SOLE E PIANETI
Sole, di Guglielmo Righini
La struttura interna del Sole, di Claudio Chiuderi
Attività solare, di Robert W. Noyes
Origini e struttura del sistema solare, di Roman Smoluchowski
Sole di Guglielmo Righini
sommario: 1. Generalità. 2. La fotosfera. 3. La cr0mosfera. 4. La corona. □ Bibliografia.
1. Generalità
Il Sole è una stella di popolazione I appartenente alla sequenza principale; il suo tipo spettrale nella classificazione di Morgan-Keenan è G2. Poiché le grandezze relative alla stella Sole servono come riferimento per tutte le altre, esse sono state determinate con particolare cura (v. tab. I).
La ragione principale dell'importanza e dello sviluppo degli studi solari risiede nella possibilità di studiare in dettaglio i fenomeni che avvengono sul disco del Sole. L'atmosfera terrestre, perturbando le immagini, limita le prestazioni degli strumenti, per cui soltanto in ottime condizioni si possono osservare strutture solari che sottendono un secondo d'arco. Anche le osservazioni solari dallo spazio non hanno migliorato la situazione, in quanto sono state fino ad ora orientate a esplorare lo spettro ultravioletto e X del Sole.
Per corrispondere agli scopi degli studi solari più avanzati, uno strumento deve dare la più grande immagine possibile del disco solare; di qui l'uso di obiettivi con distanza focale lunghissima e aperture relativamente molto modeste, atte a minimizzare i fenomeni termici sul piano focale.
Lo strumento solare tipico è la ‛torre solare', nella quale i raggi solari sono rimandati verticalmente mediante due specchi, uno mobile che segue il Sole (eliostato) e l'altro fisso. Un obiettivo a lunga distanza focale (da 18 a 50 metri) forma una grande immagine sul piano focale dello strumento; al telescopio vero e proprio si affianca un laboratorio che può essere sistemato entro un pozzo o in un locale vicino al telescopio. Nel laboratorio sono di solito contenuti un grande spettrografo e strumenti ausiliari per lo studio fisico dei fenomeni solari.
Come in tutte le stelle di tipo G2, anche nel Sole l'energia viene prodotta quasi esclusivamente per il processo di formazione di un nucleo di elio in seguito alla fusione di 4 protoni. La fornace solare (‛nucleo' o core) occupa un volume che ha un raggio di 0,25 R⊙, nell'interno del quale probabilmente si hanno delle correnti convettive; essa è circondata da un inviluppo o ‛mantello', dello spessore di 0,60 R⊙, la cui temperatura non è più sufficiente per l'innesco delle reazioni nucleari. L'energia prodotta nel nucleo si propaga attraverso l'inviluppo mediante successivi processi di assorbimento e di riemissione. Per questo si dice anche che il mantello è in ‛equilibrio radiativo': in esso non possono instaurarsi e sopravvivere delle correnti convettive. Queste invece si sviluppano e si mantengono nella ‛zona convettiva', che avvolge il mantello e che ha uno spessore un po' inferiore a 0,14 R⊙. La corteccia finale della stella Sole, dello spessore di 500 km (equivalenti a 0,0007 R⊙), costituisce la ‛fotosfera' ed è la sola parte a noi accessibile, in quanto l'opacità della materia solare ci impedisce di vedere più in profondità. All'esterno della fotosfera si trova la ‛cromosfera', che - normalmente invisibile a causa della piccola opacità - si può osservare al bordo del disco durante le eclissi totali, quando la Luna ha già completamente occultato la fotosfera, e anche sul disco in alcune radiazioni monocromatiche, come la riga H, dell'idrogeno e la K del Ca II, per le quali l'opacità è elevata.
La corona che sovrasta la cromosfera e si estende nello spazio è invisibile in assenza di eclissi perché soverchiata dalla luminosità generale del cielo. Soltanto in alcune stazioni di montagna, quando la luminosità generale del cielo vicino al Sole è inferiore a 10-6 volte la brillanza del centro del disco, è possibile osservare la parte interna della corona qualora la fotosfera venga artificialmente eclissata.
La zona convettiva si manifesta con la ‛granulazione' (v. fig. 2). Le dimensioni dei granuli sono variabili da un massimo di 5 secondi d'arco a un minimo di 1 secondo o meno; la differenza di temperatura fra granulo e materia intergranulare si aggira intorno a 100 °K; la vita media dei granuli non supera gli 8-10 minuti.
2. La fotosfera
Nella fotosfera solare l'energia si propaga prevalentemente secondo un meccanismo radiativo; essa non è certamente in uno stato di equilibrio termodinamico globale, poiché in tal caso non dovrebbe lasciar sfuggire radiazione alcuna, ma si trova in uno stato di equilibrio termodinamico locale. Questo significa che a ogni volume di atmosfera sufficientemente piccolo si può applicare il principio di Kirchhoff.
Da ogni livello fotosferico abbiamo allora un'emissione che sarà caratterizzata dalla temperatura locale; l'energia emessa verrà in parte assorbita dalla materia sovrastante e la somma dei contributi dovuti ai singoli livelli darà il flusso uscente che si riceve. Poiché cromosfera e corona hanno densità ottica piccolissima nello spettro continuo, si può dire che il flusso che si osserva è quello che esce al livello superiore della fotosfera. Per i punti vicini al bordo solare si ha soltanto il contributo degli strati superiori, dove la temperatura è minore e quindi anche il flusso uscente è ridotto. Questo è il fenomeno dell'oscuramento al bordo del disco solare, che dipende dalla frequenza della radiazione. Dall'osservazione dell'oscuramento al bordo si può dedurre la temperatura e la pressione nella fotosfera solare a diverse profondità ottiche.
La densità molto piccola dei gas fotosferici non giustifica l'emissione di un intenso spettro continuo, in quanto questa è legata all'assorbimento del gas secondo il principio di Kirchhoff. Dallo studio dell'oscuramento al bordo si è però dedotto che al meccanismo classico dell'assorbimento per ionizzazione degli atomi si deve aggiungere l'assorbimento prodotto dallo ione negativo di idrogeno H-, il quale si forma per cattura di un elettrone da parte di un atomo neutro. L'assorbimento avviene nel processo
H-→H+e-1,
l'emissione, invece, nel processo inverso.
Il coefficiente di assorbimento dell'atmosfera solare è in realtà molto più complesso, per il contributo degli effetti di ionizzazione di alcuni elementi e dell'interazione dei fotoni con gli elettroni liberi del gas.
Le righe di assorbimento (o righe di Fraunhofer) si formano nella fotosfera solare così come si forma il continuo; le righe deboli si formano nella parte bassa della fotosfera, quelle più intense si formano negli strati più alti. Alcune righe molto intense, come la H e la K del Ca II e le righe dell'idrogeno, si formano invece nella bassa cromosfera; ne segue che questa diventa otticamente densa se osservata nelle righe predette perché il coefficiente di assorbimento monocromatico assume valori molto elevati a tali frequenze.
L'intensità delle righe di Fraunhofer viene espressa mediante la ‛larghezza equivalente' W, che rappresenta la larghezza di una banda dello spettro continuo adiacente, la quale contenga un'energia uguale a quella scomparsa nella riga per assorbimento. La relazione fra log W e log Nf, dove N è il numero di atomi per cm2 di superficie ed f è una costante atomica (forza dell'oscillatore), è la ‛curva di crescenza' che viene data dalla teoria. Adattando i risultati sperimentali alla curva di crescenza teorica si possono dedurre i valori relativi di Nf per ogni elemento presente nella fotosfera solare. Per ottenere il numero totale di atomi, però, è necessario far ricorso alla legge di Boltzmann, che determina la distribuzione degli atomi nei diversi livelli energetici, e a quella di Saha, che ci dà il rapporto fra atomi ionizzati e atomi neutri, leggi queste che valgono rigorosamente soltanto quando esista un equilibrio termodinamico.
Applicando la tecnica della curva di crescenza è stata fatta un'accurata analisi quantitativa della fotosfera del Sole e di alcune stelle più brillanti.
Quando sia possibile, invece, ottenere il profilo fotometrico delle righe spettrali usando strumenti ad alto potere risolutivo, allora si può ricorrere a un metodo più preciso, ma anche più complesso.
I valori più aggiornati delle abbondanze relative rispetto all'idrogeno sono riportati nella tab. II.
Le righe di assorbimento, quando siano osservate con strumenti che abbiano potere risolutivo elevato, non appaiono diritte, bensì mostrano una struttura a zig-zag che denuncia la presenza nella fotosfera di un effetto Doppler macroscopico. Le singole ondulazioni sono quasi periodiche nel tempo e sono probabilmente dovute a perturbazioni indotte nella fotosfera dalle correnti convettive che costituiscono la granulazione. Esiste inoltre nella fotosfera un moto di masse le cui dimensioni sono certamente dell'ordine di 100 km. Questa ‛microturbolenza', non osservabile direttamente, si ritiene sia dovuta alla presenza, nella fotosfera, delle onde acustiche prodotte dalla granulazione. Moti orizzontali paralleli alla superficie solare sono stati pure osservati entro strutture le cui dimensioni si aggirano intorno ai 30.000 km. La circolazione del materiale sembra avvenire radialmente dal centro della zona verso la periferia e interessare non solo la fotosfera, ma anche uno strato della zona convettiva, come pure la parte bassa della cromosfera. Queste grosse strutture convettive sono state indicate col nome di ‛supergranuli' e sembrano essere strettamente connesse col campo magnetico generale del Sole. Si osserva pure una pulsazione generale della fotosfera con un periodo di 5 minuti: la sua velocità massima non supera gli 0,4 km/s. Le cause di questo nuovo fenomeno non sono ancora completamente chiarite.
3. La cromosfera
Lo spettro della cromosfera è costituito da righe di emissione che corrispondono in massima parte alle righe di assorbimento dello spettro solare, con alcune righe in più, come le righe dell'He I e dell'He II, le quali richiedono una temperatura di eccitazione maggiore della temperatura fotosferica. Anche la presenza delle righe di Balmer nello spettro solare è un indizio che la temperatura della cromosfera deve essere assai più elevata di quella della fotosfera. Infatti il potenziale di eccitazione del secondo livello dell'idrogeno è di 10,19 eV; il potenziale di ionizzazione dell'elio è di 24,5 eV, mentre il potenziale di eccitazione medio delle righe fotosferiche è intorno a 2 eV.
La cromosfera è visibile sul disco soltanto se osservata in una banda di lunghezza d'onda non superiore a 0,5 Å, la quale sia centrata su una delle intense righe che si formano prevalentemente in questo strato. Si impiegano per queste osservazioni la riga Hα dell'idrogeno o la riga K del Ca II, i cui centri presentano un'intensità residua, che per la riga Hα è circa il 15% dello spettro continuo. Poiché il coefficiente di assorbimento monocromatico nella riga è molto elevato, la radiazione in questione proviene soltanto dagli strati superiori della cromosfera. Se invece si isola la radiazione proveniente da altri punti del profilo, per i quali il coefficiente di assorbimento è minore, si ottiene radiazione dagli strati più profondi; centrando la banda sulle ali del profilo si riceve invece soltanto la radiazione della fotosfera.
Lo strumento principe per la fotografia della cromosfera è lo spettroeliografo, che è essenzialmente un grosso monocromatore capace di isolare una banda spettrale della larghezza di 0,5 Å. Un dispositivo meccanico fa sì che, mentre la prima fenditura esplora tutta l'immagine del Sole, la seconda fenditura dia una giusta posizione di tante immagini monocromatiche della prima fenditura sulla lastra fotografica. Esso ha però lo svantaggio della lentezza, poiché si richiedono sempre alcuni minuti per avere l'immagine monocromatica del Sole; il filtro monocromatico polarizzatore di Lyot-Ohman permette invece di ottenere la stessa immagine in tempi brevissimi, dell'ordine dei centesimi di secondo.
Le fotografie monocromatiche del Sole prese nella riga Hα, dell'idrogeno o K del Ca Il mostrano zone brillanti estese e altre zone filiformi oscure: sono, rispettivamente, le ‛zone facolari' o plages e i ‛filamenti'. Inoltre, si osserva su tutto il disco una struttura costituita da punti brillanti su di uno sfondo oscuro (chromospheric network); i punti brillanti sono associati al campo magnetico che si osserva al confine fra i supergranuli.
I punti brillanti che costituiscono la rete cromosferica sono la conseguenza di fluttuazioni locali nel profilo fotometrico della riga. Puntando la fenditura dello spettroscopio tangenzialmente al disco visibile si può osservare che la struttura della cromosfera è costituita da tanti sottili filamenti del diametro da 500 a 1.500 km, chiamati ‛spicule': si tratta di getti di plasma solare che salgono dalla cromosfera con velocità di circa 25 km/s; la loro vita media è di circa 15 minuti.
Spettroeliogrammi presi dai satelliti della serie OSO (Orbiting Solar Observatory) nella riga Lyman a 1.216 Å di lunghezza d'onda mostrano una struttura cromosferica essenzialmente analoga a quella ricavabile dagli spettroeliogrammi ottenuti nella riga K del Ca II.
4. La corona
Durante un'eclissi totale di Sole la brillanza del cielo si riduce a 10-9 volte quella del centro del disco; la corona diviene quindi visibile fino a una distanza di 3-4 raggi solari dal bordo del disco.
Quando il Sole eclissato si trova sotto l'orizzonte e le osservazioni vengono effettuate da un aereo in volo, la corona si osserva fino a parecchi gradi di distanza dal Sole, fino a che essa sfuma e si immerge nella luce zodiacale.
La forma della corona è molto variabile e dipende dall'attività solare. Si distinguono nella corona tre componenti: a) la componente K, costituita da uno spettro continuo, che predomina nella parte interna della corona; b) la componente F, così denominata per la presenza delle righe di Fraunhofer, nella quale si vedono riprodotte le strutture dello spettro solare; c) la componente E, che si osserva soltanto nella parte interna della corona ed è costituita da righe di emissione dovute a elementi più volte ionizzati.
Sia la componente K sia quella F (comunemente chiamate corona K e corona F) hanno una distribuzione spettrale che ricalca esattamente quella dello spettro solare; ciò significa che la loro radiazione è radiazione della fotosfera solare diffusa in maniera non selettiva. Perché questo avvenga è necessario che le particelle diffondenti siano o molto piccole (elettroni) o molto grandi (particelle materiali, polvere) rispetto alla lunghezza d'onda. Il fatto che la corona K mostri uno spettro continuo significa che gli elettroni diffondenti devono essere dotati di velocità tali da far sì che le righe di Fraunhofer vengano allargate al punto da essere cancellate nel processo di diffusione. Ciò è possibile soltanto se la temperatura del plasma coronale è dell'ordine di un milione di gradi.
Viceversa, la corona F si spiega con la presenza di particelle materiali, cioè di polvere, le quali sono praticamente in quiete.
Elettroni e particelle coesistono, ma, mentre i primi prevalgono nella corona interna, le seconde diventano preponderanti nella corona media ed esterna. Le due componenti si possono facilmente separare misurando la profondità delle righe di assorbimento dello spettro coronale rispetto al continuo. Un altro procedimento per separare le due componenti consiste nel misurare il grado di polarizzazione della corona. La radiazione diffusa da elettroni deve apparire polarizzata in ogni punto col vettore elettrico perpendicolare al raggio congiungente il punto considerato col centro del Sole; per ragioni geometriche la polarizzazione risulta soltanto parziale, come si vede nella fig. 15. Supponendo inoltre che la corona K abbia una certa simmetria intorno al Sole, si può, con un semplice procedimento matematico, dedurre il numero Ne di elettroni per cm3.
La corona E consta di uno spettro di righe in emissione che sono dovute a transizioni ‛proibite' di ioni di elementi diversi. Così la riga più intensa, di 5.303 Å, è dovuta al Fe XIV, la 6.374 al Fe X, le due righe 5.694 e 5.445 al Ca XV, il doppietto 10.747 e 10.798 al Fe XIII e così via. Si conoscono oggi, nello spettro visibile, oltre una quarantina di righe, la cui presenza costituisce un'ulteriore conferma dell'alta temperatura che deve avere il plasma coronale. I profili di queste righe, studiati in alcuni casi con interferometri ottici, hanno confermato, con la loro larghezza dovuta all'effetto termico degli atomi, l'esistenza di temperature intorno al milione di gradi.
Strumenti spettroscopici posti a bordo di razzi e di satelliti hanno rilevato righe di emissione nello spettro della corona fino a lunghezze d'onda di pochi ångström, cioè fin nel dominio dei raggi X molli.
A lunghezze d'onda inferiori a 1.500 Å lo spettro continuo della fotosfera praticamente scompare, per cui si può studiare la distribuzione del plasma coronale sul disco. Recentemente sono state ottenute dal satellite artificiale Skylab anche fotografie dirette della corona nei raggi X molli mediante un telescopio a incidenza radente. Data l'alta temperatura del plasma solare, si ha in questo caso l'emissione continua della corona, che presenta un massimo di intensità intorno a 100 Å. Osservazioni continue dell'emissione globale della corona nelle bande 8-12 Å e 40-60 Å vengono anche eseguite dai satelliti SOLRAD già da parecchi anni.
La corona emette anche radioonde, che noi possiamo ricevere liberamente nella gamma da 2 cm a 10 metri. I fotoni radio hanno energia piccolissima, minore di 10-4 eV; la loro origine va ricercata nei processi di interazione fra elettroni e ioni presenti nella corona. Più denso è il plasma, più energica è l'interazione e di conseguenza minore la lunghezza d'onda del fotone emesso; la corona è otticamente sottile per le onde di qualche centimetro, per cui questa radiazione ci può giungere dalla cromosfera; essa è invece otticamente densa per le onde metriche. Queste provengono quindi dagli strati superiori della corona.
Il flusso radioelettrico, misurato a diverse lunghezze d'onda, si può rappresentare bene con una funzione di corpo nero (Planck) la cui temperatura si trovi nell'intervallo compreso tra 0,8×106 e 1,5×106 °K. Questa è un'ulteriore prova dell'alta temperatura della corona.
Si ritiene oggi che la sorgente di energia che mantiene l'alta temperatura nella corona sia da ricercarsi proprio nel moto turbolento della zona di convezione; si tratterebbe infatti di energia meccanica che verrebbe dissipata principalmente nella cromosfera e nella corona. Dal punto di vista del bilancio energetico essa è trascurabile, in quanto ammonta al massimo a 10-4 volte l'energia elettromagnetica emessa dal Sole; dal punto di vista fenomenologico, invece, essa è l'unica che può spiegare il rapido aumento di temperatura nell'interfaccia cromosfera-corona. Non si può escludere che anche la dissipazione dell'energia contenuta in altri tipi di onde possa portare un contributo apprezzabile al riscaldamento della cromosfera e della corona; la presenza di un campo magnetico e la sua interazione col plasma solare potrebbero dare origine alle cosiddette onde magnetoidrodinamiche (onde di Alfvén), la cui energia potrebbe essere dissipata per effetto Joule dalle correnti elettriche che verrebbero a formarsi nella zona perturbata.
La corona non è statica, ma si espande continuamente; per il fatto che esiste in essa una pressione positiva, per quanto debole, si forma una corrente di materiale solare che viene iniettato nello spazio interplanetario, comunemente chiamata ‛vento solare'; questa corrente ha una velocità media di 500 km/s, una densità di poche particelle per cm3 e una temperatura di circa 105 °K. Nei periodi di Sole attivo la sua velocità può aumentare fino a 1.500 km/s. La distanza Sole-Terra viene coperta dal vento solare in 5 giorni, perché le particelle solari percorrono una linea curva per giungere sulla Terra, a causa del campo magnetico interplanetario che controlla il moto delle particelle. Le linee di forza che nascono sul Sole e si estendono nello spazio vengono molto incurvate dalla rotazione del Sole stesso e formano dei ‛settori' entro i quali si muove il plasma costituente il vento solare. Si può concludere che la Terra e anche gli altri pianeti sono immersi nell'atmosfera solare, benché questa, alla distanza del nostro pianeta, sia rappresentata solo da poche particelle per cm3.
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La struttura interna del Sole di Claudio Chiuderi
sommario: 1. Introduzione. 2. La struttura interna del Sole. 3. I neutrini solari. 4. Le oscillazioni della superficie solare: a) dati osservativi sulle oscillazioni; b) fisica delle oscillazioni. 5. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La posizione occupata dal Sole nell'ambito della moderna astrofisica è, per molti aspetti, unica. Ciò non è dovuto a caratteristiche peculiari del Sole rispetto ad altre stelle: da questo punto di vista il Sole è, in realtà, un oggetto di limitato interesse. La sua importanza risiede nel fatto di essere vicino, e quindi osservabile con un dettaglio e una precisione impensabili per altri corpi celesti. I migliori strumenti ottici a terra sono capaci di distinguere sulla superficie del Sole dettagli inferiori al secondo d'arco (1″≃700 km alla distanza di una unità astronomica) e strumenti montati su satelliti artificiali potranno tra breve raggiungere risoluzioni di 0,1″. Analogo potere risolutivo può essere ottenuto con osservazioni radioastronomiche per mezzo di interferometri a lunga base, mentre osservazioni risolte al secondo d'arco sono tecnicamente fattibili nelle bande ultravioletta e dei raggi X.
L'osservazione della superficie solare fornisce di per sé informazioni di primaria importanza sulle proprietà delle atmosfere stellari, sui campi magnetici, sulla perdita di massa verso il mezzo interstellare. Il plasma della corona solare è un grande laboratorio dove hanno luogo continuamente processi astrofisici fondamentali, in condizioni irripetibili nei nostri laboratori terrestri. La corretta interpretazione dei dati di osservazione può in molti casi costituire la chiave per la comprensione di altri fenomeni cosmici di ben altra imponenza, ma troppo lontani per essere analizzati in dettaglio. Vi è tuttavia un altro contesto in cui lo studio del Sole assume un'importanza fondamentale: quello della struttura e dell'evoluzione stellare. In questo campo il Sole costituisce il sottile legame che unisce l'astronomia, come scienza naturale, alla fisica induttiva-deduttiva galileiana.
Secondo la moderna astrofisica, la struttura di una stella a un dato momento e il suo evolversi sono completamente fissati dalla massa e dalla composizione iniziali, nonché dal tempo trascorso dalla formazione. È quindi teoricamente possibile, utilizzando le leggi note della fisica, indicare quale sia lo stato dinamico e termodinamico di ogni parte della stella e predire come tale stato cambi con il tempo. Lo schema teorico ora esposto è riuscito a render conto di un buon numero di fatti osservati. Tuttavia una verifica osservativa diretta delle supposte proprietà dell'interno delle stelle manca ed è d'altronde essenziale nella nostra concezione del metodo scientifico. I termini del problema sono semplici e scoraggianti. La quasi totalità delle informazioni che ci giungono dalle stelle è trasportata dalla radiazione elettromagnetica. Ma la radiazione emessa dagli strati interni è assorbita da quelli sovrastanti, cosicché non abbiamo alcuna notizia diretta dalle zone dove avvengono i riposti, fondamentali meccanismi alla base del divenire stesso delle stelle. Tuttavia, sottili tracce della struttura interna sono rivelabili in effetti secondari, in modeste, ma significative, deviazioni dal comportamento medio, o nelle radiazioni di natura non elettromagnetica che giungono direttamente dal centro delle stelle.
È chiaro che tali effetti sono osservabili solo in condizioni eccezionalmente favorevoli, quali quelle offerte dal Sole con la sua vicinanza. Anche così il loro studio non è agevole: ogni progresso in questo campo è stato conquistato grazie alla straordinaria ingegnosità di alcuni astrofisici e alla loro costanza. Al momento attuale le nostre possibilità di indagine sulla struttura interna del Sole si fondano sull'osservazione (e la corretta interpretazione) di due fenomeni: l'emissione di neutrini dalle regioni centrali e le oscillazioni globali della superficie.
2. La struttura interna del Sole
Una stella è una massa di gas ad alta temperatura in equilibrio sotto le azioni contrastanti della sua stessa gravità e della pressione del gas. Altre cause di pressione, quali la radiazione o il campo magnetico, possono essere importanti in alcuni casi particolari, ma non lo sono di norma. La superficie della stella irradia energia elettromagnetica nello spazio circostante e uno stato stazionario può essere raggiunto se vi sono all'interno delle fonti di energia. Per la maggior parte della vita di una stella l'energia è fornita da reazioni termonucleari esotermiche che avvengono nelle regioni centrali. Nel caso del Sole, le reazioni più importanti ai fini della produzione di energia sono quelle capaci di trasformare quattro nuclei d'idrogeno in un nucleo di elio. Durante questo processo viene liberata un'energia di circa 26 MeV (≃4×10-5 erg). Questa energia è trasportata verso l'esterno per irraggiamento e per convezione. I modelli teorici della struttura interna del Sole prevedono che il modo dominante di trasporto sia quello radiativo nella parte più profonda, mentre gli strati più esterni a contatto con l'atmosfera solare sono sede di moti convettivi turbolenti. Oltre a fornire l'energia necessaria, le reazioni nucleari modificano la composizione del materiale stellare, diminuendo la percentuale di idrogeno e aumentando quella di elio. Questo a sua volta produce una variazione di pressione e costringe la struttura della stella a cambiare, adattandosi alle nuove condizioni. Di regola questi cambiamenti sono lentissimi. Solo dopo un tempo molto lungo la progressiva diminuzione dell'idrogeno al centro provoca sensibili variazioni e costringe la stella a uscire dal suo stato quasi stazionario e ad avviarsi verso le fasi finali della sua evoluzione.
Lo schema ora descritto viene generalmente considerato come una ragionevole prima approssimazione della teoria della struttura e dell'evoluzione stellare. In ogni particolare epoca la struttura è determinata dal bilancio delle forze e dalla composizione ‛istantanea'. La variazione di quest'ultima è la causa dell'evoluzione. I numerosi successi ottenuti dalla teoria dell'evoluzione stellare costruita su questi principi consentono di essere ottimisti sulla validità dello schema, almeno in linea di massima. Se tuttavia si esaminano criticamente i dettagli della procedura seguita, ci si rende conto della intrinseca fragilità della nostra costruzione teorica, come ora mostreremo nel caso del Sole.
I modelli di struttura solare vengono ricavati risolvendo numericamente un sistema di equazioni differenziali che esprimono la condizione di equilibrio meccanico, la condizione di stazionarietà, che lega il flusso radiativo al tasso di produzione di energia per mezzo di reazioni termonucleari, e infine le proprietà del materiale solare, per quel che riguarda il trasporto dell'energia dall'interno alla superficie. Si suppone che all'inizio della sua evoluzione termonucleare il Sole avesse una composizione omogenea, uguale alla sua attuale composizione superficiale. Questa può essere determinata con metodi spettroscopici, che indicano la presenza di idrogeno per circa il 78%, di elio per il 20% e di elementi più pesanti, particolarmente carbonio, azoto e ossigeno, per il rimanente 2%. Il Sole viene considerato un corpo sferico, con una velocità di rotazione sufficientemente bassa da eliminare distorsioni centrifughe. L'effetto dei campi magnetici sull'equilibrio è trascurato. Vengono calcolate così la struttura iniziale del Sole e la sua evoluzione successiva. Un certo numero di parametri, il cui valore è quanto meno incerto, vengono determinati imponendo che il modello solare, dopo un periodo di evoluzione di circa 4,7×109 anni, età stimata del Sole odierno, abbia una massa, un raggio e una luminosità pari a quelli osservati. Il modello così costruito è detto ‛modello standard'. È chiaro da quanto precede che l'aver ottenuto i valori corretti per età, massa, raggio e luminosità non rappresenta di per sé garanzia della validità del modello, poiché tali grandezze sono in realtà state usate come calibratori. Di qui l'importanza di una verifica indipendente della giustezza delle previsioni del modello stesso. La misura del flusso di neutrini solari rappresenta appunto una tale verifica.
3. I neutrini solari
I neutrini vengono emessi nelle reazioni termonucleari che hanno luogo nelle regioni centrali del Sole. A causa della loro neutralità elettrica, del minimo valore della loro massa, quand'anche diversa da zero, e della debolezza della loro interazione con la materia, i neutrini escono praticamente indisturbati dalla regione di produzione e si perdono nello spazio dopo aver attraversato tutta la stella. Il tasso di produzione dei neutrini è legato alle condizioni di temperatura e densità delle zone centrali della stella, che controllano la velocità delle reazioni nucleari. Quest'ultima è una funzione estremamente sensibile della temperatura, essendo proporzionale a Tn, con n≃4÷5, nell'intervallo di temperatura che qui interessa. Il flusso di neutrini è pertanto un ottimo termometro della temperatura interna del Sole. Poiché il modello standard prevede valori ben precisi della temperatura e della densità centrali del Sole, esso prevede anche un valore per il flusso di neutrini. Una conferma sperimentale del valore previsto sarebbe quindi di fondamentale importanza per l'intera teoria della struttura e dell'evoluzione del Sole e delle altre stelle. Ciò spiega l'interesse per la realizzazione di un esperimento in grado di misurare i neutrini solari. Un tale esperimento è stato proposto e realizzato da R. Davis jr. negli Stati Uniti e molte serie di misure sono state eseguite dal 1964 in poi. Prima di descriverlo e di discuterne i risultati, è utile considerare quali tipi di reazioni nucleari sono operanti all'interno del Sole e quali sono le caratteristiche dei neutrini prodotti.
Come già accennato, gran parte dell'energia solare proviene dalla trasformazione di idrogeno in elio. La serie di reazioni che rende possibile tale trasformazione è nota col nome di ‛catena protone-protone' o ‛catena p-p' ed è riprodotta nello schema riportato nella pagina seguente. In esso per ogni reazione è indicata la probabilità del processo qualora vengano emessi neutrini; accanto al simbolo del neutrino (ν) è indicata tra parentesi l'energia (in MeV), o l'intervallo di energie, con cui il neutrino è emesso.
Come si vede, per la trasformazione di idrogeno in elio si danno varie possibilità. La variante più frequente (catena pp I) è costituita dalle reazioni 2×[(1)+(2)]+(3) e produce neutrini di bassa energia (Eν≤0,42 MeV) nella sola reazione (1). La catena pp II, (1)+(2)+(3′)+(4)+(5), produce un secondo neutrino monoenergetico di energia leggermente più alta, mentre la più rara catena pp III, (1)+(2)+(3′)+(4′)+(5′)+(6), produce l'unico neutrino di alta energia (Eν≤14 MeV) di tutto l'insieme di reazioni considerato. Ognuna delle tre catene descritte può iniziare, con assai minor frequenza, con la reazione (1′), detta pep, al posto della (1). I rapporti di diramazione per le varie reazioni, e in particolare quello tra (3) e (3′), sono stati calcolati per il modello standard e sono quindi suscettibili di cambiamenti se tale modello risultasse inaccettabile.
Dallo schema di reazioni presentato risulta evidente che i neutrini che rivestono il massimo interesse da un punto di vista ‛diagnostico' sono quelli della fondamentale reazione (1), perché più numerosi e meno influenzati da variazioni del modello. Una discrepanza tra il valore calcolato e quello osservato per questi neutrini metterebbe in dubbio la validità dell'intera teoria della struttura e dell'evoluzione stellare. La rivelazione dei neutrini provenienti dalla reazione (1) non è stata finora possibile, anche se, come vedremo, esistono già proposte in questo senso. Il già citato esperimento di Davis, l'unico finora realizzato, è in grado purtroppo di rivelare solo neutrini la cui energia è superiore a 0,814 MeV, quindi essenzialmente quelli provenienti dalle reazioni (4) e (5′), più una frazione di quelli provenienti da (1′). Lo schema dell'esperimento di Davis è il seguente. La reazione sfruttata per la rivelazione dei neutrini solari è
ν+37Cl→37Ar+e-, (7)
che, per avvenire, richiede appunto neutrini di energia superiore a 0,814 MeV. I vantaggi dell'uso di questa reazione, suggerita indipendentemente da B. Pontecorvo e da L. Alvarez nel 1948, sono molteplici. Le grandi quantità di cloro necessarie sono reperibili a basso costo, per esempio utilizzando il tetracloroetilene C2 Cl4, un normale solvente liquido. L'argon prodotto dalla reazione (7) è radioattivo e la sua presenza, anche in quantità minime, può essere rivelata con metodi radiochimici. Nell'attuale versione dell'esperimento vengono usati circa 400.000 litri di C2 Cl4, posti in un contenitore, opportunamente schermato dagli effetti spuri, situato in una miniera alla profondità di circa 1.500 metri.
I risultati delle misure eseguite quasi ininterrottamente dal 1970 in poi vengono espressi usando una particolare unità per il flusso nei neutrini, la Solar Neutrino Unit (SNU) pari a 10-36 catture al secondo per atomo di 37Cl. Secondo i dati più recenti (1980) il flusso totale dei neutrini solari sulla Terra risulta uguale a 1,7÷0,4 SNU. Nelle condizioni dell'esperimento un tale flusso corrisponde a una cattura ogni tre giorni circa. Questo dà un'idea delle eccezionali difficoltà di misura: dopo un'esposizione di circa cinque mesi devono essere separate e contate poche diecine di atomi di argon disperse in un volume di 400 m3. Il valore teorico previsto per il flusso dei neutrini è di circa 5,8 SNU, superiore a quello misurato per più di un fattore tre. Le predizioni del modello standard sono dunque clamorosamente smentite. L'immediata conseguenza di questo risultato sembra essere che la temperatura centrale del Sole è minore di quella prevista dal modello standard. In realtà il problema è complicato dal fatto che la temperatura centrale non può essere variata, rimanendo nello schema del modello standard, senza variare anche altre quantità, in particolare la luminosità. La soluzione del problema risiede quindi nella possibilità di abbassare il flusso previsto di neutrini, mantenendo costante la luminosità. Per abbassare il flusso dei neutrini è necessaria una minor temperatura centrale, e di conseguenza una minor pressione centrale. La pressione ‛mancante', necessaria al mantenimento dell'equilibrio, potrebbe essere fornita da un campo magnetico o da un nucleo in rapida rotazione. Questa classe di modelli si scontra invariabilmente con problemi di stabilità dell'equilibrio. Un'altra possibilità consiste nel considerare modelli in cui qualche meccanismo provveda a omogeneizzare la zona centrale, mescolando i prodotti delle reazioni termonucleari con il circostante materiale ancora nella composizione originaria. Questo innalzerebbe la percentuale di idrogeno centrale e abbasserebbe quella di elio, permettendo di produrre la stessa quantità di energia a temperatura minore. Poiché la reazione (5′) è sensibilissima alla temperatura (∝T13), la principale sorgente di neutrini osservabili sarebbe grandemente indebolita. Il problema per questa classe di modelli deriva dal fatto che per ottenere un accordo con i valori sperimentali sarebbe necessario ottenere un mescolamento completo di circa il 70% della massa totale del Sole e non sono noti meccanismi in grado di farlo con l'efficienza richiesta, anche se esistono diverse proposte. Si può infine supporre che il Sole non sia in uno stato stazionario, cosicché l'energia irradiata non sarebbe uguale a quella prodotta. Se si verificasse un'improvvisa diminuzione nel tasso di produzione di energia, la luminosità ottica del Sole subirebbe una variazione dopo circa 107 anni (tempo di diffusione di un fotone dal centro alla superficie), mentre il flusso dei neutrini varierebbe dopo pochi secondi. Seguendo questa idea, dovremmo concludere che noi ci troviamo attualmente in un periodo di raffreddamento. Modelli oscillanti con successivi innalzamenti e abbassamenti della temperatura centrale sono stati studiati senza risultati conclusivi.
Un'ultima spiegazione del basso flusso di neutrini, assai più radicale delle precedenti, è stata suggerita recentemente da un esperimento di F. Reines e collaboratori (1980). In sintesi, il neutrino non sarebbe una particella stabile, ma potrebbe oscillare tra diversi stati possibili. Se il periodo di oscillazione fosse minore del tempo di transito dal Sole alla Terra, parte degli originari neutrini, prodotti nella quantità prevista dalla teoria, decadrebbe in uno degli altri stati e non sarebbe quindi rivelata. I risultati citati necessitano tuttora di una rigorosa conferma, anche perché la loro importanza supera quella, sia pur notevole, del problema dei neutrini solari e investe l'intero campo della fisica delle particelle elementari.
Ulteriori elaborazioni teoriche basate sui dati attualmente a disposizione sembrano sterili. Una chiara risposta agli interrogativi sollevati dall'esperimento di Davis può venire solo da misure in grado di rivelare i neutrini di bassa energia della reazione (1). Esistono già proposte in questo senso: ne descriveremo brevemente due. La prima usa la reazione
ν+71Ga→71Ge+e-.
Questa reazione ha una bassa soglia (E=0,235 MeV), un'alta probabilità di cattura e non necessita di elaborati metodi radiochimici per il conteggio della radioattività dei nuclei di Ge prodotti. Il problema risiede nella quantità di gallio richiesta (da 30 a 50 tonnellate per rivelare una cattura/giorno), maggiore di quella attualmente disponibile sull'intero mercato mondiale.
La più interessante, forse, di tutte le proposte usa la reazione
ν+115In→115Sn*→115Sn.
L'atomo di stagno eccitato (115Sn*), formatosi per effetto della cattura del neutrino, decade rapidamente (3,2 ms) emettendo due raggi gamma in cascata. Questo rappresenta un segnale inconfondibile e di facile rivelazione. Va infine notata la soglia estremamente bassa della reazione (0,128 MeV). Ancora una volta, la difficoltà risiede nella quantità di indio necessaria (circa 3 tonnellate per rivelare una cattura/giorno).
Riassumendo, gli attuali dati sui neutrini solari, pur non essendo allarmanti, gettano un'ombra sulla credibilità delle nostre concezioni riguardanti la struttura e l'evoluzione stellare. Esistono vie d'uscita teoriche a questo dilemma, ma quel che veramente è necessario è una chiara risposta sperimentale, quale quella che verrà fornita da misure del flusso di neutrini di bassa energia.
4. Le oscillazioni della superficie solare
La superficie del Sole, se osservata con sufficiente risoluzione, appare in uno stato caotico di continua agitazione, com'è logico attendersi da un gas alla temperatura di qualche migliaio di gradi. Tra la miriade di moti turbolenti sempre presenti è tuttavia possibile distinguerne alcuni assai più regolari: si parla in questo caso di oscillazioni. Le frequenze di queste oscillazioni costituiscono un insieme discreto: ne sono state finora osservate alcune diecine. Vi sono chiare indicazioni che queste oscillazioni siano globali, cioè che investano l'intera superficie solare. Se questo è vero, esse rappresentano i modi propri di oscillazione del Sole e quindi riflettono le caratteristiche della struttura interna solare: di qui la loro importanza diagnostica.
L'affascinante problema che le oscillazioni solari pongono è quindi quello di dedurre le informazioni sulla struttura contenute nello spettro e nella relazione di dispersione delle oscillazioni, cioè nel legame fra la frequenza e la lunghezza d'onda. Il problema presenta profonde analogie con quello della determinazione della struttura interna della Terra attraverso la risposta di quest'ultima a perturbazioni sismiche. Non è quindi inappropriato parlare di ‛sismologia solare', secondo un'espressione venuta di recente in uso.
La presenza delle oscillazioni globali mette in luce un nuovo aspetto della variabilità del Sole, al di là della ben nota variabilità associata al ciclo solare (v. l'art. seguente: Attività solare). Si tratta naturalmente di una variabilità su scale di tempo assai minori, da qualche minuto a qualche ora. L'ampiezza delle oscillazioni è assai piccola, dell'ordine di qualche milionesimo del raggio solare, e ciò spiega la loro relativamente recente scoperta. I progressi delle tecniche osservative fanno pensare che i metodi della sismologia solare possano presto essere applicati anche ad altre stelle, dando così vita a un nuovo potente mezzo diagnostico della fisica stellare, l'unico in grado di fornire informazioni sull'interno degli astri, poiché il metodo alternativo della misura del flusso neutrinico non ha nessuna ragionevole prospettiva di poter essere applicato a oggetti diversi dal Sole.
a) Dati osservativi sulle oscillazioni
Le misure effettuabili si possono suddividere essenzialmente in tre categorie: misure delle velocità dei moti superficiali lungo la linea di vista, misure di variazioni di luminosità e misure di variabilità del diametro del disco apparente del Sole. I risultati delle osservazioni eseguite usando ciascuno dei metodi indicati mostrano chiaramente la presenza delle oscillazioni. Il confronto tra risultati ottenuti con metodologie diverse non è, al momento attuale, privo di discrepanze. Si può tuttavia ritenere che tali discrepanze siano dovute più a una sovrastima della sensibilità dei vari metodi osservativi e a un'eccessiva semplicità degli schemi interpretativi che a reali differenze.
La presenza di oscillazioni di ben definita frequenza costringe a cambiare il tradizionale punto di vista secondo il quale il Sole non è una stella pulsante. Per compiere questo passo è tuttavia necessario dimostrare che le oscillazioni hanno carattere globale, cioè investono tutta la struttura superficiale del Sole, e non sono soltanto fenomeni locali. Per quanto una prova inoppugnabile della globalità delle oscillazioni non sia ancora stata prodotta, le indicazioni a favore di una tale interpretazione stanno accumulandosi in quantità sempre più grande.
Le oscillazioni meglio conosciute e studiate hanno un periodo di circa cinque minuti e sono state osservate per la prima volta intorno al 1960. Esse sono rivelabili sia attraverso la misura della variabile luminosità dell'emissione nella parte continua dello spettro, sia attraverso lo studio della variazione d'intensità di alcune righe spettrali. È inoltre possibile metterle in luce studiando i moti superficiali del materiale alla superficie solare per mezzo dello spostamento spettrale delle righe dovuto a effetto Doppler. I movimenti risultano essere in prevalenza radiali e coinvolgono regioni con dimensioni lineari dell'ordine di qualche migliaio di chilometri sulla superficie solare. L'ampiezza è piuttosto irregolare e il fenomeno si presenta tipicamente sotto la forma di un treno d'onde la cui durata è pari a qualche periodo di oscillazione. Le oscillazioni di cinque minuti sono per lo più visibili nella fotosfera o bassa cromosfera, mentre ad altezze maggiori la loro presenza è dubbia.
Un altro gruppo di oscillazioni osservate ha periodi compresi tra cinque minuti e un'ora; altre, infine, di 160 minuti sono state segnalate da vari gruppi di osservatori. La necessità di lunghe sequenze di osservazioni per aumentare il valore statistico dei risultati rappresenta un serio problema, soprattutto per le oscillazioni di più lungo periodo. Questo problema è stato in parte risolto da una campagna di osservazioni effettuata al polo Sud da un gruppo di ricercatori francesi e americani. È stato possibile effettuare osservazioni in modo continuo per un periodo di cinque giorni consecutivi, migliorando sensibilmente la qualità dei dati.
b) Fisica delle oscillazioni
La presenza di oscillazioni in un qualunque sistema meccanico è il manifestarsi della risposta del sistema, in uno stato inerentemente stabile, alle sollecitazioni cui è sottoposto. Le oscillazioni sono il risultato delle contrastanti azioni della perturbazione applicata e delle forze di richiamo che tendono a riportare il sistema nella sua configurazione originaria. Le caratteristiche delle oscillazioni - frequenza, lunghezza d'onda, ampiezza - dipendono essenzialmente dalla natura delle forze in gioco e dalla struttura del sistema stesso. Per utilizzare le oscillazioni come mezzo diagnostico della struttura è quindi necessario conoscere quali siano le possibili sollecitazioni e forze di richiamo.
Nell'atmosfera solare i due tipi fondamentali di forze di richiamo sono legati alla comprimibilità del mezzo e alla gravità. Nel primo caso le variazioni di pressione inducono la formazione di un'onda che ha le caratteristiche di un'onda sonora. Nel secondo caso le oscillazioni sono provocate dalla forza di Archimede e sono del tutto analoghe alle onde che si formano sulla superticie del mare. Questi due casi estremi sono detti rispettivamente ‛onde p' (pressione) e ‛onde g' (gravità). In realtà la distinzione non è così netta, perché la gravità influenza ovviamente anche la propagazione delle onde p, che quindi sono onde sonore modificate. Lo studio osservativo delle caratteristiche delle oscillazioni di cinque minuti e il confronto con le caratteristiche previste teoricamente per i modi p hanno provato che si tratta appunto di onde sonore.
Come già accennato, le osservazioni mostrano che la regione di coerenza delle oscillazioni è piuttosto ristretta, dell'ordine di qualche migliaio di chilometri. Tuttavia ogni fenomeno localizzato può essere considerato come la sovrapposizione di un insieme di modi normali ed è in questo senso che lo studio delle oscillazioni solari acquista un preciso valore diagnostico.
La risposta delle zone solari sottostanti alla fotosfera viene appunto analizzata teoricamente come una sovrapposizione di modi normali, cioè dei modi propri di oscillazione. L'ampiezza di oscillazione di un singolo modo dipende dalla struttura dello strato interessato: alcuni modi sono soppressi, altri possono essere amplificati. In prima approssimazione possiamo dire che ogni strato eccita le sue oscillazioni caratteristiche. Lo studio dei diversi modi normali corrisponde quindi a una prospezione solare, allo studio, strato per strato, della struttura interna.
Le onde p non penetrano molto profondamente nel Sole. Ciò è dovuto al fatto che la temperatura cresce verso l'interno e questo provoca la riflessione verso la superficie di onde sonore di frequenza progressivamente maggiore. L'intera situazione è analoga a quella che si produce all'interno di una cavità risonante in cui solo particolari frequenze di oscillazione vengono eccitate. Le ‛pareti' della cavità sono qui rappresentate dai ripidi gradienti di temperatura presenti a livello subfotosferico e cromosferico. Una stima approssimativa dimostra che le oscillazioni con periodo di 300 s rimangono localizzate tra la cromosfera e una profondità di circa 10.000 km. Pertanto, le oscillazioni più note non sono uno scandaglio molto profondo. Tuttavia esse forniscono già fondamentali notizie sulla struttura della zona di convezione, come ora vedremo.
Una circolazione convettiva è indotta in una stella quando la temperatura varia con la profondità più rapidamente di quanto prescritto da una legge adiabatica. Il trasporto radiativo non ha l'efficienza necessaria e il trasporto di energia deve essere congiunto a movimenti materiali. Il trasporto di energia per mezzo della convezione avviene con estrema efficienza: è sufficiente un gradiente di temperatura appena superiore a quello adiabatico per dar luogo a moti convettivi in grado di trasportare tutto il flusso di energia disponibile. Discende di qui che il gradiente di temperatura nella zona di convezione può essere approssimato, a tutti gli effetti pratici, con un gradiente adiabatico, almeno per la maggior parte dello strato convettivo. Le regioni a contatto con zone in cui prevale il trasporto radiativo sono le più delicate e sono quelle in cui la mancanza di un'adeguata teoria della convezione si fa maggiormente sentire. Da un punto di vista teorico la situazione si riassume dicendo che gran parte della struttura della zona di convezione è ben rappresentata da un'adiabatica, ma che la scelta dell'adiabatica giusta richiede la conoscenza della struttura dello strato limite al confine con la zona radiativa, ben più difficile da trattare. Se le proprietà dello strato limite potessero essere determinate dall'analisi delle oscillazioni globali della superficie, queste difficoltà sarebbero superate e noi saremmo in grado di rappresentare l'intera zona convettiva fino alla sua base. Le oscillazioni di cinque minuti penetrano al di sotto del cruciale strato limite che separa l'atmosfera radiativa dall'interno convettivo e rappresentano quindi un mezzo diagnostico di straordinaria potenza nello studio della zona convettiva.
I modi di oscillazione aventi periodi maggiori quasi certamente penetrano più profondamente nell'interno del Sole e sono quindi, in linea di principio, in grado di fornire informazioni su strati ancora più interni. Per quanto questi studi siano tuttora in una fase preliminare, sembra che i modelli in accordo con le osservazioni sulle oscillazioni producano una zona di convezione più profonda di quella prevista dal modello standard. Il raccordo di questo strato più esterno con uno interno radiativo di tipo tradizionale avrebbe l'effetto di aumentare il valore della temperatura centrale e del flusso di neutrini previsto, aggravando quindi ulteriormente la discrepanza discussa nel È a.
Questa rassegna non sarebbe completa senza la menzione di un altro fondamentale fattore: la rotazione solare. Il fatto che il Sole ruoti introduce nel sistema un nuovo grado di libertà che, trascurato, potrebbe portare a conclusioni del tutto prive di senso. Il Sole non ruota come un corpo rigido: le velocità di rotazione misurate mostrano che in superficie la velocità di rotazione all'equatore è maggiore che ai poli (v. l'art. seguente: Attività solare). La distribuzione radiale della velocità angolare è essenzialmente sconosciuta, ma conoscerla sarebbe di fondamentale importanza, perché dall'interazione della rotazione con i moti convettivi nasce l'effetto dinamo che sta alla base del ciclo di attività solare. Anche in questo campo lo studio delle oscillazioni può portare un contributo determinante. Infatti la rotazione fa sì che alcuni modi di oscillazione, identici fra loro in un corpo non rotante, presentino caratteristiche diverse. Misure fini, in grado di mettere in luce la separazione indotta dalla rotazione nelle curve di dispersione, potrebbero gettare luce sulla rotazione interna del Sole. Va ricordato che uno dei modelli proposti per la spiegazione del basso flusso di neutrini prevede appunto l'esistenza di un nucleo centrale rapidamente rotante.
5. Conclusioni.
La cosa più importante da rilevare è l'interconnessione dei vari problemi illustrati. Ognuno di questi rappresenta un aspetto dell'unico grande problema della determinazione della struttura interna del Sole. Lungi dall'esaurirsi nella soddisfazione di un'ennesima curiosità scientifica, la soluzione di questo problema rappresenta uno dei passi più importanti che ci attendono nell'immediato futuro, per porre su di una base solida i fondamenti stessi della teoria della struttura e dell'evoluzione stellare. I numerosi dubbi che ancora rimangono potranno essere fugati soltanto per mezzo di un notevole sforzo osservativo e interpretativo. Le nuove metodologie attualmente a disposizione, dagli esperimenti per la rivelazione dei neutrini di bassa energia a quelli di sismologia solare, permettono, d'altra parte di sperare in un rapido avanzamento delle nostre conoscenze in questo campo.
Bibliografia.
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Cox, J. P., Giuli, R. Th., Principles of stellar structure, 2 voll., New York 1968.
Dumont, S., Rösch, J. (a cura di), Pleins feux sur la physique solaire, Paris 1978.
Eddy, J. A. (a cura di), The new solar physics. American Association for the Advancement of Science, Selected Symposium n. 17, Boulder 1978.
Attività solare
SOMMARIO: 1. Introduzione. □ 2. Le macchie solari e il ciclo dell'attività solare: a) le macchie solari; b) il ciclo delle macchie solari e la dinamo solare; c) il minimo di Maunder. □ 3. Altri fenomeni dell'attività solare: a) le regioni attive; b) i punti brillanti; c) le protuberanze; d) i brillamenti solari; e) le buche coronali e il vento solare. □ 4. Future direzioni di ricerca sull'attività solare: a) il ciclo di attività; b) la fisica delle regioni attive; c) la fisica dei brillamenti solari; d) le conseguenze sulla Terra dell'attività solare. □ Bibliografia
1. Introduzione.
Il Sole non è affatto quel corpo costante e prevedibile che l'emissione pressoché invariabile di luce e di calore, da parte sua, lascerebbe supporre; da secoli, infatti, sono state notate delle macchie scure che ne attraversano la superficie visibile e fin dall'invenzione del telescopio gli astronomi solari si sono dedicati a un approfondito studio di queste caratteristiche variabili e di altre più difficilmente osservabili. Si è così scoperta una grande varietà di fenomeni che accompagna la comparsa delle macchie stesse sulla faccia del Sole. Tutti questi fenomeni, di cui i principali sono le macchie solari, le regioni attive, le protuberanze, i brillamenti, le buche coronali e il vento solare, vengono raggruppati sotto la denominazione collettiva di ‛attività solare': è di questa appunto che ci apprestiamo a trattare.
La scoperta che in questo secolo più ci ha fatto avanzare nella conoscenza del Sole è stata con ogni probabilità quella che esso è una stella magnetica, poiché ci ha consentito di capire come i complessi fenomeni dell'attività solare siano tutti conseguenze dell'interazione tra i campi magnetici solari e i gas altamente conduttori di elettricità che compongono gli strati più esterni del Sole. Senza entrare in particolari più precisi, diremo per ora soltanto che l'alta conduttività elettrica dei gas del Sole fa sì che i campi magnetici siano ‛congelati' con il gas, cosicché campi magnetici e gas sono costretti a muoversi insieme. Nelle zone più interne del Sole la pressione del gas è talmente alta che può facilmente spostare i campi magnetici e si pensa che questi movimenti all'interno del Sole, provocando distorsioni nei campi, facciano si che i campi stessi si rafforzino e affiorino alla superficie. Poiché la pressione alla superficie è molto inferiore a quella all'interno, il campo magnetico che affiora non è più dominato dai movimenti del gas, ma anzi li domina a sua volta, imprigionando nella propria struttura il materiale gassoso che si trova alla superficie e immediatamente al di sopra di essa. È proprio questo imprigionamento dei movimenti del gas che provoca l'annerimento delle macchie solari e al tempo stesso gli eleganti archi gassosi che le sovrastano. Tuttavia, nelle zone più esterne della corona solare i campi magnetici diventano più deboli e la relazione si capovolge nuovamente, fino al punto in cui i campi diventano così deboli da essere spazzati verso l'esterno, ossia verso la Terra, in un vento solare in espansione.
Una comprensione più approfondita dell'attività solare presuppone dunque la conoscenza delle interazioni su larga scala tra campi magnetici e gas ionizzati, o ‛plasmi'. Anche se gran parte di questi fenomem è ben conosciuta, la comprensione teorica delle interazioni tra plasmi e campi magnetici non ha ancora raggiunto uno stadio tale da permettere un'interpretazione esauriente dei complessi dettagli dell'attività solare e molto resta tuttora da scoprire prima che si possa fondare su basi concrete una solida teoria.
La caratteristica fondamentale dell'attività solare è il ciclo di attività magnetica della durata di ventidue anni; di questo fenomeno ci occuperemo nel cap. 2, mentre dedicheremo il cap. 3 agli altri aspetti dell'attività solare e il cap. 4 alle prevedibili direzioni che la ricerca potrà seguire in futuro.
2. Le macchie solari e il ciclo dell'attività solare.
a) Le macchie solari.
Come abbiamo ricordato sopra, le macchie solari, che sono aree scure che attraversano la faccia del Sole per via della sua rotazione, sono il fenomeno più evidente dell'attività solare (v. tav. I). Le macchie solari sono state osservate per migliaia d'anni, dato che le più grandi sono visibili a occhio nudo, ma fu Galileo a intraprenderne il primo studio sistematico all'indomani dell'invenzione del telescopio, che risale al 1609, e da allora si è dettagliatamente esplorata la loro struttura fisica. Dalle fotografie ottenute con i moderni telescopi (v. tav. II) risulta che le macchie presentano un aspetto assai complesso: ogni macchia contiene una zona centrale più scura, detta ‛ombra', generalmente circondata da una ‛penombra' meno scura, ma di struttura molto articolata.
La temperatura dei gas all'interno dell'ombra si aggira sui 4.200 °K: è, cioè, di circa 1.600 °K inferiore a quella della superficie solare media indisturbata, ossia la fotosfera. A causa della loro minore temperatura, le ombre delle macchie solari hanno una luminosità più di dieci volte inferiore, in radiazione visiva, a quella della fotosfera e sembrano perciò quasi nere in contrasto con la fotosfera, che è, invece, luminosissima.
Una macchia solare di medie dimensioni ha un'ombra con un diametro di circa 15.000 km e una penombra con un diametro di circa 30.000 km. Le macchie più piccole, dette ‛pori', hanno un diametro che può essere inferiore ai 1.000 km, mentre le più grandi hanno diametri dell'ordine di 60.000 km (per fare un paragone, ricorderemo che il diametro della Terra misura 12.760 km).
La tav. I mostra chiaramente che le macchie solari possono esistere isolate oppure riunite in gruppi, anche assai complessi (v. tav. II). Le macchie nascono sulla superficie solare come piccole zone scure che poi si sviluppano rapidamente raggiungendo la loro dimensione massima in breve tempo, talvolta addirittura nello spazio di poche ore, per poi continuare il loro ciclo vitale, che può avere una durata variabile da pochi giorni a parecchi mesi. Durante questo tempo, le macchie possono dividersi, dando così luogo a gruppi piuttosto complessi; alla fine del suo ciclo, ogni macchia decade in macchie più piccole, scomparendo poi del tutto. Poiché il Sole ruota attorno al suo asse con un periodo di circa ventisette giorni, le macchie, durante la loro esistenza, possono attraversare la superficie intera della stella; anzi, le macchie di più lunga durata ripetono la traversata varie volte.
Un grande passo avanti nello studio delle macchie solari fu fatto all'inizio di questo secolo, quando G. E. Hale, un pioniere dell'astrofisica del California Institute of Technology, studiò la polarizzazione della luce emessa dalle macchie solari, scoprendo così che in esse il campo magnetico è estremamente intenso: quello dell'ombra di una macchia di dimensioni medie è infatti di circa 3.000 gauss, ossia più o meno 5.000 volte più intenso del campo magnetico alla superficie della Terra. L'energia contenuta in un campo di tale intensità è elevatissima: infatti, integrata sul volume della macchia, essa deve essere dell'ordine di 1026 joule.
Di maggiore interesse dal punto di vista della fisica delle macchie solari è il fatto che l'energia per unità di volume associata all'intenso campo magnetico supera di più di dieci volte l'energia per unità di volume dei moti convettivi negli strati della superficie solare.
È chiaro che un campo magnetico di tale intensità deve svolgere una funzione importante nella struttura e nel bilancio energetico della macchia; il fatto, poi, che l'energia del campo magnetico all'interno della macchia superi di gran lunga l'energia dei moti convettivi significa che il campo magnetico esercita delle forze di pressione tali da controllare i movimenti del materiale all'interno della macchia stessa. Si pensa, inoltre, che questi intensi campi magnetici impediscano i movimenti convettivi che, in altre parti del Sole, trasportano la maggior parte dell'energia luminosa del Sole dall'interno alla superficie; il conseguente blocco del flusso di energia fa sì che gli strati della superficie si raffreddino, raggiungendo una temperatura molto inferiore a quella della regione circostante, il che li fa apparire scuri sullo sfondo della fotosfera luminosissima. Attualmente, questa è la spiegazione più attendibile della ragione per la quale le macchie solari sono scure.
Il campo magnetico delle macchie si estende anche alla penombra, ma con un'intensità molto ridotta; inoltre, la direzione del campo (ossia la direzione verso la quale punterebbe l'ago di una bussola immersa in esso) è praticamente verticale nell'ombra e nella zona immediatamente circostante, mentre diviene quasi orizzontale nella penombra, cioè sembra giacere quasi parallelamente ai filamenti della penombra stessa.
Come abbiamo già osservato, le macchie solari si presentano spesso in gruppi; tali raggruppamenti si estendono sul Sole generalmente in direzione est-ovest (sono, cioè, approssimativamente paralleli all'equatore solare, definito dal polo della rotazione del Sole). Un gruppo è spesso dominato da due macchie grandi (o da due raggruppamenti di macchie), di cui quella orientale viene detta macchia ‛precedente', poiché guida il gruppo nella sua rotazione da ovest a est attraverso il disco solare, e, analogamente, quella occidentale viene detta macchia ‛seguente'. Generalmente, la macchia (o il raggruppamento di macchie) precedente presenta una determinata polarità magnetica (può, cioè, attrarre il polo nord o quello sud di un ago magnetico), mentre la macchia (o il raggruppamento di macchie) seguente è della polarità opposta: questi gruppi vengono dunque chiamati ‛bipolari'. Inoltre, tutti i gruppi bipolari di macchie che si trovano da una stessa parte dell'equatore tendono ad avere le polarità magnetiche orientate nello stesso verso (per esempio, polarità precedente nord e polarità seguente sud), mentre quelli della parte opposta hanno polarità orientate nel verso opposto. Questa struttura ordinata è una proprietà fondamentale della dinamo solare, della quale ci occuperemo estesamente nel paragrafo seguente.
b) Il ciclo delle macchie solari e la dinamo solare.
Da lungo tempo, ormai, sappiamo che le macchie visibili sulla faccia del Sole in un dato momento variano di numero con un periodo più o meno regolare di circa undici anni. Questa quasi periodicità appare chiaramente nella fig. 1, che rappresenta in funzione del tempo dal 1610 al 1975 il ‛numero di Wolf' delle macchie solari. Il numero di Wolf giornaliero, dedotto da osservazioni delle macchie solari fatte da osservatorî astronomici di tutto il mondo, è una misura del numero di macchie viste sul Sole in un dato giorno. Documentazioni pressoché complete sono state tenute fin dal 1848; i dati relativi agli anni precedenti provengono, invece, da ricerche storiche (v. Eddy, 1976).
Non solo il numero delle macchie, ma anche la loro distribuzione con la latitudine varia con un ritmo quasi periodico di circa undici anni. La fig. 2 mostra la distribuzione delle macchie con la latitudine durante nove periodi consecutivi di undici anni ciascuno. Si noti come le macchie si concentrino esclusivamente nella fascia di latitudine compresa tra +35° e −35° ai due lati dell'equatore. All'inizio di ogni ciclo (per esempio nel 1879, nel 1890 e nel 1901) esse appaiono a latitudini relativamente alte nella fascia suddetta; durante il corso del ciclo le macchie solari nascono a latitudini che vanno progressivamente diminuendo, fino al momento in cui nascono tutte entro 10° dall'equatore. Tale disposizione, che viene chiamata ‛diagramma a farfalla' per la sua forma, è una delle caratteristiche fondamentali di cui una qualsiasi teoria del ciclo solare dovrà spiegare la causa.
Uno studio più approfondito della polarità magnetica delle macchie solari rivela che il periodo apparente di undici anni e in realtà soltanto una delle due fasi di un periodo doppio della durata di ventidue anni: la polarità magnetica delle macchie precedenti dei gruppi si capovolge, infatti, ogni undici anni, di modo che durante una fase le macchie precedenti dell'emisfero nord hanno polarità nord e quelle dell'emisfero sud hanno polarità sud, mentre nella fase successiva avviene esattamente l'opposto.
Anche nella fotosfera indisturbata, lontano dalle macchie solari, esistono campi magnetici che mostrano alcune delle caratteristiche del doppio ciclo di ventidue anni; questi campi sembrano essere parecchio più deboli di quelli descritti precedentemente (la loro intensità varia infatti tra 1.000 e 2.000 gauss circa), ma occupano nella fotosfera solo zone molto piccole, che non si estendono per più di alcune centinaia di chilometri. Se si considera che vaste regioni della fotosfera sono quasi del tutto prive di campi magnetici e che le zone magnetiche sono assai ristrette, si può dedurre che il campo magnetico medio nella fotosfera è di pochi gauss soltanto. È comunque possibile misurare questo campo magnetico; verso la conclusione del semiciclo - quando, cioè, il numero delle macchie si riduce progressivamente, dopo aver raggiunto il valore massimo - ai due poli solari appaiono intensi campi di segno opposto (la polarità è quella della macchia seguente in ciascun emisfero). Questi campi polari fanno sì che il Sole presenti un campo magnetico globale dipolare molto simile al campo magnetico terrestre; a differenza di quest'ultimo, tuttavia, il campo magnetico del Sole inverte la propria direzione approssimativamente ogni undici anni, completando, come abbiamo già spiegato, un intero ciclo in ventidue anni.
Da molto tempo ormai si è compreso che è impossibile che i campi magnetici nei corpi astrofisici delle dimensioni del Sole decadano in un periodo di appena undici anni, per essere poi sostituiti da nuovi campi di segno opposto; l'alta conduttività elettrica σ dei gas ionizzati all'interno del Sole, insieme al valore molto elevato della scala L dei campi magnetici all'interno, significa che il tempo di decadimento dei campi magnetici, tdec=4πσL2, è dell'ordine di 1010 anni, maggiore cioè dell'età del Sole stesso. Si pensa che le variazioni del ciclo magnetico di ventidue anni, molto più rapide del tempo di decadimento così calcolato, siano dovute a una ‛dinamo magnetoidrodinamica'. La teoria della dinamo, attualmente, è ancora piuttosto primitiva, ma alcuni suoi aspetti sono certamente validi. Come abbiamo già detto, l'alta conduttività elettrica dell'interno fa sì che i campi magnetici siano congelati col gas ionizzato dell'interno, cosicché i gas, nei loro movimenti, si trascinano dietro i campi. Nelle regioni esterne, che vanno sotto il nome di ‛zone di convezione', i gas sono sottoposti a intensi movimenti di convezione che trasportano alla superficie una gran quantità di energia generata dai processi nucleari nel centro. Un ulteriore flusso al disotto della superficie, necessario per il funzionamento della dinamo, è la ‛rotazione differenziale'; la velocità di rotazione dei gas alla superficie è di circa il 50% maggiore all'equatore che ai poli e si pensa che essa vari anche a seconda della profondità al disotto della superficie. Sia la rotazione differenziale che la convezione svolgono una funzione importante nella creazione della dinamo e del ciclo magnetico alternato: si ritiene che al livello minimo di macchie solari il campo medio del Sole sia principalmente ‛poloidale', ossia parallelo all'asse di rotazione, e che sia dominato essenzialmente dal grande campo di dipolo (v. fig. 3A). La rotazione differenziale all'interno provoca, col tempo, delle distorsioni in questo campo, facendolo diventare più azimutale, ossia ‛toroidale' (v. fig. 3, B e C). Lo stiramento dei campi da parte della rotazione differenziale ha altresì l'effetto di rinforzarli; raggiunta un'intensità critica, i campi affiorano alla superficie, creando così coppie bipolari di macchie. Come si può vedere nella fig. 3D, un tale meccanismo crea la giusta distribuzione di polarità magnetiche precedenti e seguenti nei due emisferi. L'eruzione dei campi avviene prima alle latitudini maggiori e poi a quelle minori; ciò spiega il diagramma a farfalla. Quando raggiungono la superficie, le macchie seguenti dei gruppi bipolari sono un po' più vicine ai poli delle macchie precedenti (v. fig. 3E); quando poi, alla fine del processo, le macchie decadono e i campi magnetici vengono dispersi dai moti convettivi, le macchie seguenti forniscono il maggior contributo al campo delle regioni polari. I campi così ottenuti sono di segno opposto rispetto al campo polare originale e finiscono per diventare dominanti, provocando l'inversione della polarità dei campi polari. Dopo che tutte le macchie sono decadute, si ha un nuovo minimo di macchie, identico a quello iniziale, ma con opposta polarità del campo dipolare. Il processo si ripeterà poi durante i successivi undici anni, dando così origine al ciclo completo di cambiamento di polarità, della durata complessiva di ventidue anni.
Nel processo della dinamo solare, l'energia di rotazione differenziale nella zona convettiva viene trasformata in energia magnetica per effetto dell'amplificazione dell'intensità del campo da parte dei movimenti di scorrimento; alla conclusione del processo, l'energia magnetica viene emessa sotto forma di svariati fenomeni, dei quali ci occuperemo nel cap. 3. Molte domande, tuttavia, restano ancora senza risposta nella teoria della dinamo solare e la più importante è probabilmente questa: che cosa crea e mantiene la rotazione differenziale del Sole in presenza dell'attività solare?
c) Il minimo di Maunder.
Osservando la fig. 1, si può notare come il numero massimo di macchie vari da un ciclo al successivo; per esempio, i dati in nostro possesso sembrano indicare che l'ampiezza del ciclo di undici anni sia andata gradualmente cambiando dal 1715 circa fino ai nostri giorni, con un tempo caratteristico di un'ottantina d'anni. In modo anche più netto tra il 1610 (l'anno, cioè, in cui Galileo dette inizio all'epoca moderna dell'osservazione delle macchie solari utilizzando il telescopio, allora di recente invenzione) e il 1715 il carattere della curva del numero di macchie solari fu notevolmente diverso: anche al punto massimo, il numero di macchie viste non arrivò mai a superare una piccola frazione di quelle osservate dopo il 1715; nei settant'anni che intercorsero tra il 1645 e il 1715 non furono notate che pochissime macchie e per trentadue anni, dal 1672 al 1704, nell'emisfero settentrionale del Sole non ne fu addirittura individuata alcuna. Le rare macchie che furono viste in tutto il periodo apparvero a latitudine solare bassa e durarono al massimo una sola rotazione solare, ossia ventisette giorni, o meno. Tale scarsità di macchie, che durò quasi un secolo, è conosciuta sotto il nome di ‛minimo di Maunder'. Questo minimo era già ben noto agli astronomi solari del XIX secolo, ma fu quasi completamente dimenticato, fino a quando l'astronomo americano J. A. Eddy (v., 1976) non ne sottolineò l'importanza. Uno dei quesiti più rilevanti cui una valida teoria della dinamo dovrà dare una risposta è come sia possibile che la dinamo solare sia così irregolare da scomparire addirittura quasi del tutto per lunghi periodi di tempo. L'unica ipotesi plausibile, al momento attuale, sembra essere che, per ragioni tuttora oscure, la dinamo abbia due modi quasi stabili e che possa in qualche maniera saltare dall'uno all'altro.
Oltre a ciò che potrà rivelarci sul funzionamento della dinamo solare, il minimo di Maunder potrà forse anche fornire importanti indicazioni sull'influenza che il Sole esercita sul clima della Terra; resta per esempio da chiarire se sia stata soltanto una coincidenza il fatto che al minimo di Maunder abbia corrisposto con grande precisione un periodo di clima eccezionalmente freddo in Europa, che va sotto il nome di ‛piccola era glaciale' (v. Eddy, 1976). Che esista un'influenza della variazione del campo magnetico solare sul clima della Terra lo potrebbe forse indicare la corrispondenza tra il minimo ‛alternato' del ciclo di undici anni delle macchie e l'accrescersi della tendenza alla siccità nel Midwest americano (v. Mitchell e altri, 1979). La periodicità di ventidue anni, piuttosto che di undici, fa pensare che vi sia un'influenza magnetica. (Per un'analisi dettagliata di eventuali relazioni tra Sole e clima, v. McCormac e Seliga, 1979).
3. Altri fenomeni dell'attività solare.
a) Le regioni attive.
Le macchie solari sono, come abbiamo detto, le manifestazioni fotosferiche più evidenti degli intensi campi magnetici che affiorano dall'interno alla superficie del Sole; esistono, tuttavia, anche altre regioni di campo magnetico, che non hanno, però, livelli di concentrazione sufficienti per la formazione di macchie solari scure. L'esistenza di tali regioni di campo, le quali non sono visibili in normali fotografie a luce bianca, può essere rivelata utilizzando lo ‛spostamento magnetico di Zeeman' della lunghezza d'onda di alcune linee spettrali in presenza di campi magnetici. Nonostante che questo spostamento sia assai piccolo nello spettro visibile del Sole, esso è, tuttavia, rivelabile per mezzo degli strumenti spettroscopici più moderni, ossia i magnetografi. La tav. III mostra un ‛magnetogramma' solare, cioè un'immagine del Sole nella quale le zone più scure rappresentano aree di una polarità e le zone più chiare aree di polarità opposta; si noti come la distribuzione dei campi sia rarefatta su gran parte della superficie e come essa sia, invece, particolarmente concentrata in prossimità delle macchie solari. Le regioni ad alta concentrazione di campi vengono dette ‛regioni attive': i loro campi, molto intensi, sono responsabili, insieme ai campi delle macchie stesse, della maggior parte dei fenomeni dell'attività solare.
Nella cromosfera e nella corona, che sovrastano la fotosfera, i campi magnetici sono così intensi che controllano i movimenti del plasma caldo e rarefatto, facendogli descrivere eleganti archi magnetici (v. tavv. IIIA e IV), che sono particolarmente numerosi e prominenti in corrispondenza delle regioni attive. Un ulteriore importante effetto provocato nella corona dai campi magnetici sembra essere il riscaldamento del plasma intrappolato all'interno dei campi medesimi. Il meccanismo responsabile di questo effetto non è stato ancora del tutto compreso; il calore potrebbe essere fornito direttamente attraverso un riscaldamento resistivo da ‛correnti elettriche' che fluiscono in direzione parallela a quella del campo magnetico negli archi della corona; oppure i campi magnetici potrebbero canalizzare lungo gli archi le ‛onde magnetoidrodinamiche', dissipandole sotto forma di onde d'urto nelle rarefatte regioni superiori dell'arco. Comunque sia, una parte del calore ceduto all'arco viene trasmessa verso l'interno, ossia verso la fotosfera, dalla conduzione termica e ciò fa sì che i gas della fotosfera, che, in confronto, sono molto più densi, si espandano verso l'alto e riempiano gli archi magnetici. Il risultato di questo processo è un plasma a temperatura elevata, imprigionato all'interno degli archi magnetici, il quale emette intensamente a lunghezze d'onda caratteristiche di gas a temperature comprese tra varie centinaia di migliaia e vari milioni di gradi Kelvin (v. tav. IV).
Gli archi coronali magnetici permettono di osservare la geometria dei campi magnetici che si estendono nella corona; questa struttura fu pienamente rivelata per la prima volta dai dati nell'ultravioletto estremo (v. tavv. III e IV) e nei raggi X (v. tav. VI) ottenuti dalla missione Skylab nel 1973. Nella tav. VI, che è appunto un'immagine della corona ottenuta per mezzo dei raggi X, le zone luminose sono strutture coronali dense con temperature comprese tra 1 e 3 milioni di gradi Kelvin; di queste, le più brillanti sono quelle a maggior densità e si trovano in corrispondenza delle regioni attive, dove il riscaldamento magnetico degli archi coronali è maggiore. Le tavv. III e VI mostrano che le suddette zone sono regioni di archi magnetici ‛chiusi', il che significa che l'arco può essere tracciato seguendo una traiettoria continua che da un punto nella fotosfera, salendo, attraversa la corona, per poi ritornare a un altro punto nella fotosfera; i due punti estremi, come prevedibile, si trovano invariabilmente in regioni magnetiche della fotosfera con polarità opposte.
b) I punti brillanti.
Sparse per la tav. VI appaiono numerose piccole regioni di emissione di raggi X: ‛punti brillanti a raggi X'. Osservandoli ad altissima risoluzione, si scopre che si tratta di anelli chiusi molto piccoli (le loro dimensioni sono di appena alcune migliaia di chilometri), anch'essi situati in corrispondenza di strutture bipolari di campi magnetici nella fotosfera sottostante. I punti brillanti a raggi X, la cui vita media non supera alcune ore, assomigliano a regioni attive in miniatura, per la configurazione bipolare dei loro campi magnetici, per gli archi coronali che li sovrastano e per il fatto che anch'essi producono qualche volta dei ‛brillamenti'.
Tra i punti brillanti e le regioni attive esistono, tuttavia, sostanziali differenze, che, quando saranno finalmente chiarite, potranno senza dubbio fornire importanti indicazioni sulla natura della dinamo solare. Al contrario delle macchie solari, che, come abbiamo visto, sono concentrate in una ristretta fascia di latitudine (v. flg. 2), i punti brillanti sono distribuiti in maniera pressoché uniforme su tutto il Sole; inoltre, durante il ciclo, vi è una correlazione esattamente inversa tra il numero di punti brillanti e quello delle macchie solari e delle regioni attive: a un minimo di macchie corrisponde sempre un massimo di punti brillanti e viceversa.
Il flusso magnetico totale (cioè l'intensità del campo moltiplicata per l'area) contenuto nei punti brillanti quando il numero delle macchie è minimo è all'incirca uguale a quello dei campi contenuti nelle macchie solari e nelle regioni attive quando il numero delle macchie è massimo. Tuttavia, il numero di punti brillanti è maggiore di quello delle regioni attive in compensazione del fatto che i singoli punti brillanti sono molto più piccoli. Questo dato ci fa pensare che il flusso magnetico totale che emerge dall'intemo non vari in maniera apprezzabile durante il ciclo delle macchie solari (v. Golub e altri, 1979). Si prevede che le nostre conoscenze su questo argomento, grazie alle molte ricerche attualmente in corso, subiranno una rapida evoluzione e porteranno un notevole contributo allo sviluppo della teoria della dinamo.
c) Le protuberanze.
Le protuberanze sono nuvole di gas denso a temperatura relativamente bassa (104 °K) sospese nella corona, che è, invece, molto più calda (106 °K); esse hanno spesso un elegante aspetto filiforme (v. tav. V), che, come nel caso degli archi delle più calde regioni attive, è strettamente legato alla struttura del campo magnetico delle protuberanze stesse. Come avviene negli archi delle regioni attive, il campo magnetico sembra avere numerosi effetti anche sulle protuberanze.
Ci si sarebbe logicamente potuti attendere che, essendo circa cento volte più dense della materia circostante, le protuberanze cadessero rapidamente verso la superficie solare, mentre si osserva, invece, che esse rimangono sospese sopra la superficie stessa per parecchi giorni, o addirittura per varie settimane. Ciò che le tiene sospese è, indubbiamente, il campo magnetico, che, se è sufficientemente intenso, può esercitare una pressione verso l'alto capace di equilibrare quella verso il basso dovuta alla gravità. Questa ipotesi, suggerita ormai parecchio tempo fa, è ora generalmente accettata come valida, benché non sia stata dimostrata in termini quantitativi, dal momento che è piuttosto difficile misurare l'intensità o la direzione dei campi magnetici all'interno delle protuberanze. Pare, inoltre, che il campo magnetico rappresenti un efficace isolante, permettendo alle protuberanze, che sono condensazioni a bassa temperatura immerse nella corona calda, di rimanere relativamente fredde. La ragione di questo potere isolante del campo magnetico va ricercata nella sua già ricordata capacità di imprigionare le particelle cariche; più precisamente, le particelle cariche non possono muoversi per tratti abbastanza lunghi perpendicolarmente alla direzione del campo magnetico. Poicbé in un gas ionizzato caldo la conduzione di energia termica avviene quasi esclusivamente per spostamento di elettroni, la conduzione termica è effettivamente inibita nelle direzioni perpendicolari a quella del campo magnetico. Si pensa, quindi, che, nel caso in cui il campo sia configurato in modo tale da provocare un livello sufficientemente alto di isolamento inibendo la conduzione termica, il gas coronale racchiuso all'interno incominci a raffreddarsi; una volta che la temperatura sia scesa al disotto di alcune centinaia di migliaia di gradi Kelvin, il gas diventa un efficientissimo radiatore di energia e può raggiungere rapidamente, per raffreddamento radiativo, la sua temperatura di equilibrio, che si aggira sui 104 °K.
Essendo relativamente fredde, le protuberanze hanno un'abbondante emissione di radiazioni visibili (al contrario della corona, molto più calda, che emette nell'estremo ultravioletto e nei raggi X) e ciò permette di studiarle con facilità da osservatorî terrestri. Esse sono particolarmente visibili nella riga Hα dell'idrogeno neutro (v. tav. V) e, infatti, sono stati raccolti numerosi dati a quella frequenza fin dall'inizio del nostro secolo; questi dati ci hanno rivelato che le protuberanze sono spesso molto dinamiche. Si può frequentemente osservare materiale delle protuberanze che si ‛condensa' dalla corona (cioè si raffredda fino a raggiungere una temperatura alla quale può aver luogo la emissione Hα) e scende poi come una ‛pioggia' dalla sommità della struttura delle protuberanze, seguendo la direzione del campo magnetico. Tale comportamento è particolarmente evidente subito dopo i grandi ‛brillamenti', i quali possono iniettare nella corona materiale a elevata temperatura (dei brillamenti tratteremo nel paragrafo seguente). Può accadere che, durante i brillamenti, delle protuberanze che si trovavano all'interno di regioni attive o nelle loro vicinanze vengano violentemente espulse, mentre avviene una ristrutturazione del campo magnetico di sostegno, che imprime un'accelerazione verso l'esterno al materiale, come se venisse improvvisamente liberata una molla di gigantesche proporzioni (v. tav. VII).
Esistono protuberanze anche lontane dai centri di attività solare, ma esse seguono, generalmente, una linea che corre tra due grandi regioni con opposte polarità magnetiche e pare che anch'esse siano mantenute in alto nella corona, contro l'azione della gravità, dal campo magnetico che passa tra le due regioni. Queste protuberanze, dette ‛quiescenti', possono raggiungere grandi dimensioni e rimanere intatte per mesi interi. Quando vengono osservate in assorbimento contro il disco, le protuberanze appaiono scure nell'Hα, e sono allora chiamate ‛filamenti'; si tratta, però, sempre del medesimo fenomeno, che viene visto sotto un altro aspetto.
d) I brillamenti solari.
I brillamenti solari sono violente rotture dei forti campi magnetici situati nella corona al disopra delle regioni attive, per effetto delle quali, nello spazio di pochi secondi, vengono liberate enormi quantità di energia magnetica, sotto forma di calore e di radiazione. In un brillamento particolarmente intenso la quantità di energia liberata (dell'ordine di 1025 joule) è confrontabile con l'energia magnetica di un'intera regione attiva di modeste proporzioni, mentre la temperatura intorno alla regione di emissione dell'energia può raggiungere i 108 °K e oltre. Gran parte dell'energia liberata nei brillamenti è, però, incanalata verso l'atmosfera solare sottostante, che è più densa e nella quale può scatenare enormi onde esplosive che, fuoriuscendo dal Sole, possono arrivare fino ad avvolgere la Terra, dove danno origine a tutta una serie di effetti. L'energia liberata provoca, inoltre, una forte emissione dagli strati profondi immediatamente sovrastanti la superficie visibile (v. tav. VIII).
I brillamenti sono tra i fenomeni solari più complessi che siano stati osservati, poiché coinvolgono un numero impressionante di processi fisici, tra i quali ricordiamo i seguenti: a) accumulo nel campo magnetico, subito prima dell'inizio del brillamento stesso, di grandi quantità di energia; b) liberazione rapidissima di questa energia, prodotta da un meccanismo d'innesco non ancora ben individuato; c) accelerazione di elettroni fino a energie quasi relativistiche; d) radiazione girosincrotronica provocata dall'interazione tra elettroni relativistici e campo magnetico; e) accelerazione di particelle nucleari fino a energie altamente relativistiche (109 eV); f) reazioni nucleari prodotte dall'impatto di protoni ad alta energia sulla materia del Sole; g) improvvisa cessione di calore agli strati inferiori dell'atmosfera solare, con la conseguente fuoriuscita esplosiva di materiale; h) espulsione, sotto forma di onda esplosiva, di materiale nel mezzo interplanetario; i) strane anomalie nei rapporti di abbondanza di taluni isotopi che si trovano nella materia trasportata dall'onda esplosiva, quando quest'ultima raggiunge la Terra.
Nessuno degli effetti sopraelencati è stato finora capito nei particolari, ma, almeno nelle sue linee generali, il processo appare adesso sufficientemente chiaro. Sembra che, per qualche ora o addirittura per qualche giorno prima del verificarsi dei brillamenti, si vada progressivamente accumulando un eccesso di energia nel campo magnetico, il quale assume perciò una configurazione distorta rispetto a quella che ha al punto di equilibrio, quando, cioè, ha energia minima. Tale distorsione è probabilmente dovuta a una torsione della struttura del campo in corrispondenza dei punti d'appoggio all'interno della fotosfera e al disotto di essa, che fa fluire delle correnti lungo gli archi nella corona sovrastante. La fonte ultima di energia dei brillamenti è, dunque, costituita dai movimenti nella zona di convezione, i quali comportano senz'altro una quantità di energia sufficiente a distorcere il campo. Successivamente, il campo distorto raggiunge un punto di instabilità tale che può ritornare violentemente a una configurazione di energia minore, liberando così l'energia magnetica accumulata; in questo processo, una quantità di energia magnetica compresa tra 1023 e 1025 joule si converte con rapidità impressionante in energia di particelle veloci nell'arco di qualche secondo o, al massimo, di alcuni minuti. Una frazione apprezzabile dell'energia va ad accelerare gli elettroni fino a velocità che possono raggiungere un terzo di quella della luce e a energie di 105 eV; per effetto delle inevitabili collisioni tra questi elettroni veloci e il gas circostante (Bremsstrahlung), si produce immediatamente un fiotto di raggi X duri. Questi elettroni relativistici, mentre descrivono delle spirali attorno alle linee magnetiche nelle regioni in cui avvengono i brillamenti, producono anche una radiazione girosincrotronica alle lunghezze d'onda delle microonde (o radioonde). Alcuni elettroni veloci si muovono verso l'esterno attraverso la corona, dando luogo a oscillazioni del plasma che, a loro volta, producono una cosiddetta ‛emissione radio di terzo tipo'; esiste una relazione tra la frequenza di emissione e l'altezza nella corona e ciò permette di verificare, misurando il tempo di emissione alle varie frequenze, che gli elettroni si muovono effettivamente a una velocità uguale a circa un terzo di quella della luce. La maggior parte dell'energia delle particelle veloci è ceduta, sotto forma di calore, al plasma circostante, che raggiunge così in breve tempo una temperatura che supera i 10 milioni di gradi Kelvin, raffreddandosi poi poco per volta.
La cessione di energia alla cromosfera può provocare un riscaldamento esplosivo che, a sua volta, dà luogo a un'espulsione di materiale a una velocità di alcune centinaia di chilometri al secondo. L'onda esplosiva che si espande può addirittura superare la velocità di fuga e quindi emettere nel mezzo interplanetario fino a 1016 grammi di materia; inoltre, nel suo movimento verso l'esterno, l'onda trascina con sé dei campi magnetici, i quali possono, a loro volta, provocare un'accelerazione secondaria di particelle. Molti dettagli dei fenomeni che abbiamo appena descritto rimangono tuttora oscuri, ma l'accelerazione di nucleoni fino ad altissime energie è ormai una certezza e siamo anche quasi sicuri che il momento in cui essa si verifica e quello in cui appare l'onda esplosiva siano collegati: la prova di questa seconda accelerazione è fornita dall'osservazione diretta, nell'orbita della Terra, di elettroni, di protoni e di nuclei più pesanti con energie che possono raggiungere i 108 eV, nonché di raggi gamma provenienti da reazioni nucleari all'interno di vasti brillamenti.
e) Le buche coronali e il vento solare.
Le ‛buche coronali', di cui un esempio è la vasta area scura ben visibile nell'immagine a raggi X che costituisce la tav. VI, sono regioni in cui la densità e la temperatura dei gas che compongono la corona sono decisamente al disotto del livello normale, cosicché in esse l'emissione di raggi X è notevolmente ridotta. A una prima analisi esse potrebbero apparire, data la loro bassa emissione, come una manifestazione di inattività piuttosto che di attività solare, ma, dal momento che i campi magnetici prodotti dalla dinamo ne influenzano profondamente le caratteristiche, ogni descrizione dell'attività solare risulterebbe incompleta senza un'analisi di questi importanti fenomeni.
Le buche coronali furono scoperte soltanto nel 1967, quando furono rivelate per la prima volta da telescopi spaziali solari sensibili all'estremo ultravioletto e ai raggi X. La superficie solare visibile al disotto di una buca appare molto simile alla normale superficie del Sole e non mostra quasi niente che possa suggerire l'esistenza della buca coronale che la sovrasta. Il campo magnetico alla superficie è leggermente più debole di quello nel resto della fotosfera indisturbata.
I campi al disotto di una buca tendono tuttavia ad avere la medesima polarità e sono talmente distanti dai campi di polarità opposta che gli estremi di un arco chiuso si troverebbero molto lontani tra loro. Un tale arco chiuso raggiungerebbe altezze tali nella corona che l'intensità del campo magnetico alla sua sommità non sarebbe sufficiente a trattenere all'interno dell'arco stesso i gas coronali. Pare inoltre che la pressione dei gas coronali in tali regioni provochi la rottura degli archi magnetici all'altezza del loro punto più alto, permettendo così al gas, ormai non più trattenuto, di fuoriuscire liberamente nello spazio in grandi quantità: sarebbe questa l'origine del fenomeno che va sotto il nome di vento solare.
L'energia necessaria nelle buche coronali per sospingere verso l'esterno il vento solare è all'incirca equivalente a quella necessaria per portare la ‛normale' corona imperturbata alla temperatura di 1 o 2 milioni di gradi. Sembra dunque probabile che la corona normale e le buche coronali ricevano la stessa quantità di energia - forse attraverso onde acustiche o magnetoidrodinamiche - e che la differenza più importante esistente tra di esse consista nel fatto che in un caso il campo magnetico è aperto verso lo spazio interplanetario, mentre nell'altro è chiuso e forma un arco.
Le condizioni che danno luogo alle buche coronali non sono ancora molto chiare; pare che le distribuzioni di campo magnetico che si trovano al disotto delle buche coronali siano create da giganteschi moti convettivi al disotto della superficie, che hanno origine nelle profondità interne. Le buche coronali, inoltre, non paiono essere coinvolte nella rotazione differenziale caratteristica dei fenomeni su scala ridotta, quali le regioni attive e le macchie solari, e ciò fa pensare che esse abbiano origine in una regione talmente profonda da non subire la rotazione differenziale. È solo dal 1973 che si è iniziato a studiare nei dettagli l'evoluzione delle buche coronali, per cui non è ancora stata completata l'osservazione di un intero ciclo di undici anni; ma dai dati già in nostro possesso sembra logico pensare che esista una marcata variazione ciclica delle proprietà delle buche coronali.
Le buche coronali possono esistere sia in prossimità dei poli solari, sia in regioni di bassa latitudine; le buche ai poli diventano particolarmente prominenti verso la conclusione di un ciclo di macchie solari, quando, come abbiamo già avuto modo di dire, si formano vaste zone magnetiche unipolari ai poli di rotazione del Sole. All'epoca della missione Skylab del 1973, cioè in un momento in cui si stava avvicinando un minimo di macchie solari, che, infatti, fu poi puntualmente registrato nel 1975, ciascuna buca polare si unì alla buca della fascia di bassa latitudine che aveva polarità magnetica dello stesso segno di quella dei campi polari, creando in questo modo un'estensione a bassa latitudine di buche polari che in certi momenti poteva giungere fino all'equatore del Sole. Una di queste è chiaramente visibile nella tav. VI: in essa le propaggini a bassa latitudine delle due buche coronali si trovano a una distanza di circa 180° di longitudine solare l'una dall'altra. Poiché il piano dell'eclittica che contiene l'orbita della Terra si trova sempre entro una fascia di 7° dall'equatore del Sole, la Terra giace, una volta per ogni rotazione solare, immediatamente al disopra dell'estremità equatoriale di ciascuna buca polare. Le osservazioni del vento solare effettuate durante lo stesso periodo rivelarono che, quattro giorni e mezzo dopo che ciascuna estremità a bassa latitudine, durante la propria rotazione, era passata per il centro del disco solare, la Terra veniva colpita da un'ondata di vento solare particolarmente veloce; questo ritardo di quattro giorni e mezzo corrisponde al previsto tempo di transito delle particelle del vento solare a velocità che, secondo misurazioni effettuate nel flusso del vento solare, risultano comprese tra 500 e 700 km/s. È anche possibile misurare la polarità del campo magnetico del vento solare in prossimità della Terra: si è scoperto che essa corrisponde sempre precisamente alla polarità magnetica riscontrata all'interno della buca coronale dalla quale proviene il vento solare.
Nel 1973 la struttura delle buche coronali, del vento solare e del campo magnetico nello spazio interplanetario era particolarmente semplice, grazie alla grandezza delle due buche polari e al fatto che si estendevano fino a bassa latitudine. Durante la fase crescente del ciclo di attività e al punto massimo, la struttura diviene, invece, alquanto più complessa; anche in tali fasi, tuttavia, si può sempre notare un certo ordinamento su vasta scala nel campo magnetico interplanetario, il che fa pensare che l'ordinamento dei campi magnetici su scala solare globale si mantenga durante l'intero ciclo. (Per ulteriori dettagli sui rapporti che intercorrono tra le buche coronali il vento solare e l'attività magnetica, v. Zirker, 1977).
4. Future direzioni di ricerca sull'attività solare.
Lo studio dell'attività solare è uno dei campi più antichi dell'astronomia, avendo avuto origine quasi quattro secoli fa, all'indomani dell'invenzione del telescopio; è tuttavia soltanto dalla metà del nostro secolo che il progresso delle ricerche ha raggiunto il suo ritmo attuale, mai uguagliato nel passato. Senza paura di esagerare, possiamo senz'altro affermare che si è appreso molto di più sull'attività solare nei vent'anni che vanno dal 1960 al 1980 che in tutta la precedente storia dell'astronomia.
Tuttavia, come abbiamo spesso avuto modo di rilevare nel corso dei capitoli precedenti, molte domande restano ancora oggi senza risposta; ci limiteremo qui a riassumere i quattro più importanti argomenti di ricerca relativi all'attività solare, nel cui ambito è probabile che si registrino significativi progressi prima della fine del secolo, e ad analizzare alcune direttrici di ricerca che potranno portare a questi progressi.
a) Il ciclo di attività.
Molti dei fenomeni del ciclo di attività sono ormai noti: la quasi periodicità di undici anni delle macchie solari, il ciclo magnetico della durata di ventidue anni, le leggi che regolano la polarità delle macchie, il diagramma a farfalla, la rotazione differenziale degli strati superficiali del Sole, l'esistenza delle buche coronali, il minimo di Maunder, i punti brillanti a raggi X e tutta una serie di dettagli di questi fenomeni. Tuttavia, alcuni aspetti essenziali devono ancora essere chiariti e occorreranno nuovi dati prima che si possa raggiungere una completa comprensione del ciclo di attività.
Alcuni di tali dati dovranno riguardare la struttura e la dinamica dell'interno del Sole, regione della quale è assolutamente impossibile una visione diretta; sarebbe, per esempio, molto interessante conoscere la profondità della zona di convezione che si estende al disotto della superficie, perché da essa dipende dove si determina l'effetto della dinamo. Un altro parametro importante è il gradiente della rotazione con la profondità: i modelli di dinamo dei quali disponiamo attualmente possono fornire una spiegazione del fatto che le macchie appaiono in un primo tempo a latitudini alte e soltanto in seguito a latitudini basse (v. fig. 2) solo nel caso che la velocità di rotazione aumenti verso l'interno; i calcoli della rotazione differenziale basati sugli effetti di convezione dovuti alla rotazione del Sole predicono, invece, il contrario, ossia una diminuzione della velocità di rotazione verso l'interno. Anche se resterà sempre impossibile vedere per più di qualche centinaio di chilometri al disotto della superficie del Sole, è molto probabile che, in un non lontano futuro, si riesca, per mezzo di ulteriori osservazioni, a determinare sia la profondità della zona convettiva, sia il gradiente della velocità con la profondità; ciò sarà possibile grazie alle nuove tecniche di ‛sismologia solare', che permettono di rivelare e di studiare le pulsazioni acustiche non radiali del Sole. Dallo spettro di tali pulsazioni si possono infatti ricavare dei dati che riguardano entrambi questi parametri, ancora sconosciuti. Perché si possano ottenere dei risultati utili si devono, tuttavia, raccogliere lunghe serie di dati estese su un periodo di parecchi giorni, che si spera possano essere ricavate da una stazione al polo Sud durante l'estate artica, oppure da un'astronave immersa nella luce continua del Sole (si veda l'articolo precedente: La struttura interna del Sole).
Come abbiamo spiegato, i punti brillanti a raggi X, la cui esistenza fu scoperta soltanto nel 1973, variano in maniera apprezzabile con il ciclo solare; entro la fine del secolo se ne potrà concludere l'osservazione su un intero ciclo di ventidue anni e ciò permetterà, senza dubbio, di avere una più completa comprensione di quella che probabilmente è una componente essenziale della dinamo magnetica.
Un'ulteriore strada da seguire per raggiungere una maggior conoscenza del ciclo di attività è rappresentata dai calcoli teorici del processo della dinamo, effettuati per mezzo dei più grandi calcolatori elettronici moderni, i quali sono oggi in grado di eseguire calcoli a un livello di sofisticazione assolutamente impensabile fino a pochi anni fa. Queste macchine ci consentono di compiere esperimenti numerici per verificare rigorosamente i risultati ottenuti partendo da diverse ipotesi alternative sul meccanismo della dinamo.
Un'ultima fonte di informazione sul ciclo di attività solare può essere lo studio dei cicli di attività su altre stelle. L'esistenza di cicli in numerose stelle simili al Sole fu notata per la prima volta soltanto nel 1978 (v. Wilson, 1978). Queste e altre stelle, i cui cicli saranno scoperti nei prossimi anni, saranno studiate intensamente per il resto del XX secolo, onde cercare di capire come vari il periodo di un ciclo, o la sua ampiezza, in funzione di parametri come l'età della stella, la sua velocità di rotazione, il livello della sua attività convettiva o la sua massa.
b) La fisica delle regioni attive.
Benché i fenomeni della formazione e del riscaldamento degli archi delle regioni attive sotto l'influenza dei campi magnetici siano stati accuratamente osservati e studiati, resta da risolvere un certo numero di problemi più dettagliati. Un problema molto importante è come avvenga il riscaldamento (per esempio per dissipazione di corrente elettrica oppure per onde). Lo studio teorico di tale problema ha compiuto, nel corso degli anni settanta, dei grossi passi avanti e il lavoro teorico continuerà senza dubbio in futuro; tuttavia, per determinare con precisione il punto in cui il riscaldamento ha luogo saranno indispensabili dati a grande risoluzione che mostrino i dettagli più fini della struttura degli archi. Si spera di poter ottenere questi dati già prima della fine degli anni ottanta da telescopi spaziali ad alta risoluzione.
Ulteriori indicazioni sulla natura del processo di riscaldamento potranno venire dallo studio di altre stelle, anch'esse dotate di regioni attive, ma con differenti livelli di energia convettiva. Recenti osservazioni nei raggi X hanno mostrato corone calde che circondano stelle nane molto fredde, le cui zone convettive sembrano insufficienti a produrre un riscaldamento mediante movimenti oscillatori; ciò costituisce una prova a favore dell'importanza del riscaldamento dovuto alla dissipazione di energia magnetica. Futuri studi in questo campo potranno forse portare a significativi chiarimenti circa il riscaldamento delle corone delle stelle e, di conseguenza, anche del Sole (v. Vaiana e altri, 1980).
c) La fisica dei brillamenti solari.
I brillamenti sono sede di interazioni estremamente complesse tra campi magnetici e gas ionizzati. Nonostante che siano stati raccolti su di essi dati abbondantissimi e dettagliati, i meccanismi che stanno alla base dell'accumulo e della successiva liberazione di energia e di accelerazione delle particelle rimangono tuttora avvolti nel mistero; osservazioni dallo spazio potranno, nel futuro, portare notevoli contributi alla comprensione di tali fenomeni, ma il progresso in questa direzione potrebbe essere ancora assai lento, a causa della notevole complessità del problema. Comunque, poiché questi fenomeni rivestono una grande importanza per la fisica solare, anche in relazione alla fisica terrestre, per la fisica dei plasmi e per l'astrofisica in genere, le ricerche che li riguardano, sia osservative sia teoriche, continueranno a essere portate avanti con grande impegno.
d) Le conseguenze sulla Terra dell'attività solare.
Pur non essendo direttamente legato al progresso delle ricerche relative, il problema delle conseguenze sulla Terra dell'attività solare è, in potenza, così importante da giustificare, da parte dei fisici solari, quegli studi seri e approfonditi cui solo di recente essi hanno cominciato a dedicarsi. In particolare, le presunte relazioni tra attività solare e clima terrestre meritano ricerche molto serie. Al momento attuale sono in fase di progettazione missioni spaziali aventi lo scopo di misurare l'emissione di radiazioni da parte del Sole, sia in luce visibile (la ‛costante' solare), sia nell'estremo ultravioletto e nei raggi X. Queste missioni dovrebbero fornire ai climatologi e ai fisici dell'atmosfera una nuova serie di dati utili. A questo proposito, sarà anche interessante osservare per un intero ciclo il comportamento del vento solare e approfondire lo studio della sua relazione, recentemente scoperta, con le buche coronali. Dallo studio della radiazione e dell'emissione di particelle da parte del Sole e delle variazioni che tali fenomeni subiscono a causa dell'attività solare, i climatologi e gli astrofisici potranno forse scoprire se esista una relazione fra l'attività solare e le condizioni atmosferiche o il clima terrestre e quale sia la natura dell'eventuale meccanismo che li lega.
Bibliografia.
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McCormac, B. M., Seliga, T. A. (a cura di), Solar terrestrial influence on weather and climate, Dordrecht 1979.
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Vaiana, G. S., Cassinelli, J. P., Fabbiano, G., Giacconi, R., Golub, L., Gorenstein, I., Haish, B. M., Harnden, F. R. jr., Johnson, H. M., Linsky, J. L., Maxson, C. W., Mewe, R., Rosner, R., Seward, F., Topka, K., Zwaan, C., The Einstein CFA stellar survey, in ‟The astrophysical journal", 1980.
Vaiana, G. S., Chase, R., Davis, I., Gerussimenko, M., Golub, L., Kohler, S., Kueger, A. S., Petrasso, R., Silk, J. K., Timothy, A. F., Zombek, M., Webb, D., Skylab and the ASE x-ray telescope experiment: a new view of the X-ray corona, in ‟Osservazioni e memorie dell'Osservatorio astrofisico di Arcetri", 1974, CIV, 3.
Wilson, O. C., Chromospheric variations of main sequence stars, in ‟The astrophysical journal", 1978, CCXXVI, p. 379.
Zirker, J. B. (a cura di), Coronal holes and high-speed wind streams, Boulder 1977.
Origini e struttura del sistema solare
SOMMARIO: 1. Le origini del sistema solare: a) introduzione; b) la formazione delle stelle; c) il disco di accrescimento e la formazione dei pianeti; d) l'accrezione dei pianeti; e) la teoria di Alfvén; f) considerazioni di carattere generale. □ 2. La struttura del sistema solare: a) Sole; b) Mercurio; c) Venere; d) Terra; e) Luna; f) Marte; g) i satelliti di Marte; h) gli asteroidi; i) Giove; l) i satelliti e l'anello di Giove; m) Saturno, i suoi anelli e i suoi satelliti; n) Urano, i suoi anelli e i suoi satelliti; o) Nettuno e i suoi satelliti; p) Plutone e il suo satellite; q) le comete. □ Bibliografia.
1. Le origini del sistema solare.
a) Introduzione.
La comprensione di molti importanti fenomeni astrofisici è resa assai difficile dal fatto che non si conoscono altre situazioni simili con le quali sia possibile fare dei paragoni. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda sia la struttura, sia l'evoluzione del nostro sistema solare. La maggior parte degli astronomi è convinta che debbano sicuramente esistere altri sistemi dello stesso tipo, ma finora non ne è stato osservato alcuno.
Per questa ragione, a tanti interrogativi sul sistema solare non sono state ancora date risposte univoche e sicure e spesso si deve fare affidamento sulla plausibilità delle argomentazioni addotte e sull'intuizione. Nonostante il fatto che le premesse su cui si basano le varie teorie sull'evoluzione del sistema solare siano molto differenti l'una dall'altra, sembra tuttavia che si stia delineando un certo schema complessivo comune. È inoltre interessante il fatto che, in molti casi, i risultati a cui conducono alcuni tipi di calcoli sull'evoluzione sono largamente indipendenti dalle ipotesi iniziali.
b) La formazione delle stelle.
Tutte le congetture sull'origine del sistema solare partono sempre dal problema comune della formazione delle stelle. Sulla base delle osservazioni fatte e delle conoscenze teoriche raggiunte, possiamo riassumere la formazione delle stelle nel modo seguente. In una galassia che contiene normalmente il 10% di gas e il 90% di stelle, le nubi interstellari di idrogeno sono stabili rispetto al collasso gravitazionale o alla dissipazione, a condizione che soddisfino certi criteri. In particolare, una nube gassosa di densità ρ è stabile se la pressione del gas e l'effetto di un eventuale campo magnetico sono controbilanciati dall'attrazione gravitazionale. Nel caso che non vi sia alcun campo magnetico, la condizione che la velocità di fuga di una molecola sia uguale alla velocità impressa dalla gravitazione è soddisfatta se la massa della nube è uguale alla massa di Jeans
MJ=(1/6)(π5/ρ)1/2(RT/mG)3/2
(R è la costante dei gas ed m è il peso molecolare). Per una nube di idrogeno atomico, si ha mediamente una temperatura T=100 °K e una densità corrispondente a 20 atomi per unità di volume, il che dà MJ≃104 M⊙ (M⊙ è la massa solare). Le stelle, però, si formano in nubi molecolari che contengono soprattutto idrogeno, hanno una temperatura T=10 °K e una densità corrispondente, in media, a 103 molecole per unità di volume, cosicché si ha MJ=30 M⊙. Una massa critica così bassa conduce a un tasso troppo elevato di formazione di stelle (forse cento volte più elevato di quello reale); per tale ragione, o la maggior parte delle nubi ha massa più piccola di MJ - ma ciò appare assai improbabile - oppure è sostenuta da altri agenti, come campi magnetici o rotazioni. La massa critica in presenza di un campo magnetico B è data dalla relazione
dalla quale si ottiene, per un campo di 10-6 gauss, Mc≃103÷104 M⊙; per stabilizzare una nube avente una massa di 105 M⊙ e una densità corrispondente a 104 molecole per unità di volume, sarebbe, invece, necessario un campo di 8×10-4 gauss.
Una pressione esterna agente sulla nube abbasserebbe rapidamente la massa critica; ciò può accadere quando, nel corso del suo moto attraverso il piano galattico, la nube incontra un braccio galattico e vi penetra dentro, poiché, secondo la teoria delle onde di densità, questa è una regione avente una densità di stelle più elevata della media e rappresenta, perciò, una buca di potenziale gravitazionale. Il gas e le stelle, come il Sole, ruotano attorno al centro della Galassia con un periodo di 108 anni, che è all'incirca la metà del periodo di rotazione dei bracci a spirale. In tal modo, una nube di gas penetra in un braccio in corrispondenza del bordo, dove viene rapidamente decelerata e compressa per un fattore di ordine 10: una tale compressione può dare l'avvio a un collasso gravitazionale, in particolare nelle nubi più massicce, e condurre quindi alla formazione di una nuova stella.
La Galassia contiene elementi più pesanti, prodotti durante la nucleosintesi nelle supernove; alcuni di questi elementi hanno isotopi radioattivi le cui vite medie sono sufficientemente lunghe da indicare, per tali eventi, una scala temporale dell'ordine di 108 anni, il che concorda con la velocità di rotazione della Galassia. Man mano che la nube continua a collassare gravitazionalmente, essa si spezza in vari frammenti, ognuno dei quali può dare l'avvio alla formazione di una o più stelle. In generale, il collasso non è uniforme: il più delle volte si formano strutture granulose e a spirale o a forma di barra, che danno luogo a stelle binane con un ampio spettro di rapporti fra le masse. E stata anzi avanzata l'ipotesi che il Sole e Giove fossero inizialmente i componenti di una stella binaria di questo tipo.
La teoria indica che, a seconda della loro massa e della loro opacità, le nubi con densità non superiore a 10-13 g cm-3 possono essere isotermiche e che il loro modo di collassare è differente a seconda dei rapporti iniziali tra l'energia rotazionale e l'energia gravitazionale e tra l'energia termica e l'energia gravitazionale. Lo studio quantitativo di tali fenomeni, secondo la meccanica dei fluidi, è molto difficile e non conduce a risultati definiti; d'altra parte la simulazione al calcolatore dei collassi conduce qualche volta a risultati spuri. Ciò nonostante, simulazioni bi e tridimensionali nelle quali si è tenuto conto della viscosità turbolenta hanno indicato che si formano spesso degli anelli, i quali, in determinate situazioni, collassano poi su se stessi, dando luogo a binarie o ad altre condensazioni. In generale, per basse energie rotazionali, le nubi sono instabili rispetto alle perturbazioni non assisimmetriche, mentre per alte energie rotazionali sono, invece, instabili rispetto alle perturbazioni assisimmetriche. Nel caso che anche soltanto una piccola frazione della nube sia ionizzata, la presenza di un campo magnetico può influire fortemente sul processo di condensazione e di frammentazione. Di norma, il campo magnetico fa rallentare il collasso, ma, se predomina la materia neutra, il campo può, in parte, sfuggire attraverso una diffusione ambipolare e non ostacola quindi la formazione di una stella singola. Generalmente, nelle nubi che hanno un momento angolare basso predomina la formazione di stelle singole.
Uno dei problemi più complessi per le teorie della formazione delle stelle è quello della conservazione del momento angolare. Una nube tipica può avere un raggio di oltre 20 parsec, una massa di circa 104 M⊙, un peso molecolare medio pari a 1,3, una temperatura di 75 °K, una velocità angolare di 10-15 s-1 e un momento angolare specifico compreso tra 1023 e 1024 cm2 s-1; quest'ultimo è tra 106 e 107 volte maggiore dei momenti angolari delle stelle della sequenza principale superiore, le quali, come il nostro Sole, hanno in media un raggio compreso tra 1011 e 1012 cm, una densità compresa tra 1 e 2 g cm-3 e velocità angolari comprese tra 10-5 e 10-6 s-1. Sembra che tale problema sia stato risolto in alcuni dei calcoli più recenti, i quali mostrano che l'elevato momento angolare iniziale della nube viene gradualmente trasformato nei moti orbitali dei frammenti della nube ed è anche, in parte, trasferito, per mezzo di onde di Alfvén, al mezzo circostante. La teoria indica anche che i prodotti finali di questa frammentazione, ossia i sistemi stellari multipli, le binarie e le stelle singole, hanno masse, momenti angolari di rotazione, periodi orbitali e rapporti fra i periodi dell'ordine di quelli delle stelle della sequenza principale.
É stata avanzata l'ipotesi che la nube, o nebulosa, protosolare fosse troppo piccola per diventare gravitazionalmente instabile attraversando un braccio galattico e che il suo collasso sia stato innescato - o, per lo meno, fortemente influenzato - dall'esplosione di una supernova nelle sue vicinanze. Quest'ultima supposizione si basa sulla scoperta, in alcuni meteoriti, di tracce attribuibili alla radioattività emessa, in epoche remote, dall'26Al, isotopo che ha una vita media un po' inferiore a 106 anni e che si forma nelle supernove. Altre ricerche su simili arricchimenti di elementi e di isotopi, in particolare del 87Rb, del 232Th e dell'238U, le cui vite medie sono comprese tra 5×1010 e 4,5×109 anni, forniscono utili scale temporali per l'evoluzione della nube primordiale.
In origine, la nube dalla quale si formò il sistema solare aveva probabilmente un raggio di 0,3 anni luce, pari a 3×1012 km. Il suo collasso gravitazionale dinamico iniziale provocò l'aumento della temperatura e dell'opacità fino a che, dopo circa 105 anni, l'alta pressione interna fece rallentare la contrazione e la nube raggiunse l'equilibrio ‛idrostatico'. A quel punto, il raggio dell'oggetto doveva essere di circa 109 km, paragonabile, cioè, a quello dell'orbita di Saturno. La temperatura continuò ad aumentare fino a quando, a 1.800 °K, la dissociazione delle molecole di H2 assorbì la maggior parte dell'energia prodotta; a questo punto, si verificò un secondo collasso, molto rapido (durò appena qualche decina d'anni). Al termine di questo secondo collasso il protosole aveva un raggio di 50 R⊙, ossia di poco superiore alla metà del raggio dell'attuale orbita di Mercurio, e una luminosità altissima, prodotta dalle reazioni nucleari nel suo interno. Dopo un periodo complessivo di circa 107 anni dall'inizio del primo collasso della nube, il Sole raggiunse la sequenza principale, diventando così una tipica stella del tipo spettrale G2. Poco prima di raggiungere la sequenza principale, il Sole era però entrato nel cosiddetto stadio T Tauri, caratterizzato da un improvviso aumento (di trenta o quaranta volte) della luminosità, per un periodo di 105÷106 anni, e dall'espulsione di circa il 10% della massa. Questa esplosione di radiazione e di materia spazzò via i resti gassosi della nebulosa solare ed ebbe quindi una profonda influenza sulla struttura e sulla dinamica del sistema planetario che si stava allora sviluppando. Si calcola che il Sole debba rimanere nella sequenza principale per circa 1010 anni, metà dei quali sono già trascorsi. Alla fine di questo periodo, secondo quanto sappiamo sull'evoluzione delle altre stelle, il Sole si trasformerà rapidamente in una gigante rossa, nella quale il sistema planetario evaporerà. Alla fine, l'involucro di questa stella verrà espulso e la restante parte centrale collasserà, diventando una nana bianca, la quale per alcuni miliardi di anni si andrà raffreddando progressivamente e, dopo moltissimo tempo, cesserà di esistere come stella visibile.
Sebbene molti degli aspetti dei processi di formazione e di evoluzione delle stelle non siano ancora stati completamente chiariti, tuttavia sul loro schema generale concordano tutte le teorie che riguardano l'origine del sistema solare. Alcune fondamentali differenze tra le varie teorie emergono, invece, a proposito dell'origine dei pianeti e dei loro satelliti. Esistono due tipi fondamentali di teorie: quelle che, seguendo l'ipotesi proposta la prima volta da Kant e rielaborata in seguito, in maniera più dettagliata, da Laplace, sostengono che il Sole e i pianeti si sono formati dalla medesima nebulosa, e quelle che sostengono che il Sole e i pianeti hanno avuto origini diverse. Parecchie delle suddette teorie spiegano, in via provvisoria, alcune proprietà del sistema solare, sulla base di varie nozioni qualitative, senza raggiungere, tuttavia, risultati quantitativi. Un'eccezione importante a questo dato di fatto è costituita dalla teoria del disco viscoso di accrescimento, che è stata sviluppata in maniera assai dettagliata e che ha recentemente ottenuto una notevole conferma: dischi del genere sono stati individuati, attraverso l'osservazione nel visibile e nell'infrarosso, in due corpi: MWC 394 e LkHα 101. La mancanza di simili prove aveva costituito per lungo tempo l'argomentazione principale contro la validità ditale teoria.
c) Il disco di accrescimento e la formazione dei pianeti.
Tutte le teorie maggiormente diffuse sull'origine dei pianeti si fondano sull'ipotesi che sia esistito un disco viscoso iniziale di accrescimento, formato dalla nebulosa protosolare attorno al protosole. A causa di instabilità, il disco fini per frammentarsi e una parte del materiale che lo componeva diede luogo ai pianeti, mentre la parte rimanente venne attratta sul corpo centrale o sfuggì nello spazio o venne espulsa violentemente durante la fase T Tauri dell'evoluzione del Sole. Strettamente collegate con queste teorie sono quelle secondo le quali il Sole avrebbe, in origine, fatto parte di una stella binaria; la sua compagna si sarebbe, quindi, disintegrata e i suoi resti sarebbero stati in parte dispersi nello spazio e in parte catturati dal Sole stesso. Questi ultimi avrebbero dato luogo in un primo tempo a una nube a disco e in un secondo tempo ai pianeti. Un'importante implicazione delle suddette teorie è la stretta relazione ipotizzata tra le composizioni della nebulosa iniziale del Sole, dei pianeti e dei loro satelliti. Un banco di prova per queste teorie è, perciò, la spiegazione delle notevoli differenze che si riscontrano tra la composizione dei pianeti terrestri, da una parte, e quella dei pianeti giganti, dall'altra (v. oltre).
L'autogravità della nebulosa solare iniziale in rotazione - che era appena un piccolo frammento della nube gassosa originale - ne provocò la contrazione e l'appiattimento fino a trasformarla in un disco con una densità sempre più alta, specialmente al centro. L'accumulo di materia sul corpo centrale fu graduale e avvenne in condizioni di equilibrio rotazionale e gravitazionale per l'effetto del campo magnetico catturato e della pressione termica che si opponevano a tale processo e lo rallentavano. Secondo Cameron, che effettuò approfonditi studi su questi processi, nei primi stadi del suo sviluppo, la nebulosa, il cui diametro era di circa 100 UA, non era completamente isolata dal resto dei frammenti della nube; si verificò, così, una caduta supplementare di materia, con un tasso di circa 1 M⊙ ogni 3×104 anni (per un caso particolare, v. fig. 1A). La caduta di materia e il collasso non furono uniformi, bensì turbolenti e, durante la fase di raffreddamento, la formazione di grani e la loro crescita furono facilitate dalle collisioni soprattutto nelle regioni in cui la densità e la velocità erano più elevate.
Un importante passo avanti nella comprensione di questa fase della formazione del sistema solare fu rappresentato dall'introduzione del concetto di disco viscoso di accrescimento, operata indipendentemente da Lüst, da Lynden-Bell e da Pringle. A causa dello scorrimento e dell'attrito tra gli strati rotanti del disco, il momento angolare viene poco per volta trasmesso all'esterno, mentre la massa viene trasferita verso l'asse. L'equazione fondamentale di questo processo è
nella quale F è il flusso radiale di materia, h=ΩR2 è il momento angolare specifico a distanza R dal centro e per una velocità angolare Ω e g =−2πR3νσ(dΩ/dR) è la coppia tangenziale in corrispondenza del raggio R, tra il disco di materia interno e quello esterno; ν(R) è la viscosità cinetica e σ è la densità superficiale, all'incirca proporzionale a R-1. Sembra che g raggiunga un massimo per un certo raggio R0, cosicché il flusso F della massa è diretto verso il centro per R〈R0 ed è, invece, diretto verso l'esterno per R>R0. La velocità di dissipazione dell'energia per unità di area del disco è
È opportuno, a questo punto, osservare che la viscosità che conta non è la viscosità molecolare, bensì la viscosità turbolenta, che è ancora poco nota e che è solo approssimativamente data da (2/9)CsH, dove Cs è la velocità del suono e H è la lunghezza di mescolamento. La viscosità molecolare, che è, invece, ben nota, è molto piccola e non potrebbe portare alla formazione del corpo centrale.
Sembra che il calore si propaghi rapidamente attraverso lo spessore del disco, per effetto della diffusione di fotoni, e perciò la temperatura dovrebbe essere piuttosto uniforme e data da (D/2σ0)1/4, dove D è l'energia dissipata in una colonna del disco di 1 cm2 di base e σ0 è la costante di Stefan-Boltzmann. Una volta che la massa del disco abbia raggiunto all'incirca il valore 2 M⊙, gli strati esterni diventano talmente caldi che si forma una corona, la quale espelle una parte della massa del disco. È questa, presumibilmente, la fase in cui ha inizio la formazione dei pianeti. Il tempo complessivo impiegato per la crescita e la dissipazione del disco è inferiore ai 2×105 anni, mentre il raggio raggiunge una lunghezza massima di 500-600 UA dopo circa 5×104 anni (v. fig. 1B). Il protosole centrale ha assorbito all'incirca il 20% della massa del disco, mentre il resto è sfuggito nello spazio. La grandezza del raggio del disco fa pensare che gli aggregati che si sono formati vicino al suo perimetro esterno fossero comete, mentre quelli che si sono formati più lontano siano sfuggiti nello spazio. Gli aggregati che non sfuggirono rimasero catturati su orbite immense, caratteristiche delle comete nella nube di Oort. L'importanza di questo modello sta nel fatto che esso spiega in maniera naturale la presenza, nelle comete, di molecole che non avrebbero potuto sopravvivere nelle condizioni termodinamiche esistenti in prossimità dei pianeti nel corso della loro formazione.
Secondo questo schema evolutivo, i pianeti si formarono mentre continuava ancora ad accumularsi materia sul protosole; più tardi, nel corso della fase T Tauri del suo sviluppo, il Sole perdette una parte della sua massa. I pianeti si formarono, dunque, molto più lontani dal Sole di quanto non siano oggi e poi, mentre la massa centrale aumentava, le orbite, in un primo tempo, si restrinsero e, in seguito, si espansero nuovamente un po', fino a raggiungere le dimensioni attuali. Per esempio, il raggio dell'orbita iniziale di Mercurio era probabilmente almeno dieci volte maggiore di quello attuale, mentre per quello di Nettuno la variazione è stata di circa un fattore cinque. La sequenza di eventi che abbiamo descritto indica che i pianeti cominciarono a formarsi a temperature parecchio al disotto di 50 °K, ma, dopo 5×104 anni, la temperatura raggiunse valori molto elevati, come è mostrato nella tab. I, dove sono riportati anche altri parametri fisici caratteristici delle regioni di formazione dei pianeti alla fine del periodo dell'accrescimento, allorchè il Sole aveva una massa pari, all'incirca, a 1,7 volte la sua massa attuale. Il fatto che la temperatura di Mercurio fosse così elevata implica che a quel tempo molti composti evaporarono e sfuggirono: rimasero soprattutto ferro e silicati; ciò concorda con quanto sappiamo sulla densità del pianeta e sul suo interno. Una proprietà interessante del disco solare originario del Sole - e, in realtà, di qualsiasi disco di accrescimento che dissipi energia attraverso la viscosità turbolenta - è che la relazione esistente tra la sua temperatura T e la sua densità ρ è in accordo con una adiabatica classica per l'idrogeno molecolare, ossia T∝ρ0,4, per quasi tutta la durata del periodo di accrescimento.
Non è ancora stata trovata una risposta soddisfacente al problema delle instabilità del disco, che dettero luogo alla formazione dei pianeti, e, in particolare, al problema dell'origine della legge di Bode, da cui segue l'esistenza di una regolarità nelle distanze radiali dei pianeti. Goldreich e Ward hanno proposto un criterio di instabilità basato sulle lunghezze d'onda - determinate mediante relazioni di dispersione - delle onde radiali, il quale è, tuttavia, rigorosamente valido soltanto nel caso di un disco molto sottile composto di particelle orbitanti: l'instabilità può verificarsi allorché la densità superficiale σ di una parte del disco a forma di anello è maggiore di σ*, data dalla relazione
Per un disco relativamente spesso, invece, tale criterio si trasforma in σ>3σ*. Cameron ha mostrato che questo criterio è, però, violato per un fattore compreso tra 2,7, nel caso di Mercurio, e 1,2, nel caso di Nettuno. D'altra parte, il criterio di instabilità globale di Yabushita è soddisfatto da ogni pianeta, per più di un ordine di grandezza, per un lungo arco di tempo. Questo criterio si fonda sul fatto che il disco non può trasferire massa al corpo centrale con una velocità sufficiente. Probabilmente, la condizione di instabilità deve essere compresa fra i due criteri suddetti ed è anche possibile che vi siano state delle notevoli fiuttuazioni nella densità superficiale del disco, alcune delle quali provocarono massicce instabilità che portarono alla formazione di protopianeti, mentre altre dettero luogo a piccoli pianetesimi.
Come avremo modo di spiegare più avanti, Sofranov e altri ritengono, invece, che la formazione dei pianeti sia dovuta, anziché all'effetto di grandi instabilità gravitazionali, a un accrescimento graduale, compiutosi attraverso l'unione di piccoli grumi in blocchi di materia, i quali, a loro volta, si fusero, dando luogo a pianetesimi progressivamente sempre più grandi. È possibile che abbiano agito entrambi i meccanismi: l'origine dei pianeti più esterni può essere stata causata da grandi instabilità gravitazionali, mentre i pianeti terrestri potrebbero essere il risultato di una accrezione graduale accompagnata o meno dal verificarsi di piccole instabilità. Se così è stato, è anche possibile che si siano prodotte, al confine tra queste due regioni, ossia nella fascia asteroidale tra Marte e Giove, condizioni alquanto insolite. Attraverso lo studio della dinamica dei pianeti, dei satelliti e degli anelli planetari si è appreso che le risonanze, ossia le commensurabilità dei periodi orbitali, esercitano un'influenza determinante sulla stabilità e sulla forma stessa delle orbite. In particolare, le particelle che compongono un anello sono spesso in risonanza con un corpo massiccio vicino, orbitante attorno alla medesima massa centrale; queste risonanze possono provocare l'aumento delle eccentricità e delle velocità disordinate delle particelle, favorendone così la frammentazione per collisione. Se Giove (o il protogiove) esisteva già prima della fine della fase di formazione dei pianeti terrestri, le intense risonanze associate alla variazione del raggio dell'orbita di Giove durante l'accrescimento e la dissipazione del disco solare possono aver avuto l'effetto di spazzare la fascia asteroidale. Queste risonanze dispersero ed eliminarono da gran parte della suddetta fascia i piccoli pianetesimi. In questo modo si può spiegare, almeno qualitativamente, il fatto che la densità radiale di materia sul sistema solare attuale presenta un minimo pronunciato tra Marte e Giove (v. fig. 2).
Qualunque sia stata la natura delle instabilità del disco che dettero luogo alla formazione dei pianeti su una scala temporale di 104 anni, è certo che i protopianeti erano grandi e massicci. L'esistenza di questi enormi condensati pone il problema delle loro mutue interazioni e dell'influenza che essi hanno avuto sulla dinamica, sulla stabilità e sull'evoluzione delle rimanenti parti del disco. Kopal ha fatto notare che, in mancanza di altri meccanismi di dissipazione, le forze di marea tra Giove e Saturno, e forse anche tra altri pianeti, sono troppo deboli per aver provocato lo stabilirsi di una quasi commensurabilità fra i loro periodi, ossia l'instaurarsi di risonanze deboli, nel corso dell'esistenza del sistema solare. Una possibilità di spiegazione consiste nel postulare l'azione di primitive interazioni di marea molto più intense tra i grandi protopianeti di Giove e di Saturno. Molti quesiti di questa natura non hanno ancora ricevuto una risposta dettagliata, nonostante il fatto che i giganteschi protopianeti gassosi siano stati ampiamente studiati.
Nella parte più interna dei protopianeti, dove la convezione è molto efficiente, il gradiente termico adiabatico
(γ è il coefficiente adiabatico) varia meno rapidamente del gradiente radiativo
causato dalla liberazione di energia gravitazionale. Nell'ultima formula, σ è la costante di Stefan-Boltzmann, c è la velocità della luce, κ è l'opacità e L(r) è il flusso luminoso in corrispondenza del raggio r. In prossimità della superficie, dove ρ è bassa, si ha un gradiente intermedio. Usando queste espressioni per il gradiente di temperatura e le condizioni al contorno corrispondenti a un corpo luminoso isolato autogravitante, si può risolvere l'equazione dell'equilibrio idrostatico, a condizione che si conosca la dipendenza di κ da T. Alle basse temperature l'opacità è dovuta principalmente a grani di ghiaccio; tra i 500 e i 1.000 °K domina, invece, l'effetto del ferro e di certi ossidi in grani; infine, a temperature ancor più elevate, l'opacità è sostanzialmente dovuta al vapore d'acqua. A partire da un valore di T compreso tra 10 e 20 °K, il protopianeta incomincia a contrarsi, fino a quando la sua parte più interna raggiunge una temperatura di 2.000 °K o più; a questo punto l'H2 incomincia a dissociarsi e ad assorbire l'energia gravitazionale liberata. Quando circa il 10% dell'H2 si è dissociato, ha inizio, nella massa centrale, un rapidissimo collasso idrodinamico, che termina allorché tutto l'idrogeno si è dissociato ionizzandosi assieme all'elio. La tab. II mostra le condizioni iniziali di un protopianeta non ancora evoluto, avente una massa paragonabile a quella di Giove; sono inoltre indicate le sue condizioni immediatamente prima del collasso idrodinamico nei due casi di bassa e alta opacità. Come era prevedibile, nel caso di opacità più bassa l'evoluzione sarebbe stata molto più rapida e le luminosità finali sarebbero state molto maggiori. Gli enormi raggi dei protopianeti iniziali potevano, ovviamente, trovare posto facilmente nel disco, quando le dimensioni radiali di quest'ultimo erano, come è stato precedentemente detto, di centinaia di UA. L'evoluzione dei protopianeti grandi e massicci è più lenta di quella dei protopianeti più piccoli e la luminosità dei primi è più elevata di quella dei secondi.
Per spiegare l'attuale struttura interna dei pianeti è molto importante analizzare l'evoluzione delle regioni centrali dei protopianeti gassosi, in relazione alle transizioni di fase dei loro componenti. La fig. 3 mostra il diagramma pressione-temperatura, nel quale, a parte le curve corrispondenti ai centri di protopianeti di varie masse, la curva a tratto pieno rappresenta l'inizio del collasso idrostatico dei singoli protopianeti, mentre le linee tratteggiate rappresentano il diagramma delle fasi di equilibrio del ferro. Per una massa uguale a quella di Giove, o più piccola, la presenza di piccole gocce di ferro liquido e di materiali rocciosi accelera enormemente la precipitazione di questi costituenti, che muovono verso l'interno a formare un nucleo centrale. Nel caso di una massa uguale a quella di Giove, questa precipitazione ha inizio, se l'opacità è elevata, dopo qualche centinaio di migliaia di anni, mentre per basse opacità essa ha inizio circa dieci volte prima.
Una conseguenza importante del fatto che i protopianeti sono grandi è la posizione dei punti lagrangiani, ossia di quei punti nei quali l'attrazione esercitata dalla parte più interna della nebulosa solare è uguale a quella esercitata dal protopianeta stesso. Inizialmente, tali punti si trovano fuori della superficie esterna del protopianeta, ma poi, nel corso dell'evoluzione del disco e del Sole, il protopianeta comincia a seguire un movimento a spirale, che lo porta alla sua orbita definitiva e, finalmente, i punti lagrangiani entrano nel protopianeta stesso. Di conseguenza le parti esterne del protopianeta vengono poco per volta asportate e quindi la penetrazione dei punti lagrangiani viene accelerata. Se tale processo ha luogo dopo che i componenti pesanti hanno formato il nucleo centrale, si ha la formazione di un pianeta terrestre; invece, i protopianeti formatisi più tardi e a distanze maggiori hanno avuto più tempo per evolversi, non si sono altrettanto avvicinati al Sole e non sono stati, perciò, privati completamente dei componenti più leggeri. Nella fig. 4 le curve a tratto pieno rappresentano la diminuzione, col tempo, della distanza del punto lagrangiano dal centro del protopianeta, nel caso di un protopianeta con massa uguale a quella di Giove posto rispettivamente sull'orbita di Saturno, su quella di Giove e su quella della Terra. Le altre curve indicano, invece, l'evoluzione del raggio di tale protopianeta, nei casi di opacità bassa e alta. Da queste curve appare che, con bassa opacità, nel caso della Terra la formazione di un nucleo centrale sarebbe continuata imperturbata per un periodo di 3×105 anni, dopo il quale le regioni esterne sarebbero state strappate via; mentre per Giove l'evoluzione - compreso anche il collasso idrodinamico - non sarebbe mai stata perturbata e non si sarebbe verificata alcuna perdita di strati esterni. Per alte opacità, invece, le parti esterne sia del protopianeta della Terra sia di quello di Giove sarebbero state strappate via prima che si potesse formare un nucleo importante. L'evoluzione del protopianeta di Saturno sarebbe stata, invece, normale in entrambi i casi ed esso non avrebbe perso i suoi strati più esterni.
Sebbene le precedenti considerazioni forniscano una spiegazione plausibile del meccanismo di formazione dei pianeti - e in particolare della sorprendente differenza che esiste tra i pianeti terrestri e i pianeti più esterni - esse sono senz'altro troppo semplificate e quindi saranno necessarie ulteriori analisi più dettagliate.
d) L'accrezione dei pianeti.
Sofranov e altri autori hanno ipotizzato un meccanismo diverso alla base dell'evoluzione dei pianeti dalla nuvola protoplanetaria iniziale di gas e polvere, un meccanismo che non si fonda sulla formazione di grandi protopianeti. Una nube rotante, con una massa di poco superiore a quella attuale del Sole, incomincia ad appiattirsi ai poli e, allorché la sua temperatura scende al disotto di 1.600 °K, ha inizio la condensazione di alcuni grani solidi. A causa di un gradiente di pressione radiale, la velocità del gas che forma la nube e le velocità delle piccole particelle che interagiscono fortemente con esso sono minori delle velocità kepleriane. D'altra parte, le particelle più grandi hanno velocità orbitali più elevate e collidono frequentemente con le particelle piccole, che sono molto più numerose. Questi urti danno luogo alla crescita delle particelle, nonostante il moto browniano e il trascinamento dovuto al gas. Nel suo moto verso il piano equatoriale della nebulosa, una particella raccoglie particelle più piccole, cosicché le sue dimensioni aumentano rapidamente di una quantità
Δr≃σ1/8δ;
σ1 è la densità superficiale della polvere nella nebulosa e δ è la densità della particella. Si calcola che, a una distanza di 1 UA, σ1 sia dell'ordine di 10 g cm-2, il che dà, all'incirca, Δr=1 cm. Se il raggio iniziale della particella è di 10-5 cm, il suo tempo di stabilizzazione è di 10 P, dove P rappresenta il periodo di rotazione della nebulosa. In realtà, il meccanismo di accrescimento per inclusione di particelle più piccole non è stato ancora chiarito in termini quantitativi, poiché tale fenomeno dipende fortemente dalla velocità alla quale le particelle si urtano e dalla natura delle forze di coesione. I raggi di particelle sferiche che si urtino elasticamente non possono crescere oltre i 10-3 cm circa, se tra le particelle agiscono esclusivamente forze elettrostatiche e forze di van der Waals. Le forze gravitazionali non hanno un effetto rilevante fintanto che le dimensioni delle particelle non raggiungono alcune decine di metri. È stata avanzata l'ipotesi che, allorché le particelle sono colpite da radiazioni corpuscolari di qualsiasi tipo, si formino su di esse sottili strati superficiali di solidi altamente imperfetti, i quali, venendo a contatto, producono un legame; gli aspetti quantitativi di questo processo non sono stati ancora studiati.
Una volta che la polvere si sia depositata in prossimità del piano equatoriale della nebulosa, il suo ulteriore accumulo dipende dalla presenza o meno di instabilità gravitazionali, le quali, a loro volta, si instaurano se il disco è sufficientemente piatto e sottile da far sì che lo strato di polvere possa raggiungere la densità critica. Un'analisi della relazione tra le velocità e lo spessore del disco, relazione che è, a sua volta, funzione delle velocità relative delle particelle, mostra che, alle attuali orbite di Mercuno, della Terra e di Giove, le instabilità su vasta scala si instaurerebbero se lo strato di polvere avesse uno spessore di 7, di 320 e di 3,5×104 km, rispettivamente. A parte il caso di Giove, questi valori sono troppo piccoli per essere realistici; sembra, perciò, probabile che almeno i pianeti terrestri si siano formati per accrezione piuttosto che per effetto di instabilità gravitazionali su vasta scala. Queste considerazioni partono dal presupposto che lo stadio iniziale dell'accrezione, che abbiamo descritto nelle sue linee generali, abbia condotto alla formazione di una distribuzione pressoché continua di pianetesimi con dimensioni non superiori a 1i km. È anche possibile che la crescita di questi corpi sia stata provocata da numerose instabilità gravitazionali locali su piccola scala, corrispondenti a una densità superficiale di circa 8 g cm-2.
Lo stadio successivo, ossia la formazione di piccoli pianeti isolati, coinvolge processi per spiegare i quali bisogna tenere conto dell'attrazione gravitazionale, della probabilità delle collisioni e dei dati sperimentali che riguardano la frammentazione. L'interazione gravitazionale fa aumentare le velocità relative delle particelle, mentre le collisioni anelastiche le fanno diminuire. L'influenza delle collisioni anelastiche cresce all'aumentare della velocità, mentre l'influenza dell'attrazione gravitazionale cresce al diminuire della velocità: alla fine i due effetti si controbilanciano. In questo modello, il moto disordinato è più importante del moto tangenziale kepleriano. I calcoli mostrano che i corpi con dimensioni di 1 km, una volta che le loro velocità relative siano diminuite fino a raggiungere un valore pari a circa cinque volte la loro velocità di fuga, incominciano a crescere rapidamente, cosicché, in 104 anni, si formano alcuni corpi di dimensioni comprese tra 500 e 1.000 km, all'incirca uno ogni (UA)2. Ciò nonostante, la maggior parte della massa del sistema resta ancora distribuita nei corpi più piccoli.
Lo stadio finale, che è rappresentato dalla formazione di grandi pianeti, costituisce un problema assai complesso e di difficile soluzione, poiché i corpi con dimensioni di 500 km e oltre hanno orbite circolari e possono inglobare esclusivamente quei pianetesimi rimanenti che hanno orbite analoghe. Nonostante il fatto che, per i corpi più grandi, di raggio r, la sezione d'urto per collisione gravitazionale aumenti come r4, è tuttavia possibile che essa non sia sufficiente a spazzare i rimanenti pianetesimi più piccoli e le particelle. Una possibile alternativa è che le reciproche collisioni e perturbazioni deviino i pianetesimi più piccoli verso i corpi grandi. Un'altra possibilità è che si sia fatta sentire, invece, l'influenza di un pianeta, per esempio Giove, il quale può essersi formato in un tempo più remoto, in seguito a una grande instabilità gravitazionale. Un tale pianeta causerebbe una perturbazione delle traiettorie dei pianetesimi, i quali fornirebbero un continuo apporto di materiale nuovo per un'ulteriore crescita, che condurrebbe alle dimensioni attuali dei pianeti. Si calcola che la scala di tempo sulla quale si verificherebbe tale processo di accrescimento sia compresa tra 105 e 108 anni; il secondo di questi valori sembra, però, essere troppo vicino all'età stessa dei pianeti e perciò non credibile. A sostegno della teoria della crescita dei pianeti terrestri per accrezione di pianetesimi, anziché per effetto di grandi instabilità gravitazionali, vi sono gli studi effettuati sui meteoriti e sulla morfologia delle superfici dei pianeti: i meteoriti, infatti, non contengono praticamente alcun gas nobile e presentano, inoltre, tracce di collisioni e caratteristiche che indicano tempi di raffreddamento compatibili con questo modello; le superfici dei pianeti e quelle dei satelliti, a loro volta, confermano anch'esse l'ipotesi secondo la quale, durante la fase di formazione, si sarebbero verificate delle collisioni con corpi enormi. Infine, la varietà delle condriti fa supporre che esse non si siano formate in un unico evento su larga scala, ma piuttosto in molte aree chimicamente diverse del disco.
e) La teoria di Alfvén.
Mentre le teorie che abbiamo illustrato finora si basano tutte sull'ipotesi che i campi magnetici - e in generale i fenomeni di plasma - abbiano avuto soltanto un'importanza secondaria nella formazione del sistema solare, vi è anche una teoria, formulata principalmente da Alfvén e da Arrhenius, la quale parte, invece, dall'ipotesi opposta. Essa, per esempio, postula che il collasso della nube protosolare non sia stato provocato da un fronte d'urto, bensì da una ‛reostrizione', fenomeno che, com'è noto, si verifica tra i filamenti di corrente nei plasmi. Quando, nella compressione, la densità diventa sufficientemente elevata, si verifica un collasso gravitazionale che dà origine alla formazione di una stella come il Sole. Nel suo moto attraverso lo spazio, il Sole attrae gravitazionalmente materia neutra, che forma attorno ad esso una nube, la quale, a sua volta, dà origine, in un secondo tempo, a un sistema planetario. Il campo magnetico solare svolge, in questo caso, un'importante funzione, poiché coordina il moto della materia in caduta verso il Sole, che è ionizzata dall'intensa radiazione solare. Secondo questa teoria, che anche in ciò si differenzia dalle teorie di cui ci siamo occupati in precedenza, non vi sarebbe, dunque, una diretta relazione tra la composizione del Sole e quella dei sistemi planetari. Di primaria importanza in questo modello sono le cosiddette ‛correnti a getto' (jet streams): si tratta, in sostanza, di anelli toroidali di materia gassosa e di particelle, che ruotano attorno al Sole. Quando queste correnti si frammentano, danno origine ai pianeti. L'ipotesi che siano esistite nel passato tali correnti a getto si basa sulla somiglianza che esse presentano con certi gruppi di asteroidi e forse anche di meteoroidi. Se vi fossero stati due tipi diversi di queste correnti a getto, ciascuno con la propria composizione particolare, si potrebbe spiegare la differenza esistente tra la densità e la composizione dei pianeti terrestri, da una parte, e quella dei pianeti esterni e dei loro satelliti, dall'altra.
Secondo questa teoria, l'origine della differente composizione delle varie correnti a getto sarebbe da attribuire a due fenomeni in particolare, il primo dei quali è la sorprendente relazione, quasi esponenziale, che si riscontra tra il potenziale gravitazionale, GMc/r, a distanza r da un corpo centrale di massa Mc (il Sole oppure un pianeta) e la densità media del pianeta o del satellite: quando la densità aumenta di 1 g cm-3, il potenziale locale aumenta di un fattore circa eguale a 1,85. Il secondo fenomeno è, invece, la velocità critica alla quale un gas neutro, che si muova attraverso un plasma, si ionizza:
vc=(2eI/m)1/2,
dove I è il potenziale di ionizzazione di un atomo di massa m. Così, il gas in caduta libera si ionizza allorché raggiunge una velocità critica in corrispondenza di un dato valore del potenziale gravitazionale; da allora in poi la sua traiettoria è determinata dal campo magnetico. In tal modo, si formano tre diversi tipi di nubi o fasce di plasma, con differenti composizioni, A-B (H, He), C (O, N, Ne, C, CH) e D (Ar, Mg, Si, Na, Al, Ni, Fe, Ca, ecc.), corrispondenti, rispettivamente, alle velocità critiche di 34-50, 13-15 e 5-9×105 cm s-1. Il problema di come queste composizioni si combinino secondo particolari rapporti a determinate distanze dal Sole, per formare i pianeti, è molto complesso e non è stato finora risolto. A sostegno dell'ipotesi dell'esistenza di queste fasce separate prodotte dalla gravitazione, si usa sottolineare la rassomiglianza tra la distribuzione della densità dei pianeti attorno al Sole e quella dei satelliti attorno ai pianeti. Si pensa che la velocità di accrezione dei pianeti e dei satelliti attraverso il processo quasi statico di crescita graduale, per inglobamento, dai grani ai pianetesimi sia stato lento e sia durato per un periodo compreso tra 107 e 108 anni. Pochi aspetti di questa teoria sono stati finora elaborati quantitativamente, cosicché è piuttosto difficile confrontarla criticamente con le altre teorie.
f) Considerazioni di carattere generale.
Oltre alla differenza fondamentale già fatta notare tra le dimensioni e le densità dei pianeti terrestri e quelle dei pianeti giganti (v. tab. III), l'attuale struttura del sistema solare presenta vari altri aspetti generali assai interessanti. Uno di essi è descritto dalla legge di Titius-Bode, che esprime la regolarità delle distanze tra le orbite dei pianeti: la distanza approssimativa di un pianeta dal Sole, misurata in UA, è (x+4)/10, con x=0, 3, 6, 12, ecc. Il caso di Nettuno rappresenta un'interessante eccezione a questa legge, la quale, però, predisse, a una distanza di 2,8 UA, l'esistenza di un pianeta che all'epoca in cui la legge fu formulata era ancora sconosciuto, ma che più tardi fu identificato con Vesta, uno degli asteroidi maggiori. Nel caso di Plutone, l'accordo è fortuito, poiché l'orbita di questo pianeta giace a 17° dal piano dell'eclittica e porta il pianeta periodicamente entro l'orbita di Nettuno; si pensa che Plutone sia, in realtà, un corpo catturato. Diversi scienziati hanno cercato di spiegare queste regolarità: secondo von Weitzsäcker esse sono da attribuire a vortici turbolenti nella nebulosa solare, posti a distanze regolari l'uno dall'altro. Secondo O. Yu. Schmidt, invece, i pianeti si sarebbero formati a partire da anelli di materia nella nebulosa, i cui confini sarebbero stati determinati dal momento angolare medio dell'anello. Tutti questi modelli incontrano difficoltà molto gravi. Dermott ha proposto una legge simile a quella di Titius-Bode, che non si applica soltanto ai pianeti, ma anche ai sistemi di satelliti dei pianeti; secondo questa legge, il periodo orbitale di un corpo è dato da P=P0An, dove n assume i valori 1, 2, 3, ecc. e A2 è un numero intero. Per il sistema solare, P0=1,442×(periodo di rotazione del Sole) e A2=6, mentre, per i pianeti, P0=1,08×(periodo di rotazione del pianeta) e A2=4, 2 e 3 rispettivamente per Giove, per Saturno e per Urano. L'accordo con i periodi osservati è notevole, tranne che, come del resto ci si attendeva, per i corpi catturati, come Plutone e alcuni satelliti. Inoltre - e ciò è assai interessante - la relazione di Dermott implica che i volumi di due successive ‛sfere celesti' di raggi Rn+1 e Rn stiano nel rapporto
Vn+1/Vn=I,
dove I è un numero intero piccolo. Non è ancora stata trovata alcuna spiegazione della notevole regolarità espressa dalla legge di Dermott, che, come già la legge di Titius-Bode, predice l'esistenza della fascia degli asteroidi e di un'altra fascia dello stesso tipo tra Rea e Titano nel sistema di Saturno. Va tuttavia ricordato che alcuni astronomi pensano che la regolarità delle distanze fra le orbite planetarie sia soltanto una coincidenza senza significato fisico.
Per i pianeti terrestri è stata studiata numericamente, in due e in tre dimensioni, la crescita simultanea di più pianeti tenendo conto delle interazioni gravitazionali e delle collisioni. Il numero e le posizioni di questi pianeti dipendono criticamente dal rapporto tra gli effetti delle interazioni gravitazionali e dissipative: più questo rapporto è elevato, più sarà piccolo il numero finale dei pianeti. Pare, invece, che non vi sia alcuna regolarità nelle distanze tra un pianeta e l'altro.
Per quanto riguarda la dinamica generale del sistema solare, sarà bene notare che i pianeti contengono appena un millesimo della sua massa, mentre, d'altra parte, essi - soprattutto Giove e Saturno - contribuiscono al momento angolare totale per il 98%, a meno che, come alcuni pensano, l'interno del Sole non ruoti più velocemente dei suoi strati esterni. La ripartizione del momento angolare iniziale della nebulosa protosolare fra il Sole, i pianeti e la materia espulsa non è stata finora ben spiegata, come non è stato spiegato l'effetto di frenamento del campo magnetico. L'intero sistema solare si sta muovendo all'interno della nostra galassia in direzione di Vega, a una velocità di circa 20 km s-1. Si è calcolato che il sistema solare ha finora incontrato all'incirca 120 nubi interstellari di idrogeno aventi densità comprese tra 102 e 103 atomi di idrogeno per unità di volume e che almeno 50 di tali incontri avrebbero potuto estinguere il vento solare, alterando così le condizioni ambientali nelle quali si è sviluppato il sistema planetario. È possibile che la massa totale depositatasi sul Sole, comprendente altro materiale interstellare, sia stata dell'ordine di 10-4 M⊙.
2. La struttura del sistema solare.
a) Sole.
Benché il Sole sia, tra tutte le stelle, la più nota, vi sono ancora molte sue caratteristiche da comprendere. Il Sole appartiene a una classe molto comune di stelle, la categoria G2, e le sue dimensioni, la sua temperatura e la sua luminosità sono assai vicine a quelle medie di questo tipo di stelle. Nella fig. 5 è illustrato quello che attualmente si ritiene essere il modello più attendibile dell'interno del Sole. Si pensa che, al centro del Sole, la temperatura sia di 1,6×107 °K, la pressione di circa 109 bar e la densità più o meno di 160 g cm-3, È interessante il fatto che il 50% della massa del Sole è contenuta nell'1,6% del suo volume. Il profilo della temperatura è ovviamente collegato in modo diretto al tasso di produzione di energia nelle varie reazioni nucleari, il quale dipende, a sua volta, dalla temperatura; per la più importante fra le reazioni, ossia la fusione protone-protone, il tasso di produzione è proporzionale a T4. Questa rapida dipendenza fa sì che metà dell'energia totale emessa dal Sole - che è di 4×1033 erg s-1 sia generata entro una sfera di raggio r=0,11 R⊙, mentre non si ha alcuno sviluppo di energia per r>0,25 R⊙ (R⊙ è il raggio del Sole). Si noti che, a causa dell'alta opacità interna, l'energia di un quanto di radiazione X emesso nelle vicinanze del centro del Sole impiega all'incirca 106 anni per giungere alla superficie sotto forma di fotoni visibili. Poiché la reazione di fusione consuma idrogeno e produce elio, la concentrazione di idrogeno è assai più bassa al centro che negli strati esterni, come è illustrato nella fig. 6. Dato che nella zona più interna del Sole che occupa il 40% del suo volume totale non vi è praticamente alcuna convezione, il processo di ricostituzione delle scorte di idrogeno è trascurabile.
La reazione protone-protone e quelle che la seguono danno luogo all'emissione di neutrini che hanno una piccolissima sezione d'urto di cattura e dovrebbero, perciò, raggiungere facilmente la Terra; in realtà, il flusso di neutrini che si osserva in complessi esperimenti effettuati sottoterra è più basso di quanto indicherebbe il tasso di produzione di energia da parte del Sole. La soluzione di questo problema è assai complessa, poiché il rapporto tra l'energia prodotta e l'emissione di neutrini nella catena di reazioni protone-protone, oltre a essere all'incirca proporzionale a T4, dipende anche in maniera critica dai rapporti fra le velocità relative delle reazioni secondarie. Per esempio, il rapporto tra l'energia e l'emissione di neutrini nel cosiddetto ciclo del carbonio, o CNO, che fornisce circa l'1% di tutti i neutrini solari, è proporzionale a T18÷20. Si comprende, quindi, come l'emissione totale di neutrini sia molto sensibile ai dettagli del modello e al profilo della temperatura nel Sole. Inoltre, risultati ottenuti recentemente sembrano indicare che, nel corso del loro cammino verso la Terra, alcuni neutrini possano subire delle trasformazioni, diventando neutrini di altro tipo ed eludendo, in tal modo, ogni tentativo di rilevarli.
Il periodo di rotazione del Sole, che si ricava dall'osservazione della sua superficie visibile (la fotosfera), è di venticinque giorni all'equatore, ma, come avviene in molti pianeti gassosi, esso aumenta verso i poli, tanto che a 45° di latitudine è di ventotto giorni. Il Sole non ha soltanto un campo magnetico polare abbastanza costante, di circa 1 gauss, ma ne ha anche uno variabile in direzione est-ovest. Le macchie solari hanno una temperatura che è di circa 1.500 °K al disotto di quella della fotosfera ed è proprio questa differenza di temperatura che le rende visibili; esse contengono campi magnetici che possono raggiungere i 4.000 gauss. Le macchie solari, che furono osservate per la prima volta attorno al 600 a.C. dai cinesi, hanno origine a latitudini relativamente alte, ma, col tempo, si spostano verso l'equatore; il loro numero totale oscilla con un periodo compreso tra 7,3 e 17,1 anni, con una media di 11,1 anni, che è il ciclo solare. In realtà, però, poiché la polarità della maggior parte delle macchie solari di un emisfero è opposta a quella delle macchie dell'altro emisfero e poiché queste polarità si scambiano a ogni nuovo ciclo, il ciclo effettivo dura circa 22 anni. Le varie registrazioni in nostro possesso indicano un fatto interessante: non vi fu pressoché alcuna macchia solare durante il cosiddetto minimo di Maunder, che durò dal 1640 al 1715. I massimi di macchie solari sono strettamente collegati con un'intensa attività della corona e con un incremento nel flusso del vento solare che si registra sulla Terra; inoltre, le macchie e i loro campi magnetici si presentano in concomitanza con le protuberanze, spettacolari correnti di denso idrogeno gassoso, lunghe centinaia di migliaia di chilometri e larghe decine di migliaia di chilometri, che vengono proiettate all'esterno a velocità dell'ordine di 1.000 km s-1. Queste protuberanze seguono le intense linee di campo magnetico che emergono dalle macchie sulla superficie solare. Talvolta il gas al disopra delle macchie solari viene illuminato intensamente per qualche minuto da un fiotto di fotoni di corta lunghezza d'onda, di raggi X e di raggi gamma emesso dalla macchia: in ciò consistono i brillamenti solari.
Molti dei suddetti fenomeni e le loro reciproche correlazioni sono stati spiegati da Babcock, che ha mostrato come il fatto che la rotazione del Sole sia più rapida all'equatore che ai poli provochi una distorsione del campo magnetico poloidale interno, generando un campo toroidale di alta intensità in direzione est-ovest alle basse latitudini; questo campo, talvolta, emerge all'esterno attraverso la fotosfera, dando luogo alle macchie, alle protuberanze e ai brillamenti. Anche l'alternanza periodica della polarità delle macchie solari appare spiegata da questo modello. È ben noto che molti di questi fenomeni hanno delle ripercussioni sul clima della Terra, sulla propagazione delle onde radio, sulla presenza delle aurore e addirittura sull'avvento delle ere glaciali, oltre che sulla quantità di 14C radioattivo prodotto dai raggi cosmici nell'atmosfera terrestre. Quest'ultimo effetto, in particolare, è provocato dalla perturbazione del campo magnetico della Terra a opera del vento solare e del campo magnetico a esso associato. La concentrazione insolitamente elevata di 14C radioattivo che si riscontra nei cerchi dei tronchi d'albero che si formarono nel corso del minimo di Maunder e la particolare rigidità degli inverni nello stesso periodo sembrano confermare che tali correlazioni esistono realmente.
L'atmosfera del Sole è formata dalla fotosfera - che è la superficie gassosa visibile della stella -, dalla cromosfera e dalla corona. La fotosfera ha una temperatura che si aggira sui 6.000 °K, una densità di circa 10-7 g cm-3, e contiene ioni di idrogeno i quali rendono molto opaca la fotosfera a tutte le lunghezze d'onda.
Se si osserva la fotosfera su una scala di 300-1.000 km, essa appare composta di granuli - che si mantengono al massimo per dieci minuti -, ciascuno dei quali costituisce la parte superiore di una cella di convezione attraverso la quale sfuggono i gas caldi; nella fotosfera esistono anche celle meno distinte, che hanno una maggiore durata e sono di qualche ordine di grandezza più estese, e altre strutture più piccole e variabili. La cromosfera è uno strato spesso circa 8.000 km con temperatura compresa tra 4.500 °K - nelle vicinanze della fotosfera - e 100.000 °K - nella parte opposta -, caratterizzato da un'intensa emissione della riga rossa Hα, dell'idrogeno, il che indica una densità compresa tra 10-8 e 10-11 g cm-3. La cromosfera, che viene generalmente osservata durante le eclissi solari oppure per mezzo di un coronografo, che sopprime la luce della fotosfera, è la regione nella quale si formano le famose righe di Fraunhofer dell'assorbimento solare, che si sovrappongono allo spettro continuo emesso dalla fotosfera.
La corona, che è la parte più calda dell'atmosfera solare, è formata principalmente da protoni a una temperatura di almeno 2×106 °K; essa spinge le sue propaggini nello spazio sotto forma di vento solare, il quale è composto soprattutto di protoni e di alcune particelle alfa propagantisi verso l'esterno alla velocità di 800 km s-1 e più. A 1 UA il flusso di protoni solari è di circa 108 cm-2 s-1. Si pensa che oltre Saturno si formi un fronte d'urto in corrispondenza del quale termini il flusso più o meno laminare dei protoni del vento solare e si instauri un flusso turbolento. Probabilmente, sia la corona sia - di conseguenza - il vento solare traggono la loro energia da onde d'urto che hanno origine nella fotosfera. Recentemente si è osservato che la corona è tutt'altro che uniforme in tutte le direzioni radiali: in effetti essa presenta vaste regioni scure, le cosiddette buche coronali, che compaiono a tutte le latitudini, ma soprattutto ai poli, disposte più o meno simmetricamente intorno all'asse, e in corrispondenza dell'equatore. Le buche coronali appaiono spesso nelle fotografie a raggi X molli del disco solare sotto forma di grandi zone scure e sembrano essere associate a correnti periodiche, intense e molto veloci, del vento solare, osservabili sulla Terra sotto forma di tempeste geomagnetiche. Le buche coronali, che durano per alcune rotazioni solari, sono piuttosto strette in prossimità della superficie solare, ma poi, fino a una distanza di circa 3 R⊙, divergono assai più velocemente - forse addirittura per un fattore dieci - di quanto non farebbero se avessero dei contorni radiali (v. fig. 7). I confini delle buche coronali sono determinati da linee di campo magnetico aperte e divergenti, che si estendono nello spazio. Poiché la temperatura all'interno delle buche coronali è relativamente bassa, la loro emissione nel visibile è assai bassa anch'essa, cosicché le buche devono essere studiate nelle regioni dell'estremo ultravioletto, dei raggi X molli e delle radioonde. Pare che le buche derivino dall'eruzione, attraverso la superficie, di linee di un intenso campo magnetico bipolare, che interagisce poi con il campo magnetico locale unipolare. La densità elettronica nelle buche, che è di circa 108 cm-3 alla superficie, diminuisce fino a 103 cm-3 a una distanza di 5 R⊙, mentre l'intensità del campo magnetico scende da 3 a 10-2 gauss.
Nel corso degli ultimi anni sono stati effettuati studi approfonditi delle pulsazioni della superficie del Sole, alcune delle quali hanno carattere veramente globale. Vi sono due tipi di pulsazioni: quelle, scoperte nel 1961 da Leighton, che hanno un periodo di circa 5 minuti, e quelle che hanno periodi più lunghi. Le pulsazioni di 5 minuti si mantengono, in un dato punto della superficie, per parecchi cicli e presentano orizzontalmente una coerenza in fase su distanze dell'ordine di 0,1 R⊙; esse hanno le caratteristiche di onde stazionarie e vengono generalmente rappresentate come pacchetti di onde sonore con una velocità di circa 6 km s-1, intrappolate nella zona convettiva situata al disotto della fotosfera. Il meccanismo che le alimenta è la sovrastabilità termica di un volume di gas, la quale si verifica allorché dei fluidi comprimibili e convettivamente instabili oscillano e dissipano la loro energia per convezione o per radiazione: ne consegue un aumento progressivo dell'ampiezza delle oscillazioni verticali. Si sono osservati sia i modi radiali più bassi, sia quelli latitudinali di ordine alto corrispondenti ad armoniche sferiche con indice compreso tra 102 e 103. La fig. 8 mostra la relazione di dispersione per parecchi modi normali nel guscio convettivo sferico. La profondità dello strato convettivo - secondo le stime desunte da questi dati - sembra essere compresa tra il 25% e il 40% del raggio del Sole, mentre la sua massa è pari circa al 10% di quella solare. Alla base di questo strato la temperatura è compresa tra 2×106 °K e 3×106 °K e la densità è di 0,4±0,3 g cm-3. Questi valori, benché non siano ancora precisi come si vorrebbe, sono comunque i primi dati attendibili sull'interno del Sole. Inoltre, si è potuto stabilire che, a una profondità compresa tra 104 e 1,5×104 km, la zona convettiva ruota più rapidamente della superficie; questo fatto può avere importanti conseguenze sulla generazione del campo magnetico solare, come abbiamo notato precedentemente.
Si pensa che le oscillazioni con periodo lungo - quelle, cioè, il cui periodo può arrivare fino a 66 minuti - siano modi normali di oscillazione di tutta la massa solare: esse sono state osservate sotto forma di fluttuazioni del diametro del Sole. Benché vi siano alcuni fatti che sembrano in contrasto con la teoria di queste deformazioni, le loro frequenze sono tuttavia in buon accordo con le previsioni teoriche. Analisi dettagliate di queste pulsazioni potranno fornire nuove importanti informazioni sulle regioni piu interne del Sole e persino chiarimenti circa i profili di temperatura e di densità del Sole e il problema dei neutrini.
b) Mercurio.
Nonostante il fatto che sia il settimo corpo celeste in ordine di luminosità, Mercurio è difficilmente osservabile (Copernico non lo vide mai) a causa della sua vicinanza al Sole. Tra tutti i pianeti, Mercurio è il penultimo in ordine di grandezza, tanto da essere paragonabile, per le sue dimensioni, ai satelliti galileiani di Giove. L'orbita di Mercurio è quella che ha la più alta eccentricità e la maggiore inclinazione sul piano dell'eclittica, se si eccettua l'orbita di Plutone, il quale, però, è, presumibilmente, un corpo catturato. La velocità di avanzamento del perielio di Mercurio, che è di 43″ di arco per secolo maggiore di quella che si calcola considerando l'influenza degli altri pianeti, ebbe un ruolo importante nel confermare la relatività generale. Una spiegazione del medesimo fenomeno basata sul fatto che il Sole è schiacciato ai poli ha incontrato gravi difficoltà sperimentali a causa della lieve entità dello schiacciamento. Un curioso aspetto del moto di Mercurio è la risonanza 2: 3, piuttosto precisa, tra il suo periodo di rotazione, che è di circa 59 giorni, e il suo periodo di rivoluzione, che è, invece, di 88 giorni. Si può pensare che tale risonanza sia dovuta a lievi rigonfiamenti equatoriali rivolti verso il Sole a perieli alternati. A causa di questa commensurabilità e dell'alta eccentricità, il pianeta riceve, a 0° e a 180° di longitudine, ossia in corrispondenza dei rigonfiamenti equatoriali, un flusso solare due volte e mezzo maggiore di quello che riceve a 90° e 270° di longitudine. Di conseguenza la temperatura alla superficie è compresa tra 100 °K e 700 °K.
Il passaggio della navicella spaziale Mariner vicino a Mercurio, avvenuto nel 1974, rese possibile, nel corso di tre incontri successivi, un'osservazione dettagliata della superficie del pianeta, che risultò costellata da numerosi crateri. La rassomiglianza tra questa superficie e quella della Luna indica che l'intenso bombardamento che la Terra e la Luna subirono circa quattro miliardi di anni fa, come risulta dall'analisi della superficie lunare, deve essere giunto assai vicino al Sole e, ovviamente, deve avere colpito anche Marte e Venere. Su tutti questi corpi il rapporto tra il diametro e la densità numerica dei crateri (v. fig. 9) è assai simile, anche se, al contrario di quella della Luna, la superficie di Mercurio è quasi priva di crateri in un breve intervallo di D. Uno dei due emisferi di Mercurio è coperto da un numero particolarmente elevato di crateri; una caratteristica molto interessante della superficie del pianeta è il vasto bacino di Caloris (1.400 km di diametro), che si trova in prossimità della zona calda a 180° di longitudine e che, sotto molti aspetti, assomiglia al Mare Imbrium della Luna. Pare che, agli antipodi di questo bacino, vi sia un'area di dimensioni simili con una strana morfologia strutturale, che si pensa sia dovuta a un fronte d'urto originato durante l'impatto che formò il bacino di Caloris, focalizzatosi sulla parte opposta del pianeta. Vi sono anche validi indizi, quali, ad esempio, falle e spaccature lunghe qualche centinaio di chilometri, che fanno pensare che, verso la fine del periodo del bombardamento, il raggio del pianeta si sia contratto di 1-2 km, ossia dello 0,05%, probabilmente a causa di un cambiamento di fase che si produsse nella sua parte più interna durante il raffreddamento.
L'incontro del satellite Mariner con Mercurio riservò agli scienziati una grossa sorpresa: la scoperta di un campo magnetico poloidale di 350÷700 gamma, inclinato, come il campo magnetico terrestre, di 12° rispetto all'asse di rotazione. Questo campo magnetico assai debole è appena capace di opporsi al campo solare, cosicché il punto neutro si trova soltanto a 0,6 RM dalla superficie del pianeta, mentre quello della Terra si trova a 11 R⊕, dalla superficie terrestre. Una spiegazione dell'origine di questo campo magnetico dipende dalla natura dell'interno del pianeta. Il fatto che la densità media sia prossima a quella della Terra, cioè alta (5,44 g cm-3), e che le dimensioni del pianeta siano piccole ci porta a concludere che il suo interno, fino allo 0,75÷0,80 del suo raggio, contenga soprattutto ferro, nichelio e loro solfuri. Se la radioattività naturale era concentrata nelle vicinanze del centro, il nucleo metallico doveva senz'altro essere liquido, il che avrebbe permesso il funzionamento di una dinamo idromagnetica; se, invece, questa sorgente di calore si trovava in prossimità della superficie, nel mantello roccioso, il calore sviluppato si è disperso nello spazio e il nucleo centrale non fu mai fuso.
Il campo attuale è troppo intenso per essere un campo fossile prodotto da qualche influenza esterna o interna sullo strato periferico di rocce, il cui spessore è di 200-400 km e la cui temperatura è attualmente al disotto del corrispondente valore di Curie. È, invece, più probabile che l'interno fosse liquido, e forse lo è tuttora. Questa conclusione è avvalorata dall'analisi della risonanza del moto del pianeta, alla quale abbiamo già accennato: quando il pianeta ruotava più velocemente, si trovava senza dubbio in una forte risonanza 1 : 2 e, poiché esso ha potuto passare da quella risonanza all'attuale, di 2 : 3, il liquido al suo interno doveva avere una bassa viscosità. I calcoli mostrano che questa viscosità è stata, in passato, abbastanza bassa da poter soddisfare le condizioni necessarie ma non sufficienti per permettere il funzionamento di una dinamo magnetica, nonostante la bassa velocità di rotazione del pianeta; la situazione, comunque, non è ancora sufficientemente chiara.
Mercurio ha un'atmosfera assai sottile, formata da elio a una pressione di 10-15 bar, che è, senza dubbio, il risultato della cattura, da parte del pianeta, del vento solare, la maggior parte del quale, però, essendo composta di idrogeno, sfugge immediatamente. La mancanza di erosioni sulla superficie del pianeta sembra indicare che, anche in passato, non sia mai esistita attorno al pianeta un'atmosfera più spessa.
c) Venere.
Per le sue dimensioni, per la sua massa e, di conseguenza, per la sua densità, Venere è assai simile alla Terra; poiché, però, è coperta da una densa coltre di nuvole, è stato fino a poco tempo fa impossibile esplorarne la superficie. L'orbita di questo pianeta è, fra tutte le orbite dei pianeti, quella che più si avvicina a un cerchio; il suo periodo di rivoluzione, di 224,7 giorni, è quasi uguale al periodo di rotazione retrograda, pari a 243,1 giorni, come risulta dalle misure effettuate per mezzo del radar. Una singolare caratteristica del suo moto è che, quando si viene a trovare tra la Terra e il Sole, Venere presenta alla Terra sempre la medesima faccia; questa quasi commensurabilità sembra indicare l'esistenza di una forte interazione mareale tra i due corpi, che richiederebbe un'asimmetria dell'ordine di 10-4 nella distribuzione della massa di Venere, corrispondente, per esempio, a uno spostamento del centro di gravità di circa 1 km rispetto al centro geometrico. I dati sul campo gravitazionale di Venere, forniti da una prossima sonda spaziale e da precise esplorazioni radar, permetteranno forse di chiarire il problema. Il fatto che la rotazione sia eccezionalmente lenta concorda con i risultati, finora negativi, della ricerca di un campo magnetico del pianeta, che fissano, per il momento magnetico, un limite superiore di 10 gamma R³V.
Le sonde spaziali inviate recentemente su Venere o nelle sue vicinanze hanno fornito un'enorme quantità di dati sulla ionosfera e sull'atmosfera del pianeta, in gran parte non ancora completamente analizzati. Le fotografie del pianeta, prese nell'ultravioletto, indicano che la coltre di nuvole, prossima al livello dei 200 mbar a un'altezza di 60÷70 km, ruota con un periodo di quattro giorni, ossia con un periodo sessanta volte più breve di quello della superficie solida. Il caratteristico moto di queste nuvole può essere considerato, almeno in parte, come una classica circolazione di Hadley, nella quale una corrente ascensionale equatoriale di gas caldi fluisce verso il polo a grandi altezze, mentre i gas polari più freddi fluiscono verso l'equatore a bassa quota e l'intero moto acquista delle componenti longitudinali sotto l'azione delle forze di Coriolis. La velocità angolare delle nuvole aumenta con la latitudine, per cui le nuvole assumono una caratteristica formazione a V. Inoltre, pare che vi sia una forte influenza di onde verticali periodiche di gravità, che hanno origine vicino al punto subsolare. Il periodo di rotazione di quattro giorni corrisponde a venti con velocità di circa 100 m s-1, in accordo con i dati ottenuti dalle sonde, le quali hanno inoltre rivelato che, alla superficie, la velocità dei venti diminuisce fino a circa 1 m s-1. I meccanismi energetici di questi venti impetuosi e dei moti atmosferici non sono ancora stati spiegati in maniera soddisfacente. È interessante il fatto che, a un'altezza di 120 km, non vi sono, a quanto pare, forti venti e che l'atmosfera composta di CO2 si muove in tutte le direzioni, a partire dal punto subsolare, alla velocità relativamente bassa di pochi metri al secondo.
La fig. 10 mostra i profili della temperatura che, alla superficie, misura circa 750 °K, calcolati sulla base dei dati ottenuti dai satelliti Venus e dalla sonda Pioneer. L'alta temperatura è una conseguenza diretta del forte effetto serra che si verifica in virtù del fatto che l'atmosfera di CO2 permette a una certa percentuale della luce solare di raggiungere la superficie, mentre non lascia sfuggire sotto forma di onde infrarosse il calore assorbito. È anche stata ipotizzata la presenza di calore supplementare, derivante da reazioni esotermiche.
L'atmosfera di Venere è formata, per circa il 96%, da CO2 e contiene, inoltre, delle piccole percentuali di N2, di CO e di H2O; si pensa che il CO2 sia fuoriuscito dalle rocce della superficie a causa della temperatura estremamente elevata. Allorché raggiunge altitudini superiori agli 80 km, il CO2 viene in parte scisso dalla radiazione solare in CO e O2. Un altro composto gassoso che si forma alla superficie è il COS, il quale, ad altezze maggiori, subisce la fotolisi e, in presenza di H2O, produce acido solforico, H2SO4; questo acido è contenuto, in forma molto concentrata, in goccioline di 1÷3 μm di diametro, che costituiscono la componente più importante delle nuvole di Venere. Il numero di queste goccioline per unità di volume si riduce di 500 volte passando da 60 a 40 km di altezza. Più vicino alla superficie, le goccioline evaporano, cosicché l'atmosfera è relativamente trasparente nei suoi strati inferiori. In effetti, la quantità di luce solare che raggiunge la superficie di Venere è paragonabile a quella che si osserva sulla Terra in una giornata nuvolosa; poiché soltanto il 20% circa della luce solare viene assorbito dalle nuvole, il pianeta appare molto luminoso.
È molto difficile ottenere dei dati sulla superficie solida di Venere: le uniche due fotografie esistenti, scattate dai satelliti Venus che atterrarono a circa 2.000 km di distanza l'uno dall'altro, mostrano delle rocce le cui dimensioni variano da 10 cm a vari metri. Il fatto che queste rocce abbiano degli spigoli piuttosto aguzzi suggerisce l'ipotesi che esse abbiano un'origine vulcanica relativamente recente e che non siano ancora state intaccate dall'atmosfera, che si pensa sia altamente corrosiva. All'incirca il 90% della superficie del pianeta è stata scandagliata con altimetri radar e con tecniche di diffusione all'indietro con una precisione in altezza di ±200 m. Dalle misure effettuate risulta che circa il 65% del pianeta presenta pendenze piuttosto lievi, è pianeggiante e ha numerosi crateri. I dati raccolti dalla sonda Venus 8 indicano una composizione del terreno di natura granitica. Le regioni elevate rappresentano all'incirca l'8% della superficie, e di queste la maggiore è Ishtar Terra, un altopiano alto qualche chilometro. Vi è, inoltre, una grande valle, formata da una spaccatura, e altre crepe minori, che, secondo i dati raccolti dalle sonde Venus 9 e 10, potrebbero essere di natura basaltica. Quasi tutti i crateri provocati dall'impatto di meteoriti sono larghi, poiche i meteoriti piu piccoli non possono penetrare nella densa atmosfera senza bruciare completamente.
Per quanto riguarda invece l'interno di Venere, tutto ciò che si può dire è che, probabilmente, dev'essere simile a quello della Terra. Può darsi che Venere abbia un nucleo liquido, ma la lenta rotazione esterna non sembra in grado di attivare una dinamo magnetica.
I risultati della spettroscopia di massa indicano che l'40Ar, prodotto nel decadimento di 40K, è quasi altrettanto abbondante su Venere che sulla Terra, mentre l'36Ar e il 20Ne, che non sono radiogenici, sono cento volte più abbondanti su Venere che nell'atmosfera terrestre. La ragione di questa anomalia non è chiara, ma forse essa è imputabile al fatto che nell'ambiente ad alta pressione presente durante la formazione di Venere si ebbero un più efficace assorbimento e un più efficace imprigionamento di gas rari in polvere, particelle e aerosol.
d) Terra.
Si conosce un numero molto maggiore di fatti sulla Terra e sulla Luna che su tutti gli altri pianeti e satelliti, ma ciò non significa che questi due corpi siano meglio compresi in tutti i loro aspetti. In questa sede ci occuperemo esclusivamente di quegli aspetti della Terra e della Luna che si prestano a un paragone con ciò che si sa sulla maggior parte degli altri membri del sistema solare. L'orbita della Terra si scosta dalla forma circolare per appena il 3% e l'asse di rotazione del pianeta è inclinato di 23° 27′ rispetto al piano dell'eclittica. L'ellitticità della Terra è all'incirca 0,003, ma il pianeta non è un ellissoide di rotazione perfetto, poiché la distanza del polo Nord dal centro della Terra è di circa 20 m più lunga del raggio medio, mentre quella del polo Sud è più corta della stessa quantità. Analogamente l'equatore non è esattamente circolare, ma presenta un rigonfiamento di 60 m nella parte orientale dell'Oceano Pacifico e una depressione di 80 m nell'Oceano Indiano. A causa dello schiacciamento ai poli, l'asse della Terra precede, nel sistema di riferimento siderale, con un periodo di 26.000 anni. Inoltre, l'asse di rotazione ha un'oscillazione semiannuale, una annuale e una di 14 mesi attorno alla sua posizione media. L'ultima di queste oscillazioni, conosciuta come ‛oscillazione di Chandler', non è ancora ben compresa, ma sembra essere legata a terremoti periodici. La velocità di rotazione della Terra presenta alcune variazioni periodiche che si sovrappongono alla diminuzione monotona, di circa 10-3 secondi al secolo, della lunghezza del giorno, dovuta allo smorzamento mareale provocato dalla Luna.
L'interno della Terra è piuttosto ben conosciuto, grazie agli studi sismologici che indicano l'esistenza di un nucleo formato da Fe, Ni e Co, con un raggio pari a circa la metà di quello terrestre, solido nella parte centrale e liquido nella parte esterna a partire dalla metà del suo raggio. Questo nucleo è circondato dal mantello inferiore, che ha uno spessore di circa 2.000 km e contiene silicati di ferro e alluminio, dal mantello superiore, che ha uno spessore di circa 600 km ed è formato da silicati di magnesio, e infine dalla crosta rocciosa, il cui spessore si aggira sui 33 km. La densità aumenta gradualmente, passando da poco meno di 3 g cm-3, nella crosta, a 5 g cm-3, nella parte interna del mantello inferiore; nel nucleo la densità va da un minimo di 10 g cm-3 a un massimo, al centro, di più di 12 g cm-3. Si calcola che la pressione al centro sia di circa 4×1012 dine cm-2 e che la temperatura sia di circa 6.400 °K, anche se sono state suggerite temperature più basse per un fattore due.
Il campo magnetico della Terra, che ha un asse inclinato di 11,5° rispetto all'asse di rotazione, è generalmente attribuito a una dinamo idromagnetica classica operante nella parte liquida del nucleo. Tuttavia, è stato obiettato che l'accoppiamento della rotazione del nucleo e di quella del mantello più la convezione generata termicamente non bastano a fornire l'energia necessaria e che l'ipotesi di un meccanismo basato sulla forza di Poincaré generata dalla precessione dell'asse della Terra fornirebbe una spiegazione più verosimile; il problema rimane, così, non del tutto risolto. Si pensa che la direzione del campo si sia invertita in modo irregolare circa una decina di volte nel corso degli ultimi 3,5×106 anni.
La composizione dell'atmosfera terrestre è ben conosciuta: alle basse altitudini, oltre a N2 e a O2, essa contiene quasi l'1% di Ar, lo 0,033% di CO2 e lo 0,003% di altri gas nobili, metano, idrogeno, ecc. La temperatura diminuisce nella troposfera fino a 210 °K a 10 km di altezza, aumenta poi nella stratosfera, fino a 275 °K a 50 km di altezza, quindi diminuisce nuovamente, raggiungendo, a 100 km di altezza, i 160 °K, e infine aumenta nella ionosfera, raggiungendo i 1.500 °K. Al disopra di 500-700 km, nell'esosfera, la pressione è così bassa che gli atomi non si urtano e hanno velocità tali che possono sfuggire dall'atmosfera. All'incirca la metà della luce solare incidente raggiunge la superficie della Terra, il 15% viene assorbito nella troposfera e il rimanente 35% viene riflesso nello spazio. Se non vi fosse un'atmosfera, la temperatura di equilibrio della Terra sarebbe di 253 °K; l'atmosfera, invece, produce un leggero effetto serra, per cui l'assorbimento e la riemissione della radiazione termica della Terra da parte dell'atmosfera innalzano la temperatura media a 293 °K.
e) Luna.
Le dimensioni apparenti della Luna nel cielo, il suo moto e le sue fasi attirarono molto presto l'interesse degli uomini.
Dopo Caronte, il satellite di Plutone, la Luna è il più grande dei satelliti del sistema solare relativamente al rispettivo pianeta (v. tab. IV). Il suo moto fondamentale è la rotazione, a una distanza media di 3,8×105 km, intorno al centro di gravità del sistema Terra-Luna, che si trova a circa 1.725 km sotto la superficie terrestre. L'orbita lunare ha un'eccentricità di 0,055 ed è inclinata di 5° rispetto all'eclittica. Come tutti i satelliti che si trovano vicino ai corrispondenti pianeti, la Luna è bloccata in una posizione tale da presentare alla Terra sempre la medesima faccia; a causa di varie librazioni provocate dai momenti delle forze gravitazionali, la principale delle quali ha un periodo di 14 giorni, possiamo vedere all'incirca il 59% della superficie del nostro satellite. Come abbiamo precedentemente osservato, i momenti mareali imprimono un'accelerazione al moto della Luna, cosicché essa segue un movimento a spirale che la allontana dalla Terra di circa 3 cm all'anno.
Le navicelle spaziali che hanno orbitato attorno alla Luna hanno rivelato che, nonostante il fatto che i tre momenti di inerzia della Luna siano assai vicini a quello di una sfera omogenea, si determinano tuttavia grandi anomalie gravitazionali provocate da densi ‛mascon' situati sotto la superficie e generalmente al centro di ‛mari' con diametri di oltre 200 km. Si pensa che questi mascon, la maggior parte dei quali si trova sull'emisfero rivolto verso la Terra, siano stati provocati dall'impatto di grossi meteoriti delle dimensioni di veri e propri asteroidi, oppure siano dei letti di lava densa. La faccia della Luna che non è visibile dalla Terra è caratterizzata da altipiani e su di essa i grandi mari sono piuttosto rari. La temperatura della superficie della Luna è compresa tra i 370 °K del punto subsolare e i 125 °K sulla faccia opposta; si pensa che la temperatura al centro del satellite si aggiri intorno ai 1.700 °K, ma sono anche state suggerite temperature più basse (1.250 °K) e più alte (2.000 °K). Pare che la Luna non abbia un campo magnetico poloidale globale, benché presenti campi superficiali con orientazioni piuttosto casuali, che possono essere dovuti o al campo associato al vento solare, o a impatti, o a entrambi i fenomeni. I lunamoti registrati dai sismografi installati sulla superficie lunare non dipendono da fenomeni vulcanici attuali, bensì, più probabilmente, da tensioni generate nella crosta della Luna durante il perigeo. Circa la metà della crosta lunare è fatta di SiO2, mentre, per la parte rimanente, essa è costituita principalmente da Al2O3, MgO e CaO, in parti pressoché uguali.
I dati forniti dalle missioni Apollo indicano che vi è un notevole flusso di calore proveniente dalla Luna compreso tra 20 e 30 erg cm-2 s-1, pari a circa la metà di quello proveniente dalla Terra; ciò fa pensare che la concentrazione media di elementi radioattivi nei materiali lunari sia sensibilmente più elevata che nei materiali terrestri.
Per quanto riguarda l'origine della Luna, sono state formulate tre ipotesi, notevolmente diverse: che la Luna sia stata espulsa dalla Terra quando questa era ancora liquida, che la Luna fosse un corpo formatosi altrove e catturato e, infine, che la Luna si sia formata per accrezione graduale all'incirca contemporaneamente alla formazione della Terra. La prima di queste teorie non riesce a spiegare la conservazione del momento angolare, ma, d'altra parte, spiega il fatto che sia la densità, sia la composizione della Luna rassomigliano a quelle della sola crosta della Terra, anziché a quelle dell'intero pianeta. La seconda teoria è in grado di spiegare le differenze chimiche, ma deve presupporre un evento estremamente improbabile: la cattura di un corpo estraneo; inoltre ha qualche difficoltà a spiegare la dinamica dell'orbita attuale della Luna. Per quanto riguarda, infine, le teorie derivate dalla terza ipotesi, esse non spiegano perché il rapporto tra gli elementi leggeri e il ferro è molto più elevato sulla Luna che sulla Terra, presa nel suo complesso, ma evitano la maggior parte dei problemi di ordine dinamico. La storia termica della Luna è, ovviamente, assai diversa a seconda delle tre ipotesi: il calore può, infatti, aver avuto origine nella nebulosa protoplanetaria, nell'accrezione, nella compressione, dalla radioattività, da correnti indotte dal vento solare durante lo stadio T Tauri del Sole, o da un'interazione mareale. Qualunque sia stata l'origine della Luna, si possono, comunque, distinguere due opposti modelli iniziali: il primo descrive un corpo a temperatura iniziale elevata, la quale dette luogo a un interno chimicamente differenziato, il secondo postula un corpo fondamentalmente freddo, nel quale non si è mai verificata alcuna fusione di materiale. Entrambi questi modelli sono, però, incompatibili con le conoscenze attuali. In particolare, sembra necessario presupporre che vi sia stata una concentrazione preferenziale di elementi radioattivi o in prossimità del centro o vicino alla superficie: nel primo caso, a un certo momento, il nucleo centrale si sarebbe fuso; nel secondo, si sarebbe fuso, entro un breve lasso di tempo, uno strato situato sotto la superficie.
La superficie della Luna, cosparsa di crateri, è stata studiata a fondo; dalle osservazioni effettuate si deduce che la maggior parte dei crateri provocati da impatti (compreso il Mare Imbrium) furono formati durante una prima fase, che durò all'incirca 6×108 anni e che terminò piuttosto bruscamente. L'attività vulcanica e quella sismica ad essa collegata cessarono, probabilmente, circa 3,5×109 anni orsono. La fig. 9 mostra l'andamento della densità incrementale dei crateri, in funzione dei loro diametri. Il basso numero di crateri terrestri è ovviamente dovuto all'erosione. Le superfici più recenti, come quelle dei mari lunari ricoperti da colate di lava e da altri depositi successivi, presentano un minor numero di crateri.
f) Marte.
Per secoli Marte ha attratto l'interesse degli osservatori per il suo singolare colore rosso-arancio, per diversi segni variabili visibili sulla sua superficie, ma soprattutto per le sue calotte polari bianche, che hanno fatto supporre la presenza di acqua e di vita sul pianeta. Nel corso degli ultimi quindici anni, numerosi studi effettuati per mezzo di sonde, delle quali alcune hanno orbitato intorno a Marte, altre gli sono passate vicino, altre ancora sono atterrate su di esso, hanno permesso di ottenere molti dati precisi sul pianeta. Il suo raggio è circa la metà di quello terrestre e la sua massa è circa un decimo di quella del nostro pianeta; il periodo di rotazione di Marte è di poco superiore alle 24 ore e il suo periodo orbitale è di circa 2 anni. L'asse di rotazione del pianeta forma, con il piano dell'eclittica, un angolo di circa 24° 30′, prossimo a quello della Terra; ciò significa che Marte presenta un ciclo di stagioni simile a quello terrestre. I moti dei due satelliti di Marte, Fobos e Deimos, ci permettono di stabilire con sufficiente precisione di quanto la forma del pianeta si discosti dalla sfericità perfetta, nonché il suo momento di inerzia. Risulta che il pianeta è assai prossimo all'equilibrio idrostatico.
Come Mercurio e la Luna, anche Marte è fittamente coperto di crateri (v. fig. 9), ma i crateri di Marte presentano tracce di notevole erosione. Si è discusso a lungo se tale erosione sia da attribuire all'azione dell'acqua, a colate di lava, ai venti, o ad altri fattori. I dati morfologici basati su quelli che sembrano essere vecchi letti di fiumi depongono a favore della prima ipotesi; d'altra parte vi sono tracce evidenti di colate di lava - anche piuttosto recenti - e dell'azione di venti veloci (varie centinaia di metri al secondo), che trasportano particelle di polvere. Questi venti generano tempeste di polvere che possono interessare vaste aree del disco del pianeta e sono spesso visibili dalla Terra. Una singolare caratteristica del pianeta è la Vallis Marineris, un enorme vallone lungo 5.000 km, largo circa 100 km e profondo circa 6 km, sui cui bordi sono facilmente visibili le tracce di grandi valanghe, sia vecchie che nuove; il numero relativamente basso di crateri sul fondo del vallone indica che esso si è formato verso la fine dell'intenso bombardamento meteoritico nel sistema solare. Questo vallone e altre caratteristiche configurazioni lineari fanno pensare che vi siano state un'attività vulcanica e un'espansione della crosta non molto diverse da quelle terrestri.
Su Marte si trova il vulcano più alto e più imponente che sia stato finora osservato nell'intero sistema solare: l'Olympus Mons; esso è alto circa 27 km, il suo cratere ha un diametro di 70 km e la sua base ha un diametro di quasi 700 km. Si è calcolato che, per poterne sostenere il peso, la crosta sottostante debba essere spessa circa 150 km e che, dato il tempo necessario per raggiungere l'equilibrio isostatico, la sua età possa essere di appena 2×108 anni. Oltre a questo e a pochi altri crateri vulcanici, vi sono molti crateri provocati da impatti; ve ne sono anche alcuni che presentano tracce di efflusso di grandi quantità di acqua, che presumibilmente affiorarono allorché il calore dell'impatto fece fondere lo strato di permafrost situato sotto la superficie. L'atmosfera di Marte, benché sia molto sottile, ha impedito che i meteoriti al disotto dei 104 kg colpissero il pianeta. La distribuzione delle montagne non è uniforme: la maggior parte di esse si trova nell'emisfero meridionale, mentre nell'emisfero settentrionale, che è molto meno accidentato, si trova la maggior parte dei vulcani e dei crateri più grandi. I dati gravimetrici indicano una grossa anomalia nella distribuzione della massa nella regione vulcanica denominata Tharsis, che si trova vicino all'equatore, e ai suoi antipodi, nel basso bacino dell'Ellade. La differenza di altezza tra queste due regioni è compresa tra 10 e 12 km circa e concorda con la differenza di pressione di 6 mbar, che è a sua volta paragonabile alla pressione media sulla superficie del pianeta. Queste pressioni e il grande intervallo delle temperature - che vanno da 175 a 300 °K - includono il punto triplo dell'acqua, cosicché, in teoria, potrebbero esistere sul pianeta aree sufficientemente basse da permettere, in circostanze favorevoli, l'esistenza di acqua allo stato liquido. Nelle vicinanze dell'equatore la variazione diurna della temperatura è di 100 °K; nelle regioni situate a latitudine intermedia la quantità di vapore acqueo corrisponde a una precipitazione di 0,01÷0,02 mm di acqua. La principale componente dell'atmosfera di Marte è il CO2, ma vi sono anche tracce di N2, O2 e Ar. Il caratteristico colore rosso-arancio del pianeta è attribuito alla presenza di Fe2O3 (20%) insieme con SiO2 (45% circa) nel materiale della superficie.
Si conosce assai poco sull'interno del pianeta; al centro la pressione è di circa 106 bar, mentre quella corrispondente della Terra è di 4×106 bar. Si ritiene generalmente che Marte abbia un denso nucleo di ferro, di raggio inferiore alla metà di quello del pianeta stesso e di densità compresa tra 8 e 9 g cm-3, un mantello con densità di 4,5 g cm-3 e una crosta esterna con densità di 3,3 g cm-3. Il momento magnetico del pianeta - ammesso che esista ha un valore sicuramente inferiore a 3×1022 gauss cm3, ossia è 3×103 volte più piccolo di quello della Terra.
I dati ottenuti per mezzo delle varie sonde hanno fatto scartare l'ipotesi, in un primo tempo avanzata, che Marte sia solcato da enormi canali rettilinei e coperto da vaste aree scure di ‛vegetazione', variabili secondo le stagioni: i primi semplicemente non esistono, mentre le seconde sono prodotte da tempeste di polvere. D'altra parte, la presenza di acqua su Marte ha fatto pensare che potesse esistervi qualche forma di vita; i due satelliti Viking, atterrati a circa 6.000 km di distanza l'uno dall'altro, hanno analizzato il suolo di Marte e, in una serie di ingegnosi esperimenti, hanno cercato di individuare la presenza di processi biologici, nell'ipotesi che essi fossero basati su composti del carbonio e su reazioni che avvengono in ambiente acquoso. Malgrado l'attività chimica piuttosto elevata del terreno, questi esami hanno dato esito negativo: un risultato che non sorprende, data la brevità della vita media delle molecole organiche esposte all'abbondante radiazione solare ultravioletta che investe la superficie di Marte. Si è però avanzata l'ipotesi che alcune molecole organiche potrebbero sopravvivere in queste condizioni, purché fossero riparate dalla radiazione, o incapsulate in meteoriti carboniosi.
g) I satelliti di Marte.
Le orbite dei due satelliti di Marte, Fobos e Deimos, sono talmente vicine al pianeta che i loro periodi sono, rispettivamente, di 7h 40 min e di 30h 30 min.
Fobos, addirittura, ruota attorno al pianeta più velocemente di quanto il pianeta stesso ruoti attorno al proprio asse, cosicché sorge (a occidente) e tramonta (a oriente) tre volte nel corso di ogni giornata marziana. Il moto di Deimos è, invece, normale. Entrambi i satelliti sono piuttosto piccoli e di forma alquanto irregolare: Fobos misura 27×21×19 km e Deimos 15×12×11 km; i loro assi maggiori sono rivolti in direzione del pianeta. Entrambi sono coperti di crateri e Fobos presenta, inoltre, delle lunghe striature, quasi parallele, la cui origine non è stata finora spiegata in maniera soddisfacente. Si pensa che l'età dei due satelliti si aggiri sui 2×109 anni e la loro densità, il loro bassissimo coefficiente di riflessione diffusa, ecc. fanno pensare che si tratti di frammenti catturati di un asteroide simile a Ceres e che possano contenere condriti carboniose. Le singolari striature rettilinee di Fobos potrebbero aver avuto origine prima o nel corso della frammentazione del corpo catturato.
h) Gli asteroidi.
Si pensa che gli asteroidi ammontino, complessivamente, a varie decine di migliaia; il maggiore di questi corpi, Ceres - scoperto nel 1800 da G. Piazzi -, ha un raggio di 400 km. La massa totale degli asteroidi è inferiore a quella della Luna e la maggior parte di questi corpi si trova nello spazio compreso tra Marte e Giove. Si calcola, tuttavia, che alcune migliaia di essi attraversino l'orbita di Marte e che circa un migliaio, il gruppo Apollo, attraversi l'orbita della Terra, anche se soltanto una piccola frazione di questi asteroidi è stata osservata sistematicamente. La probabilità che si abbia una collisione tra un asteroide del gruppo Apollo e la Terra varia da zero, per Toro - che, almeno per ora, segue un moto commensurabile con quello della Terra -, a circa uno in 108 anni. Tuttavia, le perturbazioni delle orbite degli asteroidi provocate da Marte e dalla Terra alterano gradualmente queste probabilità, per cui la frequenza totale di collisioni tra gli asteroidi e la Terra è, all'incirca, di una in 6×106 anni. Vi sono indizi piuttosto chiari di una collisione fra un asteroide della classe di 10 chilometri e la Terra, che sarebbe avvenuta circa 6,5×107 anni orsono, ossia durante il periodo cretaceo terziario. Nel 1937 Hermes, che ha un diametro di 1,2 km, passò a non più di 7×105 km dalla Terra, ossia a una distanza pari a 1,75 volte quella che separa il nostro pianeta dalla Luna, e nel 1968 Icaro, che ha un diametro di 1,4 km, passò a meno di 6×106 km dalla Terra. In generale, le orbite degli asteroidi hanno eccentricità e inclinazioni maggiori di quelle delle orbite dei pianeti. Il perielio di Icaro si trova all'interno dell'orbita di Mercurio; l'afelio di Hidalgo è in prossimità dell'orbita di Saturno. La vicinanza di Giove dà origine a commensurabilità e a forti risonanze con gli asteroidi, il che fa sì che vi siano dei minimi netti nella distribuzione dei periodi orbitali a 1/2, 2/5, 1/3 e 1/4 del periodo di Giove (v. fig. 11). Alcuni asteroidi sono raggruppati attorno ai punti lagrangiani di Giove, che si trovano sul piano dell'orbita del pianeta 60° davanti ad esso e 60° dietro. In seguito a perturbazioni, questi asteroidi (asteroidi troiani) possono arrivare fino a 20° dalla posizione ideale dei punti di equilibrio.
Molti asteroidi presentano una variazione periodica di luminosità che è dovuta o alla loro forma fortemente allungata e al fatto che cambiano orientazione nel moto, oppure a marcate irregolarità della superficie; studi condotti per mezzo della riflessione radar aiutano a stabilire, volta per volta, se si tratti del primo caso, oppure del secondo. Gli asteroidi del primo tipo sono, in generale, i più piccoli, mentre quelli del secondo tipo è più probabile che siano grandi, poiché le forze di stato solido sono, in questo caso, insufficienti a mantenere contro la gravità le configurazioni non sferiche. Nel caso di alcuni asteroidi, la variazione della luminosità fa pensare a due oggetti accoppiati in una configurazione simile a quella delle stelle binarie.
Le superfici degli asteroidi sono in gran parte composte di minerali noti dallo studio delle meteoriti: nichelio e ferro metallici, olivina, pirosseno, silicato mafico, fasi contenenti carbonio, ecc. Otticamente, si distinguono le seguenti classi principali di asteroidi: asteroidi C, simili a condriti carboniose, asteroidi S, che contengono circa il 50% di metallo libero, asteroidi M, di nichel-ferro, e infine asteroidi E, costituiti da silicati neutri. La superficie di Vesta è formata da acondriti basaltiche, il che significa che una volta era allo stato fuso e, più tardi, si condensò in forme differenziate. Gli asteroidi C, corpi scuri che non si sono mai trovati allo stato fuso, sono i più numerosi e sembrano predominare negli strati più esterni della fascia degli asteroidi; il rapporto tra asteroidi C e asteroidi S diminuisce al diminuire della distanza dal Sole. Gli asteroidi appartenenti alle altre classi non presentano un'accentuata distribuzione preferenziale. Sia le caratteristiche orbitali degli asteroidi, sia la loro composizione chimica sembrano smentire nettamente la tesi, un tempo diffusa, che gli asteroidi siano i resti di un pianeta esploso. Alcuni asteroidi potrebbero, invece, essere vecchie comete, dalle quali sarebbero evaporati tutti gli elementi volatili. Tuttavia, è più probabile che gli asteroidi siano dovuti a un'interruzione dell'accrezione, seguita da una suddivisione per collisioni, come abbiamo detto precedentemente.
Particolare importanza riveste la recente scoperta di un satellite dell'asteroide Herculina, scoperta che fa pensare che anche altri asteroidi abbiano satelliti del medesimo tipo. Il raggio di Herculina misura 110 km, mentre quello del suo satellite, che si trova a una distanza di un migliaio di chilometri dall'asteroide, misura 25 km; il periodo orbitale è di circa un giorno e mezzo: questo è praticamente tutto ciò che si sa del sistema in questione. Se venissero confermate altre osservazioni del genere e se si scoprisse che molti altri asteroidi hanno dei satelliti, oppure sono binari, come detto prima, ciò potrebbe avere conseguenze importanti sulla nostra comprensione della dinamica della formazione degli asteroidi e delle interazioni tra di essi.
i) Giove.
Giove è un pianeta gigante il cui interno è probabilmente meglio conosciuto di quello dei pianeti terrestri. Questa singolare circostanza è dovuta a due fattori: la sua bassa densità (1,33 g cm-3), la quale indica nell'idrogeno e nell'elio (i medesimi elementi di cui è fatto il Sole) i principali costituenti del pianeta, e il fatto che le alte temperature e le elevate pressioni non consentono la formazione di composti complessi al suo interno. Sorgono, tuttavia, delle difficoltà allorché si debbano fare delle previsioni teoriche sul comportamento dell'idrogeno e dell'elio a temperature e pressioni elevate. Molto si sa anche sulla parte esterna di Giove e sullo spazio circostante, grazie ai dati raccolti dai numerosi veicoli spaziali che sono passati vicino al pianeta.
Giove è talmente grande (la sua massa costituisce il 72% della massa totale dei pianeti) che, in prima approssimazione, lo si potrebbe considerare come uno dei due elementi, insieme con il Sole, di una stella binaria, anche se la sua massa è 10-3 volte quella del Sole. In effetti, se Giove avesse avuto una massa 75 volte maggiore di quella che ha, al suo interno avrebbe potuto sostenersi una reazione protone-protone ed esso sarebbe diventato una stella. Importanti informazioni sui dettagli dell'interno del pianeta possono essere dedotti dal suo campo magnetico e dalla sua grande sorgente interna di calore. Mettendo insieme tutti questi dati, si ottiene un modello dell'interno del tipo di quello, recentemente proposto, riportato nella fig. 12. Secondo questo modello Giove è formato da un denso nucleo centrale di massa pari a 14 volte quella della Terra, composto di silicati e di ferro, da uno strato di idrogeno metallico liquido, che si estende fino a un raggio di circa 0,75 RG e contiene circa il 15% di elio, e infine da un mantello esterno di H2 (He) supercritico, che, all'aumentare del raggio, si trasforma gradualmente, passando dallo stato liquido a quello gassoso, fino a diventare parte dell'atmosfera. Gli aspetti quantitativi dei vari modelli dipendono dalla conoscenza delle equazioni di stato e da altre ipotesi. Il modello che abbiamo illustrato corrisponde a una temperatura di 190 °K a una pressione di 1 bar, che è propria della zona compresa entro 100 km dalla superficie del pianeta, a un rapporto tra idrogeno ed elio pari a quello del Sole e a un'abbondanza di altri elementi tre volte maggiore che nel Sole. La superficie di confine fra lo strato di idrogeno e il mantello esterno, a 0,75 RG, è importante, poiché separa i moti convettivi nelle due fasi dell'idrogeno e ciò influisce sul flusso di calore che la attraversa; inoltre, in corrispondenza della stessa superficie, il valore della densità varia del 25-30% ed è probabile che vi sia una discontinuità nel rapporto H/He, il cui valore non è, però, ancora noto. La brevità del periodo di rotazione del pianeta, che è di circa 9h 55 min, comporta un'elevata forza centrifuga, che esercita, a sua volta, una forte influenza sul meccanismo della convezione.
Il flusso di calore emesso da Giove supera di 4×1024 erg s-1 la quantità di calore che il pianeta riceve dal Sole e ciò - se si tiene conto dell'attuale contenuto di calore del pianeta - indica che il suo tempo di raffreddamento è paragonabile all'età del sistema solare stesso, per cui il calore di Giove deve avere un'origine primordiale. La presenza di un dipolo magnetico di 4,25±0,03 gauss R³G può essere spiegata supponendo che nell'interno metallico liquido operi una dinamo idromagnetica. Poiché gli strati più interni del mantello di H2 hanno una conduttività pressoché metallica, prodotta dalle alte temperature e dalle alte pressioni, anch'essi, probabilmente, contribuiscono alla dinamo magnetica. Questa conclusione sembra trovare una conferma quantitativa nelle analisi delle componenti multipolari più alte che si osservano nel campo esterno.
Le nubi visibili di Giove sono forniate soprattutto da NH3 solida, la cui temperatura è di circa 120÷130 °K a una pressione di 0,5 bar; una trentina di chilometri più in basso vi sono nubi di NH4SH e infine, più in basso ancora, nubi di H2O, a una pressione che si aggira sui 3 bar. Tutte queste nubi si trovano nella troposfera, nella quale la temperatura scende adiabaticamente da circa 190 °K, a 1 bar, a circa 110 °K, a 0,1 bar, prima di risalire nuovamente fino a circa 165 °K, a 10-3 bar, in corrispondenza del limite superiore della stratosfera. Da quel punto in poi, nella mesosfera, latemperatura resta costante fino a una pressione di 10-6 bar; segue la termosfera, dove la pressione è di 10-9 bar e la temperatura dei protoni e degli elettroni è compresa tra 850 e 1.100 °K. A un'altitudine di circa 2.000 km al disopra delle nubi visibili, la densità degli elettroni è compresa tra 104 e 105 cm-3. La specie gassosa prevalente nell'atmosfera è, naturalmente, H2; le altre sono H, He, CH4, CH3, C2H6 ed NH3, insieme ad altre molecole meno comuni, quali CO, PH3, GeH4, CH3D e HCN. I colori marrone e rossastro delle nubi di Giove sono, presumibilmente, dovuti alla presenza di fosforo amorfo rosso, di polisolfuri di idrogeno, di polisolfuri di ammonio e di zolfo.
Non si sa ancora di preciso che cosa siano la spettacolare ‛grande macchia rossa', nota fin dai tempi di Galileo, gli ovali bianchi e le altre macchie più piccole, sia rosse, sia bianche, che appaiono sulla superficie di Giove, anche se pare quasi certo che si tratti delle sommità di immensi vortici che si spingono a grande profondità nell'interno del pianeta. Questa conclusione è avvalorata dal fatto che i rilevanti moti longitudinali di queste macchie sembrano essere indipendenti dalla velocità di rotazione delle zone e delle fasce di nubi: per esempio, la grande macchia rossa si è mossa, più o meno monotonamente, di circa 500°. Nessuna delle spiegazioni suggerite - da quelle basate su modelli di uragani puramente meteorologici a quelle fondate sull'ipotesi di una colonna di Taylor, connessa con un'anomalia locale di densità, galleggiante a una profondità di alcune migliaia di chilometri - rende conto soddisfacentemente dell'assenza di moti latitudinali, della longevità delle macchie e della variabilità delle loro dimensioni e delle loro colorazioni. Poiché queste macchie appaiono concentrate entro una o due ristrette fasce parallele all'equatore, potrebbero essere legate da una correlazione di tipo ondulatorio.
Le nubi situate nelle zone luminose sono alte, le loro velocità sono dirette verso l'alto e la loro temperatura è assai elevata, nonostante il fatto che la luminosità infrarossa sia piuttosto bassa; le nubi che si trovano nelle fasce scure hanno, invece, le caratteristiche opposte. Alcuni sistemi di nubi hanno velocità di rotazione maggiori, altri minori di quella media del pianeta; in entrambi i casi, le velocità sono dovute all'equilibrio tra il gradiente di pressione e le forze di Coriolis. Su una scala compresa, diciamo, tra 50 e 100 km, il moto delle nubi è molto intricato e non è ancora stato analizzato, anche se la presenza di instabilità barotropiche sui bordi delle fasce rivolti verso i poli e sui bordi delle zone rivolti verso l'equatore concorda con le previsioni teoriche.
È stata avanzata l'ipotesi che possa esistere qualche forma di vita nell'atmosfera di Giove, per esempio su particelle di polvere in sospensione, oppure in aerosol; questa ipotesi si basa sul fatto che sicuramente l'atmosfera del pianeta si estende oltre la quota alla quale la temperatura è compresa in un intervallo, biologicamente favorevole, intorno ai 300 °K e sul fatto che, secondo quanto risulta da esperimenti effettuati in laboratorio, forti scariche elettriche possono provocare la sintesi di molecole organiche fondamentali a partire da certi composti inorganici gassosi di base, che su Giove abbondano. I dati raccolti dalla sonda Voyager indicano che, in effetti, l'atmosfera di Giove è sede di potenti tempeste elettriche. Tuttavia, le forti convezioni verso l'alto e quelle verso il basso costituiscono un grosso ostacolo allo sviluppo di forme di vita, in quanto trasportano le molecole appena formate in regioni nelle quali le temperature prevalenti sono o troppo alte o troppo basse perché possa aver luogo un qualsiasi processo biologico. Quanto detto vale, naturalmente, solo per le reazioni biologiche che conosciamo, cioè le reazioni fondate su composti del carbonio e che avvengono in ambiente acquoso.
All'esterno del pianeta, il suo campo magnetico è approssimativamente dipolare fino a una distanza di 10÷15 RG, superata la quale, la magnetosfera è distorta dal disco di plasma corotante, fino a 50÷100 RG di distanza, in direzione del Sole; il confine della magnetosfera, detto magnetopausa, varia rapidamente al variare dell'intensità del vento solare. Sul lato opposto del pianeta, la coda magnetica si estende fino a ben oltre l'orbita di Saturno, ossia fino a una distanza superiore a quella che separa Giove dal Sole. Poiché l'asse del campo magnetico è inclinato di circa 10° rispetto all'asse di rotazione del pianeta, si ha un periodo di circa dieci ore nei vari effetti provocati dalla magnetosfera e dalle fasce di elettroni e di protoni intrappolati in essa. Alcuni di questi elettroni sfuggono lungo le linee del campo magnetico interplanetario e sono osservabili e identificabili sulla Terra, a causa del loro periodo di dieci ore. La fascia di elettroni è la sorgente della ben nota radiazione decimetrica costante emessa da Giove; sembra, invece, che la radiazione decametrica che si produce in fiotti (bursts) abbia origine, in una maniera ancora ignota, nella parte inferiore della ionosfera del pianeta, in regioni che si estendono per varie centinaia di chilometri e che ruotano solidalmente con il pianeta. Di particolare interesse è la comprovata correlazione tra la posizione del satellite Io e la potenza di tali emissioni esplosive. È stata avanzata l'ipotesi, in seguito confermata dai dati raccolti da una sonda spaziale, che lo strato di plasma che avvolge Io sia collegato, per mezzo di un tubo di flusso magnetico, con il pianeta; correnti dell'ordine di 106 A, generate dal moto di Io attraverso la magnetosfera, fluiscono attraverso questo tubo ed eccitano periodicamente le sorgenti dell'emissione decametrica che si trovano nella ionosfera del pianeta.
l) I satelliti e l'anello di Giove.
Nel 1610 Galileo scoprì i quattro maggiori satelliti di Giove: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Essi hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo delle teorie sull'evoluzione e sulla struttura del sistema solare e dei sistemi planetari; il loro moto permise a Roemer di ottenere, nel 1675, un valore incredibilmente accurato della velocità della luce. La nostra conoscenza di questi satelliti è enormemente aumentata negli ultimi anni, grazie agli invii di sonde spaziali nelle loro vicinanze. Tutti e quattro i satelliti rivolgono costantemente al pianeta la stessa faccia e presentano variazioni della luminosità in funzione dell'angolo di fase; sembra che queste variazioni siano provocate dall'oscuramento degli emisferi di coda dei satelliti, che sono bombardati dal plasma che ruota nella sfera magnetica del pianeta più rapidamente di loro. Poiché le particelle nel plasma seguono traiettorie a spirale, l'angolo orbitale di fase dell'oscuramento massimo presenta uno spostamento graduale da circa 320°, per Io, a circa 120°, per Callisto.
Come appare chiaramente nella tab. IV, le densità, che nei primi due satelliti sono paragonabili a quella della Luna, vanno diminuendo all'aumentare della distanza dal pianeta. Ciò significa che le componenti maggiormente volatili sono state eliminate dal calore del pianeta; Callisto, in effetti, ha la densità più bassa fra tutti i maggiori corpi solidi del sistema solare. Io ed Europa hanno, probabilmente, interni rocciosi; l'interno di Europa, in particolare, è ricoperto da uno strato di ghiaccio, dello spessore di 50 km, e da acqua e presenta segni evidenti di attività tettonica. È possibile che Ganimede e Callisto abbiano, oltre ai nuclei rocciosi, strati di acqua liquida assai più spessi di quello di Europa, ricoperti di ghiaccio e di rocce libere; le loro superfici presentano numerosi crateri, alcuni dei quali molto recenti. Callisto sembra essere il più vecchio dei quattro satelliti galileiani e ciò fa pensare che tutti e quattro si siano formati dalla nube protogioviana durante la sua fase di raffreddamento, attraverso un processo di formazione analogo a quello subito dai pianeti, e che il vento solare abbia spazzato via da ciascuno di essi le componenti più leggere.
L'interno di Io è liquido a causa del calore prodotto dagli effetti di marea e, perciò, ha molti vulcani attivi, i cui pennacchi sono stati visti raggiungere altezze fino a 330 km. Io, in effetti, fra tutti i corpi finora conosciuti del sistema solare, è l'unico, a parte la Terra, che presenti un vulcanismo attivo. Su Io non esiste acqua, sotto alcuna forma: esso sembra essere ricoperto da zolfo giallo e da una brina bianca di SO2, mentre i vulcani immettono nella sua atmosfera ingenti quantità di Na e di S. Questi elementi sfuggono da Io e formano, attorno alla sua orbita, un toro facilmente osservabile, che contiene anche idrogeno.
Il piccolo satellite Amaltea è lungo 265 km, largo 150 km ed è orientato verso il pianeta. Il suo colore rosso scuro dipende, probabilmente, dall'intenso bombardamento proveniente dalla fascia di radiazione, che, a quella distanza dal pianeta, raggiunge la sua intensità massima. Intorno a Giove, a una distanza di circa 1,83 RG dal centro del pianeta, si trova un tenue anello spesso 6.000 km, che sembra contenere, vicino al proprio bordo esterno, un piccolo satellite; anche questo piccolo satellite è, senza dubbio, intensamente bombardato e quindi potrebbe essere la sorgente delle particelle che formano l'anello. Esistono, inoltre, indizi dell'esistenza di un disco di particelle ancora più tenue, che si estende fino al livello delle nubi del pianeta. Come abbiamo già detto, le distanze che separano i satelliti galileiani dal pianeta seguono con notevole approssimazione una forma modificata della legge di Titius-Bode.
È assai probabile che i satelliti più lontani e ‛irregolari' di Giove siano in realtà asteroidi catturati: le loro orbite si estendono fino al limite estremo della sfera di influenza del pianeta. Questi corpi si distribuiscono in due gruppi distinti, a seconda che siano animati da moto progrado o retrogrado; in ciascuno dei due gruppi le orbite sono simili e hanno inclinazioni assai elevate e grandi eccentricità. Vi sono ancora molti problemi teorici insoluti riguardanti la dinamica della loro cattura: per esempio, si tratta di individuare il meccanismo in base al quale ha avuto luogo la dissipazione di energia necessaria perché questi corpi non sfuggissero. Questa perdita di energia può essere stata provocata dal trascinamento nel disco iniziale di Giove, prima che questo si disperdesse; un'altra possibilità è che corpi più grandi o comete siano entrati in collisione all'interno della sfera di influenza di Giove, o che si sia avuta una frammentazione al momento della cattura. Nulla si sa sulla composizione di questi satelliti: la rassomiglianza delle orbite in ciascuno dei due gruppi summenzionati fa pensare che gli appartenenti a uno stesso gruppo, dato che hanno origini simili, se non addirittura associate, abbiano composizioni simili, forse del tipo di quella degli asteroidi o di quella delle comete.
m) Saturno, i suoi anelli e i suoi satelliti.
Sotto molti punti di vista, Saturno è simile a Giove, sebbene sia alquanto più piccolo. Le masse dei due pianeti, insieme, costituiscono il 92,5% della massa complessiva dei pianeti. L'interno di Saturno è molto simile all'interno di Giove, tranne che per alcune differenze quantitative (v. fig. 13). La massa del nucleo - che è formato da un centro roccioso che si estende fino a 0,14 RS e da un mantello di ghiaccio che arriva fino a 0,24 RS - è pari a 16,5 masse terrestri. Analogamente lo strato metallico di idrogeno-elio si divide in una parte interna, spessa 25.000 km e ricca di elio, e una parte esterna, spessa circa 5.000 km e consistente in una soluzione soprasatura di elio in idrogeno metallico. L'esistenza di questi due strati è una conseguenza della prevista miscibilità incompleta che compare nel diagramma delle fasi idrogeno-elio alle pressioni e alle temperature di Saturno. Su Giove, invece, la pressione e la temperatura sono entrambe al disopra dell'intervallo di miscibilità e lo strato è perciò omogeneo. Man mano che Saturno si raffredda gradualmente, delle goccioline di elio precipitano nello strato superiore e scendono verso il basso, liberando circa 2×1012 erg di energia gravitazionale per grammo di elio a un tasso autoregolantesi; questa energia addizionale potrebbe essere all'origine della luminosità del pianeta, che è più elevata di quella imputabile esclusivamente al suo calore primordiale.
Galileo per primo osservò, nel 1610, delle protuberanze anomale attorno a Saturno, ma soltanto una cinquantina di anni dopo Huygens le interpretò correttamente come anelli; gli anelli principali e le loro posizioni sono rappresentati schematicamente nella fig. 14. Di questi, l'anello B è di gran lunga il più luminoso e l'anello C il meno luminoso: ciò concorda con la differenza fra le loro opacità. Le dimensioni delle particelle che costituiscono questi anelli sono ancora oggi oggetto di discussioni: sono state proposte distribuzioni che, complessivamente, abbracciano dimensioni che vanno da meno di un millimetro ad alcune centinaia di metri. L'intervallo di Cassini tra gli anelli A e B è largo all'incirca 4.000 km, ma, come risulta dai dati raccolti dalle sonde spaziali, non è vuoto: presenta una sottostruttura. Secondo la teoria, esso conterrebbe onde di densità avvolte a spirale molto stretta - non dissimili da quelle delle galassie a spirale -, le quali trasportano momento angolare verso l'esterno e particelle dell'anello verso l'interno. La posizione dell'intervallo e l'eccitazione delle onde sono legate alla commensurabilità 2:1 del periodo di rotazione (ossia della risonanza) con Mimas. La divisione di Encke, molto meno accentuata di quella di Cassini, corrisponde a una risonanza 5: 3, mentre la risonanza 3: 1 concorda con il bordo interno dell'anello B. A causa dell'alto numero di risonanze e di satelliti, non è sempre possibile individuare e attribuire univocamente delle risonanze. È stato precedentemente individuato un altro anello, l'anello F, che si trova al di là dell'anello A ed è separato da quest'ultimo dall'intervallo Pioneer. Pare che vi siano altri due anelli, G ed E, che si estenderebbero fino a 8 RS.
Attorno ai pianeti possono formarsi degli anelli a distanze inferiori al cosiddetto limite di Roche, in corrispondenza del quale i grandi corpi solidi vengono frantumati dalle interazioni mareali; per la stessa ragione, in questo intervallo di distanze non si possono formare per accrezione corpi di grandi dimensioni. I limiti effettivi dipendono però criticamente dalla natura delle particelle, dalla loro coesione e dal loro stato di rotazione.
Un'interessante anisotropia azimutale del 30% nella luminosità dell'anello A e una variazione irregolare, dipendente dal tempo, della polarizzazione locale nell'anello B sono state attribuite o a una distribuzione non casuale di piccole particelle nella scia di particelle più grandi, oppure alla forma irregolare delle particelle più grandi. Un'orientazione preferenziale di queste particelle darebbe luogo a un deposito preferenziale di ghiaccio appena formato, presumibilmente amorfo, costituito dalle molecole di H2O emesse, in corrispondenza del bordo esterno degli anelli A o F, dalle particelle situate nella fascia dei protoni esterna agli anelli. Come risulta dai dati raccolti da una sonda spaziale, gli stessi anelli A, B e C ostacolano la formazione di fasce di elettroni nella parte interna della magnetosfera del pianeta, cosicché dalla Terra si può osservare soltanto una radiazione elettromagnetica molto debole. I dati forniti dalla sonda Voyager indicano, tuttavia, la presenza di scariche di rumore radio non termico provenienti dalla ionosfera del pianeta in prossimità del suo polo settentrionale; da queste scariche si è dedotto un periodo di rotazione di 10h 39,9 min. L'importanza di questo risultato sta nel fatto che, presumibilmente, il valore ottenuto corrisponde al periodo di rotazione del corpo del pianeta. Il periodo di rotazione delle nubi è minimo all'equatore e aumenta progressivamente con la latitudine: il suo valore medio è di 10,5±0,5 ore.
Oltre ai famosi anelli, Saturno ha almeno 14 satelliti, il maggiore dei quali, Titano, ha un raggio che supera del 50% quello della Luna. Le distanze da Saturno dei satelliti maggiori, fino a Iperione, seguono assai da vicino una forma modificata della legge di Titius-Bode, con l'eccezione di un evidente vuoto, tra il piccolo satellite Rea e il grande Titano, la cui posizione ricorda, sotto vari aspetti, quella della fascia degli asteroidi nel sistema solare e che, come abbiamo già detto, potrebbe aver avuto un'origine simile. Sulla base dei dati forniti in un primo tempo da una sonda, si era pensato all'esistenza di una banda di piccoli corpi all'interno di questa zona, ma tali dati non sembrano essere stati confermati in seguito. Tutti i satelliti, tranne Febea, il cui moto è retrogrado, presentano parecchie risonanze e commensurabilità tra i rispettivi periodi. Tutti i satelliti più vicini, con la sola eccezione, forse, di Iperione, ruotano in sincronia con i rispettivi periodi orbitali, cosicché rivolgono al pianeta sempre lo stesso emisfero. La maggior parte dei satelliti ha la superficie ghiacciata e una densità media compresa tra 1 e 1,5 g cm-3, il che fa pensare che essi siano costituiti da componenti piuttosto volatili, come acqua e ghiaccio, oltre che da qualche materiale roccioso. Titano ha forse un nucleo roccioso più grande e deve avere un'atmosfera. Giapeto presenta una vistosa asimmetria della luminosità superficiale, poiché l'emisfero nella direzione del moto è scuro come un tipico asteroide carbonaceo, mentre l'emisfero opposto sembra essere ricoperto di brina.
Molto recentemente sono stati scoperti nuovi fatti assai interessanti sui satelliti di Saturno: pare, ad esempio, che Dione abbia un compagno, Dione B, che ha la medesima orbita e oscilla attorno al punto lagrangiano come gli asteroidi troiani rispetto a Giove. Un tenue anello, E, circonda l'orbita di Encelado e la distribuzione radiale delle particelle fa pensare che esse provengano dalla superficie del satellite. L'anello in questione si estende oltre l'orbita di Dione ed è possibile che sia esso la sorgente delle particelle che diedero origine a Dione B. Due satelliti, che si trovano 15.000 km al di là dell'anello A, hanno orbite i cui semiassi maggiori differiscono l'uno dall'altro di appena 60 km, mentre entrambi i satelliti hanno raggi di circa 50 km. Essi appaiono in librazione l'uno rispetto all'altro con un periodo di circa 600 giorni; le loro posizioni medie sono allineate con il pianeta e separate di 180°. Attualmente, si stanno avvicinando l'uno all'altro a una velocità di circa 10 m s-1.
n) Urano, i suoi anelli e i suoi satelliti.
Fino ad oggi, nessuna sonda spaziale è passata in vicinanza di Urano e perciò le nostre conoscenze su di esso sono tuttora assai limitate. Il suo raggio è all'incirca quattro volte quello della Terra, ma la sua densità è di appena 1,2 g cm-3, ossia leggermente minore di quella di Giove. La caratteristica più singolare di Urano è il fatto che il suo asse di rotazione forma un angolo di 98° con la normale al piano della sua orbita; da ciò consegue che durante il periodo orbitale del pianeta, che è di 84 anni e 4 giorni, ognuno degli emisferi polari si trova rivolto verso il Sole una sola volta e l'equatore due volte, per cui i poli sono alternativamente le regioni più calde e più fredde del pianeta, mentre l'equatore ha sempre una temperatura intermedia. Sono stati fatti vari tentativi per spiegare l'origine di questo insolito orientamento del piano equatoriale di Urano, ma la maggior parte delle ipotesi proposte non è riuscita a giustificare la coincidenza quasi perfetta fra il piano equatoriale di Urano e i piani su cui giacciono le orbite dei suoi satelliti e dei suoi anelli (eccettuato l'anello e). La teoria migliore è, per ora, quella basata sull'ipotesi che in origine il pianeta avesse l'asse pressoché perpendicolare al piano dell'orbita, ma che esso abbia, poi, catturato, su un'orbita di 25 RU di raggio, inclinata di 140°, un satellite di massa pari a qualche percento della propria. L'interazione mareale avrebbe, poi, fatto sì che il satellite seguisse un moto a spirale verso l'interno e al tempo stesso che l'asse di rotazione del pianeta assumesse, gradualmente, la forte inclinazione attuale; una volta raggiunto il limite di Roche a 6 RU, il satellite si sarebbe frammentato nei tre satelliti retrogradi attuali, fornendo, probabilmente, anche materiale ai numerosi anelli di Urano.
L'orientazione attuale di Urano rende difficile una misura ottica precisa sia del suo schiacciamento - che deve, comunque, aggirarsi intorno allo 0,02 - sia del suo periodo di rotazione, la cui conoscenza è indispensabile per poter costruire un modello fondato dell'interno del pianeta. Attualmente, il miglior valore del momento gravitazionale, J2 ottenuto dal moto dei satelliti e degli anelli, è di (3,43±0,02)×10-3. I valori che sono stati proposti per il periodo di rotazione si collocano in due intervalli, il primo compreso tra 13 e 17 ore, il secondo tra 22 e 24 ore. Una certa analogia con Giove e con Saturno fa pensare che anche Urano abbia un nucleo interno roccioso (Fe, Ni, Mg e SiO2), un mantello di ghiaccio (H2O, NH3 e CH4) e il solito strato esterno formato da idrogeno ed elio. I modelli della composizione di Urano che soddisfano i vincoli imposti dalle osservazioni non contemplano la presenza di idrogeno metallico, mentre contemplano la presenza di ghiaccio, o sotto forma di uno strato separato oppure mescolato nell'involucro. Il nucleo roccioso si estende fino a circa un terzo del raggio del pianeta e la sua massa costituisce il 25% della massa totale; soltanto un decimo della massa del pianeta è, invece, contenuta nell'involucro esterno gassoso di idrogeno ed elio e ciò differenzia nettamente Urano da Giove e Saturno. Mentre un modello che prevede una rotazione veloce implica un rapporto tra ghiaccio e rocce inferiore a quello del Sole, i modelli che prevedono una rotazione più lenta sono, invece, compatibili con il rapporto del Sole.
L'esistenza di un campo magnetico su Urano è ipotizzabile sulla base di una serie di rilevamenti di impulsi di radiazione intorno a 0,5 MHz: se saranno confermati, questi dati contribuiranno a chiarire ulteriormente la natura del nucleo del pianeta. Mentre la conduttività elettrica nel mantello di ghiaccio è troppo bassa per permettere il funzionamento di una dinamo magnetica, sembra che il nucleo sia liquido e quasi tutto metallico. Un processo di differenziazione dovuto alla gravità fornisce una quantità di energia che, pur corrispondendo al flusso di calore osservato, molto basso, è tuttavia sufficiente a produrre la convezione necessaria.
L'atmosfera di Urano contiene H2 e CH4, quest'ultimo presente in una percentuale probabilmente superiore al valore solare. Le nubi visibili sono, con ogni probabilità, cristalli di NH3 ed è verosimile che al disotto di esse vi sia pure NH3 allo stato gassoso; pare che vi sia, inoltre, uno strato di nebbia costituita da un aerosol di metano.
Al contrario degli anelli di Saturno, che sono spessi e separati l'uno dall'altro da distanze relativamente brevi, i nove anelli di Urano denominati rispettivamente 6, 5, 4, α, β, ζ, γ, δ ed ε - sono invece sottili (5÷20 km) e separati l'uno dall'altro da notevoli distanze. La posizione delle strutture sottili in entrambe le serie di anelli coincide con le risonanze corrispondenti a vari satelliti, singoli o a coppie. La capacità delle risonanze di formare gli anelli dipende dalla profondità delle relative buche di potenziale o dall'effetto che esse hanno, da una parte, sull'aumento del numero di collisioni tra particelle con caratteristiche orbitali differenti e, dall'altra, sulla diminuzione delle collisioni tra particelle coorbitanti. È stato osservato che il bordo del sottile anello γ è così netto da produrre una diffrazione di Fresnel.
Tutti gli anelli di Urano, con la sola eccezione dell'anello ε, sono pressoché circolari e quasi complanari con l'equatore del pianeta. L'anello ε appare, invece, allungato e il suo spessore, proporzionale alla distanza dal centro del pianeta, è compreso tra 20 e 100 km. I suoi bordi interno ed esterno sono ellissi kepleriane in precessione con eccentricità e semiassi maggiori alquanto diversi.
o) Nettuno e i suoi satelliti.
Generalmente si pensa che Nettuno sia assai simile a Urano, eppure tra i due pianeti vi è un'importante differenza: Nettuno emette all'incirca tre volte più calore di quanto non ne riceva dal Sole, mentre il flusso di calore emesso da Urano è nullo, entro i limiti dell'errore sperimentale. Questa differenza può essere imputata alla diversa intensità di insolazione, che, nel caso di Urano, compensa il gradiente termico radiale e la perdita di calore da parte del pianeta, mentre, nel caso di Nettuno, è troppo bassa per produrre un effetto analogo. Il flusso relativamente alto di calore emesso da Nettuno fa inoltre pensare che vi sia convezione sufficiente a produrre una dinamo magnetica nel suo mantello liquido ‛ghiacciato', il quale, a differenza di quello di Urano, può essere metallico, a causa della pressione più elevata. Il fatto che non sia stata finora osservata alcuna radiazione che indichi l'esistenza di un campo magnetico su Nettuno significa, probabilmente, che sia il campo sia la radiazione da esso prodotta sono troppo deboli per poter essere osservati dalla Terra.
È più facile arrivare a un modello soddisfacente dell'interno di Nettuno che di quello di Urano, poiché si sa che il periodo di rotazione del primo pianeta è compreso tra 18 e 20 ore (probabilmente è di 18,5 ore). Il nucleo di Nettuno, che, a causa dell'elevata pressione, è probabilmente solido, ha una massa all'incirca pari al 25% della massa totale del pianeta; l'atmosfera gassosa ne costituisce circa il 7%, il resto è ghiaccio. Il fatto che Nettuno abbia dimensioni e massa superiori a quelle di Urano fa sì che abbia anche pressione interna e densità superiori.
Nettuno ha un unico satellite grande, Tritone; l'altro satellite, Nereide, è parecchie migliaia di volte più piccolo di Tritone e si trova a una distanza dal pianeta quasi venti volte maggiore. L'esistenza di un terzo satellite è suggerita da recenti studi dell'occultazione delle stelle. Benché il valore della sua massa sia ancora piuttosto incerto, Tritone sembra essere il satellite più massiccio dell'intero sistema solare. La sua distanza da Nettuno è all'incirca uguale a quella che separa la Luna dalla Terra. Studi recenti hanno rivelato che Nettuno ha un'atmosfera, a una pressione di circa 10-4 bar, composta da metano, aerosol e forse anche idrogeno.
È interessante osservare che da quando fu scoperto, nel 1846, Nettuno non ha ancora completato un'orbita intera attorno al Sole. Si spera che una sonda spaziale possa avvicinare il pianeta nei primi anni del prossimo secolo.
p) Plutone e il suo satellite.
Le nostre conoscenze su Plutone sono molto scarse al momento attuale. La sua orbita, fortemente inclinata ed eccentrica, fa pensare che esso non abbia avuto origine attraverso i processi di formazione dei pianeti che si verificarono sul piano dell'eclittica, ma che si tratti, piuttosto, di un corpo catturato. Il fatto che il perielio di Plutone - che il pianeta raggiungerà nel 1989 - si trovi all'interno dell'orbita di Nettuno ha suggerito l'ipotesi che si possa trattare di un satellite sfuggito da Nettuno, anche se la dinamica di tale fuga e della successiva cattura rimane tuttora molto problematica.
Nel 1978 si scoprì che Plutone ha un satellite, Caronte, che sembra essere in sincronia con la rotazione di 6,4 giorni del pianeta e ha un'orbita inclinata di 115° sul piano dell'eclittica. Secondo i dati più recenti (ottenuti nel 1980), il raggio del pianeta è di circa 2.000 km (nel 1979 si pensava che fosse di 1.500 km), quello del satellite di circa 1.000 km e la distanza tra i due corpi di 19.000 km, cosicché il sistema rassomiglia, in effetti, a un pianeta binario. La massa totale è pari a 1/300 di quella terrestre e la densità è perciò di 0,5±0,1 g cm-3, ossia dieci volte inferiore a quella ottenuta con i dati di qualche anno fa e meno della metà di quella che si calcolava postulando un raggio di 1.500 km.
L'atmosfera di Plutone è composta in massima parte da CH4 che, se è in equilibrio, probabilmente deve contenere un componente più pesante, quale, ad esempio, l'argo, che ne impedisca la fuga. La superficie del pianeta è, probabilmente, coperta di CH4 e di H2O solidi; è interessante notare che la bassa densità del pianeta, recentemente determinata, è prossima a quella del CH4 solido.
q) Le comete.
Secondo le teorie attuali, nelle regioni più esterne del sistema solare, a distanze dell'ordine di 104÷105 UA, vi sono parecchie migliaia di aggregati freddi di gas condensati e di solidi, per esempio pezzi di ghiaccio, che ruotano molto lentamente e formano la cosiddetta nube di Oort. È presumibile che essi rappresentino i componenti quasi inalterati delle parti remote della nebulosa solare primitiva. Quando il loro moto viene perturbato, questi nuclei di comete possono porsi su un'orbita allungata che li conduce in prossimità del Sole, il quale li riscalda; i gas liberati formano la chioma e la coda caratteristiche della maggior parte delle comete. In realtà, le code sono due: una è composta in prevalenza di gas ionizzati dal vento solare, i quali seguono le linee del campo magnetico locale, mentre l'altra, fatta di polvere, è spinta in direzione opposta al Sole dalla pressione della radiazione. Alcune delle molecole che sfuggono sono inorganiche (per es., H, NH, NH2, O, H2O), altre contengono carbonio (C, C2, Ca, CO, CH, CN, CS, ecc.) e altre ancora sono metalliche (Na, Ca, C3, Fe, Ni, ecc.); alcune di queste molecole sono ionizzate. La polvere sembra essere formata soprattutto di silicati. È difficile osservare i nuclei, ma si sa che i loro diametri sono di alcune decine di chilometri, mentre le code, che hanno densità molto basse, possono estendersi per 1 UA o più. Alcune delle molecole e dei radicali osservati nelle code non sono mai stati riscontrati nello spazio interplanetario ed è perciò possibile che abbiano un'origine interstellare. Gli sciami di meteore indicano il passaggio della Terra attraverso una regione dello spazio contenente materia espulsa dalle comete. Di recente sono stati raccolti ad altitudini elevate, e analizzati, dei grani che, presumibilmente, provengono da qualche cometa; questi grani, molto porosi, contengono silicati, particelle contenenti carbonio, cristalline e amorfe, e altri materiali.
Le circa cento comete che hanno orbite piccole e periodi al disotto dei cento anni appaiono con grande regolarità; se ne conoscono, inoltre, altre 500 circa, che hanno orbite grandi e allungate e sono state viste ciascuna una sola volta. L'orbita della cometa Kohutek (1973), per esempio, si estende fino a 5×104 UA e ha un periodo di circa 5×106 anni; al perielio, la velocità di questa cometa era di quasi 4×105 km/h, ma all'afelio dovrebbe essere di appena 1 km/h. Le orbite delle comete vengono perturbate piuttosto facilmente, poiché i loro nuclei hanno una piccola massa; in particolare, Giove ha un'influenza notevole sulle orbite delle comete. Le comete che vengono a trovarsi spesso in prossimità del Sole perdono gradualmente velocità e la loro luminosità complessiva diminuisce al rimpicciolirsi della chioma e della coda; alcuni degli asteroidi più piccoli potrebbero essere nuclei spenti di comete di questo tipo.
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