessità che il reddito sia prodotto soltanto da dette entità (autonomamente) e che ad esse soltanto sia giuridicamente riferibile (unitariamente), non anche a loro membri o partecipanti (Zizzo, G., L’imposta sul reddito delle società, in Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 2010, 255 ss.; Schiavolin, R., I soggetti passivi, in Imposta sul reddito delle persone giuridiche, Giur. sist. dir. trib., diretta da Tesauro, F., Torino, 1996, 50 ss.; separa la fonte dal reddito, Laroma Jezzi, P., Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, Milano, 2006, 335 ss.). In conclusione, che sia possibile verificare nei loro riguardi il normale scorrere del procedimento di causalità, secondo lo schema circolare già illustrato: dalla realizzazione del presupposto, all’imputazione dell’obbligazione; e che sia ravvisabile, sempre nei loro confronti, un’autonomia patrimoniale, oltre che gestionale e amministrativa (Cass., S.U., 18.10.1978, n. 4668; Cass., 26.6.1991, n. 7202; Cass. S.U., 12.11.2004, n. 21503).
Muovendo dalla prospettiva ricostruttiva della nozione di soggettività qui proposta, si possono esaminare, adesso, alcune “antiche” e “nuove” figure del panorama normativo e del dibattito teorico.
Il trust è istituto relativamente nuovo per l’esperienza giuridica italiana. Esso, nato nei sistemi di common law, è entrato nel nostro ordinamento solo con la sottoscrizione della Convenzione dell’Aia del 1.7.1985, resa esecutiva con l. 16.10.1989, n. 364, in vigore dal 1.1.1992. Per trust s’intende, ai fini della Convenzione, l’insieme dei rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente, con atto tra vivi o mortis causa, in relazione a beni posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico.
Stando a questa definizione, il trust non potrebbe, anzi non dovrebbe essere considerato soggetto giuridico, risolvendosi in una formula del linguaggio espressiva, in forma sintetica, del complesso dei vincoli fra disponente e trustee, alcuni caratterizzati da efficacia reale immediata, altri collegati ad un rapporto fiduciario dalla cui attuazione possono derivare effetti traslativi a favore di terzi oppure successivi negozi ad efficacia obbligatoria (Giovannini, A., Soggettività tributaria, cit., 421 ss.).
Questa conclusione è la più conforme al diritto di matrice convenzionale. Il suo trasferimento nel diritto tributario domestico, tuttavia, pose fin dall’inizio due questioni: la prima concernente l’individuazione del soggetto al quale imputare l’obbligazione d’imposta per i redditi dei beni in trust; la seconda relativa all’esigenza di contenere l’utilizzazione elusiva dell’istituto (Gallo, F., Trusts, interposizione ed elusione fiscale, in AA.VV., Il trust in Italia oggi, Milano, 1996, 292 ss.; sul problema elusivo, in particolare, Paparella, F., Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 123 ss.; Fiorentino, S., Contributo allo studio della soggettività̀ tributaria, Napoli, 2000, 127 ss.).
A petto di queste difficoltà, in dottrina prevalse l’idea di qualificare il trust, almeno quello di scopo e quello senza beneficiario, come soggetto passivo. Ricondurlo alle “altre organizzazioni” - delle quali già si è detto - richiamate dal co. 2 dell’art. 73 T.U. (e in precedenza dell’art. 87), consentiva di tagliare alla radice la discussione ed evitare, per di più, il sorgere del problema sulla personalità della tassazione qualora si fosse reputato di qualificare il trustee, anziché il trust, quale soggetto tenuto al pagamento, similmente al curatore dell’eredità giacente (Giovannini, A., Problematiche fiscali del trust, in Boll. trib., 2001, 832 ss.).
La l. 27.12.2006, n. 296, ha consacrato la scelta di configurare il trust di scopo o senza beneficiario come soggetto passivo, riconducendolo espressamente nella lettera b) del co. 1 dell’art. 73. Questa legge ha inoltre previsto, modificando il co. 2 dello stesso articolo, che, in presenza di beneficiari individuati, i redditi siano imputati non al trust, ma a questi direttamente, in proporzione alla quota di partecipazione stabilita nell’atto di costituzione (Puoti, G., La tassazione dei redditi del trust, in I trust in Italia oggi, a cura di Beneventi, I., Milano, 1996, 325; Miccinesi, M., Il reddito del trust nelle varie tipologie, in Trust e attività fiduciarie, Milano, 2000, 309; Fransoni, G., La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, I, 227).
Si è inteso, così, dettare una regolamentazione a maglie strette per ridurre l’uso strumentale dell’istituto. Specie per i trusts con individuazione del beneficiario, si è voluto evitare il differimento sine die della tassazione dei redditi in capo a chi appare, fin dall’inizio, il definitivo fruitore della ricchezza medio tempore segregata. Qui, però, bisogna essere chiari: pur stimando positivamente l’intento, riesce evidente come la tassazione gravante sui beneficiari, siccome privi della titolarità della fonte e della ricchezza e non legittimati a goderne fino alla realizzazione dell’evento determinato in atto, desta seri problemi di conformità al criterio dell’attualità del possesso della ricchezza sotteso all’art. 53 Cost.
Non sfugge il fatto che il trust, per la sua stessa configurazione normativa, presuppone fisiologicamente la scissione tra proprietà dei beni e del loro frutto e appartenenza dei medesimi, e che, di conseguenza, la forzatura della normazione nazionale è, in qualche misura, inevitabile. Preordinare la risoluzione di problemi contingenti ai principi costituzionali, però, è metodo in ogni caso censurabile, anche se a motivarlo, come sembra in questo caso, sono esigenze di contenimento di possibili comportamenti abusivi del diritto.
In attuazione dell’art. 4, lett. a), della l. 7.4.2003, n. 80 (legge delega per la riforma del sistema tributario statale), il d.lgs. 12.12.2003, n. 344, ha introdotto, con gli artt. da 117 a 129 t.u. imposte sui redditi (d.P.R. 22.12.1986, n. 917), la disciplina sul consolidato fiscale nazionale dei gruppi di società.
Dalla lettura degli artt. 117 ss. e per quanto qui interessa, è possibile dedurre come il gruppo esprima, semplicemente, un idioma rappresentativo di realtà giuridiche, economiche ed organizzative complesse, bensì in grado di raffigurare plasticamente la loro unitarietà economica, ma non riproduttivo di un’identica e autonoma soggettività giuridica (Giovannini, A., I gruppi di società, in Imposta sul reddito delle persone giuridiche, Giur. sit. dir. trib., a cura di Tesauro, F., Torino, 1996, 107 ss. e Id., Personalità dell’imposizione e consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2006, I, 645 ss.; Marinello, A., Tassazione consolidata e soggettività tributaria, Siena, 2007, 306 ss.; Dami, F., I rapporti di gruppo nel diritto tributario, Milano, 2011, 103 ss.).
Ciò che di particolare è dato vedere nella disciplina del gruppo, dunque, è fenomeno da valutare in sede di teoria dei rapporti giuridici e in specie di teoria delle obbligazioni, non in sede di teoria della soggettività, così in diritto civile, come in diritto tributario. Il testo unico, invero, assume l’unitarietà accennata non già per “cancellare” i singoli soggetti partecipanti alla catena di controllo e sostituire loro con un nuovo e diverso soggetto, ma ad altro scopo, ossia per determinare un risultato reddituale sintetico, espressione dell’unitaria forza economica determinata dal controllo o, per meglio dire, in funzione della forza economica che si ritiene di poter qualificare come unitaria in ragione dei rapporti partecipativi qualificati e della unitarietà presupposta di direzione e coordinamento (Giovannini, A., Consolidato fiscale nazionale, in Dig. comm., Aggiornamento, Torino, 2013; Fantozzi, A., La nuova disciplina Ires: i rapporti di gruppo, in Riv. dir. trib., 2004, I, 489 ss.; Padovani, F., Consolidato fiscale nazionale: riflessioni in tema di attuazione del rapporto obbligatorio d’imposta, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1270 ss.).
L’art. 96, d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. l. 24.3.2012, n. 27, ha incluso gli organismi di investimento collettivo del risparmio - fondi comuni d’investimento e SICAV - istituiti in Italia e residenti nel territorio dello Stato, tra i soggetti passivi dell’IRES (art. 73, co. 3, T.U.II.DD.). Inoltre, ha introdotto l’esenzione dall’imposta societaria dei loro redditi, prevedendone la tassazione direttamente in capo ai sottoscrittori al momento del riscatto delle quote (art. 73, co. 5 quinques).
In precedenza la materia era regolata dall’art. 8, d.lgs. 21.11.1997, n. 461, che disponeva la tassazione sostitutiva presso il fondo o la SICAV dei redditi maturati dagli stessi organismi d’investimento. Abrogata questa forma d’imposizione, il riconoscimento espresso degli O.I.C.R. quali soggetti passivi dell’IRES si è reso necessario sia per evitare ambiguità interpretative, sia e in particolare per consentire l’applicazione nei loro confronti delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
In realtà, se ben si riflette, non si tratta di un vero e proprio “nuovo” soggetto passivo. Più semplicemente, prima del d.l. n. 1/2012 gli O.I.C.R. residenti erano soggetti passivi dell’imposta sostitutiva, che si applicava, appunto, nei loro confronti, mentre oggi essi sono a tutti gli effetti soggetti passivi dell’IRES, anche se i redditi da loro prodotti sono esenti e tassati in capo ai sottoscrittori come redditi personali.
Per quanto concerne i fondi pensione, istituiti ex art. 2117 c.c., la giurisprudenza più risalente aveva negato loro soggettività autonoma, ritenendo di assegnarla, piuttosto, ai loro enti di gestione (Cass., 26.6.1991, n. 7202, la quale, ritenendo imprescindibile, per la qualificazione di un’entità come soggetto giuridico, l’imputazione autonoma dei rapporti giuridici, negò siffatta qualifica al Fondo pensione per il personale di un ente lirico; in precedenza Cass., S.U., 18.10.1978, n. 4668, con motivazioni simili escluse la soggettività di un Fondo di quiescenza e previdenza dei dipendenti di un ente pubblico statale). Questa tesi, oggi, deve essere sottoposta e revisione. Infatti, con il d.lgs. 5.12.2005, n. 252, si è prevista la tassazione sostitutiva in capo al Fondo dei redditi conseguiti dalla gestione (ai sensi dell’art. 17 «i fondi pensione sono soggetti ad imposta sostitutiva delle imposte sui redditi nella misura dell’11 per cento, che si applica sul risultato netto maturato in ciascun periodo d’imposta»). Non sembra azzardato concludere, pertanto, che, limitatamente a questa forma d’imposizione, il fondo sia adesso configurabile come soggetto autonomo, sebbene non annoverato tra quelli passivi dell’IRES.
Meritano di essere ricordate, con una rapida e sintetica analisi, figure ulteriori sulle quali il dibattito si è ormai concluso o la discussione è ancora accesa.
La famiglia non è soggetto per il diritto tributario attuale. Lo fu probabilmente - compresa la famiglia di fatto - nel vigore dell’imposta di famiglia disciplinata dal testo unico sulla finanza locale del 1931 e nel vigore del focatico, di ottocentesca istituzione.
Quanto all’impresa familiare, l’art. 5 T.U.II.DD. depone senz’altro a favore della sua espunzione dal novero dei soggetti passivi. Ad identico risultato conducono, poi, le previsioni che, qua e là, si richiamano all’azienda coniugale condotta in forma non associativa. Impresa familiare e azienda coniugale non vengono prese in considerazione come entità autonome e distinte dalle persone fisiche che le compongono, le quali, infatti, sono le sole ad essere qualificabili come soggetti passivi (Turchi, A., La famiglia nell’ordinamento tributario, Torino, 2012, già 27 ss.).
A medesima conclusione si deve giungere per l’eredità giacente, disciplinata dall’art. 187 T.U.II.DD (già art. 131). La disposizione, che è stata applicata in via analogica alle ipotesi di sequestro giudiziale e confisca non definitiva, ha ad oggetto la tassazione dei redditi dei beni in giacenza, fino alla loro assegnazione al titolare definitivo dell’eredità. Tassazione provvisoria, dunque, il cui accertamento è rimesso ad una figura terza: il curatore, il quale ha diritto di rivalersi sul patrimonio ereditario.
Sulla stabile organizzazione di società o enti non residenti nel territorio dello Stato il discorso è più complesso. Andando all’osso, l’opinione prevalente nega ad essa soggettività autonoma. Pur non essendo mancate voci che tentarono, nel passato, di riportarla alla disposizione residuale del co. 2 dell’art. 73 T.U.II.DD., la più recente disciplina ed in particolare quella dell’art. 23, co. 1, lett. d), e dell’art. 162 del medesimo T.U., sospinge, ormai e sicuramente, nella direzione accennata: la stabile organizzazione è configurabile alla stregua di sede di affari, materiale o personale, mediante la quale un’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio del nostro Stato. Un “centro”, insomma, designato allo scopo di agevolare la ricostruzione del reddito secondo il principio di territorialità, e per assicurare la corretta determinazione e il più agevole accertamento del debito d’imposta, la titolarità del quale, però, rimane in capo alla società estera.
Queste notazioni consentono di verificare se ed in quali termini la stabile organizzazione c.d. occulta possa acquisire rilievo impositivo distinto, autonomo da quello proprio della società estera della quale è articolazione operativa. Per ampliare le garanzie di riscossione, si è sostenuto, con un’interpretazione cervellotica, che il reddito prodotto sul nostro territorio dalla stabile organizzazione non sia imputabile alla società estera ma a quella italiana, che, collegata o controllata dalla prima, “nasconderebbe” nel suo seno la stabile organizzazione - occulta, appunto - che si compenetrerebbe, in qualche modo, con essa (Cass., 22.7.2011, n. 16106). Detto altrimenti, la stabile organizzazione della società estera, giacché asservita alla struttura organizzativa di una subsidiary italiana, non costituirebbe più articolazione operativa di quella, ma se ne distaccherebbe per assumere la vesta di articolazione della società italiana, seppure con redditi costituiti in “massa separata”. Questa impostazione non è convincente: se siamo in presenza di una stabile organizzazione, palese od occulta che sia, la titolarità, così del reddito, come del debito d’imposta, è soltanto dell’ente estero. Ed essa non può, di riflesso o per “interposta persona” della società italiana, né divenire autonomo soggetto, né distaccarsi dall’ente estero per il mascheramento che su di essa produrrebbe l’“incorporazione” in un soggetto passivo residente.
L’associazione temporanea d’impresa è fenomeno normativamente complesso e questa complessità si rispecchia sul suo inquadramento già in diritto civile. È possibile, tuttavia, tirando le fila della discussione, riassumerne le conclusioni in queste poche battute. Se il contratto di associazione temporanea si concretizza in un mandato collettivo speciale con rappresentanza, l’individualità delle imprese partecipanti all’associazione rimane immutata. Qualora, invece, le imprese predispongano, a fianco del mandato, un’organizzazione comune, incardinata, in qualche modo, in una delle forme societarie previste dall’art. 2249 ss. c.c., non pare lecito dubitare che ci si trovi a petto di un autonomo soggetto di diritto, magari assimilabile ad una società di fatto, con la conseguente applicazione, nei suoi confronti, dalle norme che assimilano, ai fini tributari, dette società a quelle semplici o in nome collettivo sulla base dell’oggetto dell’attività in concreto svolta.
Il G.E.I.E. (gruppo europeo di interesse economico) è disciplinato dal Regolamento CE n. 2137/85 del Consiglio CE del 25.7.1985, e, per quanto riguarda il nostro ordinamento, dal d.lgs. 23.7.1991, n. 240. Il gruppo è configurato come autonomo centro d’imputazione di rapporti giuridici, distinto dai soggetti che ne fanno parte, ed è, dunque, ente dotato di capacità giuridica autonoma, con possibilità di contrarre, stare in giudizio e possedere un patrimonio proprio. Sebbene il d.lgs. n. 240/1991 non abbia dotato il gruppo di personalità giuridica, ma lo abbia assimilato alle società di persone, la sua autonomia soggettiva pare fuori discussione. Dal punto di vista fiscale, l’art 40 del Regolamento CE del 1985 stabilisce che i frutti dell’attività del gruppo sono assoggettati ad imposizione solo in capo ai sui membri, in aderenza al “principio di trasparenza”, da noi raccolto nell’art. 5 T.U. per i redditi prodotti, proprio, dalle società di persone. D’altra parte, che il G.E.I.E. sia configurabile come soggetto distinto dai suo partecipanti discende anche dall’art. 4 della Tariffa, parte prima, allegata al T.U. dell’imposta di registro, d.P.R. 26.4.1986, n. 131, che richiama espressamente gli atti da esso realizzati.
Anche per le aziende speciali dei comuni e delle camere di commercio pare assodata la qualificazione come autonomi soggetti. La legislazione degli anni novanta e quella ancor più recente (l. 8.6.1990, n. 142; d.m. 23.7.1997, n. 287; d.lgs. 18.8.2000, n. 267, contenente il T.U.E.L.), ha infatti attribuito alle “nuove” aziende personalità giuridica. E siccome strutturate, anche dal punto di vista patrimoniale, amministrativo e gestionale, come autonome, non possono che rivestire i panni dei soggetti passivi tout court (Castaldi, L., Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, 78 ss.; Cass., S.U., 12.11.2004, n. 21503, e anche Ris. Agenzia Entrate, 23.3.2005, n. 37/E).
A conclusione diversa si deve giungere per l’istituzione, disciplinata dal co. 2 dell’art. 114 T.U.E.L., per il quale essa «è organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio di servizi sociali, dotato di autonomia gestionale», ma privo di personalità giuridica, di autonomia statutaria e regolamentare. La sola autonomia gestionale, invero, non è sufficiente a caratterizzare questa entità come autonomo soggetto giuridico, anche in considerazione del fatto che gli atti fondamentali nei quali si concretizza siffatta autonomia - approvazione del bilancio preventivo, controllo e costituzione del fondo di dotazione - sono attribuiti direttamente all’ente locale dal quale l’istituzione germina. L’autonomia gestionale, piuttosto, rafforza la natura dell’istituzione come “organo” dell’ente “madre” e del quale diviene, per così dire, braccio operativo per l’erogazione di servizi personali.
La qualificazione dello Stato alla stregua di soggetto passivo, titolare dell’obbligazione d’imposta e, simultaneamente, del credito corrispondente, ha alimentato ampie discussioni (Castaldi, L., Soggettività tributaria, in Diz. dir. pubbl. Cassese, Milano, 2006, 5618).
Per le imposte erariali, a stretto rigore, una qualificazione siffatta dovrebbe essere esclusa, non essendo configurabili rapporti obbligatori unisoggettivi. La dualità delle situazioni giuridiche, infatti, è elemento essenziale di questa tipologia di rapporto, come implicitamente testimonia la confusione ex art. 1253 c.c., la quale, proprio per il venir meno del requisito della dualità, comporta l’estinzione del vincolo.
Dal punto di vista del diritto positivo, tuttavia, le cose non stanno sempre in questi termini. Mentre l’art. 74, t.u. imposte sui redditi, esclude gli organi e le amministrazioni dello Stato, comprese le amministrazioni autonome, anche se dotate di personalità giuridica, dai soggetti passivi dell’IRES; l’art. 4 d.P.R. 26.10.1972, n. 633, include lo Stato e gli organismi di diritto pubblico tra questi soggetti, limitatamente alle operazioni diverse da quelle svolte come pubbliche autorità o relative ad attività economiche che, seppur svolte come pubbliche autorità, non sono esercitate in regime di privativa; e l’art. 6, co. 5, dello stesso decreto obbliga lo Stato alla corresponsione dell’IVA per acquisti effettuati e servizi ricevuti da imprenditori o esercenti arti e professioni.
Quanto all’art. 74 non sembrano necessarie particolari osservazioni: assunta un’accezione ampia di Stato, ossia quella di Stato-organizzazione, articolato in entità distinte e diversamente qualificate, la norma pare sottendere la necessaria plurisoggettività del rapporto d’imposta, finendo per scolpire, coerentemente, un’esclusione soggettiva in senso proprio.
L’art. 4 e l’art. 6, invece, si discostano radicalmente da questo impianto. La spiegazione si può probabilmente rintracciare nel meccanismo applicativo dell’IVA e nell’esigenza di non introdurre, con un’eventuale esclusione dello Stato, un vulnus alla regola della neutralità e, più in generale, al principio comunitario della libera concorrenza.
Quel che s’intende dire è questo: nelle ipotesi richiamate, l’acquisizione o la corresponsione del tributo da parte dello Stato si riducono a variabili contabili, a “partite di giro” di contabilità pubblica, attuate per garantire il corretto procedimento traslativo del tributo e per non vulnerare il criterio della neutralità tipico del suo regime applicativo. La finalità, insomma, è quella di non alterare la catena impositiva ed i meccanismi di neutralizzazione dell’onore, in guisa da non incidere negativamente sulle attività produttive e distributive del mercato domestico e comunitario, o modificare l’incidenza del tributo sul consumatore finale.
Art. 53 Cost.; artt. 1, 2117, 2364, 2364 bis, 2479 bis, 2359, 2740 c.c.; art. 64, d.P.R. n. 600/73; artt. 35, 38, d.P.R. n. 602/1973; artt. 5, 23, 73, 74, 117 ss., 162, 187. d.P.R. n. 917/1986; artt. 4, 6, d.P.R. n. 633/1972; art. 114, d.lgs. n. 267/2000; Conv. Aja 1.7.1985; l. 16.10.1989, n. 364; Reg. CE n. 2137/85.
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