Abstract
Oggetto della presente voce è l’esame di uno degli istituti maggiormente studiati dalla dottrina e trattati dalla giurisprudenza non fosse altro che per l’alto numero di ipotesi previste nei codici di rito civile e penale e nelle altre leggi. Un istituto che, per porsi in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo, è stato negli ultimi decenni sottoposto ad un’interpretazione restrittiva.
La sospensione del processo indica una pausa temporanea nel suo svolgimento, in attesa dell’emanazione di una decisione o dello spirare di un termine.
La sospensione è un fenomeno che interessa il processo di cognizione e il processo esecutivo. È invece incompatibile con il processo cautelare, in quanto una pausa nello svolgimento si pone in evidente contrasto con la sua natura e funzione.
In questa voce sarà esaminata soltanto la sospensione del processo di cognizione, che presenta i maggiori problemi teorici e pratici.
Il codice di rito civile del 1940 per la prima volta dedica alla sospensione una sezione autonoma. La novità è tuttavia solo apparente poiché, da un lato, in tale sezione non viene dettata una regolamentazione organica ed unitaria o fattispecie generali di sospensione e, dall’altro, la sospensione continua ad essere contemplata in norme sparse nel codice di rito, in altri codici e in leggi speciali. Si contano oggi circa trenta ipotesi di sospensione del processo di cognizione.
La previsione di una sezione autonoma e di molteplici fattispecie sospensive pone l’esigenza di chiarire alcuni aspetti preliminari.
A) Negli artt. 295 e 296 c.p.c. il legislatore descrive non due ipotesi generali di sospensione, nelle quali riportare tutte le altre sparse nell’ordinamento, bensì due specifiche fattispecie, quella necessaria per cd. pregiudizialità e quella su istanza di parte. Inoltre l’art. 297 c.p.c. non è l’unica norma prevista in tema di riassunzione del processo sospeso, sussistendo altre disposizioni (artt. 50 c.p.c., 125, 125 bis disp. att. c.p.c.), per di più di carattere generale (art. 125), e l’art. 298 c.p.c. nulla dice in ordine alla sorte degli atti compiuti durante la sospensione e alla possibilità di compiere atti urgenti.
B) Nonostante il grande numero delle ipotesi di sospensione, l’istituto ha carattere eccezionale, poiché si pone in contrasto con la natura e con la funzione del processo, che è fatto per procedere. Ne deriva che non è possibile dare vita, in via di interpretazione analogica od anche solo estensiva, ad ipotesi sospensive al di fuori di quelle espressamente previste dalla legge; così come non è possibile mutarne la struttura o modificarne la durata.
C) La sospensione non opera sempre nello stesso modo, poiché in alcuni casi opera automaticamente, per effetto del semplice compimento o del mancato compimento di un atto ad opera di una delle parti, indipendentemente dall’intervento del giudice (artt. 48, 52, 332, 420 bis, 678 c.p.c.; 64, co. 3, d.lgs. 30.3.2001, n. 165); in altri casi opera ope iudicis, nel senso che il provvedimento giudiziale è necessario perché si abbia sospensione del processo; peraltro in talune ipotesi il giudice è vincolato a dichiararla, una volta che ha verificato la sussistenza delle condizioni previste dalla legge (artt. 295, 313, 355, 367, 443 c.p.c.; art. 75, co. 3, c.p.p.; art. 23 l. 11.3.1953, n. 87; art. 7, co. 1, l. 31.5.1995, n. 218; art. 267 TUE, art. 3 l. 13.3.1958, n. 204); in altre è munito di un potere discrezionale, nel senso che deve valutare, con riferimento al caso particolare, se è oppure no opportuno sospendere il processo (artt. 279, co. 4, 296, 337, co. 2, 398 c.p.c., artt. 129 bis e 133 bis disp. att. c.p.c.; art. 146 bis disp. att. c.p.c. e 64, co. 6, d.lgs. 165/2001; art. 7, co. 3, l. n. 218/1995). Vi è poi un’altra sospensione che non rientra in una delle anzidette categorie più generali, dal momento che è disposta dal capo dell’ufficio e non dal giudice della causa (art. 368 c.p.c.).
D) La sospensione non ha sempre una stessa durata o una durata predeterminata. In alcuni casi, essa è disposta in attesa della scadenza di un termine, per lo più predeterminato (artt. 296, 332, 420 bis, 443 c.p.c.; artt. 11, co. 2 e 3, e 14, co. 1, l. 4.5.1983, n. 184). In altri la durata non è predeterminata, perché la sospensione è dichiarata in attesa dell’emanazione di un provvedimento e può essere ricollegata o alla durata di un grado del giudizio (artt. 279, co. 4, 129 bis e 133 bis disp. att., c.p.c.; art. 398 c.p.c.) o all’intero giudizio, fino al passaggio in giudicato della sentenza (artt. 295, 313, 355 c.p.c.; 75 c.p.p.) o alla pronuncia di un’altra autorità giudiziaria (art. 23 l. n. 87/1953; art. 7, co. 1, l. n. 218/1995; art. 267 TUE, art. 3 l. n. 204/1958).
E) La sospensione, una volta verificatasi, produce, indipendentemente dalla sua struttura e dalla causa che la origina, lo stesso effetto: il processo entra in uno stato di quiescenza in attesa che venga emessa una decisione o che spiri un termine e durante tale stato non è possibile compiere atti, all’infuori di quelli urgenti.
Quasi tutte le ipotesi di sospensione non creano particolari problemi per quanto attiene all’ambito di applicazione, in quanto sono previste all’interno degli istituti che le comportano (regolamento di competenza, di ricusazione, di regolamento di giurisdizione).
Problemi sorgono invece per quel che riguarda alcune ipotesi di sospensione, ossia per quella originata dalla pendenza di un processo penale e per quelle contemplate negli artt. 295 e 337, co. 2, c.p.c.
Per quel che concerne i rapporti fra processo civile e processo penale, è opportuno ricordare che prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito penale la relativa disciplina era caratterizzata dalla prevalenza del processo penale su quello civile, prevalenza che veniva conseguita con il riconoscere al privato il potere di proporre l’azione civile in sede penale e con l’attribuzione al giudice penale del potere-dovere di conoscere siffatta azione (artt. 22, 23 e 24, co. 1, c.p.p. 1930), con la autorità assoluta della sentenza penale nel giudizio civile (artt. 25, 27 e 28) e con la sospensione necessaria del processo civile per la pendenza di un processo penale influente (art. 3, co. 2 e 4, c.p.p. che disciplinava il fenomeno in via generale; art. 24, co. 2, c.p.p. che prevedeva la sospensione del processo civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno; art. 295 c.p.c., che fino al 1990 statuiva che il «giudice dispone che il processo sia sospeso nel caso previsto nell’art. 3 c.p.p. …»).
La situazione è profondamente mutata con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Infatti, fermo restando il diritto del danneggiato di costituirsi parte civile nel processo penale, il legislatore, da un lato, non ha riprodotto una disposizione analoga al precedente art. 3, co. 2 e 4, c.p.p.; dall’altro, ha profondamente rivisto la disciplina già contenuta nell’art. 24 c.p.p., introducendo nell’art. 75 c.p.p. un differente sistema, e, dall’altro ancora, ha dettato una nuova disciplina in ordine agli effetti del giudicato penale negli artt. 651, 652 e 654 c.p.p., disciplina che tiene conto delle decisioni rese dalla Corte costituzionale negli anni Settanta (C. cost., 22.3.1971, n. 55; C. cost., 27.6.1973, n. 99; C. cost., 26.6.1975, n. 165). A tale normativa si sono successivamente affiancate altre disposizioni: nelle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di rito penale è stato inserito l’art. 211, che reca come rubrica «rapporti tra azione civile e azione penale»; la l. 26.11.1990, n. 353 che ha modificato l’art. 295 c.p.c., cancellando il rinvio all’art. 3 c.p.p. ed eliminando la qualificazione – civile o amministrativa – della controversia “pregiudiziale”.
Di fronte al nuovo quadro normativo la dottrina e la giurisprudenza, mentre hanno assunto una posizione univoca per quel che concerne la relazione che intercorre tra il giudizio civile di danno ed il giudizio penale, si mostrano divise relativamente all’altro tipo di relazione, quella tra il processo civile non di danno ed il processo penale “influente”.
Per quel che riguarda il primo tipo di relazione è pacifico che oggi il principio è quello della separazione ed indipendenza dei giudizi, che proseguono autonomamente nel loro corso, e che la sospensione necessaria del processo civile per pendenza di un processo penale influente è divenuta l’eccezione. Il co. 2 dell’art. 75 c.p.p., infatti, dispone che «l’azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile». Il co. 3 poi contempla la sospensione nel caso in cui l’azione civile di danno è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale e nel caso in cui anteriormente alla proposizione della domanda in sede civile è già stata emessa sentenza penale di primo grado. Si tratta di eccezionali situazioni, che peraltro non operano quando la proposizione dell’azione civile in sede propria dopo la costituzione di parte civile è una conseguenza di un suo esodo obbligato dal processo penale, come avviene in caso di sospensione del processo penale per incapacità dell’imputato, di esclusione della parte civile, di giudizio abbreviato non accettato dalla parte civile, di applicazione della pena su richiesta, di accertato impedimento fisico permanente che non permette all’imputato di comparire all’udienza, ove questi non consenta che il dibattimento prosegua in sua assenza (C. cost., 22.10.1996, n. 354).
Per quanto riguarda il secondo tipo di relazione, si contrappongono due tesi: la prima, che possiamo considerare maggioritaria, afferma che la regola è comunque quella della autonomia e della separazione dei giudizi, sicché il processo civile non va sospeso in pendenza di un processo penale influente; la seconda sostiene la sopravvivenza nel nostro ordinamento della prevalenza del processo penale rilevante su quello civile non di danno, con conseguente sospensione del processo civile.
Su questa problematica sono intervenute le Sezioni Unite, le quali hanno affermato una tesi, per così dire, intermedia, poiché mentre accoglie il presupposto di fondo della tesi che afferma l’autonomia ed indipendenza delle due giurisdizioni, negando l’operatività della sospensione, introduce un correttivo, che porta a prevedere che i casi di sospensione del processo civile non di danno ricorrerebbero allorché si crea fra i due giudizi «un rapporto di pregiudizialità logica e giuridica tra accertamento dei fatti che sono oggetto di imputazione nel processo penale e decisione che deve essere resa sulla situazione soggettiva dedotta nel diverso giudizio civile o amministrativo» (Cass., S.U., 5.11.2001, n. 13682).
Successivamente la Cassazione ha circoscritto la portata di questo principio, precisando che «il giudizio civile può essere sospeso, in base a quanto dispongono l’art. 295 c.p.c., art. 654 c.p.p. e art. 211 disp. att. c.p.p., nell’ipotesi in cui alla commissione del reato oggetto dell’imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile, e sempre a condizione che la sentenza che sia per essere pronunciata nel processo penale possa esplicare nel caso concreto efficacia di giudicato nel processo civile» (da ultima Cass., 10.3.2015, n. 4758).
Per quel che concerne l’ambito di applicazione della sospensione prevista negli artt. 295 e 337, co. 2, c.p.c., va innanzitutto sottolineato che le norme fanno riferimento ad uno stesso fenomeno, ossia alla pregiudizialità, intesa come relazione che esiste fra due rapporti giuridici, uno dei quali costituisce elemento costitutivo del secondo, che così dipende dal primo. Tale constatazione pone l’esigenza di chiarire i rapporti fra le due disposizioni, atteso che la sospensione ex art. 295 c.p.c. è necessaria ed ex art. 297 c.p.c. dura fino al passaggio in giudicato della sentenza sul rapporto pregiudiziale e quella di cui all’art. 337 c.p.c. è discrezionale e dura fino alla definizione del giudizio di impugnazione.
In dottrina, negli anni, sono state proposte almeno tre diverse ipotesi di coordinamento.
Una prima ipotesi afferma che:
- la sospensione necessaria ex art. 295 ricorre in due ipotesi: la prima, che possiamo definire per comodità di pregiudizialità esterna, quando pendono in sedi differenti due giudizi, fra loro in relazione di pregiudizialità, non è possibile la loro riunione e sul rapporto pregiudiziale non è stata ancora pronunciata sentenza; la seconda, che possiamo definire di pregiudizialità interna, quando nel corso del giudizio sorge una questione pregiudiziale che deve essere decisa ex art. 34 c.p.c. con efficacia di giudicato, sulla quale non è competente il giudice originariamente adito e non è possibile realizzare la trattazione simultanea;
- la sospensione discrezionale ex art. 337, co. 2, può essere disposta quando pendono due giudizi fra loro in relazione di pregiudizialità e sul rapporto pregiudiziale è già stata pronunciata sentenza, anche non passata in giudicato, sicché la norma ricordata fa riferimento a tutte le impugnazioni sia ordinarie sia straordinarie (Liebman, E.T., Sentenza e cosa giudicata: recenti polemiche, in Riv. dir. proc., 1980, 9; Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1960, 420).
Una seconda ipotesi sostiene che:
- la sospensione ex art. 295 ricorre sempre in due ipotesi: nella prima quando pendono contemporaneamente due giudizi, anche in diverso grado, fra loro in relazione di pregiudizialità e non è possibile la loro riunione; tale sospensione ricorre anche quando il processo sul rapporto pregiudiziale è già stato definito con sentenza, ma questa non è ancora passata in giudicato; nella seconda quando nel corso del giudizio sorge una questione pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato sulla quale non è competente il giudice originariamente adito e non è possibile realizzare la trattazione simultanea;
- la sospensione ex art. 337, co. 2, può essere disposta quando nel corso del processo viene invocata l’autorità di una sentenza passata in giudicato, sicché tale ultima norma riguarda solo le impugnazioni straordinarie (Allorio, E., Postilla, in Riv. dir. proc., 1948, II, 24; Cerino Canova, A., Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 74, nt. 57).
Una terza ipotesi riporta
- la sospensione ex art. 295 solo alla fattispecie disciplinata dall’art. 34 c.p.c., ossia allorquando il giudice viene a trovarsi nell’impossibilità di decidere la controversia perché è sorta una questione pregiudiziale che o a seguito di domanda di parte (Cipriani, F., Le sospensioni del processo civile per pregiudizialità, in Riv. dir. proc., 1984, 274) o per legge (Trisorio Liuzzi, G., La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987, 558; Menchini, S., Sospensione del processo civile, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 36; Balena, G., Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari, 2015, 271) deve essere decisa con efficacia di giudicato e non è possibile assicurare la trattazione simultanea delle due controversie. La contemporanea pendenza di due processi in relazione di pregiudizialità non dà vita alla sospensione e i due processi proseguono il loro corso;
- la sospensione ex art. 337, co. 2, viene riferita all’ipotesi in cui nel corso del processo è invocata l’autorità di una sentenza passata in giudicato, sicché tale ultima norma riguarda solo le impugnazioni straordinarie.
Da parte sua la Cassazione, ritenendo che dovesse essere sempre assicurata l’uniformità delle decisioni, ha per molto tempo seguito la lettura che riporta la sospensione ex art. 295 sia nella cd. pregiudizialità esterna, sia nella c.d. pregiudizialità interna e la sospensione ex art. 337, co. 2, anche alle ipotesi in cui la sentenza “invocata” non è ancora passata in giudicato.
A partire però dalla fine degli anni Novanta si sono iniziate ad avere delle pronunce che hanno seguito le tesi dottrinarie che hanno posto in risalto beni sicuramente più importanti della astratta esigenza di garantire l’uniformità delle decisioni, come il diritto di difesa, l’effettività della tutela giurisdizionale, la ragionevole durata del processo.
In moltissime pronunce la Cassazione non solo esplicitamente riconosce il «disfavore» mostrato dal legislatore nei confronti della sospensione del processo civile, ma inoltre sottopone ad una lettura restrittiva l’art. 295 (Cass., 2.10.1998, n. 9787; Cass., 22.11.2006, n. 24859; Cass., 2.8.2007, n. 16995; Cass., 19.1.2010, n. 813).
Nel 2012 sono intervenute le Sezioni Unite, le quali hanno affermato che «fuori dei casi in cui sia espressamente disposto che un giudizio debba rimanere sospeso sino a che un altro da cui dipende sia definito con decisione passata in giudicato, intervenuta nel primo decisione in primo grado, il secondo di cui sia stata in quel grado ordinata la sospensione può essere ripreso dalla parte che vi abbia interesse entro il termine dal passaggio in giudicato della detta decisione stabilito dall’art. 297 c.p.c. Definito il primo giudizio senza che nel secondo la sospensione sia stata disposta o ripreso il secondo giudizio dopo che il primo sia stato definito, la sospensione del secondo può solo essere pronunziata sulla base dell’art. 337, co. 2, c.p.c., dal giudice che ritenga di non poggiarsi sull’autorità della decisione pronunziata nel primo giudizio» (Cass., S.U., 19.6.2012, n. 10027).
Le Sezioni Unite, quindi, seguono la soluzione secondo cui, quando tra due giudizi esiste un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante è stato definito con sentenza non passata in giudicata, il giudizio pregiudicato può essere sospeso ex art. 337, co. 2, c.p.c. e non deve esserlo ex art. 295 c.p.c., eccezion fatta per i casi in cui la sospensione fino al passaggio in giudicato della sentenza sul rapporto pregiudicante sia imposta da una specifica disposizione di legge, come accade nell’ipotesi disciplinata dall’art. 75, co. 3, c.p.p. Una decisione che viene fondata sull’art. 282 c.p.c., che, con la riforma del 1990, attribuisce provvisoria esecutività alla sentenza di primo grado.
Con questa ricostruzione, le Sezioni Unite, da un lato, riportano la sospensione necessaria ex art. 295 nell’ambito della contemporanea pendenza di due processi in relazione di pregiudizialità, e, dall’altro, affermano che la sospensione necessaria esaurisce i suoi effetti nel momento in cui nel processo sul rapporto pregiudiziale sopravviene la sentenza di primo grado, suscettibile di impugnazione. Una lettura che non troverebbe ostacoli nell’art. 295 c.p.c., che nulla prevede circa il termine ultimo della sospensione, e nell’art. 297 c.p.c., che indica solo il termine di inizio della decorrenza del termine per riassumere il processo sospeso, pena la sua estinzione.
La decisione delle Sezioni unite non convince, e non solo perché le Sezioni Unite ignorano del tutto il dibattito che ha coinvolto dottrina e giurisprudenza relativamente all’ambito di applicazione della sospensione ex art. 295 e danno per scontato che questa trovi applicazione quando vi è la contemporanea pendenza di due cause in relazione di pregiudizialità, soffermandosi a risolvere la questione se il giudice debba (ex art. 295) oppure possa (ex art. 337, co. 2) sospendere il processo sul rapporto pregiudicato quando il giudizio sul rapporto pregiudiziale è già stato definito con sentenza di primo grado, non passata in giudicato.
Infatti, l’art. 295 c.p.c. non solo non rinvia più alla norma contenuta nel codice di rito penale che contempla, sia pure in via eccezionale, la sospensione del processo civile per pendenza di un processo penale (art. 75, co. 3, c.p.p.), ma non fa alcun riferimento alla pendenza di un diverso processo (a differenza dell’art. 337, co. 2, c.p.c.).
Ebbene la mera contemporanea pendenza di un altro processo non può essere causa di sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c. in quanto o si dà vita alla loro riunione o gli stessi devono procedere in via autonoma e separata, con possibilità per il giudice di conoscere incidenter tantum la questione pregiudiziale. Gli artt. 40 e 274 c.p.c., escludendo che la riunione possa essere disposta quando essa può determinare un rallentamento delle cause, prevedono come alternativa alla riunione delle cause la loro autonoma prosecuzione e non la sospensione del processo pregiudicato; gli artt. 103 e 104 contemplano che i processi connessi, già riuniti, in caso di separazione proseguono ognuno la propria strada, senza subire alcuna sospensione. E proprio gli artt. 40 e 274, unitamente agli artt. 103, co. 2, 104, co. 2, 337, co. 2, c.p.c. costituiscono la migliore dimostrazione che la priorità logica dei rapporti giuridici non comporta sempre la priorità cronologica dei relativi accertamenti.
Fondamentale ruolo è quindi svolto dal principio, da sempre vigente nel nostro ordinamento, in base al quale il giudice conosce incidenter tantum le questioni pregiudiziali che si presentano nel corso del processo. Un principio che nel nostro ordinamento vige da sempre e che troviamo affermato in tutti i settori (artt. 4 e 5 l. 20.3.1865, n. 2248 all. E; art. 8 d.lgs. 2.7.2010, n. 104; artt. 2 e 75 c.p.p.; art. 2 d.lgs. 31.12.1992, n. 546, modificato dall’art. 12 l. 28.12.2001, n. 448; art. 7 d.lgs. 31.12.1992, n. 546; art. 63, co. 1, d.lgs. n. 165/2001; art. 819 c.p.c.; art. 6 l. n. 218/1995) e che, invece, le Sezioni Unite nella specie non considerano.
Ne deriva che la sospensione di cui all’art. 295 c.p.c., lungi dal disciplinare ipotesi di contemporanea pendenza di processi, fa riferimento ai casi in cui il giudice si trova nella temporanea impossibilità di giudicare, sia pure incidenter tantum, la questione che si presenta nel corso del processo. Il collegamento fra l’art. 295 e l’art. 34 è pertanto evidente: la sospensione del processo civile trova il suo ambito di operatività nella cd. pregiudizialità interna, allorché la questione si trasforma in controversia pregiudiziale e non è possibile assicurare la trattazione simultanea delle cause.
Quel che va a questo punto detto è che l’art. 34 contempla due differenti ipotesi di trasformazione della questione in controversia pregiudiziale: l’istanza esplicita di una delle parti e la previsione legale.
In dottrina, sono state prospettate due diverse letture: per una prima la sospensione ex art. 295 c.p.c. si verifica allorché viene proposta una domanda di accertamento incidentale che non può essere trattata unitamente a quella principale per ragioni di competenza inderogabile, di giurisdizione o di diversità di rito (Cipriani, F., Le sospensioni, cit., 274); per la seconda tesi, la sospensione ricorre allorché è la legge che impone l’accertamento con efficacia di giudicato e sempre che non sia possibile il simultaneus processus; la domanda di accertamento incidentale non è invece di per sé sufficiente a determinare la trasformazione della questione in controversia pregiudiziale allorché non è possibile realizzare la trattazione simultanea (Trisorio Liuzzi, G., La sospensione, cit., 558; Menchini, S., Sospensione, cit., 36; Balena, G., Istituzioni, cit., 271).
Questa seconda lettura si presenta più aderente al dettato normativo.
L’art. 34 c.p.c, infatti, prevede che in caso di domanda di accertamento incidentale allorché su di essa non è competente il giudice adito, tutta la causa deve essere trasferita al «giudice superiore»; ciò significa che l’art. 34 ammette l’istanza di parte solo quando è comunque possibile assicurare la trattazione simultanea dinanzi al giudice competente per la controversia pregiudiziale. Una conclusione nient’affatto priva di riscontro se consideriamo che l’art. 34 è la traduzione in norma delle idee di Giuseppe Chiovenda (Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 1179) e di Francesco Menestrina (La pregiudiciale nel processo civile, Milano, rist. 1963, 224) in tema di accertamento incidentale e che per questi studiosi la domanda di accertamento incidentale era ammissibile solo quando poteva realizzarsi il simultaneus processus; altrimenti il giudice conosceva incidenter tantum.
L’interpretazione ora esaminata trova un solido argomento a favore nell’art. 111 Cost., che dispone che «la legge ... assicura la ragionevole durata» del processo.
Infatti, se è vero che l’interprete deve prospettare un’interpretazione che non contrasti con quel principio, è anche vero che l’interpretazione che ricollega la sospensione necessaria ex art. 295 all’esigenza di assicurare comunque la coerenza e l’uniformità delle decisioni, comportando un inevitabile prolungamento dei giudizi, finisce per porsi in contrasto con il principio della «ragionevole durata» del processo. L’esigenza di assicurare l’uniformità e l’armonia delle decisioni può essere considerato un valore processuale per il nostro ordinamento, ma non è tuttavia un valore che deve essere perseguito in ogni caso, a scapito anche di altri beni ai quali è stata attribuita valenza costituzionale: la ragionevole durata del processo ed il diritto di azione e di difesa. Tanto meno l’esigenza di assicurare l’armonia e l’uniformità delle decisioni può ritenersi un valore costituzionale.
Il principio della ragionevole durata del processo rappresenta un valore costituzionale. E tra l’esigenza di pervenire alla decisione in tempi ragionevoli, che è un valore costituzionale, e l’esigenza di assicurare l’uniformità e l’armonia delle decisioni, che non è un valore costituzionale, l’interprete non può non privilegiare la prima.
Chiarito che l’art. 295 c.p.c. trova applicazione nelle ipotesi di cd. pregiudizialità interna, allorché non è possibile realizzare il simultaneus processus, rimane da precisare l’ambito di operatività dell’art. 337, co. 2, c.p.c.: tale disposizione si applica allorquando nel corso del processo viene invocata l’autorità di una sentenza, passata in giudicato, che decide un rapporto pregiudiziale, sentenza che viene impugnata con un mezzo straordinario, ossia con la revocazione (artt. 395 e 397 c.p.c.); con l’opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.); con l’impugnazione del contumace involontario (art. 327, co. 2, c.p.c.); con il ricorso per cassazione ex art. 362, co. 2, c.p.c. In tale caso il giudice si trova di fronte ad una alternativa: o decide la controversia applicando la sentenza passata in giudicato oppure sospende il processo in attesa della definizione del giudizio di impugnazione.
Per quel che concerne la forma del provvedimento, mentre per alcune ipotesi di sospensione il legislatore specifica o la forma (ordinanza: artt. 279, 355, 367 c.p.c.; art. 23 l. n. 87/1953) o l’organo (giudice istruttore: artt. 279, 296, 367, 368 c.p.c.), per altre, fra le quali quella necessaria ex art. 295 c.p.c., nulla dispone.
Relativamente alla sospensione ex art. 295 c.p.c. la tesi prevalente individua nell’ordinanza la forma del provvedimento, stante la natura ordinatoria e la circostanza che neppure astrattamente è idoneo a definire il giudizio. Per quel che riguarda l’organo, ovviamente nelle ipotesi di decisione affidata al collegio (art. 50 bis c.p.c.), alla tesi che vede nel collegio l’organo legittimato, si contrappone quella che afferma invece la competenza dell’istruttore, per la mancanza di un meccanismo di rimessione della causa al collegio in una ipotesi come quella in esame.
Con la riforma del 1990 il legislatore, accogliendo in parte i rilievi sollevati in dottrina, ha assoggettato il provvedimento che dichiara la sospensione ex art. 295 c.p.c. al regolamento necessario di competenza (art. 42 c.p.c.). Tale particolare impugnazione riguarda in ogni caso solo il provvedimento dichiarativo, non anche quello di rigetto. Alcuni anni fa le Sezioni unite della Cassazione, rivedendo il precedente orientamento, hanno affermato che, pur nella vigenza dell’art. 46 c.p.c., l’ordinanza del giudice di pace dichiarativa della sospensione ex art. 295 c.p.c. è impugnabile con il regolamento di competenza (Cass., S.U., 29.8.2008, n. 21931).
La limitazione del regolamento di competenza ai soli «provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell’articolo 295» suscita forti dubbi di legittimità costituzionale, dal momento che non è solo la sospensione ex art. 295 c.p.c. a risolversi in «un diniego sia pure temporaneo di giustizia», ma qualsiasi sospensione, discrezionale, necessaria o automatica.
Di fronte a questo quadro normativo, vi è da rilevare che, soprattutto nel corso di questi ultimi anni, la Cassazione ha iniziato ad ammettere il regolamento di competenza avverso provvedimenti che dispongono la sospensione del processo in base a disposizioni diverse dall’art. 295 c.p.c.
Si vedano, ad esempio le pronunce con le quali è stato ammesso il regolamento avverso i provvedimenti che dichiarano la sospensione facoltativa (quella di creazione giurisprudenziale) (Cass., 29.8.2008, n. 21924; Cass., S.U., 1.10.2003, n. 14670), l’ordinanza di sospensione ex art. 337, co. 2, c.p.c. (Cass., 5.12.2006, n. 25900; Cass., 14.1.2005, n. 671), l’ordinanza con cui il giudice, sul presupposto della proposizione del ricorso in cassazione contro il provvedimento reso sulla ricusazione, sospende il processo (Cass., 25.5.2005, n. 11010).
Ai sensi dell’art. 298 c.p.c. durante la sospensione non è possibile compiere atti del processo; se ciononostante fossero posti in essere, sarebbero affetti da nullità. L’art. 298 c.p.c. non disciplina l’ipotesi degli atti urgenti, a differenza dell’art. 48, co. 2, c.p.c. dettato per la sospensione per regolamento di competenza. Dottrina e giurisprudenza sono peraltro concordi nell’attribuire a quest’ultima previsione carattere generale e quindi ad affermare che per ogni tipo di sospensione il giudice può autorizzare il compimento di atti urgenti.
Deve inoltre ritenersi possibile la pronuncia dei provvedimenti aventi natura urgente e di quelli che possono essere resi in ogni stato del giudizio (artt. 186 bis, 186 ter e 423 c.p.c.).
Durante la sospensione possono comunque essere chieste le misure cautelari ex art. 669 quater e 699 c.p.c. La domanda si propone al presidente del tribunale, che designa il magistrato che deve trattare il procedimento.
La sospensione interrompe i termini in corso, i quali ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata per la prosecuzione del processo.
Una volta cessata la causa che ha dato vita alla sospensione il processo deve essere riassunto. Va sottolineato che il legislatore non ha dettato una norma generale, avendo previsto discipline differenti.
Con la l. 18.6.2009, n. 69, sono stati ridotti i termini di riassunzione solo per alcune fattispecie, con la conseguenza che non è possibile più desumere da tutte le norme una regola valida per le ipotesi prive di previsione. E così per alcune sospensioni il termine perentorio, a pena di estinzione, per la riassunzione è di tre mesi (art. 50 e art. 297 c.p.c.), per altre è di sei mesi (artt. 54, 367, 368 c.p.c., artt. 125 bis, 129 bis e 133 bis disp. att. c.p.c.); per altre è di centottanta giorni (art. 443 c.p.c.); per quella su richiesta delle parti ex art. 296 c.p.c. l’istanza per la riassunzione deve essere presentata dieci giorni prima della scadenza del termine di sospensione (a seguito della modifica apportata dalla l. n. 69/2009 la durata della sospensione non può essere superiore a tre mesi); per altre ancora non ha indicato alcun termine (art. 398 c.p.c.; art. 23 l. n. 87/1953).
Peraltro, la Corte costituzionale ha stabilito, con una decisione che sia pure resa con riferimento all’art. 297 c.p.c. deve considerarsi avente portata generale, che il termine per la riassunzione decorre non dalla cessazione della causa di sospensione, ma dalla conoscenza che ne abbiano le parti, conoscenza che deve essere quella acquisita con la notificazione o comunicazione della cessazione della causa di sospensione (C. cost., 4.3.1970, n. 34).
La riassunzione, nei casi di cui agli artt. 295 e 296 c.p.c., va fatta con ricorso al giudice unico o, in caso di collegio, al giudice istruttore o, in mancanza, al presidente del tribunale; ricorso e decreto di fissazione dell’udienza devono essere notificati alle altre parti a cura dell’istante nel termine stabilito dal giudice. Nelle altre ipotesi di sospensione la riassunzione va fatta con comparsa ex art. 125 disp. att. c.p.c., che deve essere notificata alle altre parti a norma dell’art. 170.
Artt. 295-298 c.p.c.; 75 c.p.p.; 211 disp. att. c.p.p.
Per la sospensione del processo di cognizione, Cipriani, F., Le sospensioni del processo civile per pregiudizialità, in Riv. dir. proc., 1984, 240; Menchini, S., Sospensione del processo civile. Processo civile di cognizione, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 36; Proto Pisani, A., Pregiudizialità e ragionevole durata dei processi civili, in Foro it., 1981, I, 1035; Proto Pisani, A., In tema di sospensione del processo civile di cognizione, in Studi senesi, 1988, 261; Recchioni, S., Pregiudizialità processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova, 1999; Trisorio Liuzzi, G., La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987; Trisorio Liuzzi, G., La sospensione del processo civile per pregiudizialità: gli artt. 295 e 337, 2° comma, c.p.c., in Giusto proc. civ., 2015, 633; Zumpano, M.A., Rapporti tra processo civile e processo penale, Torino, 2000.