Giudicato, sopravvenienze e tutela multilivello
La sentenza dell’Adunanza Plenaria affronta il delicato tema dell’incidenza del tempo sulla formazione processuale della regola rivolta all’agire dell’amministrazione. Il processo amministrativo in ragione dei limiti esterni imposti al potere giurisdizionale demandato al g.a. produce, per lo più, regole incomplete, che orientano il successivo dispiegarsi dell’azione amministrativa a valle del giudicato. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria 9.6.2016, n. 11 ricostruisce sistematicamente la disciplina che governa il rapporto tra la regola contenuta nel giudicato e le sopravvenienze di fatto e di diritto che possono incidere sul rapporto amministrativo scrutinato in giudizio. Lo sforzo compiuto dal giudice amministrativo è quello, da un lato, di illustrare l’influenza che possono avere le sopravvenienze in ragione della diversa natura dell’interesse legittimo oggetto di tutela; dall’altro, di coniugare la regola dell’intangibilità del giudicato con il principio di primazia del diritto dell’Unione europea, che conduce ad esiti distinti a seconda che il giudicato debba ancora formarsi o si sia già formato.
Per una migliore comprensione delle questioni rimesse al vaglio dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è opportuno ripercorrere brevemente il quadro fattuale di riferimento. Un’impresa partecipava ad una procedura indetta da un’amministrazione comunale e finalizzata alla realizzazione di un edificio pubblico, e la sua offerta veniva individuata quale migliore. Il successivo stallo nell’attivazione del procedimento per la realizzazione del progetto veniva contrastato dall’impresa in questione attraverso un’azione contro il silenzio inadempimento dell’amministrazione, che, all’esito dell’appello dinanzi al Consiglio di Stato, fruttava all’impresa una pronuncia, che attestava l’obbligo dell’amministrazione comunale di verificare anche nell’ambito delle proposte pervenute, la possibilità di realizzare l’opera nei limiti del mutato quadro economico.
Una successiva pronuncia del Consiglio di Stato, resa in sede di ottemperanza, preso atto dell’adozione da parte dell’amministrazione comunale di atti elusivi del giudicato, nominava un commissario ad acta. Sia il commissario ad acta che l’amministrazione comunale adottavano atti in esecuzione del giudicato, giungendo a conclusioni speculari, ossia, valutando il primo compatibile l’offerta dell’impresa e la seconda non compatibile l’offerta dell’impresa con le disponibilità economiche dell’amministrazione comunale.
Il successivo contenzioso contribuiva a chiarire che: a) gli atti dell’amministrazione comunale erano stato adottati in carenza di potere, poiché posti in essere all’indomani dell’adozione dei provvedimenti del commissario ad acta; b) il commissario ad acta non aveva posto in essere tutti gli atti necessari all’esecuzione del giudicato, quali la variante urbanistica a cui lo stesso Comune si era impegnato con il bando di gara e la stipulazione del contratto con l’impresa. I successivi atti del commissario ad acta avevano concluso per l’assenza dei necessari finanziamenti per la realizzazione dell’opera in ragione dell’offerta dell’impresa e per la non conformità urbanistica della stessa.
Un’ulteriore pronuncia resa dal Consiglio in sede di ottemperanza dichiarava nulli gli atti adottati dal commissario ad acta per violazione del giudicato e nominava un nuovo commissario che adottava la necessaria variante urbanistica. Medio tempore, la Commissione europea apriva una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la verifica dell’eventuale violazione e/o elusione della normativa europea in tema di affidamento di appalti pubblici di lavori sopra soglia. Riattivato un ulteriore giudizio di ottemperanza dinanzi al Consiglio di Stato, i giudici di Palazzo Spada rimettevano alla Corte di giustizia due quesiti pregiudiziali, ai quali dava risposta la sentenza 10.7.2014, C-213/13, che in relazione alla questione in esame stabiliva che se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono, un organo giurisdizionale nazionale, come il giudice del rinvio, che abbia statuito in ultima istanza senza che prima fosse adita in via pregiudiziale la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, deve o completare la cosa giudicata costituita dalla decisione che ha condotto a una situazione contrastante con la normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori o ritornare su tale decisione, per tener conto dell’interpretazione di tale normativa offerta successivamente dalla Corte medesima.
La V sezione del Consiglio di Stato con ordinanza 17.7.2015, n. 3587, dichiarando di non condividere l’orientamento fatto proprio dalla stessa Adunanza Plenaria con la sentenza 15.1.2013, n. 2, in tema di giudicato a formazione progressiva, devolve la controversia, ai sensi dell’art. 99, co. 1 e 3, c.p.a. all’esame del massimo organo di giustizia amministrativa.
La Sezione remittente osserva in particolare che secondo la tesi del giudicato a formazione progressiva la regula juris che si impone all’amministrazione non è contenuta nella pronuncia che chiude il giudizio di cognizione, ma si arricchisce delle ulteriori statuizioni, contenute nelle sentenze rese in sede di ottemperanza.
Nella fattispecie in esame dovrebbe, quindi, riconoscersi il diritto dell’impresa di eseguire l’opera oggetto dell’originaria offerta e nel corrispettivo obbligo dell’amministrazione comunale di prenderla in carico a titolo oneroso e di utilizzarla. Questa conclusione, però, comporterebbe una palese violazione del diritto dell’UE, come sancito dalla predetta sentenza della C. giust. UE, sezione II, 10.7.2014, C-213/13, con evidenti implicazioni di responsabilità dello Stato italiano.
Pertanto, l’ordinanza di rimessione interroga l’Adunanza Plenaria in ordine: a) all’attualità della tesi del giudicato a formazione progressiva; b) in caso di risposta positiva al primo quesito, al concetto di ius superveniens idoneo a circoscrivere l’effetto del giudicato, sia esso di derivazione nazionale, che frutto del diritto dell’Unione europea.
Il massimo consesso di giustizia amministrativa prima di offrire risposta ai quesiti chiarisce che le sentenze rese in sede di cognizione ed in sede di ottemperanza hanno imposto all’amministrazione solo un obbligo procedimentale e strumentale (quello di portare a conclusione il procedimento), non un obbligo sostanziale e finale (quello di concluderlo riconoscendo il diritto alla stipula del contratto o, addirittura, alla realizzazione dell’opera).
Venendo ai quesiti, la Plenaria ribadisce l’attualità della formula del giudicato a formazione progressiva, richiamando i principi già espressi in precedenti pronunce (cfr. Cons. St., A.P., 9.2.2016, n. 2; 13.4.2015, n. 4; 15.1.2013, n. 2; 3.12.2008, n. 13; 11.5.1998, n. 2; 21.2.1994, n. 4; 8.1.1986, n. 1), secondo i quali: a) la situazione accertata con il giudicato non può essere rimessa in discussione al fine di non porre nel nulla il principio di ragionevole durata del giudizio, di effettività della tutela giurisdizionale e di stabilità e certezza dei rapporti giuridici. Sicché, il ricorrente vittorioso vanta una legittima aspettativa alla stabile definizione del contesto procedimentale; b) l’Amministrazione soccombente a seguito di sentenza irrevocabile di annullamento di propri provvedimenti ha l’obbligo di ripristinare la situazione controversa, a favore del privato e con effetto retroattivo, per evitare che la durata del processo vada a scapito della parte vittoriosa; c) il suddetto obbligo varia in ragione della natura dell’interesse legittimo azionato; d) l’obbligo in capo all’amministrazione non incide sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo; e) l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima; f) anche per le situazioni istantanee il ripristino può trovare un limite nel sopravvenuto mutamento della realtà fattuale o giuridica, sicché la tutela della posizione giuridica potrà eventualmente avvenire non in forma specifica, ma per equivalente.
Quanto, invece, all’incidenza delle pronunce interpretative della Corte di giustizia sul giudicato, la Plenaria chiarisce che la sentenza della C. giust. UE, sezione II, 10.7.2014, C-213/13, ha nella fattispecie sancito l’incompatibilità comunitaria dell’interesse alla realizzazione dell’opera da parte dell’impresa, alla stregua di una sopravvenienza normativa, che incida su un tratto dell’azione amministrativa non coperto dal giudicato. Sicché, la prevalenza della regula juris ivi contenuta è applicazione dell’ordinario principio di successioni di leggi nel tempo.
Resta irrilevante, pertanto, nella fattispecie la questione dell’intangibilità del giudicato contrastante con il diritto dell’Unione europea, mentre la Plenaria ha cura di ribadire l’obbligo gravante sul giudice nazionale di impedire la formazione di un giudicato contrastante con il diritto dell’Unione europea.
Il mancato rispetto del detto obbligo da parte del giudice amministrativo, anche risultante da una pronuncia della Corte di giustizia successivamente intervenuta, può portare all’annullamento della sentenza per superamento dei limiti esterni della giurisdizione da parte della Cassazione. Mentre, in quest’ottica, il giudizio di ottemperanza può fungere da stanza di compensazione per scongiurare che nella definizione delle regole alle quali soggiace l’agire dell’amministrazione, si venga a delineare una disciplina che contrasta con il diritto dell’Unione europea.
La pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 11/2016, ruota dunque attorno a due perni, da un lato, quello del processo di formazione della regula juris che orienta l’attività dell’amministrazione; dall’altro, quello del rispetto della disciplina dell’Unione europea, antecedente o sopravvenuta rispetto alla formazione del giudicato. Si tratta di questioni, non nuove e strettamente connesse tra di loro, la cui comprensione necessita di alcune indefettibili premesse.
La disciplina contenuta negli artt. 112-115 c.p.a. rappresenta il punto di arrivo di un percorso iniziato con l’art. 4, n. 4, della L. 31.3.1889, n. 5992, che attribuiva al Consiglio di Stato la giurisdizione di merito sulle controversie aventi ad oggetto l’esecuzione delle pronunce del g.o. nei confronti dell’amministrazione.
Un iter che sin dall’introduzione del giudizio di ottemperanza si è caratterizzato per una “stratificazione storica”1, che ha seguito un movimento di espansione progressivo dell’ampiezza del sindacato del giudice amministrativo sul potere dell’amministrazione.
La linea di svolgimento del detto percorso è chiara. All’origine il giudizio di ottemperanza è caratterizzato da un approccio eminentemente esecutivo di una pronuncia, quella del giudice ordinario, connotata da un dictum, che esaurisce del tutto il rapporto controverso. Attraverso un procedimento analogico la IV sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 9.3.1928, n. 181 desunse la percorribilità di tale via ed estese l’utilizzabilità del giudizio di ottemperanza anche nel caso di inerzia dell’amministrazione nel conformarsi ad un giudicato amministrativo, con un orientamento che ottenne l’avallo delle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 8.7.1953, n. 2157.
In questo lasso di tempo le pronunce del giudice amministrativo per le quali può essere fatto valere il giudizio di ottemperanza non sono solo quelle rese su diritti soggettivi in sede di giurisdizione esclusiva, ma anche quelle emesse nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità su interessi legittimi. Ecco che la linea di svolgimento della natura stessa del giudizio di ottemperanza segue l’ampliamento del sindacato esercitabile dal giudice amministrativo in sede di cognizione. Abbandonata l’idea che la pronuncia caducatoria possa in ogni caso soddisfare ex se la pretesa del ricorrente vittorioso, si impone la necessità di un appendice successiva al giudizio di cognizione ogni qual volta il potere dell’amministrazione sopravviva al giudicato. La frammentazione della nozione dell’interesse legittimo (interesse oppositivo, pretensivo, procedimentale, strumentale), dipendente dal riconoscimento della natura sostanziale dello stesso e dalla natura poliforme dell’attività amministrativa, sancisce l’irrinunciabilità del giudizio di ottemperanza per le sentenze del giudice amministrativo, che viene assicurata dall’abrogato art. 37, l. 6.12.1971, n. 1034. A sua volta il giudizio di ottemperanza agisce quale parametro dell’utilità che il giudizio amministrativo può assicurare al ricorrente, conformando i modelli di tutela in fase cognitoria ed imponendo l’introduzione di strumenti cautelari ulteriori a quello meramente sospensivo. La stagione giurisprudenziale delle ordinanze cautelari propulsive e di remand, viene sugellata dalla costituzionalizzazione del principio del giusto processo, che offre il destro al legislatore della l. 21.7.2000, n. 205 per prevedere l’utilizzabilità del rimedio dell’ottemperanza anche per le sentenze del giudice amministrativo non definitive (art. 10) e per le ordinanze cautelari (art. 3). Approdi quest’ultimi confermati dal c.p.a. che offre un quadro di sintesi degli approdi giurisprudenziali, da un lato, confermando la necessità del giudicato formale per l’utilizzabilità del giudizio di ottemperanza per le pronunce di giudici diversi dal giudice amministrativo; dall’altro, prevedendo una pluralità di modelli di ottemperanza alla stregua della pluralità dei modelli di tutela cognitoria oramai riconosciuti nel giudizio amministrativo. Quest’ulteriore stratificazione lascia immutata la centralità della questione inerente alla natura del giudizio di ottemperanza (rectius, dei giudizi di ottemperanza).
Ulteriore elemento di complicazione deriva dal diritto dell’Unione europea, ed in particolare, dal principio di primazia che connota i rapporti tra ordinamento nazionale e sovranazionale.
La riflessione in ordine alla tenuta del giudicato nazionale violativo del diritto dell’Unione europea si è aperta all’indomani della pubblicazione della sentenza della Corte di giustizia, 13.6.2006, C-173/03, secondo la quale il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. La Corte nell’affermare il suddetto principio, infatti, riteneva di superare l’obiezione secondo la quale una simile conclusione metterebbe a repentaglio il principio di intangibilità del giudicato, optando, invece, per un sistema di convivenza del principio di responsabilità per violazione del diritto comunitario e quello di intangibilità del giudicato.
La tematica è stata, però, nuovamente affrontata dalla Corte di giustizia con due sentenze che vanno lette congiuntamente. La prima, C. giust., 18.7.2007, C-119/05, pare sancire il definitivo superamento del principio di intangibilità del giudicato contrastante con il diritto dell’Unione europea, affermando che Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Comm. CEE divenuta definitiva. La seconda decisione, C. giust., 3.9.2009, C-2/08, chiarisce e limita la portata altrimenti dirompente della prima nel senso che l’art. 2909 c.c. non può essere invocato in contrasto con il diritto comunitario, quando ancora un giudicato non si sia formato o quando la fattispecie sia sottratta alla giurisdizione del giudice nazionale, sicché una decisione giurisdizionale nazionale definitiva non può in concreto intervenire.
Un’ultima sentenza, C. giust., 12.2.2008, C-2/06, intervenuta sul tema, non smentisce il principio di intangibilità del giudicato, limitandosi a ritenere compatibile con il diritto comunitario la possibilità di procedere al riesame di una decisione amministrativa adottata in forza di una sentenza passata in giudicato, ma in contrasto con il diritto comunitario, anche se l’istante in sede processuale non aveva invocato la disciplina comunitaria. La sentenza in questione, si badi presuppone, ma non esige, che la disciplina nazionale preveda che la suddetta decisione amministrativa possa essere oggetto di un riesame in autotutela.
Pertanto, il principio di intangibilità del giudicato e delle decisioni amministrative assunte in forza dello stesso non ne risulta scalfito.
Il processo di “stratificazione storica”, cui sopra si è accennato, ha visto operare non soltanto il legislatore, ma anche, e soprattutto, la giurisprudenza, chiamata a coordinare il rispetto dei precetti costituzionali di effettività della tutela giurisdizionale e di separazione dei poteri, alla luce del mutamento di sensibilità, che ha inciso sulla portata di entrambi i principi in questione. Il punto di arrivo della suddetta riflessione giurisprudenziale è contenuto nella sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, del 15.1.2013, n. 2, che ha operato un’approfondita riflessione sull’attuale disciplina processuale contenuta negli artt. 112-115 c.p.a.
Il supremo organo di giustizia amministrativa con la citata pronuncia ha precisato che: a) il giudicato si forma in ragione della concreta situazione giuridica dedotta in giudizio e del vizio di legittimità accertato in sentenza. da ciò deriva che non condiziona il potere esercitato dall’amministrazione in casi consimili, ma, al contempo, che si ripercuote in via riflessa sull’accertamento della legittimità di altro provvedimento che col primo concorre alla costituzione di una stessa situazione di fatto e di diritto; b) il giudizio di ottemperanza ha natura mista di esecuzione e di cognizione e può essere attivato da diverse tipologie di domande volte ad ottenere l’attuazione «delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice», la condanna «al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza», il «risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato ... », «la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato, e ciò sia al fine di ottenere l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato»; c) il giudice dell’ottemperanza deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto.
Pertanto, all’esito di un giudicato di annullamento che comporti la riedizione del potere amministrativo al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative − entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 c.p.a. − possono essere dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità, con l’avvertenza che questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori, tenendo presente che nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’Amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione segue la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda; viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione; d) la regola secondo la quale il giudicato copre il dedotto ed il deducibile non può proiettare l’effetto vincolante sulla riedizione del potere che coinvolga situazioni nuove o una rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice ove si tratti di valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione; e) la sopravvenienza normativa non rileva rispetto al giudicato che abbia definito ogni aspetto del rapporto controverso, mentre opera secondo l’ordinaria disciplina della successione di norme nel tempo, qualora incida sui tratti del potere amministrativo non vincolato dal giudicato.
La forza del giudicato e il principio di primazia del diritto comunitario rappresentano un’occasione di frizione tra ordinamento nazionale e sovranazionale, all’interno di un sistema unitario improntato ad un criterio generale che impone l’eliminazione delle regole giuridiche contrastanti con il diritto dell’Unione europea. La composizione del suddetto contrasto ha imposto proprio nella fattispecie esaminata dalla sentenza n. 11/2016 dell’Adunanza Plenaria la proposizione di una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, che con la sentenza 10.7.2014, C-213/13, ha ricostruito i rapporti tra il principio di intangibilità del giudicato e quello di primazia del diritto comunitario evidenziando che: a) le modalità di attuazione del principio dell’intangibilità del giudicato rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, ai sensi del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, nel rispetto tuttavia dei principi di equivalenza e di effettività; b) nel completare il disposto delle proprie sentenze definitive secondo lo schema del giudicato a formazione progressiva, il giudice amministrativo italiano è tenuto, alla luce del principio di equivalenza, ad applicare detta modalità privilegiando, fra le «molteplici e diverse soluzioni attuative» di cui tale decisione può essere oggetto secondo le sue proprie indicazioni, quella che, conformemente al principio di effettività, garantisca l’osservanza della normativa dell’Unione; c) qualora non residuino margini per completare la decisione in modo tale da privilegiare un esito conforme al diritto comunitario, il diritto dell’Unione non esige, dunque, che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto offerta dalla Corte posteriormente alla decisione di un organo giurisdizionale avente autorità di cosa giudicata, quest’ultimo ritorni necessariamente su tale decisione; d) nel caso in cui il diritto nazionale consenta di ritornare sulla sentenza passata in giudicato, il giudice dovrà tenere conto della decisione della Corte di giustizia sopravvenuta.
Le indicazioni della Corte di giustizia contenute nella citata sentenza del 10 luglio 2014 ci offrono un punto di equilibrio chiaro nel senso che il principio di primazia del diritto comunitario, in assenza di una disciplina processuale europea, non impone il sacrificio tout court del principio di intangibilità del giudicato,
che poggia sui valori della certezza del diritto e dell’affidamento, fortemente incardinati nella struttura del diritto dell’Unione. Pertanto, l’attuazione del principio di primazia va declinata nelle forme della tutela per equivalente che può invocare il privato anche nei confronti dello Stato-giurisdizione, ovvero nell’onere per il giudice nazionale di favorire ove residuino margini di potere libero in capo all’amministrazione il formarsi di una decisione che sia in linea con l’esegesi della Corte di giustizia sopravvenuta all’indomani del giudicato.
A livello di ordinamento nazionale, invece, residuano almeno due profili di problematicità: 1) circa l’affermazione dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013, secondo la quale non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice, ove la riedizione del potere si concreti nel valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del giudice; 2) circa il ruolo delle Sezioni Unite della Corte di cassazione ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.
Un punto sul quale la più recente sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 11/2016, non è tornata è quello del margine di riedizione del potere dell’amministrazione inciso espressamente o implicitamente dal dictum giudiziale, laddove gli stessi fatti valutati in sede giurisdizionale siano rivalutati, ma sulla base di una nuova prospettazione. Ipotesi nella quale secondo la Plenaria n. 2/2013, sembrerebbe potersi ritenere non esistente il vincolo del giudicato. Il punto è estremamente delicato, nel senso di poter rappresentare forse l’ultimo ostacolo ad una piena attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale nel processo amministrativo. È noto, infatti, che il giudizio amministrativo è oramai improntato ad un giudizio non più sull’atto ma sul rapporto amministrativo, che interviene attraverso un accesso diretto alla res controversa. Sicché l’accesso al fatto da parte del giudice amministrativo è strumento indefettibile per assicurare la tutela della posizione giuridica dedotta in giudizio. Pertanto, l’accertamento dei presupposti fattuali a fondamento dell’esercizio del potere amministrativo ricade sotto l’ombrello del giudicato, lo stesso può non essere per la valutazione dei fatti in questione. Ciò, però, rischia di aprire una spirale di pronunce di annullamento e di riedizioni del potere potenzialmente senza fine. Un antidoto contro questo meccanismo perverso che potrebbe vedere il ricorrente sempre vittorioso in sede processuale, e ciò nonostante mai in grado di far proprio il bene della vita, non sembra più essere ricercato dalla giurisprudenza amministrativa nel meccanismo del cd. one shoot, ossia della previsione di un unico momento di riedizione del potere a valle del giudicato di annullamento, il cui eventuale successivo travolgimento andrebbe letto come obbligo di soddisfare la pretesa del privato. Quanto nel meccanismo del giudicato a formazione progressiva, strumento duttile, la cui funzionalità è stata riconosciuta come visto anche dalla Corte di giustizia.
Un ultimo profilo di problematicità riguarda il ruolo assunto negli ultimi anni dallo strumento del ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione avverso le sentenze del Consiglio di Stato. Il rimedio in questione non è più riconducibile ad una verifica di pura qualificazione della situazione soggettiva dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, né è rivolto al semplice accertamento del potere di conoscere date controversie attribuito ai diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento è dotato, ma costituisce uno strumento per affermare il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi. dunque, “è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto a quel potere stabilendo le forme di tutela attraverso le quali esso si estrinseca» (Cass., S.U., 23.12.2008, n. 30254; 8.4.2016, n. 6891). L’evoluzione dello strumento in questione, per evidenti ragioni di coordinamento dell’ordinamento nazionale con quelli sovranazionali, porta a dubitare della stessa ragione dell’esistenza di una pluralità di giurisdizioni e rischia di vanificare la ricchezza sottesa al patrimonio di specifiche competenze sotteso al detto principio.
Da qui l’esigenza di rivedere la composizione del giudice della giurisdizione, favorendo la creazione di un Tribunale dei conflitti in grado di favorire il sopravvivere della «diversa sensibilità con la quale ciascun giudice decide e risolve le questioni»2.
Note
1 Giannini, M.S., Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Atti del convegno sull’adempimento del giudicato amministrativo, Milano, 1962, 141.
2 Verde, G., Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, 1138 ss.