sovranita
La s., intesa come qualità giuridica esclusivamente pertinente all’imperium dello Stato, quale potere originario e indipendente da ogni altro potere, è concetto moderno e che solo allo Stato moderno, inteso come persona giuridica, può applicarsi. Ma questo è il punto d’arrivo di un’evoluzione complessa, che ha le sue radici nel Medioevo. Fu allora, e precisamente tra il sec. 12° e il 13°, mentre si andava affermando in Europa la realtà nuova degli Stati nazionali e l’idea dell’impero universale cominciava ad avvicinarsi alla sua crisi, che il principio si affacciò alle coscienze, espresso con una formula che era destinata a divenire celebre nei secoli e a concentrare il pensiero della scienza giuridica intorno a questo problema: rex in regno suo est imperator. La storia di questa formula, che per designare la plenitudo potestatis del capo di un ordinamento politico-giuridico (rex) prendeva come suo paradigma il capo dell’ordinamento politico-giuridico universale (imperator), è indubbiamente legata ai motivi della coscienza medievale e non supera, in origine, la persona del principe nella quale la plenitudo potestatis si concentra. Più tardi, quando, per opera dell’elaborazione profonda di Bartolo da Sassoferrato, essa viene estesa alla civitas sibi princeps, si avvia a diventare un principio universale, che darà i suoi frutti, però, solo nell’Età moderna. Il vero passaggio obbligato, che contribuirà a consolidare, staccandoli dal paradigma medievale, gli elementi intrinseci al concetto di s., vale a dire la pienezza dei poteri e l’indipendenza da ogni altro potere, sarà l’epoca del principe assoluto, la cui maiestas è definita per la prima volta da Jean Bodin come «summa in cives, legibusque soluta, potestas» (De republica I, 8). In relazione allo Stato contemporaneo, il termine s. viene ad assumere un duplice significato. Da un lato, se riferito all’ordinamento giuridico statale nel suo complesso, sta a indicare l’originarietà dell’ordinamento medesimo, nel senso che esso non deriva la sua validità da alcun altro ordinamento superiore. Pertanto, la s. è esclusa per quegli enti territoriali (regioni, province, comuni), i quali trovano il proprio fondamento nell’ordinamento dello Stato. Tuttavia, possono a questo riguardo presentarsi dei casi dubbi, in particolare in riferimento agli ordinamenti degli Stati membri di Stati federali: in linea generale, si ritiene che essi non godano della s., in quanto incontrano dei limiti nel più vasto ordinamento federale, il quale costituisce di regola la fonte stessa della validità degli ordinamenti degli Stati membri. Dall’altro lato, quando lo Stato viene preso in considerazione sotto il suo aspetto di persona giuridica (Stato-persona), il termine s. sta a indicare la posizione di indipendenza nei riguardi di ogni altra persona giuridica esistente al suo esterno (cd. s. esterna); e, per altro verso, l’assoluta supremazia di fronte a tutte le altre persone, fisiche e giuridiche, che si muovono nel suo ambito territoriale (cd. s. interna) e, di conseguenza, la stessa potestà di governo assoluta della persona giuridica statale. Naturalmente, quanto appena detto vale per gli Stati (che sono attualmente la stragrande maggioranza) i quali, per il loro ordinamento, siano dotati di personalità; in caso contrario, tale suprema potestà dovrà essere riconosciuta al soggetto posto al vertice dell’ordinamento (in passato il principe in uno Stato assoluto, oggi la Santa Sede nello Stato della Città del Vaticano). Di regola, quindi, in uno Stato dotato di personalità giuridica per il proprio ordinamento interno, allorché nei testi legislativi e costituzionali si parla di s. popolare (vedi oltre) o si indica come sovrano il capo di uno Stato monarchico, si deve intendere nel senso che la s. dello Stato viene posta in essere, rispettivamente, da organi democraticamente formati, ovvero da un monarca. La dottrina contemporanea, infatti, suole distinguere, negli Stati democratici, la s. come fonte politica della potestà di governo dalla s. come titolarità della potestà stessa, attribuendo la prima all’intera collettività popolare (impersonata nel corpo elettorale) e la seconda allo Stato (inteso come organizzazione giuridica della collettività medesima). Inoltre, il termine s. viene in rilievo nell’espressione s. territoriale, con la quale si intende indicare la competenza esclusiva dello Stato in rapporto al proprio territorio e alle risorse naturali ivi contenute (cd. principio della s. permanente dello Stato sulle proprie risorse naturali, uno dei cardini del nuovo ordine economico internazionale propugnato dai Paesi in via di sviluppo a partire dagli anni Settanta del 20° sec.), nonché il potere di imperio dello Stato su tutte le persone fisiche e giuridiche che si trovino in tale ambito territoriale; si parla invece di s. personale per indicare il potere di imperio dello Stato sugli individui che gli appartengono per cittadinanza ovunque essi siano, anche all’estero o su spazi sottratti alla giurisdizione statale (un esempio di s. personale è quella esercitata dallo Stato sull’equipaggio di una nave in alto mare). La s. dello Stato, entrando in contatto con ordinamenti più vasti (quale in primo luogo quello internazionale), incontra dei limiti al proprio esclusivo esercizio (si pensi, per es., alle norme consuetudinarie relative al trattamento degli stranieri e degli agenti diplomatici stranieri, o ai principi in materia di divieto di inquinamento trans;frontaliero). Lo Stato può inoltre acconsentire ad alcune limitazioni della propria s. per effetto dell’adesione a organizzazioni internazionali dotate di poteri e funzioni tali da configurare una interferenza esterna, talora assai penetrante, nella potestà dello Stato stesso. A questo riguardo, occorre sottolineare che, nella Costituzione italiana, tale ipotesi è espressamente contemplata nella norma dell’art. 11: «L’Italia ... consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Nonostante l’accettazione di simili limitazioni sia sempre fondata sulla manifestazione della volontà dello Stato, il dibattito intorno alla definizione di una sfera esclusiva di competenza di questo (il cd. dominio riservato) sorse fin dalla costituzione della Società delle nazioni, al fine di delimitare i confini del potere di intervento dell’organizzazione: l’art. 15, par. 8 del Covenant escludeva l’intervento della Società delle nazioni in quei settori che rientrassero esclusivamente nella competenza interna (domestic jurisdiction) degli Stati membri. Tali erano, secondo l’interpretazione della Corte permanente di giustizia internazionale (parere del 1923), quelle materie che non risultassero in alcun modo disciplinate dal diritto internazionale, con la conseguenza che il dominio riservato tenderebbe a restringersi di fronte alla crescente espansione del diritto internazionale. Tuttavia gli Stati, gelosi della propria s., hanno preferito, nel formulare la norma sul dominio riservato introdotta nella Carta delle Nazioni unite (art. 2, par. 7), svincolare quest’ultimo dal diritto internazionale, facendovi rientrare tutte quelle «questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato», pur se in qualche modo disciplinate dal diritto internazionale.
La s. nazionale consiste innanzitutto nell’esprimere la volontà di autodeterminazione della comunità socioculturale, identificata nella nazione: sotto questa forma essa è stata un’idea guida del liberalismo ottocentesco. Nei casi di Stati che hanno già raggiunto l’unità politica, la s. nazionale si manifesta priva di contenuti rivendicativi, per diventare espressione della volontà di «vivere insieme», salvaguardando l’indipendenza e l’integrità del Paese. Il significato della locuzione s. nazionale è dipeso insomma da quello di volta in volta assunto dal termine nazione, seguendone tutte le modificazioni. La s. nazionale, che era già stata alla base della Rivoluzione inglese (1688-89) e di quella nordamericana (1776), ebbe la sua definitiva consacrazione con la Rivoluzione francese. La Costituzione del 1791 proclamò la s. nazionale con la formula: «La sovranità è una ed indivisibile ed appartiene all’intera nazione»: il popolo aveva sostituito il monarca per diritto divino. Il principio si ritrova in molte costituzioni attuali, tra le quali l’italiana, e in tal senso la s. nazionale viene quasi a identificarsi con la s. popolare. In senso proprio, la s. nazionale si concretizza piuttosto nella piena potestà di uno Stato all’interno dei propri confini nazionali e nella sua indipendenza. Essa può peraltro essere limitata dall’esistenza di enti a cui lo Stato ha delegato alcuni poteri (Stati membri in uno Stato federale, Länder, regioni, territori autonomi ecc.) e infine da trattati internazionali, come quelli che istituiscono organismi sovranazionali. Nel secondo dopoguerra, nel quadro dell’assetto bipolare tipico della Guerra fredda, si sviluppò la tendenza a imporre ulteriori restrizioni alla s. nazionale degli Stati, perlopiù a opera delle maggiori superpotenze. Fu inoltre affermato un «diritto di ingerenza », cioè il principio che la comunità internazionale non può permettere che uno Stato, facendosi scudo della s. nazionale, violi i diritti dell’uomo. Questo diritto, esercitato attraverso organizzazioni come l’ONU e alcune agenzie specializzate (per es. l’Alto Commissariato per i rifugiati), prevede strumenti come sanzioni diplomatiche, economiche e, in certi casi, l’uso della forza, con tutti i problemi e le contraddizioni che ciò comporta.
Storicamente il concetto di s. popolare è legato all’era delle grandi rivoluzioni, e in particolare alla Rivoluzione francese del 1789. La teoria della s. popolare si era infatti sviluppata nell’ambito della corrente di pensiero del moderno giusnaturalismo, in partic. in quella del contrattualismo, che riponeva il fondamento del potere politico in un libero patto tra i singoli individui o tra essi e il monarca. J. Locke diede una sistemazione teorica alla nuova realtà costituzionale: il potere si esercita attraverso due centri fondamentali, il legislativo e l’esecutivo. Il secondo è subordinato all’altro, ma il legislativo, a sua volta, è assoggettato al popolo, perché ne deve interpretare volontà e bisogni e perché il popolo può sempre rinnovare e alterare la propria rappresentanza in parlamento. Il patto originario nasce dalla convinzione che per natura gli uomini sono liberi ed eguali e nessuno di loro abbandona questa condizione senza il proprio consenso. Per J.-J. Rousseau la s. risiede nella volontà generale, che sorge dall’unificazione (e nel superamento dialettico) delle volontà dei singoli, tendenti al bene comune. L’individuo aliena volontariamente le sue originarie libertà a favore della comunità, ricevendone in cambio diritti civili e politici. La volontà generale si identifica con il bene comune, non può essere rappresentata né di essa si possono dare più versioni: chi manifesta un’opinione dissenziente è in errore e dev’essere indotto a seguire la via della libertà così come è concepita dalla maggioranza. Il principio di s. popolare è contenuto nella dichiarazione d’indipendenza redatta dalle colonie americane e nelle carte costituzionali della Francia rivoluzionaria e da lì si estende a quelle di gran parte dell’Europa. Anche per la Costituzione italiana, la s. appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. Nella s. popolare rientrano situazioni eterogenee per contenuto e modalità di espressione, riconducibili alla persona intesa come componente della società politica: le libertà individuali e collettive, civili, economiche e politiche, gli istituti di democrazia diretta. Si esercita per sua natura dal basso e in entrambi i livelli, della società civile e della società politica. Trattandosi di un valore aperto e progressivo, le sue concrete forme di attuazione non sono prevedibili, per cui non potrà mai dirsi realizzato in via definitiva e in forme prestabilite.