Solidarietà e sussidiarietà
La parola solidarietà ha alla base l’espressione del latino giuridico in solidum, che indicava l’obbligo da parte di un individuo appartenente a un gruppo di debitori di pagare integralmente il debito. A partire dalla Rivoluzione francese il termine ha assunto un significato completamente nuovo. Infatti, il sostantivo solidarité, in francese, è passato a indicare, sul piano ideologico-politico, il sentimento di fratellanza o fraternità che devono provare fra loro i cittadini di una stessa nazione. In questo caso si parla propriamente di solidarietà nazionale.
Nel contesto dei conflitti sociali che hanno caratterizzato la trasformazione in senso capitalistico delle economie occidentali, però, si è parlato anche di solidarietà di classe oppure di solidarietà di gruppo, sempre riferendosi a un appoggio, a un sostegno reciproco simile a quello che esiste (o meglio dovrebbe esistere) tra fratelli. Più recentemente si è affermato il concetto di solidarietà internazionale o universale, basato sull’idea della comune appartenenza all’umanità di tutti gli uomini, senza alcuna distinzione di razza, di cultura o di fede.
Da tali definizioni si evidenzia che la solidarietà si presenta sotto due aspetti complementari: quello di principio sociale e quello di virtù morale. Come principio sociale implica il riconoscimento della relazionalità e della interdipendenza come dimensioni intrinseche della persona e può essere incorporato nelle Costituzioni nazionali, nelle Carte e nei Trattati internazionali e tradotto istituzionalmente nelle politiche di solidarietà sociale o di welfare. In quanto virtù morale la solidarietà è un valore che deve ispirare l’agire reciproco dei cittadini, singoli o associati, specie nei confronti delle persone o dei gruppi in condizioni di disagio o di difficoltà.
Il principio di sussidiarietà è stato formulato in termini precisi nell’ambito della Dottrina sociale della Chiesa cattolica. Nella definizione proposta dal Compendio:
protegge le persone dagli abusi delle istanze sociali superiori e sollecita queste ultime ad aiutare i singoli individui e i corpi intermedi a sviluppare i loro compiti. Questo principio si impone perché ogni persona, famiglia e corpo intermedio ha qualcosa di originale da offrire alla comunità (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, 2004, p. 101).
Come si desume da questa formulazione, il principio di sussidiarietà si articola su tre dimensioni o livelli: a) a livello interpersonale e associativo indica la modalità con cui esercitare la solidarietà, che deve puntare alla promozione (empowerment) delle persone oggetto di aiuto, in modo che diventino capaci di offrire alla comunità le loro capacità, per quanto limitate possano essere (sussidiarietà laterale); b) a livello della relazione tra istituzioni pubbliche e società civile indica la modalità di intervento delle prime, che deve essere a sua volta di valorizzazione e non di sostituzione di quelle che la Costituzione italiana all’art. 2 definisce «formazioni sociali intermedie» (sussidiarietà orizzontale); c) a livello di relazioni intraistituzionali: le istituzioni più grandi (per es., lo Stato centrale) devono intervenire in appoggio a quelle minori (per es., i Comuni), senza sostituirsi a esse (sussidiarietà verticale).
Se soffermiamo la nostra attenzione sull’aspetto linguistico, i termini solidarietà e sussidiarietà sono sostanzialmente estranei al linguaggio dell’economia moderna e contemporanea. Lo conferma il fatto che sono assenti anche nella quasi totalità dei Dizionari di economia. Ciò non significa che i temi che implicano non siano presenti nella riflessione degli economisti italiani i quali, però, ne parlano usando spesso altri termini (per es., felicità pubblica, sviluppo, equità) e, nell’assoluta maggioranza, riducendo i tanti aspetti coinvolti nel problema della relazione tra solidarietà e sussidiarietà al tema del ruolo dello Stato in funzione della promozione del bene comune della società.
Cercheremo di seguito di presentare quelli che riteniamo i contributi più significativi seguendo un criterio cronologico che parte dalla scuola dell’economia civile.
Nel Settecento le capitali dell’Illuminismo italiano divennero centri importanti nell’elaborazione della nascente scienza economica. Tra queste spicca la Napoli di Carlo III e di Ferdinando IV di Borbone, dove si creò una vera e propria scuola economica che ebbe in Antonio Genovesi la sua figura di maggiore spicco. La denominazione della scuola come «scuola dell’Economia civile» dipende dal fatto che Genovesi scelse questa espressione sia come titolo del suo principale testo di economia, sia per la sua cattedra di insegnamento (Bruni, Zamagni 2004).
Per Genovesi la socialità non è un semplice fatto empiricamente riscontrabile ma un valore. Per natura, l’essere con gli altri (socialità) produce un sentimento positivo verso gli altri (solidarietà) che è complementare al desiderio del bene per sé.
L’uomo è un animale naturalmente socievole. È un dettato comune. Ma non ogni uomo crederà che non vi sia in terra niun animale che non sia socievole [...]. In che dunque diremo l’uomo essere più socievole che non sono gli altri? [è il] reciproco diritto di esser soccorsi, e conseguentemente una reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni (A. Genovesi, Lezioni di commercio o sia di economia civile [1765-1767], in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte moderna, t. 1, 1824, cap. 1, §§ XVI-XVII, p. 14).
Tale sentimento si esprime anzitutto attraverso il commercio, oggi diremmo lo scambio, che ha, nella sua impostazione, il valore e il senso della sussidiarietà. Scambiando con Alter, do a lui ciò che gli serve per realizzarsi (per essere felice) e viceversa. In quanto sussidiario e solidale, lo scambio economico (mercato) produce il bene comune o la felicità pubblica. L’istituzione sociale in cui il mercato è embedded (Polanyi 1944) è la società civile che, quindi, rappresenta il cuore e il centro della società. Lo Stato (Genovesi usa il termine «sovrano») è esso pure sussidiario, nel senso che deve aiutare lo sviluppo pieno della società civile, attraverso l’uso dei mezzi che gli sono propri.
Per gli economisti civili, quindi, l’economia (il mercato) è intrinsecamente etica perché aiuta a sviluppare le virtù private, trasformando il sentimento naturale di solidarietà in concreti orientamenti di azione.
Nella Napoli di quegli anni, però, scriveva di economia anche Ferdinando Galiani, autore ammirato dai principali illuministi francesi. Per Faucci «Galiani è un precursore dell’individualismo metodologico, che sarà fatto proprio dalla Scuola austriaca di Menger e Hayek» (2000, p. 64). Riguardo al tema dell’altruismo o della solidarietà scrive: «Tutti parlano a favore del bene del prossimo. Maledetto il prossimo! Il prossimo non esiste. Dite quel che vi conviene. Oppure tacete» (F. Galiani, Dialogues sur le commerce des bleds, 1770; trad. it. 1958, p. 9).
Un’altra capitale è Milano, che contribuisce allo sviluppo del pensiero economico soprattutto con i lavori di Pietro Verri e Cesare Beccaria. Entrambi condividono, prima di Jeremy Bentham, l’idea utilitaristica della necessaria convergenza tra l’interesse individuale bene inteso e l’interesse degli altri, che sta alla base della metafora smithiana della ‘mano invisibile’ e che rappresenta il fondamento del cosiddetto liberismo economico, cioè dell’idea che sia il mercato a realizzare il maggior benessere possibile per la maggioranza dei cittadini, a prescindere dall’intervento dello Stato.
Da questa idea dell’automatica convergenza prende le distanze Giammaria Ortes, monaco camaldolese di Venezia che la critica ha valutato ora come geniale precursore ora come autore stravagante. Ortes condivide l’idea che il motore dell’economia sia l’egoismo (amore di sé), ma sostiene che esso produce inevitabilmente diseguaglianza e scarsità perché «la copia de’ beni in alcuni [è] sempre eguale alla mancanza di essi in altri» (G. Ortes, Della economia nazionale [1774], in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte moderna, t. 21, 1804, pp. 24-25). Per lui, quindi, la solidarietà è impossibile e i richiami alla giustizia distributiva servono per migliorare la propria situazione o quella delle persone amiche, senza una vera preoccupazione per gli altri.
Dopo il 1800 la scienza economica italiana registrò una caduta di livello che la portò a subire in modo molto evidente l’influenza degli autori dell’economia classica la quale in quegli stessi anni in Inghilterra e in Francia stava raggiungendo la piena maturità. D’altra parte anche sul piano empirico in Italia si guarda con attenzione e crescente preoccupazione alla rivoluzione industriale che si sta realizzando in Inghilterra e in altri Paesi dell’Europa occidentale e alla connessa esplosione della questione sociale, interrogandosi sugli effetti che l’industrializzazione potrebbe avere nel nostro Paese.
Tra gli autori di questo periodo possiamo ricordare Gian Domenico Romagnosi, che recupera la tradizione giuridico-economica italiana, aggiungendovi Adam Smith «per la parte meccanica dell’economia». Secondo Cattaneo (Delle dottrine di Romagnosi, 1836, in Id., Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, 1960, p. 58) la sua è una posizione di conciliazione, più che di sintesi. Da una parte, infatti, sembra aderire all’idea che il mercato è capace di funzionare da sé perché interesse individuale e interesse collettivo di fatto coincidono, dall’altra mette l’accento sulla necessità dello Stato di imbrigliare e incanalare gli interessi individuali per metterli al servizio del raggiungimento della (maggiore) felicità collettiva, negando la coincidenza.
Anche il giovane Cavour si dedicò allo studio delle opere di Smith, David Ricardo e Jean-Baptiste Say, «dimostrando una impressionante acutezza» (Faucci 2000, p. 161). Interessante la sua posizione sulla carità legale, cioè sull’assistenza pubblica ai poveri. Cavour, analizzando la legislazione inglese, critica la vecchia Poor law perché rendeva appetibile la condizione di assistito rispetto a quella di lavoratore e approva la riforma inglese del 1834, basata sul principio della less eligibility, che impedisce la possibilità che un assistito goda di un trattamento migliore del più povero lavoratore. Per lui, infatti, le cattive condizioni sociali, di regola, dipendono non dallo sviluppo del mercato, ma dai vincoli istituzionali che tale sviluppo frenano o impediscono. Queste idee erano totalmente condivise da Cattaneo che, criticando aspramente il sistema della Poor law, riteneva che per ridurre l’indigenza fosse necessario ripristinare le regole del mercato, abolire i vincoli all’emigrazione, moltiplicare le casse di risparmio e di assicurazione (C. Cattaneo, Della carità legale [1836], in Id., Scritti economici, a cura di A. Bertolino, 1956).
Secondo l’economista politico Duccio Cavalieri, la variegata tradizione italiana
ha reinterpretato in senso umanitario e in modo sostanzialmente concorde [...] la vecchia concezione crematistica dell’economia, operando una significativa torsione semantica, ossia precisando che il vero oggetto di studio dell’economia non è come acquisire la ricchezza, ma come utilizzarla per conseguire scopi di interesse sociale e affermare i valori di solidarietà ed equità che regolano la convivenza civile (Il Novecento di Riccardo Faucci, in http://www.dse. unifi.it/cavalieri/Articles/Recensione%20libro%20Faucci.pdf, p. 4, 14 giugno 2012).
A questa maggioranza di economisti ancora interessati a suggerire i modi migliori per usare la ricchezza in modo equo e solidale egli contrappone una piccola minoranza di studiosi poco sensibili al tema, come Francesco Ferrara, l’economista italiano che Faucci considera la figura dominante della seconda metà dell’Ottocento, qualificato da Cavalieri come «autore assolutamente impermeabile a qualunque sentimento di solidarietà sociale» (p. 4).
Nel contesto del nuovo Stato-nazione nato nel 1861, il dibattito più significativo riguardò il ruolo dello Stato in economia. Nell’Italia degli anni Settanta dell’Ottocento si formò un gruppo di economisti molto attivo, definito da Ferrara dei «germanisti economici» (Il germanismo economico in Italia [1874], in Id., Opere complete, 10° vol., Saggi, rassegne, memorie economiche e finanziarie, a cura di F. Caffè, 1972) perché i suoi componenti si rifacevano alla scuola storicistica tedesca – sostenitrice del metodo storico nello studio delle scienze economiche – o «gruppo lombardo-veneto», per la provenienza geografica della maggioranza dei suoi componenti. Ne facevano parte Luigi Cossa, Vito Cusumano, Fedele Lampertico, Angelo Messedaglia, Luigi Luzzatti, Giuseppe Toniolo, Emilio Nazzani, Ugo Rabbeno e Antonio Scialoja.
Il gruppo era critico riguardo al modello classico del laissez-faire e sosteneva la necessità dell’intervento pubblico nell’economia soprattutto nei campi dell’assistenza, della previdenza e della sicurezza sociale a causa dei problemi derivanti dallo sviluppo industriale. La loro critica non metteva in discussione le leggi economiche formulate dai classici, bensì l’opportunità o meno di applicarle, che dipendeva dalla valutazione delle condizioni particolari del Paese di riferimento. Sul piano della politica economica queste posizioni portarono a chiedere allo Stato, da una parte, politiche di tipo protezionistico, dall’altra, forme di regolamentazione delle condizioni di lavoro dei bambini e delle donne nelle fabbriche, nonché il riconoscimento esplicito dell’importanza dei sindacati operai.
Nello scritto sul germanismo economico in Italia, Ferrara accusava i «professori tedeschi» – e quindi i loro «ripetitori» italiani – di realismo ingenuo perché immaginavano lo Stato come un ente reale, mentre il termine designa per lui un’astrazione che trova un referente operativo nel governo, il quale a sua volta esprime la volontà e gli interessi dell’élite al momento al potere, anticipando così un tema poi ripreso e sviluppato da Vilfredo Pareto. Ferrara non negava in assoluto la possibilità che l’azione collettiva dello Stato potesse sostituirsi a quella degli individui e delle società subalterne, ma riteneva che si dovesse definire la formula esatta per la legittimazione di tale sostituzione, in grado di soddisfare tre condizioni: l’interesse generale, la necessità, il vantaggio che l’azione dello Stato in un determinato ambito o su uno specifico problema avesse un’efficacia maggiore di quella dei soggetti privati.
A Ferrara replicò, tra gli altri, Luzzatti (1874), sostenendo che il gruppo di cui faceva parte intendeva prendere le distanze sia dall’individualismo della scuola classica sia dallo statalismo, in favore di una concezione storicistica che riconosce l’opportunità di una restrizione o di un allargamento dell’intervento dello Stato a seconda delle situazioni e delle condizioni della società. Ciò che viene ritenuta inaccettabile è l’idea, sostenuta, secondo Luzzatti, dai fautori del diritto naturale e dalla scuola degli economisti smithiani, dello Stato come «male necessario», la cui azione deve essere ridotta e ristretta il più possibile. Per la nuova scuola tedesca lo Stato, invece, è la più grande istituzione morale ed educativa inventata dalla razza umana. Passando dai principi alla valutazione dell’attualità, Luzzati non nega il progresso delle condizioni economiche dovuto allo sviluppo industriale, ma ne sottolinea anche i gravi limiti, da cui derivano le crescenti difficoltà delle classi inferiori e la conseguente lotta fra le classi sociali. In un contesto del genere l’opera della concordia va affidata allo Stato, che deve subito attuare un robusto programma di riforme. Per Luzzatti, però, l’intervento dello Stato deve essere «suppletivo», serve, cioè, soltanto per integrare l’attività dei cittadini, nei casi in cui questa risultasse carente, e si legittima solo in casi di assoluta necessità.
Ma l’Economia politica […] non ha mai dimostrato né sostenuto che in nessun caso l’azione dello Stato non tragga dalla necessità la sua giustificazione. Lo Stato è un esercito di riserva e deve, se possibile, nascondersi; ma quante volte la riserva non passa in prima linea per decidere della vittoria? (in Mastromatteo 2008, p. 13).
Faccio notare che anche terminologicamente la frase citata rappresenta un anticipo di quello che sarà definito da Pio XI nella Enciclica Quadragesimo anno del 1931 «principio di sussidiarietà».
Nel gennaio del 1875 Lampertico, Cossa, Luzzatti e Scialoja convocarono un congresso a Milano per formalizzare la propria posizione ideologica e politica e per costituire una propria associazione, dopo lo scioglimento, nell’anno precedente, della Società di economia politica e la costituzione della Società Adamo Smith, che raggruppava i ferrariani. Una buona sintesi delle posizioni emerse in quella sede è rappresentata dal discorso pronunciato nel 1875, all’indomani del congresso, da Fortunato Novello davanti ai colleghi dell’ateneo di Venezia, dove si può trovare un’altra delle prime formulazioni del principio di sussidiarietà. Novello inizia la sua relazione criticando radicalmente la concezione antropologica dell’economia classica che considera l’uomo come un essere solitario, perfettamente ed esclusivamente razionale, orientato a perseguire solo il proprio piacere. Bisogna che l’economia impari a considerare l’uomo non solamente nella sua individualità, ma anche nelle varie forme in cui appare associato, dalla unità cellulare della famiglia alle associazioni più vaste, come le diverse associazioni, che Novello definisce «consorzi», il Comune e lo Stato. Per lui la «funzione economica della società» consiste nell’integrare
la deficiente opera dell’uomo, perché la legge del minimo mezzo si attui nella produzione, nella circolazione e nel consumo de’ beni [...]. Ove al pieno avverarsi della legge economica così intesa basti l’opera individuale o quella de’ volontarii consorzii, l’ingerimento dello Stato, cioè della naturale consociazione, torna inutile, anzi dannosa; perché viene a turbare quell’ordine d’armonie fra gli umani interessi, ch’è appunto fine supremo della legge economica di attuare. Ma quando tali interessi si mostrino tra loro cozzanti, e l’opera individuale o de’ consorzii torni insufficiente, ecco la società intera che viene in aiuto, e ristabilisce le armonie perturbate [...]. Per tal modo la funzione economica dello Stato, come trova il principio generale e costante che la crea, ne scorge anche determinati i limiti, che variano col mutare de’ tempi, de’ luoghi e delle circostanze (F. Novello, Il Congresso di Milano e il nuovo indirizzo degli studi economici in Italia. Discorso letto all’Ateneo di Venezia l’11.2.1875, 1875, pp. 37-41).
Questa visione dell’economia come scienza sociale fu completata da Giuseppe Toniolo (Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, 1873), che introdusse nel fenomeno economico il momento etico e religioso. Per lui, infatti, l’economia è scienza dei mezzi, non dei fini, per cui l’economista non può fare a meno di riferirsi a giudizi di valore che trova al di fuori dell’economia, per es., nel caso di Toniolo, nella dottrina cattolica. Di Toniolo va ricordata, in particolare, l’influenza che il suo pensiero esercitò nell’elaborazione della enciclica Rerum novarum (1891) di papa Leone XIII che rappresenta il documento fondativo della dottrina sociale della Chiesa cattolica e il punto di riferimento imprescindibile per i cattolici italiani sulle grandi questioni economiche e sociali.
Per quanto gli storicisti siano usciti vincitori dalla disputa sul ruolo dello Stato sul piano empirico, anche grazie al loro diretto impegno in ruoli istituzionali importanti, sul piano teorico il loro contributo allo sviluppo del dibattito scientifico, secondo Giuseppe Mastromatteo (2008), risultò molto modesto se non addirittura irrilevante.
Sul piano scientifico, la fine del 19° sec. vide una forte reazione all’indirizzo storicistico e sociologizzante con il prevalere del marginalismo, cioè di quell’approccio scientifico che pone alla propria base i concetti di scelta e di equilibrio e che considera razionale l’agire finalizzato alla massimizzazione dell’utile o del profitto. Nell’ambito di questo paradigma i temi della solidarietà e della sussidiarietà non trovarono più spazi significativi. Il marginalismo italiano, però, si caratterizza, rispetto a quello internazionale, per un maggiore realismo. Molti economisti marginalisti italiani, infatti, si dedicarono alla scienza delle finanze, che consentiva la prosecuzione della riflessione sulla natura dello Stato e sul rapporto tra economia e politica. Le figure di maggior spicco di questo indirizzo sono Maffeo Pantaleoni, Pareto, Enrico Barone e Antonio De Viti De Marco.
Pantaleoni (Principii di economia pura, 1931) sostiene che l’edonismo è la base della condotta umana, non solo a livello individuale, ma anche di specie (per es., la nazione) e che l’altruismo è interamente riducibile a forme di egoismo (di specie). Per lui le idee di solidarietà e di mutualità contrastano con quelle di efficienza e di progresso e la crescita dell’interventismo statale rappresenta un fattore di squilibrio che favorisce forme di redistribuzione parassitaria dei redditi. Quello che viene generalmente definito «interesse pubblico», infatti, per Pantaleoni non è altro che l’interesse privato dei soggetti «che sono rivestiti della rappresentanza dell’interesse pubblico» (La caduta della Società generale di credito mobiliare, in Id., Studi storici di economia, 1936, p. 391). L’ idea stessa di giustizia sociale è definita da Pantaleoni «tecnicamente, ossia logicamente errata» (L’atto economico, in Id., Erotemi di economia, 1° vol., 1925, p. 124). Pantaleoni polemizzò duramente con il socialismo e, più in generale, con i movimenti favorevoli alla tutela dei ceti deboli che consideravano negativamente la libera concorrenza e la selezione sociale. Per Pareto (1966), il concetto di solidarietà rientra nelle «derivazioni», cioè nelle giustificazioni ideologiche con cui le élites al potere motivano scelte che sono sempre e comunque nell’interesse proprio o dei gruppi che esse tutelano e rappresentano. In questo senso è la sociologia che deve studiare questi temi perché si tratta di azioni non logiche. All’economia compete lo studio delle azioni logiche. Tra queste rientra la determinazione del «massimo di ofelimità per una collettività» (V. Pareto, Corso di economia politica [1896-97], in Id., Scritti sociologici, a cura di G. Busino, 1966, pp. 391-92) che è la condizione di equilibrio conseguita in condizioni di concorrenza perfetta. Per Pareto questa situazione di «ottimo» prescinde da qualsiasi giudizio sull’equità della distribuzione e concede pochissimo spazio a chi intenda introdurre riforme per modificare la distribuzione in base a criteri di equità/solidarietà.
Barone, dal canto suo, scrive che la crescita dell’ingerenza dello Stato nella vita economica e «l’affogamento dell’individuo nell’ente collettivo» determinato dal conflitto mondiale non smentisce la scienza economica, che sostiene e dimostra come in circostanze normali
le funzioni dello Stato debbano esser ridotte a quelle puramente necessarie, a fine di lasciare il più libero svolgimento all’iniziativa dei singoli, la quale – guidata dal proprio interesse – riesce a realizzare un equilibrio, che dà luogo al massimo benessere collettivo (Principii di economia politica [1908], 3a rist. 1915, p. 677).
A conclusioni decisamente diverse arriva la riflessione sul ruolo dello Stato dell’altro grande economista marginalista italiano di fine Ottocento primi Novecento: De Viti De Marco, professore di scienza delle finanze. Egli introduce una distinzione tra bisogni privati, oggetto dell’economia politica, e bisogni collettivi, oggetto dell’economia pubblica e della scienza delle finanze (Principi di economia finanziaria, 1934). I bisogni collettivi, pur avendo origine negli individui, sono diversi da quelli individuali perché producono contrasti di interessi tra i singoli. Il superamento di tali contrasti richiede la mediazione dello Stato che può essere teoricamente di due tipi: Stato assoluto o monopolistico, in cui una casta o classe fiscalmente immune produce beni collettivi con il criterio del proprio vantaggio, o Stato popolare o cooperativo, in cui tutti i cittadini pagano le imposte e godono dei benefici dei servizi pubblici.
Sempre nell’ambito del marginalismo, ma con caratteristiche del tutto peculiari va collocato il contributo di Luigi Einaudi, l’economista che ha esercitato in assoluto la maggior influenza sull’opinione pubblica italiana. Einaudi, più vicino ad Alfred Marshall che a Pareto, si differenzia dalla maggior parte dei marginalisti per l’attenzione e l’interesse mostrato nel suo lavoro al nesso tra economia, morale e istituzioni. Pur essendo liberale in politica e liberista in economia, Einaudi arriva a condividere la teoria di De Viti De Marco sullo «Stato fattore della produzione», cioè a sostenere il ruolo dello Stato come esattore e anche come produttore di servizi o beni collettivi in quanto «sussidiario», cioè capace di realizzare «l’elevazione massima della collettività» (L. Einaudi, Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta, in Id., Saggi sul risparmio e l’imposta, 1965, p. 191) o, come si direbbe oggi, l’empowerment dei cittadini, delle famiglie e delle imprese.
Un momento del tutto peculiare nella storia del pensiero economico italiano è rappresentato dal dibattito sul corporativismo. Secondo Cavalieri (1994) tale confronto si articolò in tre fasi distinte. Nella prima la discussione si concentrò su temi ideologici e su aspetti di strategia sindacale e fu caratterizzata dall’assenza di contributi teorici di qualche valore. Seguì una seconda fase in cui si registrano alcuni tentativi di mettere in discussione le stesse premesse antropologiche di base della scienza economica, per fondare una «nuova» scienza economica. Nelle intenzioni dei suoi promotori, questa nuova scienza avrebbe dovuto sostituire l’idea dell’homo oeconomicus orientato a perseguire e a massimizzare il proprio utile individuale, con il criterio dell’affectio societatis, espressione che rimanda direttamente al termine solidarietà, e che suppone un attore capace di ordinare i fini del proprio agire in una gerarchia che prevede la subordinazione dell’interesse particolare a quello generale o collettivo. Secondo Cavalieri questo tentativo abortì rapidamente e lasciò il passo a una terza fase, avviatasi all’indomani della grande crisi del 1929, caratterizzata dalla ripresa dei vecchi argomenti con cui gli storicisti avevano cercato di legittimare il maggiore interventismo economico dello Stato e dall’ingresso in campo degli economisti liberali, intenzionati a evidenziare l’inconsistenza teorica degli avversari e a discutere nel merito sull’opportunità degli interventi pubblici.
La storiografia recente ha anche evidenziato la complessità del fenomeno corporativo, al cui interno hanno convissuto orientamenti molto differenziati, al punto che alcuni storici tendono oggi a parlare di corporativismi piuttosto che di corporativismo.
L’aspetto che qui ci interessa sottolineare è che in molti degli orientamenti del corporativismo è presente una critica della tradizione marginalista basata sul paradigma dell’uomo economico. Già sul finire degli anni Venti, per es., Filippo Carli, nel suo manuale di economia politica, aveva indicato il soggetto puro della nuova scienza economica in un homo corporativus, capace di compiere – con la massima libertà, utilità e razionalità – un calcolo edonistico che fosse al tempo stesso «sintetico», cioè in linea con l’interesse nazionale, e «dinamico», nel senso di attento alle esigenze dello sviluppo (Teoria generale dell’economia politica nazionale, 1931, p. 82).
Per Gino Arias – uno studioso di formazione storicistica – l’economia corporativa era una scienza morale e sociale che centrava l’attenzione sulla collettività nazionale e che non aveva nulla da spartire con una meccanica razionale del piacere e del dolore, ritenuta un passatempo per i «dottrinari» (L’economia pura del corporativismo [1930-31], cit. in Cavalieri 1994, p. 24).
Ugo Spirito, filosofo allievo di Giovanni Gentile, arrivò a sostenere la tesi di un’identità organica di individuo e Stato, da cui conseguiva, a suo avviso, una coincidenza dei fini privati e di quelli pubblici (Il corporativismo come negazione dell’economia, «Nuovi studi», maggio-giugno 1934). Assieme ad alcuni economisti e giuristi, raccolti attorno alla rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica», egli arrivò ad affermare una concezione dei rapporti tra etica, politica ed economia che rifiutava l’approccio utilitaristico fino al punto di negare la legittimità della proprietà individuale.
Per legittimare l’idea che la dottrina corporativa costituisse una svolta teorica rivoluzionaria rispetto alla visione utilitaristica dell’economia liberale, i corporativisti proposero anche una rilettura della tradizione italiana di studi economici rivendicando la continuità tra le proprie posizioni e il filone di pensiero di matrice cattolico-moderata, messo in contrapposizione al filone di pensiero liberale e massonico. Questa lettura è stata ripresa da Riccardo Faucci (1990) che ha interpretato l’esperienza corporativa degli anni Trenta come la conclusione della parabola dell’indirizzo storicista e antipuristico che in modi diversi ha riproposto il collegamento tra economia, morale e diritto. A questo approccio, Faucci ha contrapposto l’indirizzo soggettivista e utilitarista, nel quale andrebbe identificata una «tradizione italiana più alta» che collega il progresso sociale al libero gioco degli interessi individuali, piuttosto che al recupero programmatico di certi valori morali e civili.
Cavalieri contesta questa lettura e ritiene che in entrambi i filoni di pensiero sia presente una forte tensione etica. Ciò che li differenzia è la diversa idea di economia, in un caso più basata sull’osservazione storica e statistica, nell’altro più orientata verso la teorizzazione e il ragionamento ipotetico-deduttivo. Il corporativismo, quindi, più modestamente, sul piano teorico sarebbe servito solo a confutare alcune delle posizioni teoriche più anacronistiche degli economisti liberali e a rifiutare l’idea di una scienza economica immune da premesse di valore. A entrambi gli studiosi citati sembra, però, sfuggire la forte discontinuità tra l’impostazione dell’economia civile e quella del corporativismo, almeno nelle formulazioni di Carli, Arias e Spirito. In questi autori, infatti, il concetto di sussidiarietà viene ‘rovesciato’, nel senso che l’agire dell’attore economico (singolo lavoratore o impresa) viene valutato positivamente nella misura in cui aiuta lo Stato a conseguire le sue finalità di sviluppo economico e di ordine sociale, mentre nel caso contrario è sanzionabile e legittima l’intervento correttivo (e costrittivo) dello Stato medesimo. In sintesi, il valore morale della solidarietà nel corporativismo viene riferito allo Stato-nazione come istituzione e non alle altre persone che compongono la società nazionale, per cui scompare l’idea che debba essere lo Stato a mettersi al servizio degli attori per favorire la reciproca promozione.
Tra la fine della guerra e il 1948, quando entrò in vigore la nuova Costituzione repubblicana, si ebbe un fiorire di studi e di progetti per la riorganizzazione economica del Paese che trovarono espressione, per la prima volta, nelle riviste e nei programmi dei nuovi partiti politici. Per quanto riguarda i cattolici, va segnalato il testo redatto nel 1945 con il titolo Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli, al quale collaborarono Elio Vanoni, Francesco Vito, Pasquale Saraceno, Paolo Emilio Taviani e altri.
Le basi teoriche del documento sono incentrate su tre principi: il principio di individualità; il principio di solidarietà; il principio di sussidiarietà. Queste idee influenzarono in misura significativa la Carta costituzionale che caratterizza l’economia italiana come un’economia di mercato
con numerose e qualificate integrazioni, rappresentate dal riferimento alla cooperazione, al coordinamento delle attività economiche pubbliche e private, all’espropriazione per cause di pubblica utilità, e soprattutto alla funzione sociale della proprietà (Faucci 2000, p. 311).
In quegli stessi anni, che videro la collaborazione al governo di tutti i partiti antifascisti, il Partito comunista proponeva un programma di democrazia economica capace di creare un’alleanza tra le forze produttive, rompendo i privilegi economici goduti dalle posizioni di rendita. Era, però, anche contrario a quella che Palmiro Togliatti definiva «la politica della distribuzione del pane gratis» (I comunisti e l’economia italiana 1944-1974, 1975, p. 69).
Fino agli anni Cinquanta il riferimento alle politiche keynesiane fu molto limitato e continuò a prevalere nei confronti dell’economista di Cambridge l’atteggiamento fortemente critico che aveva caratterizzato la sua ricezione in Italia durante il periodo fascista anche da parte di economisti di peso, come Einaudi. Le sue teorie cominciarono a diventare un punto di riferimento nel decennio successivo, attraverso i dibattiti sulla disoccupazione e sulla programmazione.
Contribuirono al rilancio prima il Piano del lavoro, proposto dalla CGIL nel 1949, poi lo schema Vanoni (1955-64), dal nome dell’allora ministro del Bilancio, che si proponeva come obiettivo principale il raggiungimento della piena occupazione mantenendo il livello del saggio di crescita. È solo negli anni Sessanta che il tema della programmazione diventa centrale e il termine assume una connotazione di novità, perché essa appare finalizzata a coniugare lo sviluppo economico con obiettivi di tipo sociale (Barucci 1972). Gli economisti italiani hanno affrontato il tema della programmazione attraverso approcci teorici diversi. Uno è quello macroeconomicistico, cui si riferiscono, tra gli altri, Siro Lombardini, Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini. Si basa essenzialmente su due presupposti: una certa visione del mercato come realtà concorrenziale imperfetta e l’idea che il rapporto tra politica di piano e mercato possa essere «deideologizzato» e valutato in relazione a una visione scientifica e obiettiva, offerta dall’analisi macroeconomica.
Molti degli studiosi che lo condividono fanno riferimento anche ai principi dell’economia del benessere, il cui principale divulgatore italiano è Federico Caffè (Saggi sulla moderna ‘economia del benessere’, 1956). Caffè riteneva possibile elaborare una politica economica «razionale», cioè formulare un modello macroeconomico che, dati gli input ricavati dalla contabilità nazionale, potesse consentire di spiegare gli effetti di opzioni politico-economiche alternative le quali, rese note alla classe politica, avrebbero consentito a quest’ultima di assumere decisioni efficienti e condivise (F. Caffè, Politica economica. Sistematica e tecniche di analisi, 1966).
All’approccio istituzionalista-industrialista è riconducibile il pensiero di Saraceno, economista e politico democristiano, che però ha mostrato nei confronti del pensiero sociale cristiano, un certo distacco. Per Saraceno lo strumento fondamentale della programmazione è la politica dei redditi. Egli ritiene, cioè, che l’intervento dello Stato sia necessario per contenere un certo tipo di consumi privati e di investimenti speculativi o poco produttivi, a favore della creazione di beni pubblici giudicati socialmente più utili e maggiormente funzionali sia a mantenere un forte tasso di sviluppo, sia a ridurre gli squilibri strutturali del sistema. Tra gli economisti cattolici, è Francesco Vito (Iniziativa personale, sviluppo economico e programmazione, «Rivista internazionale di scienze sociali», 1965, 73, pp. 13-14) quello che più esplicitamente di altri, per giustificare l’intervento dello Stato nell’economia si richiama alla dottrina sociale della Chiesa cattolica. Vito si rifà al principio di sussidiarietà che viene messo in stretta relazione con la categoria del bene comune, la cui realizzazione è il fine dell’intervento pubblico in generale. Il concetto di bene comune non è riducibile al benessere economico, oggetto della politica economica proposta da Caffè, perché comprende giudizi di carattere economico ed extraeconomico, né va considerato come una sorta di dogma di fede. Per lui, il bene comune deve ispirare la formulazione di un giudizio di opportunità sull’intervento pubblico e non ha un carattere assoluto, ma è relativo alle condizioni storiche di un certo Paese in un dato momento e, più precisamente, dipende dalle capacità di governance dell’amministrazione pubblica.
Fino agli anni Settanta la linea della sussidiarietà sostenuta da Vito non ebbe grande fortuna né sul piano della teoria né su quello della politica economica pratica. Più recentemente, anche sulla spinta degli orientamenti elaborati nel processo di integrazione dell’Europa, è riemersa con forza, fino a entrare esplicitamente tra i principi costituzionali con la riforma del Titolo V del 2001.
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