SORDOMUTISMO (fr. surdi-mutisme; sp. surdimutismo, sordomudez; ted. Taubstummheit; ingl. deaf-mutism)
Mutismo dipendente da sordità congenita o precocemente acquisita. In circa una metà dei casi, il sordomutismo per sordità congenita è di natura schiettamente degenerativa ed ereditaria. Il sordomutismo si comporta allora come un carattere recessivo nel senso mendeliano. La malattia può colpire soltanto l'organo periferico dell'udito, ma spesso c'è anche, in grado diverso a seconda dei casi, un certo grado di deficienza psichica. Il sordomutismo di tipo degenerativo si riscontra con maggiore frequenza nelle regioni montuose dove è diffuso il gozzo endemico. Ma non sembra che vi sia un nesso etiologico e patogenetico fra le due malattie. H. Hunziker ha rilevato con accurate statistiche che il maximum di sordomutismo si ha in regioni con un'altitudine maggiore di quelle che dànno il maximum di gozzo, e sostiene perciò l'indipendenza fra le due affezioni. Un'altra metà circa dei casi di sordomutismo congenito sono dovuti a lesioni cerebrali, che non cagionano soltanto sordità, ma anche una deficienza mentale più o meno rilevante; in questi casi l'educabilità è scarsa o nulla. La sordità che determina il sordomutismo può anche essere acquisita nell'infanzia: se la favella era già sviluppata, purché la sordità sia sopraggiunta prima dei sette anni, essa subisce un'involuzione più o meno rapida fino alla scomparsa. Se la malattia dell'orecchio è guaribile, la favella può essere ricuperata. Se non vi sono complicazioni cerebrali, il sordomutismo otogeno acquisito è suscettibile al massimo di educazione. A determinare il sordomutismo, non occorre una sordità completa; basta che vi sia sordità per il tratto della scala tonale dal do al sol; sicché vi sono sordomuti che possono udire rumori, suoni musicali, canticchiare delle arie, ma non sono capaci di parlare.
L'educazione dei sordomuti.
Rodolfo Agricola (1445-1487), il quale aveva sostenuto che la sola lingua materna è la veste del pensiero, riteneva strano che un sordomuto avesse potuto, per mezzo della scrittura, manifestare le proprie idee e capire le altrui. Su questo fatto si fermò Girolamo Cardano (1501-1576) e, riflettendo sulla formazione spontanea del processo conoscitivo, ne trasse la convinzione che, sostituendo la scrittura alla parola, il sordomuto avrebbe potuto intendere leggendo e parlare scrivendo.
Il principio teorico e l'ammonimento del Cardano non rimasero inascoltati, perché venivano a confermare che si può percepire la parola, sostituendo allo stimolo sensoriale uditivo quello visivo. Ma se ciò era dimostrato dal fatto che in certo qual modo i sordomuti erano stati istruiti, secondo le scarse notizie che possiamo ricavare da autori antichi, come Plinio e S. Agostino, e da autori quasi contemporanei al Cardano, come l'Agricola, il problema della vera educazione del sordomuto, per mezzo del metodo orale, fu affrontato dal monaco benedettino spagnolo Pedro Ponce (1520-1584) del monastero di S. Salvatore de Ogna. Egli partiva dalla scrittura delle parole, applicandovi l'immagine delle cose, e, pazientemente, sostituendo lo stimolo visivo a quello uditivo, faceva pronunziare ad una ad una le lettere dell'alfabeto catalano e quindi le sillabe e le parole. Così gli riuscì a insegnare ai muti a parlare.
Un altro spagnolo, Giovanni Paolo Bonet di Aragona, ebbe il merito di esporre per il primo la teoria e la pratica del metodo orale applicato all'educazione dei sordomuti, nell'opera (Madrid 1620) tradotta anche in italiano, Riduzione delle lettere e arte per insegnare ai muti a parlare. Il Bonet, che pur aveva dimostrato teoricamente la bontà dell'originale metodo inventato dal Ponce, riducendo "la pronunzia di ogni lettera dell'alfabeto alla semplicità sua primitiva, la quale consiste in una posizione determinata dell'organo vocale", e la possibilità d' insegnarla al sordomuto, sostituendo la vista all'udito, usò l'alfabeto manuale per la comunicazione con gli allievi, pur ammettendo che, in casi speciali, il sordomuto potesse rilevare dal movimento delle labbra dei parlanti la parola articolata. Ma, escludendo dall'insegnamento l'esercizio della lettura labiale, ne ritardava il progresso nei più abili e ne ostacolava la diffusione.
Questo metodo orale, di origine spagnola, si diffondeva in Inghilterra, in Francia, in Germania. Giovanni Bulwer che pubblicò in Inghilterra il primo libro sull'istruzione dei sordomuti, intitolato Filocofo (1648), completò la pratica del Ponce e del Bonet, fissando i due principî che regolano la lettura labiale: movimento e forma. "Le forme delle lettere e quindi quelle delle parole sono osservabili e riconoscibili. La parola articolata non richiede necessariamente il suono, ma può esistere senza di questo; cioè può essere veduta come è udita". Ma la lettura labiale non fece progressi nemmeno in Inghilterra, perché il Wollis e il Holder sostenevano, in fondo, che il mezzo più facile di comunicazione tra il maestro e il sordomuto era il gesto naturale (mimica) e la scrittura. L'opera del primo, una grammatica sulla lingua inglese, fu pubblicata nel 1653, e gli Elementi del linguaggio del secondo nel 1669.
Fondamentale nella storia del metodo orale che poi prenderà il nome di metodo o scuola tedesca è il libro di J. K. Amman di Sciaffusa, pubblicato nel 1692, col titolo Surdus loquens, che ebbe, dopo il 1700, una ristampa col titolo Dissertazione sulla loquela, e molta diffusione, anche in Italia. J. K. Amman affermò che, data l'incurabilità della sordità causa di mutismo, si può fare in modo che il sordo si abitui ad osservare i movimenti dell'organo vocale e a riprodurre i suoni della parola per via di analisi.
In Francia, Rodriguez Pereire (1715-1780) che conosceva le opere del Bonet e dell'Amman, applicò all'istruzione dei sordomuti il metodo orale, servendosi, per comunicare con gli allievi, del gesto naturale e sostituendo alla lettura labiale, ch'egli considerava possibile ma in rapporto alla speciale abilità individuale, la dattilogia, ch'è poi, su per giù, l'alfabeto manuale del Bonet, sebbene egli neghi di essersene servito. E con maggiore efficacia lo adoperò l'abate Francesco Deschamps (1745-1791) che aprì a sue spese un convitto a Orléans, per l'educazione dei sordomuti; scrisse un Corso elementare di educazione dei sordomuti (1779) dove segue specialmente i principî enunciati dall'Amman, e un trattato sulla lettura labiale, pur non escludendo del tutto l'alfabeto manuale nelle comunicazioni tra maestro e allievo. Ma con la morte del Deschamps finì anche l'istituto di Orléans e l'applicazione del metodo orale in Francia, giacché prevalse nell'istruzione dei sordomuti il metodo mimico, che va sotto il nome di De l'Épée (1716-1789). Questi si consacrò interamente all'istruzione dei sordomuti e riuscì, con la novità del metodo che faceva risparmiare tempo ed energia, a fondare la prima scuola pubblica di Parigi e ad attrarre ad essa l'attenzione e il favore dell'Europa e dell'America Settentrionale. Questa scuola francese seguiva, come mezzo didattico principale, la mimica. L'abate De l'Épée conosceva l'alfabeto manuale e gli altri metodi tradizionali, apprezzava le opere di Bonet e di Amman, e riteneva che "l'unico mezzo per mettere in rapporto il sordomuto con la società sta nell'insegnargli la parola articolata"); ma egli si era proposto di estendere l'istruzione a tutti i sordomuti e di attrarre su di essi l'interesse di tutte le nazioni civili, persuadendole che il sordomuto è sì un arretrato nello sviluppo spirituale, ma educabile. Ed escogitò quindi un metodo facile, che servisse non per l'insegnamento della lettura, com'era l'alfabeto manuale, ma conducesse gli alunni all'intelligenza delle parole. E, partendo dal principio già enunciato dal Cardano che l'associazione del significato delle parole con gli oggetti non è diverso se questi si mettano in relazione coi segni o con le parole scritte, sostenne che il muto "coi gesti rappresentava, secondo le contingenze, ogni specie d'idee, di relazioni e di rapporti fra le idee medesime". Così il De l'Épée poté da solo avviare all'istruzione molti sordomuti e insegnare il metodo mimico a non pochi maestri che poterono diffonderlo. In questa prima scuola di metodo ebbe il certificato di abilitazione all'insegnamento l'abate Silvestri (1744-1783) che poté aprire a Roma una scuola per sordomuti il 5 gennaio del 1784. L'opera del De l'Èpée fu completata dall'abate A. Sicard (1746-1822).
Intanto, nello stesso tempo in cui veniva istituita la scuola di Parigi e si diffondeva il metodo dell'Abate De l'Épée, Samuele Heinicke (1729-1790) fondava a Lipsia una scuola per l'istruzione dei sordomuti, applicandovi con tanta insistenza il metodo orale, in opposizione al fortunato metodo francese, da meritare il titolo di fondatore della scuola tedesca. In sostanza, però, egli sviluppava i principî dell'Amman, sostenendo che i sordomuti possono anche pensare per mezzo d'immagini e di segni mimici; che possono acquistare, sia pure lentamente, le idee per mezzo della scrittura; che l'alfabeto manuale serve alla correlazione delle idee fra di loro, ma, quando i sordomuti hanno imparato a parlare, devono servirsi della parola articolata ad alta voce, sia fra di loro, sia nella conversazione con gli udenti, coi quali non dovrebbero mai adoperare la mimica. Il metodo orale, che pur non era del tutto sparito dalle scuole dove era applicato il metodo francese, si conservò in quella tedesca, e fu perfezionato dal dott. Hirsch, direttore dell'istituto di Rotterdam, che nel 1868 pubblicò un opuscolo sulle esperienze decisive fatte nelle scuole francesi per il ritorno al metodo orale, e poi da Maurizio Hill, che sostenne la necessità di riformare l'insegnamento dei sordomuti, avvicinandolo quanto più fosse possibile a quello degli udenti. Gli scritti del Hill si diffusero dopo il 1870 e furono fatti conoscere in Italia da Pasquale Fornari (1838-1923) insegnante nel R. Istituto di Milano. E nel congresso internazionȧle tenutosi a Milano nel 1880, dove erano intervenuti specialmente gli educatori d'Italia e di Francia, si deliberò il ritorno al metodo orale nell'insegnamento dei sordomuti e si auspicò che in tutti gli stati si stabilisse per legge l'obbligo della loro istruzione; che vigeva allora nella Scandinavia e nella Danimarca.
In Italia, per far sì che anche i fanciulli di condizione povera, i quali non possono essere mantenuti negli appositi istituti dalle famiglie, ricevano l'istruzione voluta dalla legge, un efficace e saggio provvedimento del governo fascista stabilisce che le amministrazioni provinciali, competenti per territorio, sono obbligate a provvedere alla spesa per il ricovero di quei fanciulli (art. 80 del decr. legge 30 dicembre 1923, n. 2838). Attualmente funzionano 58 istituti, dei quali 37 nell'Italia settentrionale, 9 nella centrale, 8 nella meridionale e 4 nella insulare. Di essi 3 sono regi (istituti di Roma, Milano e Palermo) gli altri, pur essendo sotto la vigilanza governativa sono autonomi e sono sostenuti, oltreché con i fondi del loro patrimonio, con i contributi dello stato e degli enti pubblici e privati, con le rette pagate dalle amministrazioni provinciali e dalle famiglie dei ricoverati che non hanno diritto al ricovero gratuito e con la beneficenza privata. Essendo l'istruzione obbligatoria, le scuole sono fre
Due scuole di metodo, una regia a Milano, l'altra pareggiata a Napoli, provvedono alla preparazione degl'insegnanti di questi minorati, dai quali dipende in gran parte una sempre più vigile, illuminata ed efficace educazione dei sordomuti. L'educazione di questi minorati mira non soltanto a dar loro l'istruzione, ma a restituirli al consorzio sociale, non come dei miseri, bisognosi di aiuto e oggetto di compassione, ma in condizione da comunicare con gli udenti e vivere del proprio lavoro.
Secondo i programmi, approvati con r. decr. del 2 luglio 1925, n. 1995 in applicazione del r. decr. 31 dicembre 1923, n. 3126, il corso degli studî dura 8 anni, distinto in un primo periodo di quattro anni, nel quale si deve dare al sordomuto il mezzo di espressione orale, e in un secondo, pure di quattro anni, nel quale tutto l'insegnamento si riduce a quello della lingua. Ma, perché l'insegnante possa dirigere "l'ideazione attuale dei suoi allievi per insegnar loro la giusta espressione orale e scritta" dopo gli esercizî di fonazione e di articolazione, egli deve, fin dal terzo anno, occuparsi nella conversazione, di oggetti, persone, azioni, avvenimenti della vita quotidiana e fenomeni naturali; cioè deve, nel creare l'abilità del parlare, impartire un certo sapere. Questo assume, anzi, una determinazione specifica, dal terzo anno in poi: nozioni elementari di aritmetica; di geografia fisica e politica; storia civile del regno d'Italia, ecc.
Molta importanza è data all'educazione fisica, soprattutto per la ristorazione del torace attraverso gli esercizî di una ginnastica razionale, e al lavoro, anche per la loro preparazione alla vita.
Diritto.
In diritto classico romano i sordomuti erano incapaci: non potevano stipulare, né essere tutori; non potevano fare da testimoni nei testamenti né far essi stessi testamento (dubbî in S. Riccobono, Zeitschrift der Sav.-Stift. für Rechtsgeschichte, 1922, pag. 386); il diritto giustinianeo attenuò questo rigore purché fossero ottemperate speciali formalità: così i sordomuti, che fossero divenuti tali a seguito di malattia, potevano fare un testamento olografo sempre che sapessero scrivere: i muti e i sordi erano infine ammessi alla bonorum possessio si quid agatur intelligant e i sordomuti anche dalla nascita potevano anche pro herede gerere et obligari hereditati (Dig., XXVIII, 2, de adq. v. om. her., 5).
Nella legislazione barbarica i muti e i sordi sono parificati alle donne (Roth., 153). Il feudalesimo esclude dall'investitura i muti e in genere i difettosi di corpo importando il feudo l'obbligo nel vassallo di servizî militari; fuori del campo feudale la capacità dei muti e dei sordi fu oggetto di questioni numerose, risolute variamente sull'interpretazione dei testi romani distinguendosi fra sordomuto a nativitate o ex natura e sordomuti superveniente casu: discussioni sorsero perfino sul punto se fosse applicabile a essi la tortura.
Il diritto canonico ebbe altresì a interessarsi della capacità dei sordomuti per quanto ha riguardo all'ordinazione cui è d'impedimento ogni defectus corporis; fu discusso se potessero darsi alla vita monastica, se potessero contrarre matrimonio, se potessero far da padrino, ecc. Anche i criminalisti non esclusero che i sordomuti potessero avere discernimento.
La pratica venne così a ritenere i sordomuti per causa sopravveniente forniti di capacità, quantunque limitata, relativamente agli atti che non richiedessero l'uso degli organi uditivi o la parola; cessando l'età della tutela, si dava loro un curatore. Né il codice napoleonico né quello napoletano registrarono la condizione: diversamente il codice austriaco e il parmense che ritenevano i sordomuti fin dalla nascita inabilitati ope legis al sopraggiungere della maggiore età salvo il caso che il tribunale li avesse ritenuti e dichiarati abili a provvedere ai proprî interessi.
Il codice italiano (art. 340) ha seguito questa via: i sordomuti giunti alla maggiore età sono inabilitati di diritto: ma il tribunale può dichiararli pienamente capaci. Restano alcune incapacità determinate dal vizio dell'organo: così il sordomuto e il muto non possono testare per testamento pubblico (art. 778).
Bibl.: G. C. Amman, Dissertazione sulla loquela, versione dal latino di V. Banchi, Siena 1901; G. P. Bonet, Riduzione delle lettere ai loro elementi primitivi e arte d'insegnare a parlare ai muti, versione dallo spagnolo di S. Monaci, Siena 1912; G. Ferrari, Disegno storico dell'educazione dei sordomuti, I e II, Siena 1917, 1920; S. F. Fisichella, Il diritto e i sordomuti, Catania 1902; S. Heinicke, Del modo di pensare dei sordomuti, trad. di G. Ferreri, Siena 1914; E. Scuri, Heinicke e De l'Épée nella controversia intorno ai metodi d'insegnamento dei sordomuti, Napoli 1906.
Diritto: E. Besta, Le persone nella storia del diritto italiano, Padova 1931, p. 124 segg.; A. Ascoli, I sordomuti e l'art. 467 del nuovo cod. civ., in Riv. dir. civ., 1931; R. Trifone, Le persone e le classi sociali nella storia del diritto italiano, Napoli 1933, p. 115 segg.