Abstract
Con la l. 28.4.2014, n. 67, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto, la sospensione del processo per messa alla prova, applicabile agli imputati maggiorenni che, sia pure con le proprie peculiarità, trae origine da preesistenti riti adottati nel processo minorile e nel procedimento dinanzi al giudice di pace e presenta, inoltre, alcune contiguità con l’affidamento in prova al servizio sociale.
Si tratta di un istituto espressione della giustizia cd. riparativa, applicabile esclusivamente a reati considerati di minor allarme sociale, finalizzato, da un lato, a deflazionare il carico dei processi e, dall’altro, a garantire il reinserimento sociale del reo mediante un percorso di prova (caratterizzato dallo svolgimento di attività lato sensu socialmente utili e dal coinvolgimento, anche mediante restituzioni e risarcimento del danno, della persona offesa, figura centrale del procedimento) il cui esito positivo comporta l’estinzione del reato.
Conformandosi a diversi ordinamenti europei ed extraeuropei, con la l. 28.4.2014, n. 67, il nostro legislatore ha introdotto l’istituto di origine anglosassone (probation) della sospensione del processo per messa alla prova dell’imputato, così recependo anche le sollecitazioni provenienti dall’Unione europea (si veda in particolare la Raccomandazione R (2010) l, in Grevi, V.-Giostra, G.-Della Casa, F., a cura di, Ordinamento penitenziario commentato, II, Padova, 2011, 1549 ss.; in materia v. anche Murro, O., Le nuove dimensioni del probation per l’imputato adulto, in www.treccani.it) rispetto alla necessità di prevedere meccanismi di giustizia riparativa, alternativa rispetto al modello classico della giustizia retributiva, che, valorizzando la riparazione delle conseguenze del reato e la mediazione con la persona offesa, consentano di confinare la sanzione penale al ruolo di extrema ratio.
Il nuovo rito affonda le radici in una delega al Governo più ampia, concernente anche la depenalizzazione, la sospensione del processo per gli irreperibili, l’introduzione di pene detentive non carcerarie, avente come filo conduttore la creazione di un doppio binario all’interno della giustizia penale, l’uno tendente alla sollecita rieducazione del reo ed alla riparazione del danno in via extraprocessuale, allo scopo di ridurre i tempi ed eliminare il sempre più diffuso senso di impunità (in materia, Montagna, M., Sospensione del procedimento con messa alla prova e attivazione del rito, in Conti, C.-Marandola, A.-Varraso, G., a cura di, Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014, 371 ss.; Fiorentin, F., Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, in Guida dir., 2014, fasc. 21, 63); l’altro destinato a sfociare nell’accertamento di merito tradizionale, in presenza di reati di maggior allarme sociale che richiedono il vaglio dibattimentale e l’eventuale irrogazione della sanzione penale.
L’istituto si colloca, all’interno del codice di procedura penale, nell’alveo dei riti speciali, trattandosi di procedimento alternativo rispetto al rito ordinario, instaurato per scelta dell’imputato (a differenza del processo minorile, nel quale si prescinde dal consenso dell’imputato); sul piano sostanziale è inquadrato nell’ambito delle cause estintive del reato, effetto che si consegue con l’esito positivo della prova e che rappresenta la contropartita offerta dall’ordinamento rispetto alla mancata celebrazione del processo (sul punto Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. e processo, 2014, 675).
Nel nostro ordinamento l’istituto in esame richiama, con forti analogie ma con alcune peculiarità distintive, sia, come già accennato, l’istituto di cui agli artt. 28 e 29 del d.P.R. 22.9.1998, n. 448, inerente il procedimento minorile che, analogamente a quanto ora previsto per gli adulti maggiorenni, comporta l’estinzione del reato in caso di esito positivo della prova; sia l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 ord. pen.) che si applica in sede esecutiva ma che collima in diversi aspetti (Spangher, G., Urge una riforma organica del sistema sanzionatorio, in Dir. pen. e processo, 2015, 916).
Dal combinato disposto della disciplina sostanziale con quella procedurale (sulla natura ancipite del rito v. Martini, A., La sospensione del processo con messa alla prova. Un nuovo protagonista per una politica criminale già vista, in Dir. pen. e processo, 2008, 237), emerge, in primo luogo, che il rito si instaura su esclusiva iniziativa dell’imputato (art. 168 bis, co. 1, c.p. e art. 464 bis, co. 1, c.p.p.) che così implicitamente rinuncia al contraddittorio, a differenza di quanto previsto nel rito minorile nel quale l’imputato è, invece, soggetto alla decisione del tribunale, trattandosi di procedimento che non mira alla rieducazione del reo, come nel caso degli imputati maggiorenni, quanto al «completamento, al consolidamento della personalità del minore» (così Spangher, G., Urge una riforma, cit., 915).
Consenso dell’imputato che caratterizza diversi momenti dell’innovativa procedura, connotando non solo la fase dell’accesso, ma anche quella dell’esecuzione del programma di trattamento legato alla sospensione del processo ed, infine, le proposte di modifica dello stesso che rappresentano una deroga, sia pure parziale, all’autonomia della proposta.
Consenso che, naturalmente, non rappresenta in nessun modo una forma di ammissione di colpevolezza, requisito non richiesto dalla legge e che sarebbe peraltro incompatibile con i principi costituzionali del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza; che contrasterebbe con la valutazione del giudice che, rispetto alla richiesta di sospensione, è comunque tenuto a valutare se sussistano le condizioni per una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; che non avrebbe alcun appeal per la difesa se si considera che l’eventuale revoca o esito negativo della prova comporta la celebrazione di un processo che sarebbe inevitabilmente condizionato dall’originaria ammissione di colpevolezza (in materia Caprioli, F., Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012, 10).
La richiesta, che rappresenta un atto cd. personalissimo, da espletare personalmente o a mezzo di procuratore speciale, oralmente o per iscritto, con firma autenticata nel caso in cui la richiesta sia effettuata dal procuratore speciale, deve essere rivolta al giudice (che procede, nel silenzio della legge) ed incontra il termine della formulazione delle conclusioni ex artt. 421 e 422 c.p.p. (ed, in particolare, entro le conclusioni del difensore, applicando l’insegnamento di Cass. pen., S.U., 27.3.2014, Frija, in Giur. it., 2014, 1512, con nota di Lorusso, S., Dubbi persistenti sul termine entro cui richiedere il giudizio abbreviato) se avanzata nel corso dell’udienza preliminare; può essere presentata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo o nel procedimento instaurato con citazione diretta a giudizio (cfr. Cass. pen., 24.4.2015, Frasca, in C.E.D. Cass., n. 263815); nel termine di cui all’art. 458, co. 1, c.p.p. nel caso di giudizio immediato; con l’atto di opposizione, nel caso di decreto penale di condanna.
La richiesta non può, comunque, essere presentata dopo la sentenza di primo grado: cfr. Cass. pen., 4.11.2014, n. 48025, in Cass. pen., 2015, 1142 che specifica anche che la richiesta non potrà essere a maggior ragione avanzata nel corso del giudizio di cassazione, anche se in riferimento ai procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore della l. n. 67/2014 (conf., ex plurimis: Cass. pen., 14.4.2015, Zheng, in C.E.D. Cass., n. 263666; Cass. pen., 9.3.2015, Lariccia, ivi, n. 264221).
Nessun consenso, analogamente a quanto previsto per il giudizio abbreviato, deve essere espresso in tale fase dal pubblico ministero, la cui valutazione è, invece, richiesta in caso di domanda di sospensione del procedimento presentata nel corso delle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 464 ter c.p.p.
Rivolta anche in tale fase al giudice (e non, come sarebbe stato più logico, direttamente al pubblico ministero: sul punto, Amato, G., L’impegno è servizi sociali e lavori di pubblica utilità, in Guida dir., 2014, fasc. 17, 87), la richiesta è trasmessa al pubblico ministero che, in questo caso, ha facoltà, entro cinque giorni (termine da ritenersi ordinatorio), di esprimere il proprio consenso con atto scritto sinteticamente motivato (art. 464 ter, co. 3 c.p.p.); o di manifestare, nello stesso termine, il proprio dissenso, con una motivazione nella quale, in questo caso, «deve enunciare le ragioni» (art. 464 ter, co. 4 c.p.p.) affinché l’imputato possa riproporre, se lo riterrà, la richiesta di sospensione nei termini processuali sopra analizzati.
Parere del pubblico ministero che, in ogni caso, non è vincolante per il giudice che può comunque disporre la sospensione del procedimento per messa alla prova, fermo restando il diritto della pubblica accusa di impugnare il provvedimento con ricorso per cassazione (sul punto Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., 679).
Si tenga presente, inoltre, che ai sensi dell’art. 141 bis disp. att. c.p.p., il pubblico ministero, anche prima dell’esercizio dell’azione penale, può avvisare l’interessato, ove ne ricorrano i presupposti, che ha la facoltà di chiedere di essere ammesso alla prova e che l’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato.
La norma suscita qualche perplessità poiché il suddetto avviso rappresenta una mera facoltà per il pubblico ministero, con la conseguenza che il mancato avviso può rappresentare per la difesa una significativa chiave di lettura circa le possibili determinazioni della pubblica accusa sull’eventuale richiesta di sospensione avanzata dall’imputato già nel corso delle indagini preliminari (Montagna, M., Sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., 401, legge nella previsione una finalità di anticipazione dei tempi procedurali che eviterebbe il susseguirsi di rinvii per la valutazione dell’ammissione della prova).
La natura dell’istituto, naturalmente, ha indotto il legislatore ad operare la limitazione del beneficio ai soli indagati/imputati di reati puniti con pena detentiva sola o congiunta alla pena pecuniaria non superiore nel massimo a quattro anni e di quelli previsti all’art. 550, co. 2, c.p.p., con la conseguente esclusione dal calcolo de qua delle circostanze aggravanti, atteso il riferimento al limite edittale (per Cass. pen., 30.6.2015, Fagrouch, in Quotidiano giuridico, con nota di La Rocca, E.N., Limiti di pena e accesso alla messa alla prova: rilevano le aggravanti a effetto speciale, si tiene conto delle «aggravanti per le quali la legge prevede una specie di pena diversa da quella ordinaria» e di quelle «ad effetto speciale»; contra, Cass. pen., 14.7.2015, Ardissone, in C.E.D. Cass., n. 264154; Cass. pen., 10.7.2015, Jenkins Rossi, ivi, n. 264325; Cass. pen., 9.12.2014, p.m. in c. Gnocco, ivi, n. 262341).
In dottrina (Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., 678) è stato immediatamente sottolineato che nulla è previsto, invece, in caso di concorso o cumulo dei reati rientranti nella disciplina in esame con quelli che esorbitano dai richiamati limiti (Cass. pen., 12.3.2015, Allotta, in Quotidiano giuridico, con nota di Santoriello, C., La Cassazione dice no alla messa alla prova parziale, ha peraltro negato la possibilità di accedere al rito nei processi oggettivamente cumulativi, nei quali risultano contestati alcuni reati assoggettati alla disciplina ed altri che non vi rientrano) che siano stati commessi prima o dopo la presentazione dell’istanza di sospensione o la cui trattazione sia pendente davanti allo stesso o a giudici diversi, anche in sedi differenti, situazione nelle quali la decisione deve ritenersi che sia rimessa alla discrezionalità del giudice.
In considerazione delle finalità dell’istituto, infine, la concessione della sospensione è preclusa per i delinquenti e contravventori abituali o professionali e ai delinquenti per tendenza; non può essere concessa nuovamente qualora sia stata revocata, secondo i presupposti che si analizzeranno, o qualora la prova non abbia dato esito positivo, e, comunque, non può essere concessa più di una volta.
La disciplina non sembra chiarire se osti alla concessione del beneficio la recidiva, semplice o reiterata, o la pendenza di una misura cautelare per lo stesso o per altro procedimento (esprime un parere negativo, attesa l’inconciliabilità della restrizione con lo svolgimento del programma di trattamento, Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., 678).
Il contenuto della prova si ricava dal combinato disposto dell’art. 168 bis, co. 2 e 3, c.p. che descrive, programmaticamente, l’oggetto astratto della prova, e dell’art. 464 bis, co. 4, c.p.p. che indica analiticamente il contenuto del programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna (cd. U.E.P.E.), che il richiedente deve allegare all’istanza (nel caso in cui non ne sia stata possibile l’elaborazione – assai probabile nei casi in cui si procede con giudizio direttissimo, giudizio immediato non custodiale e procedimento per decreto – deve essere allegata la relativa richiesta).
La prova consiste di due componenti: l’una di carattere spiccatamente retributivo, che rappresenta il presupposto indefettibile (affidamento in prova al servizio sociale e lavoro di pubblica utilità); l’altra di natura riparativa e che, dalla lettera della legge, appare invece facoltativa (condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato; restituzioni; risarcimento del danno, ove possibile; mediazione, anch’essa ove possibile, con la persona offesa).
Nel solco delle istanze europee, tali strumenti riparatori perseguono lo scopo di salvaguardare l’interesse della persona offesa dal reato che assume un ruolo preminente nella procedura, differente rispetto all’attività tradizionale che si risolve tipicamente nella costituzione di parte civile per il dibattimento.
La persona offesa, infatti, viene sentita, in primo luogo, nella fase di ammissione dell’istanza di sospensione; successivamente, all’esito della procedura, per la valutazione finale della prova espletata (artt. 464 quater, co. 1, 464 septies, co. 1, e 464 octies c.p.p.).
In entrambi i casi il suo parere non è vincolante per il giudice ma, nella ratio sottesa all’intero istituto, è certamente rilevante, soprattutto in riferimento al grado di offensività dell’illecito che ben può essere calibrato considerando la prospettiva della vittima del reato.
In tal senso è anche previsto (art. 464 quater, co. 3, c.p.p.) che il giudice, nel valutare l’idoneità del programma di trattamento proposto, consideri anche se il domicilio indicato dall’imputato nel programma di trattamento sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa.
Tornando alla componente cd. retributiva, essa consta dell’affidamento dell’imputato al servizio sociale, i cui dettagli devono essere definiti nel richiamato programma di trattamento; dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità; ed, infine, della previsione di alcune prescrizioni giudiziarie facoltative disciplinate dall’art. 168 bis, co. 2, c.p.
Il programma di trattamento rappresenta l’atto, concordato con l’U.E.P.E., con il quale il richiedente propone la sospensione del processo per messa alla prova, riportando le indicazioni richieste dall’art. 464 bis, co. 4 c.p.p., in combinato con la disciplina sostanziale di cui all’art. 168 bis c.p.
In primo luogo nel programma devono essere indicate «le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale»: si tratta, tuttavia, di un’indicazione non obbligatoria che trova applicazione solo ove ciò risulti «necessario e possibile», un’endiadi che, da un lato, si riferisce alle sole ipotesi in cui il percorso di prova è indipendente rispetto all’ambiente familiare e di vita dell’interessato, e, dall’altro, esime dalla partecipazione i soggetti vicini all’imputato laddove, con espressione generica che può riferirsi a variegate problematiche, ciò non sia possibile.
Sicuramente più pregnanti sono le indicazioni cui è tenuto il richiedente ai sensi dell’art. 464 bis, co. 4, lett. b), c.p., ovvero «le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato»: il riferimento è tanto alle misure finalizzate alla riparazione in favore della vittima e, quindi, il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, quanto a quelle a vantaggio della collettività, lavoro di pubblica utilità ed attività di volontariato di rilievo sociale.
Terza ed ultima indicazione, quella di cui all’art. 464 bis, co. 4, lett. c), c.p.: il richiedente deve anche indicare le condotte volte a promuovere la mediazione con la persona offesa.
Anche in tale caso la prescrizione è prevista «ove possibile», evidentemente per modellare la previsione ai casi di specie; in ogni caso la mediazione deve intendersi in senso atecnico, non riferito, quindi, ad istituti di estrazione civilistica.
Quanto al lavoro di pubblica utilità, esso è descritto, nei suoi contorni essenziali, nell’art. 168 bis, co. 3, c.p., e consiste in una prestazione non retribuita, individuata sulla base della professionalità e delle attitudini lavorative del richiedente, da svolgersi presso lo Stato, gli enti territoriali, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni anche internazionali operanti in Italia di assistenza sociale sanitaria o di volontariato, da svolgersi con modalità che non possano pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato (in tal senso è, in primo luogo, stabilito che il lavoro non può essere superiore alle otto ore giornaliere).
La durata massima non è stata prevista dal legislatore che ha indicato soltanto la minima (non può essere inferiore a dieci giorni, anche non continuativi), così attribuendo una larga discrezionalità al giudice, difficilmente conciliabile con il principio di legalità: innegabile, infatti, che lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità che, in ipotesi di esito negativo della prova, viene computato ex art. 657 bis c.p.p. ai fini del calcolo dell’eventuale pena detentiva, assuma, in ogni caso, i connotati tipici della pena e, come tale, la sua durata dovrebbe essere determinata con certezza.
Ulteriori prescrizioni, come anticipato, possono essere, infine, irrogate, ex art. 168 bis, co. 2, c.p.
Si tratta di regole comportamentali, obblighi di fare e di non fare, limiti alla libertà di movimento (così classificate da Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., 678) dettate in relazione ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
Ai sensi dell’art. 141 ter, co.1, disp. att. c.p.p., le funzioni dei servizi sociali per la messa alla prova sono svolte dall’ufficio di esecuzione penale esterna cui il legislatore, oltre alle funzioni che già l’ordinamento gli assegnava, ha attribuito importanti compiti, non solo nella fase precedente all’ammissione della prova, ma anche nelle successive attività di verifica della corretta esecuzione del programma di trattamento ed, infine, di valutazione finale dell’esito della prova, ai fini dell’eventuale declaratoria di estinzione del reato.
All’U.E.P.E., quindi, compete, quando sia stata avanzata la richiesta da parte dell’imputato, comprensiva degli atti del procedimento penale che ritiene rilevanti, nonché osservazioni o proposte, ex art. 141 ter, co. 2, disp. att. c.p.p., di redigere il programma di trattamento, previo svolgimento di un’indagine socio-familiare, oltre alla verifica delle condizioni economiche dell’imputato e la sua disponibilità a svolgere le attività riparatorie e l’attività di mediazione con la persona offesa.
In tale fase preliminare, il predetto ufficio è tenuto ad acquisire il consenso dell’imputato e l’adesione dell’ente o diverso soggetto presso il quale l’imputato dovrà svolgere l’attività oggetto della prova.
Qualora il programma non sia già stato predisposto prima della presentazione della domanda di sospensione, circostanza del tutto remota, l’U.E.P.E., effettuate le verifiche descritte, trasmette al giudice il programma di trattamento, unitamente all’indagine socio-familiare e alle considerazioni utili a sostegno del programma (art. 141 ter, co. 3, disp. att. c.p.p.).
Successivamente, l’ufficio è tenuto, durante l’esecuzione della misura, a controllare il corretto adempimento alle prescrizioni, informando il giudice, secondo la cadenza stabilita nell’ordinanza ammissiva e, comunque entro un termine non superiore a tre mesi, dell’attività svolta e del comportamento tenuto dall’imputato nel corso della prova, proponendo, se necessario, «modifiche al programma di trattamento, eventuali abbreviazioni di esso ovvero, in caso di grave o reiterata trasgressione, la revoca del provvedimento di sospensione» (art. 141 ter, co. 4, disp. att.).
Al termine del periodo di prova, infine, l’U.E.P.E. trasmette al giudice una relazione dettagliata sul decorso e sull’esito della stessa (art. 141 ter, co. 5, disp. att. c.p.p.).
Al fine di garantire il contraddittorio tra le parti, tanto le relazioni periodiche che quella finale vanno depositate nella cancelleria del giudice non meno di dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’art. 464 septies c.p.p., con facoltà per le parti di prenderne visione ed estrarne copia (art. 141 ter, co. 6, disp. att. c.p.p.).
Una prima valutazione del giudice è quella sulla concessione della sospensione richiesta dall’imputato che deve essere effettuata, ai sensi dell’art. 464 quater c.p.p., nel corso della stessa udienza (nella quale la richiesta è avanzata), sentite le parti (l’imputato anche ai fini della volontarietà della sua richiesta) e la persona offesa, oppure in apposita udienza in camera di consiglio che il giudice eventualmente fissi dandone contestuale avviso alle parti e alla persona offesa.
La forma del provvedimento è quella dell’ordinanza, che deve essere motivata e può essere emessa sempre se il giudice non debba pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.
Come configurata dal legislatore, sulla decisione di sospensione il giudice gode di ampia discrezionalità, trattandosi di una valutazione da effettuare, in riferimento ai parametri di cui all’art. 133 c.p., e quindi alla gravità del fatto, sulla idoneità del programma, da abbinare, poi, al giudizio prognostico (in materia Montagna, M., I confini dell’indagine personologica nel processo penale, Roma, 2013, 55 ss.) sul fatto che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati (a differenza di quanto avviene nel procedimento per i minori nel quale la valutazione prognostica è svolta all’esito, e non prima, dello svolgimento della prova).
Il materiale utilizzabile ai fini della decisione è costituito non solo dal programma proposto dall’U.E.P.E. con le relative allegazioni, ma anche dalle ulteriori informazioni (di cui poi dovrà informare tempestivamente imputato e pubblico ministero) inerenti le condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato che il giudice, ai sensi dell’art. 464 bis, co. 5, c.p., ritenga necessario acquisire tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, potere istruttorio integrativo che il legislatore ha evidentemente previsto per evitare che la procedura abbia una connotazione eccessivamente extra-processuale, assicurando maggiori garanzie di giurisdizionalità.
Analogamente a dirsi per il potere riconosciuto al giudice di integrare o modificare il programma proposto dall’imputato, sempre che vi sia il suo consenso: l’istituto si regge, infatti, sul consenso dell’imputato che rinuncia al contraddittorio ed autonomamente propone la sospensione del processo per essere sottoposto ad una prova da lui formulata (a differenza del procedimento per minori, nel quale l’imputato è assoggettato, a prescindere dal suo consenso, ad una prova decisa in autonomia dal giudice) la cui eventuale modifica deve essere da lui accettata.
Qualora decida per la sospensione del procedimento, il giudice deve indicare, anche in tal caso con ampia, e forse irragionevole, discrezionalità, la durata della sospensione che, comunque, non può essere superiore a due anni se si procede per un reato per il quale è prevista la pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria e ad un anno per i reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria, termini decorrenti dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova da parte dell’imputato.
Nell’ordinanza in esame il giudice stabilisce anche il termine entro il quale le prescrizioni e le condotte riparatorie e risarcitorie (se del caso con rateizzazione, con il consenso della persona offesa) devono essere adempiute, termine prorogabile su richiesta dell’imputato per una sola volta e per gravi motivi (art. 464 quinquies, co. 1, c.p.p.).
In caso di sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica l’articolo 75, co. 3, c.p.p., inerente la costituzione di parte civile.
Quanto alle impugnazioni (che, ex art. 464 quater, co. 7, c.p.p., non sospendono la messa alla prova) l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova è ricorribile per cassazione dall’imputato e dal pubblico ministero (contro le decisioni contrastanti con il parere da lui emesso).
Quanto alla ricorribilità della suddetta ordinanza, va segnalato un contrasto di orientamento nella giurisprudenza di legittimità: per un filone maggioritario, essa può essere impugnata in via autonoma (Cass. pen., 30.6.2015, Fagrouch, in C.E.D. Cass., n. 264046; Cass. pen., 12.3.2015, Allotta, ivi, n. 263125; Cass. pen., 23.2.2015, B., ivi, n. 263777; Cass. pen., 24.4.2015, Frasca, ivi, n. 263814); per altro orientamento, da impugnare unitamente alla sentenza (Cass. pen., 12.6.2015, Fratuscio, ivi, n. 264574; Cass. pen., 3.6.2015, Marcozzi, ivi, n. 264061; Cass. pen., 15.12.2014, A.T., ivi, n. 262106; Cass. pen., 14.11.2014, Ascione, ivi, n. 264270).
Alla persona offesa, oltre al potere di sollecitare il pubblico ministero, è concessa autonoma impugnazione soltanto laddove non abbia ricevuto l’avviso per l’udienza o se nella stessa, pur essendo comparsa, non sia stata sentita.
Dal momento dell’emissione dell’ordinanza che dispone la sospensione per messa alla prova (che viene annotato per estratto nel casellario giudiziale per consentire la verifica sulla concedibilità), da trasmettere immediatamente all’U.E.P.E., compete al predetto ufficio la verifica sull’andamento della prova, di cui deve relazionare periodicamente il giudice.
In tale fase sarà proprio l’U.E.P.E. a proporre, sulla base delle verifiche effettuate, eventuali modifiche al programma di trattamento, abbreviazioni (evidentemente nel caso di svolgimento positivo della prova), oppure la revoca dell’ordinanza.
La revoca è conseguente ad alcune condotte, tipizzate dall’art. 168 quater c.p. che, a differenza della valutazione effettuata in sede di ammissione della prova, non lascia rilevanti spazi di discrezionalità nell’applicazione.
Essa è disposta, infatti, in caso di: grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte; rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità; commissione, durante il periodo di prova di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede.
Sulla base delle relazioni dell’U.E.P.E., nel corso dello svolgimento della prova, il giudice può anche modificare, con ordinanza, dopo aver sentito il pubblico ministero e l’imputato, le originarie prescrizioni, «ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità della messa alla prova»: in tale caso, a differenza delle modifiche apportate dal giudice al programma di trattamento, per le quali l’imputato deve prestare il consenso, le modifiche alle prescrizioni sono decise unilateralmente dal giudice, tenuto ad ascoltare il mero parere delle parti.
Nella fase dell’esecuzione della misura, inoltre, è possibile che, a richiesta di parte, il giudice acquisisca, con le modalità previste per il dibattimento, le prove non rinviabili (nell’ottica di un possibile esito negativo della prova o di revoca della stessa, situazioni che condurrebbero alla celebrazione del processo) e quelle che possono condurre al proscioglimento dell’imputato (valutazione preliminare che il giudice deve effettuare non solo in fase di concessione della sospensione ma anche in ogni altro momento in cui emerga l’innocenza dell’imputato).
Esaurito il periodo di prova, il giudice fissa un’udienza finalizzata alla verifica dell’esito della prova, dandone avviso alle parti e alla persona offesa.
La valutazione, ancora una volta piuttosto discrezionale, è comunque basata sulla relazione conclusiva dell’U.E.P.E. ed ha ad oggetto il comportamento tenuto dall’imputato e il rispetto delle prescrizioni stabilite.
Nell’ipotesi in cui ritenga che la prova abbia avuto esito positivo, dichiara con sentenza che il reato è estinto; restano salve le sanzioni amministrative accessorie applicate, che tuttavia derivano da un accertamento penale sommario (così, criticamente Marandola, A., La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., 679).
Laddove, invece, reputi che la prova abbia avuto esito negativo, dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso; in tale caso viene meno l’effetto della sospensione della prescrizione, che ricomincia a decorrere.
Anche nel caso di revoca dell’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova il giudice provvede, in questo caso anche d’ufficio, con ordinanza e fissa un’udienza camerale finalizzata alla valutazione della revoca, dandone avviso almeno dieci giorni prima alle parti e, stavolta, anche alla persona offesa.
Ordinanza di revoca che, ex art. 464 octies, co. 3, c.p.p., è ricorribile per cassazione, a differenza del provvedimento di diniego della richiesta di revoca che, nel silenzio della legge, pare inoppugnabile.
Effetto comune alle ipotesi di revoca e di esito negativo della prova è rappresentato dall’impossibilità di riproporre l’istanza di sospensione per messa alla prova (cfr. Cass. pen., 7.4.2015, P., in C.E.D. Cass., n. 264194).
Altra previsione comune a tali ipotesi è quella di cui all’art. 657 bis c.p.p., in base alla quale il pubblico ministero, nel caso in cui debba essere eseguita l’eventuale pena irrogata, dovrà tenere conto del periodo corrispondente alla prova comunque eseguita, detraendo un giorno di reclusione o arresto oppure duecentocinquanta euro di multa o di ammenda per ogni tre giorni di prova: una previsione che stride con l’esito negativo di una prova offerta invano dall’ordinamento all’imputato.
Artt. 168 bis-168 quater c.p.; artt. 464 bis-464 novies c.p.p.; artt. 141 bis-141 ter disp. att. c.p.p.
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