Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella seconda metà del Novecento i giovani acquistano una propria specificità, non rappresentano più solo un’età della vita, ma si connotano e differenziano tra di loro, facendosi portatori di nuove mode, stili e visioni di vita. Dai seguaci del rock’n’roll anni Cinquanta al punk anni Settanta, fino alle sottoculture hip hop e rap o dance e techno anni Novanta si può rintracciare un tratto comune: la contestazione del “sistema adulto”.
Generi, stili musicali e stili di vita
Dick Hebdige
Stile e sottoculture
Gli oggetti scelti erano, sia intrinsecamente sia nei loro adattamenti formali, omologhi agli interessi fondamentali, agli atti, alla struttura del gruppo e all’immagine che la collettività della sottocultura aveva di se stessa. Erano oggetti in cui gli appartenenti alla sottocultura potevano vedere contenuti e riflessi i propri valori fondamentali. Furono prese gli skinheads per esemplificare questo principio. Gli stivali, le bretelle e i capelli rasati venivano considerati appropriati e quindi portatori di un significato soltanto perché comunicavano le qualità desiderate: durezza, mascolinità ed essenza della working class. [...] I punk certamente sembrerebbero portare avanti questa tesi. [...] i punk portavano abiti che erano l’equivalente nell’abbigliamento del linguaggio blasfemo e imprecavano come vestivano, con effetti calcolati, guarnendo di oscenità le note di copertina dei dischi e le pubblicazioni pubblicitarie, le interviste e le canzoni d’amore. Rivestiti di caos, producevano rumore nella crisi tranquillamente orchestrata della vita quotidiana alla fine degli anni Settanta.
D. Hebdige, Sottoculture. Il fascino di uno stile innaturale, Milano, Costa e Nolan, 1983
Il secondo dopoguerra segna in tutto il mondo occidentale la trasformazione della giovinezza da semplice stadio del ciclo di vita compreso tra l’infanzia e la condizione adulta in una vera e propria categoria culturale, caratterizzata da specifici modelli di consumo, stili di vita e, forse soprattutto, gusti musicali. A partire dal rock’n’roll, la cui nascita è convenzionalmente posta a cavallo tra il 1954 e il 1955, la storia della popular music si caratterizza per un susseguirsi di generi, stili e appunto gusti musicali tutti associati, alcuni più altri meno, a fattori sociali collettivi extramusicali come un particolare stile di abbigliamento, una certa iconografia, talvolta un vero e proprio stile di vita. Il caso del punk è forse quello più celebre, anche perché è proprio in corrispondenza di esso che si è andata costituendo, alla metà degli anni Settanta, quella che è nota come la teoria subculturale (o sottoculturale), ovvero una concezione dei rapporti tra una certa posizione nella struttura sociale, tipicamente subordinata o subalterna, e l’adozione di un particolare genere musicale come centro di gravità di un più generale modo di vita, tipicamente eccentrico, alternativo o addirittura deviante. Con il nome di subculture (o sottoculture) musicali giovanili si designano appunto quei movimenti insieme sociali e musicali come i mod, i rocker, gli skinhead, i punk, che hanno segnato la storia della popular music nel mondo di lingua inglese, e, a partire da qui, nel mondo occidentale nel suo complesso (e in qualche caso anche al di là di questo). Ma appartengono alla varietà delle subculture musicali giovanili anche quelle forme musicali che – come l’heavy metal, il reggae, la techno, l’hard-core o il rap – si caratterizzano oltre che per il ricorrere di certi modelli musicali, anche per la presenza di uno stile estetico che investe sia l’immagine esteriore (abbigliamento, acconciatura, trucco ecc.) sia una visione del mondo e della vita, più o meno elaborata e formalizzata e più o meno tradotta in ideologia.
Dal rock’n’roll al punk
Con il rock’n’roll si costituisce per la prima volta in modo evidente un genere musicale che ha precisi connotati in termini d’età. Il rock’n’roll è musica suonata da giovani per giovani che, proprio nei primi anni Cinquanta, nel periodo di forte espansione economica che fa seguito alla fine della guerra, stanno diventando negli Stati Uniti i principali consumatori e acquirenti di dischi. A seguito del cosiddetto baby-boom, cioè del grande incremento demografico che ha inizio in quegli anni, essi divengono la base sociale necessaria per l’espansione del mercato discografico, favorita peraltro anche da innovazioni tecnologiche come la nascita del disco di plastica, sia a 45 giri che a 33 giri, in sostituzione del più pesante e fragile 78 giri. La nascita e la diffusione planetaria del rock coincidono non solo con la costituzione di una nuova struttura industriale, di una nuova tecnologica e di un nuovo più ampio mercato, ma anche con la definizione di uno stile di vita e un’immagine adattati al pubblico giovanile a cui questa musica si rivolge e da cui è alimentata. A questa immagine appartengono tanto i jeans e la brillantina, quanto la chitarra elettrica e un certo modo di muovere e di esibire il corpo: tutti elementi che si ritrovano nella prima grande star del rock, Elvis Presley (1935-1977).
A partire dal rock’n’roll delle origini, altri stili e generi musicali si sviluppano nel corso del tempo, per gemmazione spontanea o per contaminazione con esperienze musicali esterne. È il caso del folk-rock e del rock psichedelico degli anni Sessanta, generi che hanno la loro base sociale nel movimento controculturale di quegli anni, nei relativi valori comunitari e nella tensione critica ideologica e politica. È il caso dell’heavy metal, forma di estremizzazione sonora del rock delle origini, definitosi verso la fine degli anni Sessanta con gruppi inglesi come i Led Zeppelin e i Black Sabbath, caratterizzato dal ricorso a moduli tratti dalla tradizione colta europea (in particolare barocca), o ancora del progressive rock, che nasce da una più esplicita e generalizzata contaminazione del rock con i codici e le forme della musica sinfonica.
Ma è anche il caso del reggae, nato originariamente in Giamaica e da qui fatto proprio prima dalle comunità caraibiche in Gran Bretagna, quindi esportato in tutto il mondo occidentale e non solo, con il suo caratteristico ritmo in levare. E del rap, nato dalla fusione di modelli ritmici, espressivi e linguistici tipicamente afro-americani nei ghetti neri delle metropoli americane, e da qui diffusosi nel resto d’America e in Europa, in combinazione con diverse tradizioni musicali locali. In tutti questi casi, a un certo stile compositivo ed esecutivo musicale si accompagnano precisi e facilmente identificabili modelli culturali, che vanno dall’abbigliamento all’acconciatura dei capelli, dall’uso di certe droghe sino all’adozione di particolari filosofie di vita (come ad esempio il culto rastafari nel caso del reggae). Ma, più caratterizzato e più famoso di tutti – almeno per l’immaginario collettivo – è probabilmente il caso del punk, nato in Gran Bretagna verso la metà degli anni Settanta a partire da esperienze musicali americane del decennio precedente (il cosiddetto garage rock), presto diffusosi in tutta Europa (anche quella orientale), e divenuto archetipo, con i suoi eccessi spettacolari e la sua carica apparentemente sovversiva, della stessa idea di subcultura musicale.
La teoria sottoculturale
Come suggerisce il termine, una subcultura (o anche sottocultura) è una partizione entro una più generale cultura. Introdotta inizialmente nella sociologia americana degli anni Trenta per studiare la criminalità, l’idea viene poi ripresa ed estesa allo studio della musica e in particolare, dagli anni Settanta in poi e grazie soprattutto ai ricercatori del Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) della università di Birmingham, delle culture musicali giovanili, dando così origine a quella che è nota come la teoria sottoculturale inglese (British subcultural theory).
È a Sottocultura, un libro di Dick Hebdige pubblicato originariamente nel 1979, che si deve probabilmente la più influente e più nota formulazione della teoria subculturale. Sulla scia del critico letterario Raymond Williams, Hebdige propone di esaminare la cultura come una vasta gamma di attività sociali, di significati, di valori, di credenze e di merci, considerando questi elementi disparati come parti di un “complessivo modo di vita”. Ma per Hebdige in Gran Bretagna non vi è solo una, ma diverse culture, influenzate nella loro configurazione da fattori come il genere, l’età, l’etnia e soprattutto la classe sociale. In particolare, vi erano culture dominanti e culture subordinate. In questo contesto, le subculture giovanili vengono interpretate non più come forme di devianza bensì come “risposte” da parte di un certo gruppo d’età a una posizione di classe subordinata allo scopo di contestare il sistema dei valori dominanti per mezzo peraltro non di attività politiche convenzionali bensì di pratiche rituali e soprattutto di uno “stile”, termine con cui Hebdige intende appunto la specifica combinazione – spesso spettacolare come nel punk, suo esempio prediletto – di posture corporee, modi di fare, vestiti, acconciature, gerghi, artefatti simbolici e appunto codici musicali adottata da ciascuna subcultura in modo da distinguersi dalle altre e soprattutto da opporsi alla cultura (e quindi allo stile) dominante o mainstream.
La teoria subculturale ha avuto molta influenza non solo sui giornalisti e sugli studiosi che l’hanno seguita, ma sugli stessi musicisti e sui fan, a cui ha offerto un linguaggio per identificarsi (come “alternativi” o underground) e per giustificarsi. Ma la teoria ha anche incontrato nel corso del tempo numerose critiche che ne hanno ridotto di molto il valore analitico.
Quattro le obiezioni principali a essa rivolte. La prima è che la teoria trascura completamente la posizione e il ruolo delle (giovani) donne e le peculiarità del loro rapporto con la musica, spesso per ragioni di sicurezza ascoltata tra le pareti domestiche. La seconda è che essa si basa ancora, nonostante tutto, su una concezione élitaria della cultura, mettendo a fuoco ed esaltando solo alcune modalità spettacolari (e minoritarie) di partecipazione alla vita culturale e musicale, dimenticandosi della vasta maggioranza dei giovani che nella loro vita quotidiana comunque ascoltano musica, spesso in modo altrettanto attivo. La terza è che la teoria esagera la tensione oppositiva delle subculture musicali le quali sono spesso – punk compreso – assolutamente integrate nel mainstream commerciale e nell’industria discografica globale. In effetti, lo stesso concetto di mainstream resta nella teoria troppo vago e generico, nascondendo in questa sua genericità una fitta trama di pratiche di discriminazione alla cui efficacia contribuiscono soprattutto i media. Come ha osservato Sarah Thornton, autrice di Dal club ai rave (1995), importante libro sulla cultura della musica dance e techno, critico nei confronti della teoria subculturale, le sottoculture non sono un fenomeno spontaneo, come crede Hebdige, ma l’esito di strategie commerciali e mediatiche. Strategie che usano il concetto di mainstream come sfondo per creare, in pubblici selezionati, la sensazione di un contrasto e di una distinzione rispetto a una mai specificata maggioranza. La quarta e forse più incisiva critica riguarda uno dei capisaldi dell’intera teoria, e cioè l’idea che tra subcultura e collocazione sociale vi sia un rapporto di omologia, vale a dire una relazione necessaria tra un certo stile (pensato come coerentemente unitario e capace di esprimere opposizione/contestazione) e una certa posizione sociale (tipicamente subordinata). Non considerando così – come hanno mostrato peraltro molte ricerche successive – che i suoni e le immagini trasmesse dai media e dalle industrie musicali possono essere utilizzati in modi differenti, da chi ne fruisce, nei diversi contesti territoriali, sociali e storici: talvolta significando resistenza e opposizione, ma altre volte semplicemente conformismo e passività.
Tra i concetti che sono stati proposti in alternativa a quello di sottocultura per identificare le dimensioni sociali e collettive della musica popular è da qualche tempo centrale quello di “scena musicale”. Secondo la influente definizione di Will Straw, una scena è uno spazio culturale in cui coesistono molteplici pratiche musicali, tra loro in interazione, che non emerge mai spontaneamente da un particolare gruppo o comunità, ma è generato da alleanze o coalizioni variabili che devono essere attivamente create e mantenute.
A partire da questa concezione più flessibile e aperta del rapporto tra pratica musicale e organizzazione sociale, gli studiosi di popular music hanno prodotto negli ultimi dieci anni del Novecento numerose ricerche sulle basi collettive della vita musicale, mostrando la persistenza e la vitalità di spazi di produzione e ascolto – locali, translocali e, tramite media come internet e le fanzine, anche virtuali – in cui musicisti, operatori e fan operano e si confrontano in relativa autonomia dalle grandi compagnie discografiche.