SONETTO
. Composizione metrica di quattordici versi (endecasillabi in Italia, che è il paese d'origine), con rime disposte secondo schemi ben definiti. Un'idea di perfezione sembra associarsi con certe combinazioni numeriche: nel sonetto italiano - cioè il sonetto nella sua forma originaria - la prima parte, di otto endecasillabi rimati alternativamente (tale essendo lo schema primitivo), appare regolata da un ritmo pari; nella seconda parte (due terzine), invece, il movimento pari della prima, che procede per gruppi di due e quattro, è contrastato da un movimento dispari. Pare accertato che la disposizione originaria delle rime fosse: ab, ab, ab, ab, abab, abab, cde, cde: tanto più che al quadro ritmico corrispondeva una struttura musicale, come avveniva per tutta la lirica amorosa, sicché l'aria cambiava nella seconda parte; onde il nome di mute dato anticamente alle terzine, dal mutare dell'aria. Il nome stesso del componimento testimonia della sua origine musicale: sonetto ("piccolo suono", "breve melodia") designa l'aria secondo cui le parole si cantavano originariamente. Sicché, per la sua struttura, il sonetto esprime una finitezza risultante dalla combinazione di numeri pari e dispari: è un organismo musicale completo.
Il primo scrittore di sonetti fu molto probabilmente il poeta siciliano Giacomo da Lentini, che fiorì nella prima metà del Duecento; può darsi che egli inventasse questa forma metrica. Molto si è congetturato sull'origine della struttura del sonetto. Siccome la sua prima parte (le quartine) è identica al metro popolare siciliano dei canti d'amore, lo strambotto, si pensò che Giacomo da Lentini non facesse che trapiantare nella lirica cortese una forma metrica diffusa tra il popolo. Questo può essere effettivamente accaduto, sebbene la disposizione dei primi otto versi (ab, ab, ab, ab) sia così elementare, da sfidare l'ascrizione a una piuttosto che a un'altra fonte.
A ogni modo, la seconda parte del sonetto non trova riscontro nella metrica popolare. Poiché l'ipotesi che la seconda parte sia uno strambotto di sei versi non regge; da un lato essa mostra di ignorare il principio musicale che governa la struttura dell'intero componimento, e riduce a una mera questione di disposizione di rime la ragione più profonda, strutturale e organica, della divisione del sonetto in due parti. Dall'altro lato è contraddetta dalla distribuzione dei versi nei più antichi manoscritti di canzonieri (quali il Laurenziano-Rediano IX, 63; il Palatino 418; il Vaticano 3793). In questi la prima parte del sonetto è divisa in quattro distici con una maiuscola o altro segno iniziale al principio d'ognuno; la seconda è divisa in due terzine, ciascuna occupante un rigo e mezzo e contrassegnata da una maiuscola o altro segno iniziale.
Tuttavia è importante osservare che tanto ritmicamente quanto musicalmente il sonetto appare forma affine alla stanza della canzone; si divide in quattro periodi ritmici analoghi a quelli della stanza che poi furono chiamati piedi e volte. Anche la relativa libertà con cui sono disposte le rime nelle terzine sembra ricordare le volte formanti la sirima della stanza della canzone. Certamente l'intreccio dei varî fattori è troppo complesso, e la cronologia dei componimenti troppo incerta per permettere di formulare conclusioni precise. In via generale si può affermare che, benché il primo conosciuto e più fertile scrittore di sonetti sia un siciliano, Giacomo da Lentini, benché la prima parte del sonetto sia esattamente simile a un metro popolare siciliano, la vera e propria origine della nuova forma sembra trovarsi nella tecnica di versificazione quale si sviluppò nell'Italia centro-meridionale sotto lo stimolo di modelli provenzali. E fu invero nell'Italia centro-meridionale che fu composta la maggior parte dei sonetti (circa un migliaio in complesso) della cosiddetta scuola siciliana. Soltanto ventisette sonetti di questo gruppo son dovuti ad autori siciliani, tra cui venticinque appartengono al solo Giacomo da Lentini. Il sonetto fu divulgato dai poeti pisani e da Guittone d'Arezzo che compose pure stanze di canzone di quattordici versi con rime disposte quasi come nel sonetto.
I due schemi fondamentali di rime nelle quartine erano: abab abab (rime incatenate o alternate) e abba abba (rime incrociate). Benché il primo precedesse, fu il secondo a prevalere verso la fine del Duecento, e a esser considerato lo schema normale nel Trecento. Quanto alle terzine, lo schema cde cde, che occorre nella maggioranza dei sonetti scritti da Notaro Giacomo, è chiaramente più rispondente alla divisione in terzine; l'altro schema, cdc dcd, può essere dovuto all'influsso della disposizione delle rime nelle quartine. Durante il Trecento, quando le quartine del sonetto erano normalmente formate con rime incrociate, lo schema di rime incatenate, cdc dcd, prevalse nelle terzine. Degli altri schemi usati in queste, i seguenti, tutti concludentisi in un distico, sono particolarmente notevoli in vista dello sviluppo del sonetto fuori d'Italia: cdd dcc (usato da Cavalcanti e Petrarca); cdd cdd (Cino da Pistoia); cdc cdd; ccd dee; cdc dee. Si può render ragione di questo tipo di chiusa con la tendenza generale della stanza nella poesia d'arte a chiudersi con una coppia a rima baciata. Come Dante dichiara nel De Vulgari Eloquentia (II, X111, 5): "pulcerrime... se habent ultimorum carminum desinentie si cum rithimo in silentium cadant". Ma in Italia, benché la disposizione delle rime nelle terzine ammetta talora una coppia finale, questa è la disposizione più rara. Ed è facile vedere perché. Il distico a rima baciata è basato su un numero pari, e la ricorrenza di tal numero pari nella seconda parte del sonetto distrugge l'equilibrio di tutto il componimento, che ha da essere pari nella prima parte, dispari nella seconda. Perciò ogniqualvolta prevalse il principio di chiudere il sonetto con una rima baciata, il distico che la conteneva fu aggiunto al sonetto dopo la seconda terzina (p. es. Pieraccio Tedaldi, Cino da Pistoia). Così sorse, probabilmente presso i poeti pisani del Duecento, una forma di sonetto che godette di grande popolarità durante il Trecento, ed era destinata a divenire il metro della poesia burlesca, il sonetto caudato, con la coda formata da un settenario rimato con l'ultimo verso del sonetto vero e proprio, e di due endecasillabi a rima baciata indipendente. La coda si chiamò anche ritornello, come il commiato della canzone, a cui corrispondeva. Spesso, nel Burchiello, nel Berni e nei loro seguaci, si hanno due o più code, producenti un effetto assai sgradevole di conclusione protratta indefinitamente.
È appena necessario aggiungere che la simmetria del componimento vien distrutta dalla goffa aggiunta di codesta coda; gli scrittori di sonetti caudati han perso di vista il principio musicale su cui riposa il sonetto.
Questo principio musicale non fu presente a coloro che imitarono il sonetto italiano in Francia e in Inghilterra. In Francia il sonetto si cristallizzò nella forma datagli da Clément Marot: consiste di tre stanze di quattro versi (quatrains), di cui la terza è separata dalle prime due da un distico. Talora questo distico è alla fine. In Inghilterra con sir Thomas Wyatt le due terzine si riducono a una quartina più un distico. Per spiegare quest'ultima forma non è necessario immaginare che il Wyatt, mentre si trovava in Italia, udisse declamare, o vedesse in manoscritto, alcuni dei sonetti di Benedetto Varchi composti secondo quello schema, oppure che venisse a conoscerlo nella collezione di poeti italiani dei primi secoli detta Giuntina di rime antiche, pubblicata proprio in quell'anno 1527 in cui il Wyatt si trovava in Italia. La tendenza a concludere il sonetto a rima baciata veniva spontanea in chiunque perdesse di vista il principio musicale su cui era basato il sonetto: una parte pari contrastata con una dispari. Nelle forme che finì per assumere nella lirica francese e nell'inglese, il sonetto italiano è a malapena riconoscibile, e ogni similarità metrica vien meno in forme degenerate come le passions di Thomas Watson, che consistono di tre strofe di quattro versi, ciascuna seguita da un distico: sviluppo provinciale del sonnet marotique dei Francesi.
Ma non occorre indugiarsi a lungo su queste forme anomale del sonetto, né sulle varietà che sorsero nella stessa Italia poco dopo la sua introduzione. V'è la forma di sonetto usata da Monte Andrea, la cui prima parte consiste di cinque distici anziché di quattro. Più diffuso, e ancor più ibrido, il sonetto doppio o rinterzato, ottenuto con l'inserzione di settenarî tra gli endecasillabi del sonetto regolare, fu inventato, pare, da Guittone d'Arezzo. Del sonetto settenario, tutto di settenari invece che d'endecasillabi, esistono esempî nel Trecento e in tempi più vicini a noi: il suo ritmo non ha nulla in comune con quello del sonetto; è piuttosto affine alla canzonetta.
I poeti più antichi applicarono al sonetto tutti gli artifizî della metrica del tempo, specialmente la rimalmezzo, di cui si hanno varî tipi, alcuni assai complicati. L'effetto non è dissimile da quello ottenuto dall'artista di cui racconta il Lessing, che volle adornare un arco con tante sculture che, quando venne il momento di tenderlo, l'arco si ruppe. I sonetti con rimalmezzo appartengono quasi tutti al Duecento, e furon scritti da poeti dell'Italia centrale quali Monte Andrea, Iacopo Mostacci, Geronimo Terramagnino, e i poeti bolognesi del tempo della cattività di re Enzo. La difficoltà era la pietra di paragone di codesti poeti, e un eccellente agone per tours de force fu offerto dalle tenzoni di sonetti a cui prendevan parte varî poeti. Un poeta proponeva una questione a un altro o a parecchi altri, che replicavano generalmente usando le stesse rime di quelle del primo sonetto. Un esempio estremo d'artificialità si trova in un sonetto col quale Guittone d'Arezzo rispose a uno del Guinizelli. Questi aveva usato rime difficili, ma Guittone, per mostrare che non si sgomentava di ciò, non solo conservò le stesse rime, ma adottò le stesse parole in rima del Guinizelli, così: Guinizelli aveva usato in rima le parole: laude, embarchi, aude, archi, claude, Marchi, gaude, sovralarchi, porgo, cimi, accorgo, vimi, borgo, limi. Guittone usò solo le parole laude e marchi nelle quartine e accorgo (e corgo), cimi (e dicimi) nelle terzine, dando in ciascun caso un significato diverso alle parole, cioè usandole equivocamente. Il non plus ultra di questo genere è costituito da una tenzone tra Monte Andrea e altri verseggiatori, specialmente Lambertuccio Frescobaldi: le parole son del tutto deformate dallo sforzo di spingerle a superare ostacoli inauditi.
Mentre nelle tenzoni le rime erano generalmente le stesse per ciascun sonetto, nei contrasti - ove di solito parlavano alternativamente un innamorato e la sua amata - i varî sonetti avevano rime diverse. Nelle corone di sonetti su uno stesso argomento, i varî componimenti erano collegati tra loro in varî modi. Tenzoni di sonetti erano frequenti nella prima fase di questo componimento; si è anche pensato che Giacomo da Lentini nell'inventare il sonetto mirasse a creare una forma di componimento breve ed agile per le gare così frequenti tra i poeti cortesi del tempo.
Nei sonetti anteriori alla fine del Quattrocento la nota più intensa è spesso toccata al principio, nel primo verso; una straordinaria felicità d'apertura caratterizza per es. i sonetti di Dante e di Petrarca; ma nei rimatori minori spesso dopo l'impeto iniziale non resta che amplificazione e anticlimax: un esempio caratteristico è il son. S'i'fosse foco, arderei 'l mondo di Cecco Angiolieri, il cui primo verso induce il lettore a un'aspettativa interamente delusa dalla chiusa; o il son. Tutto ch'altrui aggrada a me disgrada di Cino da Pistoia, che si risolve poi nei luoghi comuni di un enueg. Ma anche nei sonetti di Dante e di Petrarca la quintessenza dell'ispirazione è spesso contenuta nel primo verso (p. es. Ne li occhi porta la mia donna Amore; Solo e pensoso i più deserti campi; Datemi pace, o duri miei pensieri; Discolorato hai, Morte, il più bel volto, ecc.).
Tuttavia, fin dall'inizio, il sonetto mostrò una tendenza a gravitare verso la seconda parte; il suo stesso carattere musicale, si potrebbe dire, postulava questo: la seconda parte rappresentando la conclusione, il culmine. Di qui la tendenza a far della prima parte una sorta di introduzione all'idea che si spiegava intera solo nelle terzine. Per questa via il sonetto venne ad acquistare una funzione simile all'epigramma degli antichi sicché, quando l'Antologia Planudea venne diffusa per le stampe alla fine del Quattrocento, i poeti subito s'accorsero dell'affinità delle due forme "Le sonnet", scrisse Sebillet nel suo Art poétique françois (1548), "suit l'épigramme de bien près, et de matière, et de mesure; et quand tout est dit le sonnet n'est autre chose que le parfait épigramme de l'Italien, comme le dizain du François".
Per la sua stessa struttura, quindi, il sonetto richiedeva un concetto, un'arguta chiusa; e, sotto l'influsso dell'epigramma, finì di compiersi il processo di spostamento di gravità verso la fine. L'esempio dell'epigramma, inoltre, fornì ai sonettisti tutta una serie di motivi alessandrini leziosi e arguti, e certo contribuì alla voga del concettismo (v. Petralchismo).
Una notevole innovazione nella tecnica del sonetto fu quella introdotta da Giovanni della Casa, che per primo deliberatamente trattò il componimento come un tutto, fondendo quartine e terzine e non rispettando le pause suggerite dalla divisione metrica, mentre nella forma petrarchesca regolare le pause richieste dal senso coincidono con la fine del verso; insomma il Della Casa praticò nel sonetto quello che i romantici francesi dovevan poi chiamare enjambement (p. es. son. O Somo, o de la queta, unmida, ombrosa Notte placido figlio). Quando il Milton, dopo un periodo in cui il sonetto era stato trascurato in Inghilterra, lo rimise in onore, non adottò la forma elisabettiana o shakespeariana (per i sonetti di Shakespeare, v. shakespeare), ma bensì la forma italiana precisamente come la trovò in Della Casa (ci è conservata la copia dei sonetti del Della Casa, ediz. 1565, acquistata dal Milton nel 1629); il Milton scrisse pure sonetti in italiano, e un sonetto caudato, unico esempio di questa forma nella letteratura inglese.
Dopo il Seicento, il sonetto cessò di esser la forma preferita della lirica italiana; seguitò ad esser coltivato nel primo periodo dell'Arcadia, quando il languido Felice Zappi dettava la moda; fu poi eclissato dalla canzonetta. Con Alfieri e con Foscolo il sonetto riprese splendore; sopra tutto il Foscolo seppe equamente distribuire la piena dell'ispirazione in tutte le varie parti del sonetto, senza penuria nelle quartine, o ridondanza d'idee nelle terzine, conducendo i trapassi con una maestria tutta sua. Nella grande tradizione del sonetto sono anche il Carducci (che diede una poetica storia del componimento nel son. Dante il mover gli dié del cherubino) e il D'Annunzio, che subì l'influsso dei parnassiani francesi, specialmente nelle Città del Silenzio (tra i parnassiani, famosi i sonetti Les Trophées, di J.-M. de Heredia).
La forma di questo componimento, "breve e amplissimo carme", come ben lo definì il Carducci, par fatta apposta per mettere in evidenza i pregi e i difetti d'un poeta; il Menzini lo paragonò appunto a "lidia pietra Da porre i grandi ingegni al paragone"; si può quindi giustificare l'opinione del Boileau, che un sonetto, quando è impeccabile, "vaut un long poème".
Bibl.: L. Biadene, Morfologia del sonetto nei secoli XIII e XIV, in Studi di filologia romanza, fasc. 10, Roma 1888; A. Foresti, Nuove osservazioni intorno all'origine e alle varietà metriche del sonetto nei secoli XIII e XIV, in Atti dell'Ateneo di Bergamo, XII, Bergamo 1895; G.A. Cesareo, La poesia siciliana sotto gli Svevi (ristampato in Le origini della poesia lirica, ecc., Palermo 1924; fu il Cesareo ad ascrivere a Giacomo da Lentini l'invenzione del sonetto); P. Rajna, Come nacque il sonetto, in Marzocco, XXIX, n. 21 (25 maggio 1924; vedi pure sullo stesso argomento il Biadene, nel n. 29 giugno dello stesso anno, e S. Santangelo, in Rassegna, XXXIV, n. 6, dicembre 1926); bibliografia degli studî sul sonetto fino al 1903, in H. Vaganay, Le sonnet en Italie et en France au XVIe siècle, Lione 1903; E. W. Wilkins, The Invention of the Sonnet, in Modern Philology, XIII (1915); W. L. Bullock, The Genesis of the English Sonnet Form, in Publications of the Mod. Language Ass. of America, XXXVIII (1923); per Milton v. l'introduz. di J. S. Smart, The Sonnets of Milton, Glasgow 1921; per possibili influssi arabi v. A. R. Nykl, La poesia a ambos lados del Pirineo hacia el año 1100, in Al-Andalus, I, ii, 1933 (saggio già apparso in inglese nell'introduzione a A Book containing the Risala, ecc. transl. by A. R. Nykl, Parigi 1931); H. Welti, Geschichte des Sonettes in der deutschen Dichtung, Lipsia 1884; tra le moltissime antologie di sonetti ricordiamo: C. Culcasi, Il libro dei sonetti, Catania 1926 (vedine recensione di F. Neri, in Giornale storico, XC); The Sonnets of Europe, traduzioni scelte da S. Waddington, Londra 1886; The Silver Book of English Sonnets, Londra 1928.