Abstract
Il contratto di somministrazione ha trovato solo con il Codice civile del 1942 una regolamentazione organica. Oggi l’interpretazione sistematica della nozione contenuta all’art. 1559 c.c. e degli artt. 1570 e 1677 c.c. ha portato a sottrarre rilevanza tipologica all’oggetto delle prestazioni, che potrebbe comprendere non solo beni (per consumo o per uso) ma anche opere o servizi. Determinante invece per la causa e il tipo della somministrazione è la presenza di un interesse duraturo che si manifesta in una pluralità di momenti, la cui soddisfazione richiede l’esecuzione di una pluralità di prestazioni periodiche o continuative. La piena soddisfazione di ciascuna manifestazione dota la singola prestazione di effetti solutori e, quindi, di autonomia. La dialettica tra unità contrattuale e pluralità di prestazioni autonome, fondata sull’interesse duraturo sottostante al contratto, è alla base delle particolari norme che il Codice civile detta in ordine alla determinazione delle prestazioni, alla risoluzione, al recesso e all’eccezione d’inadempimento.
L’art. 1559 c.c., secondo cui con il contratto di somministrazione una parte si obbliga verso corrispettivo di un prezzo a eseguire a favore dell’altra prestazioni periodiche o continuative di cose, offre per la prima volta una nozione normativa della fattispecie, frutto di una evoluzione storica che, nel silenzio del diritto positivo, aveva interessato figure non sempre omogenee. Tale nozione è stata, peraltro, sottoposta a vaglio critico ed ampliata, quanto all’oggetto, anche ai servizi.
I tratti comuni a tutte queste figure sono stati sintetizzati nella soddisfazione di necessità che si ripresentano periodicamente nel tempo, rispetto alle quali non è configurabile una sola tipologia di prestazioni, bensì diverse. Si è così acquisita progressiva consapevolezza, negli studi dedicati alla somministrazione, della peculiarità della questione della natura della prestazione.
I margini generici dell’area della definizione contenuta nell’art. 1559 c.c. hanno condotto la dottrina e la giurisprudenza prevalenti a includere all’interno del tipo la somministrazione di consumo, di uso e di opere e servizi, con prestazioni di vario genere, che possono essere ricondotte a quelle proprie di diversi contratti tipici.
Quest’interpretazione appare rafforzata dall’art. 1570 c.c., che rinvia alle regole proprie dei contratti cui corrispondono le singole prestazioni, sempre che esse non siano incompatibili con le disposizioni dedicate alla somministrazione.
Nonostante la diversità delle prestazioni, dunque, il legislatore si orienta per l’unicità del tipo, i cui connotati peculiari prescindono dalla tipologia di prestazioni. Essi si identificano piuttosto con lo scambio di una pluralità di prestazioni periodiche o continuative, che corrispondono a necessità analoghe, le cui singole manifestazioni trovano soddisfazione attraverso l’adempimento delle diverse prestazioni.
Le disposizioni del Codice civile rispondono, infatti, all’esigenza di regolare in una cornice contrattuale unitaria, quali manifestazioni di un unico rapporto obbligatorio, una pluralità di prestazioni che si succedono nel tempo, secondo una ripetizione periodica o continuativa, in conformità con il fabbisogno del somministrato.
La piena soddisfazione di ciascuna manifestazione del bisogno dota di effetti solutori ciascuna delle prestazioni, potendosi dunque affermare che il contratto si caratterizza per la presenza di un rapporto obbligatorio ad esecuzione duratura i cui effetti solutori si protraggono nel tempo.
A sua volta, l’effetto solutorio prodotto dalle singole prestazioni singole attribuisce a ciascuna di esse una certa autonomia rispetto alle altre, passate e future, in quanto la singola prestazione non ha bisogno di un completamento tramite le altre prestazioni per produrre l’effetto solutorio cui è destinata.
Intorno a questa dialettica unità contrattuale/pluralità di prestazioni e al rapporto tra tutte le prestazioni e l’autonomia di ciascuna ruota la struttura della somministrazione. Tale struttura si completa con l’elemento, variabile e tipologicamente non rilevante, della natura concreta della prestazione, che volutamente il legislatore ha lasciato fuori dall’area collocata sotto la rubrica “Della Somministrazione” e richiamato attraverso il rinvio alle discipline proprie delle prestazioni, secondo i rispettivi contenuto e natura.
Questa caratteristica causale e tipologica consente di individuare il confine tra la somministrazione e altre figure contrattuali apparentemente affini e, in particolare, la vendita a consegne ripartite. La differenza si fonda sui diversi interessi sottostanti ai due schemi contrattuali. Ciascuno realizza una funzione diversa, cui conseguentemente rispondono due strutture negoziali diverse. Nella vendita a consegne ripartite il compratore ha interesse a ricevere una certa quantità di beni nella sua totalità e solo la consegna, per motivi estranei al fabbisogno in sé costituito, si realizza in varie rate. Ogni consegna costituisce una parte di quell’intero e solo con la consegna della totalità l’obbligazione si ritiene adempiuta e l’effetto solutorio prodotto. Nella somministrazione, invece, il somministrato ha un fabbisogno che si ripete nel tempo e, quando si presenta nella sua specifica manifestazione, esso viene soddisfatto integralmente. Perciò l’effetto solutorio, in questo caso, è duraturo, come duraturo è lo scandirsi delle manifestazioni dell’interesse durevole e delle rispettive prestazioni satisfattive.
Ci troviamo di fronte a un contratto autonomo di durata, consensuale, non formale, sinallagmatico e commutativo, dal quale emergono fondamentalmente due obbligazioni, una a carico del somministrante, che consiste in un dare beni (cose o servizi) e ha il carattere della durata, e l’altra a carico del somministrato, anch’essa di dare, in particolare di pagare il corrispettivo, di norma in denaro. L’effetto del tempo si ripercuote anche sull’articolazione e sullo svolgimento della relazione bilaterale. L’interdipendenza o reciprocità caratteristica del rapporto obbligatorio si manifesta in una pluralità di momenti, che sono, nello stesso tempo, di esecuzione e di adempimento solutorio di entrambe le obbligazioni.
Il rapporto sinallagmatico opera, cioè, non solo in relazione all’obbligazione duratura del somministrante e all’obbligazione di pagare il corrispettivo da parte del somministrato, ma si manifesta e concretizza anche nel rapporto che si instaura tra le singole prestazioni del somministrante e le rispettive controprestazioni del somministrato.
Per quanto riguarda la somministrazione di cose, questa può essere di consumo, quando al somministrato viene trasferita la proprietà dei beni, o d’uso, quando ne viene concesso unicamente il godimento.
Spesso la somministrazione è stata definita dalla dottrina come un contratto d’impresa. In effetti, l’obbligazione di consegnare dei beni ripetutamente a scadenze periodiche o continuative implica la capacità del somministrante di produrre o reperire un certo flusso di beni, il che si riconduce spesso ad un’attività di tipo commerciale. Tuttavia si tratta di una circostanza naturalmente collegata alle peculiarità dello schema negoziale, non un requisito tipologico normativo. Nel caso in cui il somministrante rientri nella categoria di ‘professionista’, come definita dal Codice del consumo, e il somministrato in quella di ‘consumatore’ trovano applicazione anche le norme a tutela del consumatore.
Si deve anche ricordare che gran parte dei contratti di somministrazione (p.e. in materia di energia elettrica o gas) è oggi soggetta ad una normativa secondaria molto dettagliata, emanata da autorità indipendenti di regolazione di settore.
Lo schema contrattuale della somministrazione prevede una pluralità di prestazioni ripetute periodicamente o continuativamente. Questa caratteristica della ripetizione è strettamente connessa con il profilo causale del contratto, che risponde alle peculiari caratteristiche dell’interesse delle parti contraenti, diretto a soddisfare una necessità che si reitera nel tempo, in modo periodico o continuo, con la peculiarità che, ogni volta che si esegue una prestazione, la manifestazione del fabbisogno trova soddisfazione.
In base al modo in cui il fabbisogno del somministrato si manifesta nel tempo, le prestazioni possono essere di due tipi: continuative, se tale necessità si presenta in modo continuato, ininterrottamente o a intervalli di tempo così ravvicinati da non avere la sicurezza della soddisfazione se non con una continua disponibilità del bene; o periodiche, che implicano tanti atti autonomi di esecuzione, ripetuti nel tempo a intervalli fissi o variabili, quante siano le manifestazioni reiterate del fabbisogno del somministrato.
Può accadere (e ciò sarà oggetto, di norma, di espressa previsione mediante una clausola contrattuale) che il flusso delle prestazioni debba essere temporaneamente sospeso per ragioni di forza maggiore: in tal caso non ci sarà responsabilità per inadempimento del somministrante, ma questi – in base al principio di buona fede – sarà obbligato a dare previa informazione al somministrato, nel più breve tempo possibile, della prossima sospensione del servizio (Cass., sez. III, 14.6.2016, n. 12148).
L’entità della prestazione del somministrante è oggetto di espressa regolamentazione positiva, costituendo una peculiarità di questa figura contrattuale, legata alla sua particolare funzione. L’art. 1560 c.c., al riguardo, attribuisce rilevanza, in primo luogo, alla volontà dei contraenti, che sono anche liberi di affidare tale determinazione sia nell’an che nel quantum alla discrezionalità dell’avente diritto alla somministrazione (somministrazione a piacere o a richiesta). Inoltre si stabilisce il criterio legale con cui dare un contenuto al silenzio dei contraenti: si intenderà pattuita la somministrazione in base al normale fabbisogno del somministrato. La norma realizza una tutela di entrambe le parti, evitando che la mancata determinazione dell’oggetto del contratto possa renderlo nullo. Il somministrato vede assicurata la facoltà di chiedere quanto corrisponda al bisogno e ha un potere discrezionale, ma non arbitrario, di determinazione delle prestazioni. Nell’interesse del somministrante, il legislatore stabilisce dei limiti alla valutazione del fabbisogno rilevante, onde consentirgli di svolgere l’opportuna programmazione che permetta un puntuale adempimento. Per questo il normale fabbisogno deve essere valutato ex ante, al momento della conclusione del contratto, e non in base a circostanze concrete che possano manifestarsi in corso di rapporto. La ratio della norma induce a ritenere che l’impossibilità di stimare oggettivamente tale fabbisogno comporti la nullità della pattuizione.
In relazione a ciò, costituisce inadempimento, da parte del somministrato, l’aver richiesto prestazioni per un quantitativo largamente inferiore al fabbisogno presunto, risultante dal contratto (cfr. Trib. Milano, 28.6.2011, in Foro it., 2011, I, 2865).
Nel caso in cui le parti abbiano concordato unicamente il limite massimo e quello minimo per l’intera somministrazione o per le singole prestazioni, spetta all’avente diritto alla somministrazione la facoltà di stabilire, nel rispetto dei suddetti limiti, il quantitativo dovuto (art. 1560, co. 2, c.c.). Negli altri casi, anche quando sia stato fissato uno solo di quei limiti, si applicherà invece il co. 1 del citato articolo e dunque il criterio legale ricondurrà al fabbisogno normale del somministrato.
Ampia autonomia è rimessa alle parti anche nella determinazione del prezzo, che può essere pattuito a forfait oppure in relazione all’effettivo consumo, variabile in base ai quantitativi richiesti o in misura fissa indipendentemente dall’ammontare della prestazione del somministrante, da effettuarsi in un numero più o meno ampio di momenti attuativi, secondo la libera volontà delle parti.
Quanto alla corresponsione del prezzo, salvo patto contrario, nella somministrazione a carattere periodico lo stesso è corrisposto all’atto delle singole prestazioni e in proporzione a ciascuna di esse (art. 1562 c.c.), mentre nella somministrazione a carattere continuativo il prezzo dev’essere corrisposto secondo le scadenze d’uso (art. 1562, co. 2, c.c.). In quest’ultimo caso, dunque, la prestazione del somministrante sarà idealmente divisa, di regola, per periodi di prestazione. In tal modo si individuano i quantitativi di prestazione che corrispondono ad altrettante somme a carico del somministrato. Ne deriva la configurazione, sul piano giuridico-formale, di una serie di prestazioni il cui adempimento produrrà effetti solutori.
Per il primo caso, tuttavia, il legislatore ha previsto un criterio di determinazione del prezzo in mancanza di espressa previsione dei contraenti. Si tratta di un criterio di integrazione del contratto che evita la nullità per indeterminatezza di una delle prestazioni tramite il rinvio ai criteri di cui all’art. 1474 c.c., i quali saranno applicabili con riguardo al tempo e al luogo relativo a ciascuna delle singole prestazioni (art. 1563 c.c.). Se non è possibile determinare il prezzo neppure in base a questo rinvio, il contratto dovrà ritenersi nullo.
Il termine stabilito per le singole prestazioni, in mancanza di contraria pattuizione, si presume pattuito nell’interesse di entrambe le parti (art. 1563 c.c.).
Qualora il contratto attribuisca al somministrato la facoltà di fissare la scadenza delle singole prestazioni, questi ha l’obbligo di comunicare al somministrante la data con congruo preavviso, a tutela dell’esigenza del somministrante di organizzare e gestire la propria attività diretta all’adempimento (art. 1563, co. 2, c.c.).
In ogni caso, l’obbligo di pagamento del prezzo di somministrazione costituisce prestazione periodica, soggetto a prescrizione breve quinquennale ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. (Cass., sez. III, 27.1.2015, n. 1442).
Il legislatore dedica specifica attenzione ad alcune clausole che, sebbene non necessarie, formano spesso parte del contenuto del contratto di somministrazione: il patto di preferenza e le clausole di esclusiva a favore di ciascuno dei contraenti.
a) Il patto di preferenza. Per quanto riguarda il patto di preferenza, inteso come il patto con cui il somministrato si obbliga a preferire il somministrante nella stipulazione di un successivo contratto avente lo stesso oggetto, il legislatore impone un limite temporale di validità di cinque anni, al quale sarà ridotta ex lege la pattuizione che prevedesse un maggior termine (art. 1566, c.c.). A tutela della libertà contrattuale, i privati vedono limitata la possibilità di autoimporsi vincoli ritenuti eccessivi. Inoltre, il patto di preferenza è sottoposto a un limite esplicito riguardante l’oggetto, in virtù del quale il somministrato è vincolato solo in caso di stipulazione di un successivo contratto per lo stesso oggetto, da intendersi non in termini eccessivamente rigidi, e in ogni caso in termini qualitativi e non quantitativi, se si vuole evitare facili raggiri, ed ad un limite implicito spaziale, relativo all’area di attività del somministrante.
Da questo patto nascono per il somministrato l’obbligo di comunicare al somministrante l’intenzione di concludere il contratto e le condizioni propostegli da terzi (denuntiatio) e quello di non stipulare il contratto con terzi prima o in pendenza della denuntiatio. È dibattuta in dottrina la natura giuridica di questa dichiarazione unilaterale, il cui contenuto è, almeno in parte, vincolato. La struttura concreta del singolo patto di preferenza e la natura della denuntiatio possono essere configurate dalle parti in modi molto diversi. Il problema è dunque d’interpretazione della concreta volontà delle parti. Ove le parti non avessero previsto in contratto nulla riguardo al contenuto e agli effetti della denuntiatio o al procedimento di formazione del contratto in attuazione della prelazione, sembra corretto ritenere che tale dichiarazione funga da proposta contrattuale e che, comunicata la volontà di esercitare la prelazione, si sia concluso il nuovo contratto.
Il somministrante dovrà dichiarare, sotto pena di decadenza, nel termine stabilito o, in mancanza, in quello richiesto dalle circostanze o dagli usi, se intenda valersi della prelazione (art. 1566, co. 2, c.c.).
Questo patto produce effetti solo tra le parti, per cui l’inadempimento darebbe luogo solo a un eventuale risarcimento dei danni.
Si tratta di un patto la cui ratio è quella di tutelare l’interesse dell’impresa fornitrice a fidelizzare un flusso di clientela rapportato alla sua organizzazione. Tale funzione si collega strettamente, quindi, con quella di introdurre convenzionalmente limitazioni alla concorrenza. Secondo quanto vale per i patti preferenziali in generale, costituendo essi una restrizione alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, sembra corretto intendere che trovi applicazione l’art. 1341 c.c. Dottrina e giurisprudenza prevalenti (v., p.e., Cass., sez. III, 23.9.2013, n. 21729) ritengono, invece, che non sia applicabile a questa fattispecie l’art. 2596 c.c., poiché si tratterebbe di una norma che si occupa solo dei patti di non concorrenza di tipo orizzontale e non di quelli verticali, tra i quali rientra il patto di prelazione.
La disciplina relativa al patto di prelazione nel contratto di somministrazione non interferisce con la più ampia sfera di interessi del mercato protetti dalla disciplina antitrust nazionale e comunitaria. Non può quindi escludersi che un patto di preferenza valido ai sensi dell’art. 1566 c.c. possa non superare il vaglio dell’art. 2, l. 10.10.1990, n. 287 o dell’art. 101 TFUE.
Anche se il Codice civile non lo prevede espressamente, nulla impedisce che le parti, nell’ambito della propria autonomia contrattuale, pattuiscano una prelazione a favore del somministrato che, a sua volta, può essere anche un imprenditore interessato ad assicurarsi una determinata fornitura.
b) Il patto di esclusiva. In relazione all’esclusiva a favore del somministrante, l’art. 1567 c.c. stabilisce, con norma dispositiva derogabile dalle parti, che il somministrato non può ricevere da terzi prestazioni della stessa natura né, salvo patto contrario, può provvedere con mezzi propri alla produzione delle cose che formano oggetto del contratto.
L’inserimento del patto di esclusiva nel tessuto contrattuale della somministrazione non altera le caratteristiche essenziali del contratto, anche se aggiunge un contenuto obbligatorio che si intreccia, a seconda dei casi con maggiore o minore intensità, con quello proprio della somministrazione, fino a un limite in cui si assottigliano i confini con altre figure, specialmente con la concessione di vendita.
Il patto di esclusiva funge da strumento di limitazione della concorrenza nei confronti degli imprenditori concorrenti del beneficiario. Tuttavia, la funzione del patto va oltre il vantaggio di non avere concorrenti in un determinato mercato ed è quella di assicurarsi la continuità della fornitura, la possibilità per l’esclusivista di fare affidamento su un flusso continuo di richieste o di offerte, di fondamentale importanza a livello organizzativo aziendale e commerciale.
In ogni caso, l’esclusiva costituisce un’ipotesi di limitazione della concorrenza in senso verticale e, quindi, la sua disciplina soggiace come tale alle regole concorrenziali nazionali e comunitarie.
Un rilevante problema attuativo riguarda l’applicabilità dell’art. 2596 c.c., in particolare in relazione al limite di cinque anni che la norma impone ai patti limitativi della concorrenza, limite non previsto invece negli artt. 1567 e 1568 c.c. Quest’ultima disposizione, anzi, parrebbe collegare l’obbligo di esclusiva del somministrante alla durata del contratto, che ben potrebbe essere pattuito a tempo indeterminato.
Gli interpreti, come evidenziato in relazione alle altre clausole esaminate, si presentano divisi sul punto.
Non sussistono invece dubbi sull’applicabilità della disciplina antitrust anche alle intese verticali e, quindi, ai patti di esclusiva nella somministrazione, come ha confermato più volte la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Per quanto riguarda il patto di esclusiva a favore del somministrante si è dibattuto a lungo circa il significato da attribuire alla circostanza che l’oggetto delle prestazioni interessate dall’esclusiva sono quelle della “stessa natura” della somministrazione. L’orientamento prevalente intende l’espressione in senso economico-sostanziale e non giuridico-formale, ritenendo ricompresi nella nozione anche i succedanei e le sostanze affini che soddisfino le medesime esigenze del somministrato.
Il diverso tenore letterale impiegato dalle norme che disciplinano il patto di esclusiva a favore del somministrante, da una parte, e del somministrato, dall’altra, ha suscitato in dottrina alcune questioni riguardanti il differente modo con cui il legislatore ha delimitato l’ambito di applicazione di entrambe le clausole. In primo luogo, l’impegno del somministrato di non ricevere da terzi prestazioni della stessa natura né di produrle con mezzi propri, al quale fa riferimento l’art. 1557 c.c., dovrebbe comprendere l’impegno di non ricevere né direttamente né indirettamente prestazioni della stessa natura da altri soggetti estranei al patto di esclusiva, come l’art. 1558 c.c. dispone in relazione all’esclusiva in favore del somministrato. Acquistare attraverso interposte persone, cioè indirettamente, implicherebbe in ogni caso acquistare da terzi rispetto alle parti dell’esclusiva. Maggiori discussioni ha provocato il riferimento espresso ad una limitazione spaziale per quanto riguarda quest’ultimo tipo di esclusiva e il silenzio, invece, che su questo punto la norma serba in relazione all’esclusiva a favore del somministrante. Salvo diverso patto espresso, l’interpretazione più ragionevole sembra quella di tenere conto delle circostanze del caso concreto e degli interessi delle parti. In mancanza di una delimitazione precisa, appare ragionevole tenere come riferimento la zona di attività del somministrante. Non può però non osservarsi che, in un contesto di mercato globalizzato come l’attuale, non può escludersi aprioristicamente l’interesse di un imprenditore a godere dell’esclusiva più ampia per prevenire approvvigionamenti da aree di mercato diverse o per raggiungere nuove zone geografiche. Non può escludersi pertanto a priori che possano trovare fondamento interpretazioni in tal senso, alla luce della concreta situazione commerciale in cui il contratto si cala, desumibile dalle specifiche circostanze del caso specifico (propensione internazionale del contraente, tipologia del bene o del servizio, tendenza espansiva del mercato, e simili).
L’inadempimento del patto di esclusiva può estendere i suoi effetti al contratto nel suo complesso se l’esclusiva costituisce obbligazione essenziale nell’economia del contratto e nello svolgimento della sua funzione.
L’esclusiva a favore del somministrato, invece, prevede, in mancanza di patto in contrario, che il somministrante non possa compiere nella zona per cui l’esclusiva è concessa e per la durata del contratto, né direttamente né indirettamente, prestazioni della stessa natura di quelle che formano oggetto del contratto (art. 1568, co. 1, c.c.).
Nel caso in cui il somministrato si sia assunto l’obbligo di promuovere nella zona assegnatagli la vendita delle cose di cui ha l’esclusiva, il somministrante sarà ritenuto responsabile dei danni in caso di inadempimento a tale specifica obbligazione, nonostante egli avesse eseguito il contratto rispetto al quantitativo minimo pattuito (art. 1568, co. 2, c.c.). Si tratterebbe, quindi, di un’obbligazione che ha per oggetto la promozione della vendita di determinate cose con la diligenza propria della specifica figura professionale e non solo la vendita di un quantitativo minimo di beni. Accertato il mancato svolgimento di tale attività con la diligenza dovuta, il somministrato dovrà risarcire essenzialmente i danni derivanti dall’insufficiente o mancato inserimento dei prodotti oggetto dell’esclusiva nel mercato di riferimento.
In relazione a questo tipo di patto lo stesso Codice civile fa riferimento ad un’eventuale limitazione relativa ad una zona territoriale e ad un periodo di tempo, partendo dall’idea, realistica, che identifica il somministrante con l’impresa la cui operatività è normalmente più ampia e articolata di quella relativa al somministrato, sia in relazione all’area merceologica che all’ambito territoriale di operatività. In ogni caso, in mancanza di una delimitazione convenzionale specifica, l’interesse del somministrato a favore del quale si stabilisce l’esclusiva porterebbe a ritenere implicito l’ambito territoriale relativo all’attività dell’impresa somministrante.
Oltre alla disciplina generale dello scioglimento del contratto, alla somministrazione si applicano alcune regole specifiche relative alla risoluzione per inadempimento, al recesso e all’eccezione di inadempimento.
La previsione di queste disposizioni specifiche solleva l’interrogativo circa il rapporto con le corrispondenti disposizioni generali. Il principio di specialità impone la prevalenza del primo gruppo di norme e, per quanto in esse non disciplinato, l’applicazione della disciplina generale del contratto, da coordinare con l’eventuale disciplina del rapporto specifico cui siano riconducibili le singole prestazioni, ai sensi dell’art. 1570 c.c.
L’inadempimento del contratto di somministrazione può riguardare una o più singole prestazioni. La capacità di ogni singola prestazione di soddisfare la manifestazione concreta della necessità duratura e, quindi, l’efficacia solutoria che spiega l’adempimento di ogni prestazione dota ciascuna di esse di una autonomia, pur entro l’unico rapporto contrattuale. Ciò solleva il problema di determinare l’estensione dell’incidenza dell’inadempimento di una o più singole prestazioni: quando, cioè, l’inadempimento abbia un’incidenza circoscritta alla singola prestazione cui si riferisce e quando, invece, la travalica ed espande i suoi effetti all’intero rapporto contrattuale.
La risoluzione del contratto di somministrazione richiede la presenza di due presupposti: l’inadempimento deve’essere di notevole importanza e tale da menomare l'aspettativa nei successivi adempimenti (art. 1564 c.c.). La maggiore gravità che, riferendosi alla «notevole importanza», sembra richiedere il legislatore rispetto all’inadempimento ‘di non scarsa importanza’ previsto dall’art. 1455 c.c. per la risoluzione del contratto in generale, è stata spiegata dalla dottrina come manifestazione della tutela che in questo contesto contrattuale si vuole dare alla stabilità nei rapporti tra le parti. Il secondo presupposto trova il suo fondamento, invece, nella particolare causa del contratto di somministrazione e nel ruolo che in essa svolge la soddisfazione di un interesse duraturo che si ripete periodicamente o in modo continuo.
Altra questione riguarda gli effetti dell’inadempimento della singola prestazione che non sia tale da pregiudicare l’esattezza dei successivi adempimenti. L’autonomia di ogni singola prestazione in corrispondenza alla specifica sua capacità satisfattiva comporta un’autonomia anche nella portata effettuale della singola prestazione. Il contraente può avvalersi rispetto alla singola prestazione inadempiuta dei rimedi sinallagmatici comuni a tutela dei propri interessi rimasti insoddisfatti. Potrà dunque invocare la risoluzione relativamente a determinate prestazioni, ai sensi dell’art. 1455 c.c..
L’autonomia delle singole prestazioni si trasmette anche alle azioni a tutela del relativo diritto, per cui il periodo di prescrizione dell’azione di risoluzione decorrerà per ognuna dal momento in cui essa avrebbe potuto esercitata in base al singolo inadempimento.
Per le stesse ragioni, la risoluzione nella somministrazione non ha effetti retroattivi, in quanto non si estende alle prestazioni già eseguite.
Quanto detto può essere esteso, con i relativi adattamenti, alla risoluzione per eccessiva onerosità o per impossibilità sopravvenuta. L’evento che incide su singole prestazioni ha effetto limitatamente ad esse. Il contratto può risultare pregiudicato nella sua integrità quando la prestazione, divenuta impossibile o eccessivamente onerosa, pregiudichi l’aspettativa della fisiologica prosecuzione del programma negoziale alle complessive condizioni originarie
Nella somministrazione, come negli altri contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto sia contrario alla buona fede. Il presupposto di non contrarietà alla buona fede esige, secondo gli interpreti, una congrua proporzione tra l’inadempimento subito e quello provocato e più in generale, tra le conseguenze conosciute dell’inadempimento subito e di quello provocato.
In questa prospettiva si inserisce la disposizione speciale prevista per la somministrazione dall’art. 1565 c.c., il quale impone al somministrante il dovere di dare un congruo preavviso della futura sospensione dell’esecuzione se questa si pone come reazione ad un inadempimento di lieve entità.
La norma non fa riferimento espresso al presupposto della buona fede per la legittima sospensione. Questo silenzio ha sollevato alcune questioni. L’art. 1565 c.c. si limiterebbe ad aggiungere una norma relativa al caso particolare dell’inadempimento di lieve entità, in cui la buona fede verrebbe assorbita dall’effettuato preavviso, la cui congruità a sua volta dovrebbe essere valutata anche alla stregua delle conseguenze che il somministrato può ragionevolmente subire dall’interruzione della somministrazione rispetto all’entità dell’inadempimento in cui è incorso.
Ci si chiede, peraltro, perché la norma riservi un diverso trattamento al somministrante consentendo solo a questi di opporre l’eccezione a fronte di inadempimenti di lieve entità del somministrato, addirittura indipendentemente dal presupposto della mancata contrarietà alla buona fede. La ragione normalmente addotta per spiegare questa asimmetria è che l’ordinamento si fa carico delle esigenze organizzative e produttive dell’impresa fornitrice, che deve attrezzarsi per la fornitura e non può correre il rischio di un blocco della stessa derivante dall’esercizio dell’eccezione del somministrato per mancanze lievi in cui essa sia incorsa. Tuttavia una simile spiegazione non è sempre pienamente convincente, non facendo giustizia, quanto meno, dei casi in cui anche il somministrato sia un’impresa che conta sull’arrivo delle forniture nei tempi prefissati e che sconterebbe rischi economici di non minore entità a causa di un blocco delle stesse temperati, ma non esclusi, dall’onere del preavviso da parte del somministrante.
Se la durata della somministrazione non è fissata, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, dando preavviso nel termine pattuito o in quello stabilito dagli usi o, in mancanza, in un termine congruo avuto riguardo alla natura della somministrazione (art. 1569 c.c.).
La mancanza di una predeterminazione della durata del contratto deve intendersi nel senso che essa non sia neppure determinabile per relationem anche attraverso elementi indiretti, quale ad esempio l’indicazione della quantità di fornitura globale.
L’art. 1569 c.c. esprime un’applicazione specifica del principio generale dell’art. 1373, co. 2, c.c. Per l’esercizio del recesso, la norma in oggetto richiede la comunicazione di un preavviso, non sottoposto a particolari vincoli di forma. La dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono il recesso comunque efficace anche in difetto di preavviso, salvo l’obbligo di risarcimento dei danni a carico del recedente.
Quanto al problema del recesso nel contratto di somministrazione a tempo indeterminato, parte della dottrina e della giurisprudenza anteriori all’entrata in vigore della normativa a tutela dei consumatori si erano già pronunciate a favore dell’ammissibilità del recesso senza preavviso in caso di giusta causa, concetto poi consolidato dalla normativa in questione (art. 33, co. 2, lett. h., c. cons.).
La nozione di giusta causa non coincide con quella di fiducia propria dei contratti c.d. fiduciari. Si tratterebbe piuttosto di una nozione elastica, di contenuto variabile in base al caso concreto richiamandosi, in genere, alle ipotesi di inadempimento grave e ai casi in cui si verifichi una situazione esterna al contratto di somministrazione incompatibile con la prosecuzione del rapporto contrattuale.
Artt. 1559-1570 c.c.; art. 1670 c.c.; artt. 72 e 74 l. fall.
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