sovranita
Il termine sovrano (dal lat. superaneus «che sta sopra») entra nell’uso linguistico durante il Medioevo con il significato debole di «preminenza relativa»: esso indica infatti colui il quale occupa la posizione di comando suprema all’interno di un qualsiasi ordine gerarchico (il re è sovrano nel proprio regno, così come ogni barone è sovrano nella sua baronia). È soltanto tra 16° e 17° sec., come risposta agli esiti dissolutivi dei conflitti religiosi e civili che dilaniano la Francia e l’Inghilterra, che prende forma il concetto di s. come «preminenza assoluta» del potere statale (incarnato, in genere, dal monarca). Sotto questo profilo, il concetto giuridico-politico di s. è l’espressione, in sede teorica, del processo di formazione dello Stato moderno, il cui potere viene definito sovrano in quanto originario (non derivante da altro), assoluto (perché superiorem non recognoscens), esclusivo (perché indivisibile), inalienabile e imprescrittibile (in quanto funzione pubblica, necessaria a ogni organizzazione politica). Questa definizione della s. – che troverà espressione, con significative differenze, nel pensiero di Bodin, Hobbes e Rousseau – verrà criticata, per il suo potenziale dispotico, dalla tradizione liberal-costituzionale (Locke, Montesquieu, B. Constant), che sosterrà invece la necessità di limitare il potere dello Stato al fine di tutelare le libertà degli individui e l’autonomia della società civile. In questa prospettiva – che si affermerà nel corso del 19° sec., dando vita allo Stato di diritto – il concetto di s. tende a essere sostituito con quello di autorità competente, che agisce entro i limiti previsti dall’ordinamento costituzionale (le cui norme sono gerarchicamente superiori alle leggi ordinarie). Sovrano, in senso proprio, sarebbe quindi soltanto il potere costituente, perché ‘creatore’ dell’ordinamento stesso: ma si tratta di un ‘potere dormiente’, che si manifesta soltanto nei momenti di crisi e dissoluzione dell’ordinamento politico-civile. Ma è proprio in questi momenti eccezionali che, secondo il realista C. Schmitt, si manifesta la vera essenza della s., che non si fonda sulla norma (come pensa la tradizione di ascendenza liberale), ma sulla decisione, vale a dire sulla volontà di assicurare la sopravvivenza dello Stato contro i suoi nemici esterni e interni.
È certamente significativo il fatto che per indicare la sede ultima del potere si usassero, nel Medioevo, locuzioni come summa potestas, summum imperium, plenitudo potestatis (l’unica eccezione era maiestas): nella società feudale, infatti, la potestas era esercitata da una pluralità di soggetti, che in ambiti territoriali più o meno estesi amministravano la giustizia, garantivano l’ordine interno, raccoglievano le imposte, chiamavano alle armi; la potestas temporale era inoltre affiancata dall’auctoritas spirituale della Chiesa, l’unica in grado di orientare il potere al bene. La summa potestas, in questo quadro, era il potere temporale più alto, ma non era esclusivo (perché preceduto da molti poteri minori, ognuno con le sue autonome attribuzioni), né originario (perché derivato da Dio), né assoluto (perché limitato dalla legge naturale e divina, dalle consuetudini e dalle attribuzioni dei ceti e dei parlamenti); esso discendeva verso il basso attraverso una fitta trama di mediazioni, di corpi intermedi, ognuno dei quali aveva il suo status particolare, con relativi diritti e doveri. Questa complessa struttura era considerata un ordine naturale, che a sua volta rifletteva l’ordine divino del cosmo: il potere trovava in esso il suo ruolo, il suo significato e, per ciò stesso, il suo limite. Emblematica era la posizione del re, che pure nel medioevo veniva considerato imperator in regno suo: non solo egli era sub Deo, ma era anche sub lege, perché lex facit regem. Nel ‘dire giustizia’ – che era una delle sue prerogative principali – il re applicava la legge consuetudinaria del paese o interpretava la legge naturale: il diritto era applicato o cercato dal sovrano, non creato dalla sua volontà.
Con l’avvento della moderna teoria della s. questo assunto viene rovesciato: è il re, afferma Bodin nei Six livres de la République (1576; trad. it. I sei libri dello Stato; ➔) che fa la legge e che quindi può abrogare, modificare o sospendere qualsiasi legge, nonché qualsiasi consuetudine. Con accento tipicamente moderno, Bodin individua nel potere di fare le leggi la prerogativa principale della s., quella che precede e comprende tutte le altre (decidere la pace e la guerra, nominare ufficiali e magistrati, battere moneta, imporre tributi, concedere la grazia). Il giurista francese – il cui fine è affermare il ‘potere arbitrale’ della monarchia nei conflitti religiosi e politici che lacerano la Francia – definisce la s. come «quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato». Ma in realtà la sua concezione risente ancora dell’eredità medievale: la s. del monarca riguarda infatti la sfera delle leggi civili (che non lo possono vincolare in alcun modo, dal momento che egli stesso ne è l’autore), ma non può infrangere i «sacri confini delle leggi di Dio e della natura». Bodin definisce inoltre lo Stato ancora alla maniera aristotelica, come l’unione di famiglie e corpi che preesistono ad esso: «per Stato – scrive Bodin – s’intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune tra loro». Tale definizione stabilisce anzitutto che il comando del sovrano debba essere giusto, ossia conforme alla legge naturale e divina (ius quia iustum); essa riconosce inoltre che il governo del sovrano si esercita su ciò che le famiglie hanno messo in comune, dal quale rimane quindi escluso ciò che è possesso privato (e infatti il sovrano non può imporre imposte a suo piacimento, giusta la distinzione tra imperium e dominium). Questi limiti scompariranno con Hobbes, nel cui pensiero troviamo una radicale formulazione della s. come potere originario e assoluto. Lo Stato, anzitutto, non è per Hobbes il frutto del naturale strutturarsi del corpo sociale, a partire dalla famiglia, in cerchie e ordini, ma è l’esito di una scelta volontaria, fatta da individui tanto liberi ed eguali quanto esposti al rischio della distruzione reciproca. In quanto entità puramente artificiale, lo Stato si fonda soltanto sulla volontà degli individui e sulla loro razionalità strumentale: soltanto grazie all’istituzione della s. si costituisce il popolo (prima c’è soltanto una moltitudine dispersa di individui); e soltanto grazie alle leggi civili si dispone di un criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto (prima c’è soltanto lo ius omnium in omnia, ossia il diritto di ogni individuo di fare tutto ciò che ritiene opportuno ai fini della propria conservazione). In questo quadro, il potere del sovrano non incontra alcun limite politico (perché nel patto gli individui hanno ceduto tutti i loro diritti, tranne quello alla vita), né giuridico (perché lo ius è tale in quanto iussum: è l’autorità e non la verità che fa la legge), né etico (perché lo iussum è l’unico modo per distinguere il bene dal male ed è quindi intrinsecamente iustum). Questo potere assoluto non è tuttavia arbitario, secondo Hobbes, perché i suoi comandi non sono il frutto del capriccio, bensì l’esito necessario di una razionalità volta a realizzare quel supremo valore politico che è la pace, ossia la condizione che consente a ogni individuo di autoconservarsi e perseguire il suo utile. Con Rousseau l’assolutezza della s., sotto un certo profilo, si accentua, giacché la cessione dei diritti individuali, nel contratto sociale, è totale; ma, al tempo stesso, essa si concilia, secondo il Ginevrino, con la libertà, perché titolare della s. è il corpo sociale nella sua interezza, il quale la esercita collettivamente e direttamente esprimendo la sua volontà generale (s. popolare). Nella prospettiva di Rousseau, la s. esprime dunque non una razionalità strumentale e utilitaristica (come quella hobbesiana), ma una razionalità sostanziale che coincide con la moralità, giacché la volontà generale mira all’interesse generale della comunità, al suo bene comune, e costituisce quindi l’antitesi di quel particolarismo egoistico che è all’origine, secondo il Ginevrino, di ogni ingiustizia.
La tradizione liberale ha sempre guardato con diffidenza al concetto moderno di s., proprio in virtù della sua intrinseca connotazione assolutistica. La diffidenza per il concetto si è in genere accompagnata a un uso riluttante del termine. Il primo costituzionalista moderno che fa i conti con la s. è E. Coke, il quale sosteneva che questo termine era estraneo al diritto inglese, giacché quest’ultimo era incentrato sulla supremazia della common law, che prevaleva anche sulle leggi del parlamento. Quanto a Locke, egli non definisce il parlamento ‘potere sovrano’, bensì «potere supremo»: esso, infatti, pur essendo la sede ultima del potere, non è assoluto (giacché incontra limiti invalicabili nei diritti naturali degli individui), né originario (dal momento che la sua origine e quindi il suo fondamento è nella fiducia del popolo, il quale dispone infatti del diritto di resistenza), né esclusivo (Locke teorizza la divisione dei poteri e fa suo il modello costituzionale, di origine medievale, del king in parliament, ossia una vera e propria co-s. tra corona, lords e comuni). Se in Locke troviamo la critica della s. nella versione autocratica che ne dà Hobbes, in Constant troviamo la critica della s. nella versione democratica che ne dà Rousseau. Constant usa piuttosto raramente, nella sua opera più importante (i Principes de politique del 1806; trad. it. Principi di politica), il termine s.: egli preferisce parlare di «autorità sociale», sottolineando in tal modo la natura derivata del potere statale (che ha la sua fonte, e quindi anche il suo fondamento e il suo limite, nel consenso della società) e la sua natura collettiva, che si contrappone alla dimensione essenzialmente individuale della libertà. Constant riconosce il principio rousseauiano della s. popolare: legittimo è soltanto quel potere che deriva dalla società, che si fonda sul consenso del popolo; ma rifiuta nettamente l’idea che questa s. sia illimitata, come comporta il principio rousseauiano dell’alienazione totale dei diritti nel contratto sociale dal quale sorge lo Stato. Per Rousseau questa alienazione non presenta rischi, giacché tutti i diritti che gli individui cedono in quanto ‘privati’ li riprendono, con maggior forza, in quanto ‘cittadini’, ossia in quanto membri perfettamente uguali di quel corpo sociale che coincide con il sovrano; ma per Constant la coincidenza tra governanti e governati, nei grandi Stati moderni, è soltanto teorica, giacché il potere, anche quando appartiene di diritto a tutti, è sempre esercitato di fatto da una minoranza. L’errore fondamentale di Rousseau – nonché l’insidia più grande della sua teoria – è di aver perseguito la libertà non limitando il potere, ma affidandolo alla società intera. Il Ginevrino, secondo Constant, ha ereditato dalla tradizione assolutistica la nozione di s. e si è limitato a spostarne la titolarità dal monarca al popolo, nella convinzione che la distribuzione eguale del potere sia di per sé garanzia e strumento di libertà. Il principio che va invece affermato – sia dal punto di vista teorico, sia nella concreta organizzazione costituzionale dello Stato – è che la s. esiste soltanto in maniera limitata e relativa: «la sua giurisdizione finisce là dove inizia l’indipendenza dell’esistenza individuale. [...] La legittimità dell’autorità dipende dalla materia così come dalla fonte. Quando l’autorità si estende a materie che fuoriescono dal suo ambito, essa diventa illegittima [...]. Il consenso della maggioranza non è affatto sufficiente per conferire in tutte le circostanze ai suoi atti il carattere di legge. Esistono atti a cui niente può conferire tale carattere» (Principi di politica, II, 1).
Nel corso del Novecento uno dei più autorevoli giuristi europei, Kelsen (➔), ha sottoposto il ‘dogma della s.’ a una durissima critica, affermando che esso sarebbe espressione di una concezione antidemocratica e imperialistica dello Stato. Per Kelsen il diritto interno degli Stati è soltanto un ordinamento parziale, la cui validità dipende dall’ordinamento giuridico internazionale; il fondamento dell’obbligatorietà di quest’ultimo non va ricercato in qualcosa di esterno all’ordinamento stesso, ma va postulato in termini logico-trascendentali, come immagine giuridica del mondo e riflesso dell’unità morale del genere umano. Kelsen propugna un’evoluzione della comunità giuridica internazionale dalla sua condizione ‘primitiva’, derivante dalla s. statale, a un’organizzazione universale dell’umanità in cui convergano diritto, morale, economia e politica. Alle tesi cosmopolitiche di Kelsen si è opposto il giurista tedesco Schmitt (➔), secondo il quale la politica ha una dimensione costitutivamente tragica che i formalismi procedurali del diritto moderno tentano invano di nascondere: la natura radicalmente conflittuale dei rapporti umani, lo scatenamento della violenza, l’esclusione del diverso e dello straniero. In questo quadro, sovrano non è colui che, in condizioni normali, detiene il monopolio del potere legislativo o esecutivo, ma colui che «decide dello stato di eccezione», ossia il ‘dittatore’ che sospende l’ordinamento giuridico vigente o ne fonda uno nuovo, decidendo chi è amico e chi è nemico al fine di garantire l’unità e la coesione dello Stato (inteso come popolo- nazione che vuole ‘camminare unito’). Inoltre, Schmitt distingue tra «dittatura commissaria», prevista cioè dalla costituzione stessa (come nel caso del famoso art. 48 della costituzione di Weimar) e «dittatura sovrana», che nasce da una rivoluzione (come la dittatura del proletariato).
Nella seconda metà del 20° sec. l’idea di s. è entrata in crisi, sia per il prevalere delle teorie costituzionalistiche (in virtù delle quali esistono soltanto poteri costituiti e limitati), sia per la crisi dello Stato nazionale, sempre più inadeguato a fronteggiare la dimensione globale dei problemi economici, ambientali, sociali e politico-militari. Si sono così affermate una serie di istituzioni sovranazionali, che hanno sottratto agli Stati nazionali – in parte o del tutto – alcune delle loro prerogative classiche (la creazione della moneta; la politica economico- finanziaria; la difesa; la giustizia, almeno in certi ambiti). Ciò significa che si vanno affermando nuove forme di s. o autorità, a fronte delle quali rimane sempre il cruciale problema di conciliare la necessità di un potere di ultima istanza con l’esigenza del diritto, la forza con la ragione, al fine di sottrarre – nei limiti del possibile – la vita politica e sociale all’orbita della violenza.