SPAGNA
(España, A. T., 37-38, 39-40, 41-42, 43).
Sommario. - Nome e confini (p. 196); Struttura e morfologia (p. 197); Clima (p. 200); Idrografia (p. 201); Suoli (p. 202); Flora e vegetazione (p. 202); Fauna (p. 203); Popolazione (p. 203); Condizioni economiche (p. 206); Comunicazioni (p. 212); Commercio estero (p. 213). - Ordinamento: Ordinamento costituzionale (p. 214); Culti (p. 215); Forze armate (p. 15); Organizzazione scolastica (p. 216); Finanze (p. 216). - Preistoria (p. 217). - Storia: Antichità (p. 217); Le origini del cristianesimo (p. 221); La dominazione visigota (p. 222); La dominazione araba (p. 224); La riconquista cristiana (p. 230); Lo stato spagnolo (p. 241); L'ottocento e gli ultimi avvenimenti (p. 247); Bibliografia (p. 250). - Lingue e dialetti: La lingua spagnola (p. 253); Dialetti (p. 256); La lingua spagnola fuori della Spagna (p. 256). - Letteratura (p. 257). - Arte (p. 272). - Musica (p. 286). - Folklore (p. 289). - Diritto (p. 290). - Tavv. XXIX-LIV.
Nome e confini. - Spagna è il nome col quale, dall'epoca romana in poi, è conosciuto il maggiore dei due aggregati etnico-politici nei quali è suddivisa la regione iberica. Di questa la Spagna comprende l'85% in superficie e il 75% in popolazione. Per il suo territorio (505.181 kmq.; 500.137 senza le Canarie, che sono anch'esse provincia spagnola) occupa in Europa il terzo posto (dopo l'U.R.S.S. e la Francia), ma scende al settimo (dietro la Polonia e innanzi alla Romania) quanto a numero di abitanti (22,8 milioni nel 1930; 22,2 senza le Canarie) e addirittura al diciannovesimo (prescidendo dai piccoli stati) quanto a densità di popolazione (45 ab. per kmq.; meno della Grecia e poco più della Lituania). I punti estremi che delimitano il territorio spagnolo coincidono con gli estremi della penisola (Estaca de Báres 43° 28′ N., Punta Marroqui 36° 00′ N.; la massa continentale si spinge fino al C. Creus in 3° 20′ E., con le Baleari si arriva a 4° 22′ E. nel C. La Mola), eccetto che a occidente, dove il C. Touriñán (9° 19′ O.) tocca del resto una longitudine poco diversa da quella del portoghese C. da Roca (9° 30′ O.). Nella massa continentale che così ne risulta - anch'essa all'ingrosso a forma di pentagono come la penisola, e, come questa, divisa a metà dal 40° N. - larghezza (da E. a O.) e lunghezza (da N. a S.) massime press'a poco si equivalgono (850-900 km.), salvo che in corrispondenza all'aggetto della Galizia, col quale il territorio spagnolo si dilata verso NO. fino a raggiungere anche da questo lato l'Atlantico. A differenza del vicino Portogallo, tutto volto all'oceano libero, la Spagna partecipa in pieno dei caratteri distintivi della penisola, con la quale non a torto è spesso identificata: e non tanto perché sola, nella penisola, a godere del doppio fronte marittimo, sul Mediterraneo e sull'Atlantico, e della maggiore vicinanza alle coste africane (massima rispetto a tutti gli altri paesi europei), quanto per il fatto che morfologia e clima, a tacer d'altro, dànno al suo territorio una netta individualità non solo nei riguardi del Portogallo, ma della rimanente Europa.
Struttura e morfologia. - Questa individualità ha naturalmente le sue basi, o almeno le sue corrispondenze, nella struttura e nella costituzione geologica della massa continentale. Sebbene le indagini moderne abbiano mostrato sempre più complicate le vicende attraverso le quali s'è modellata la sua morfologia, non v'è dubbio che il rilievo iberico trae la propria originalità essenzialmente dal fatto che l'orogenesi alpina non solo non ha cancellato, ma si è, per dir così, adattata a un disegno che, nelle sue linee generali, risale al corrugamento ercinico, se non addirittura a fasi anche più antiche (caledoniano). L'esistenza, dal Paleozoico in poi, di un rigido nucleo centrale - la meseta - lungo i cui margini son venuti ad esaurirsi, senza riuscire a deformarlo, gli sforzi orogenetici manifestatisi durante il Terziario, ha avuto come effetto la formazione, nelle aree periferiche, di una corona di rilievi e di depressioni che quel nucleo han finito con l'isolare dall'originario contatto marino. È probabile che la meseta si estendesse un tempo assai più verso occidente: su questo lato, infatti, il margine attuale corrisponde a una linea di faglie (dalla foce del Duero al Capo S. Vincenzo, attraverso Abrantes e Alcocer), il cui significato geologico è reso più evidente dall'instabilità (sismicità accentuata) del Portogallo meridionale e dal pitone nefelitico della Serra de Monchique. Con tutto ciò, la delimitazione del basso bacino dei tre grandi fiumi della meseta è segnata appunto dal contatto di questa con le diverse unità tettoniche onde risulta il vicino Portogallo.
Il lungo periodo di quiescente emergenza della meseta, appena disturbato da parziali trasgressioni dei mari mesozoici, contrasta con la relativa brevità (in senso geologico) dei parossismi cenozoici, cui si deve in sostanza l'architettura attuale del rilievo iberico, più o meno leggermente ritoccata dai movimenti epirogenetici postpliocenici. Di qui l'opposizione, non esclusiva d'altronde del territorio spagnolo, di forme giovani, o ringiovanite, a forme vecchie o addirittura decrepite. Il contrasto non ha tuttavia sempre il suo equivalente stratigrafico e geo-litologico. I penepiani della meseta, oltre che con la demolizione dell'antichissimo rilievo paleozoico, sono evidentemente in rapporto con l'azione livellatrice dei depositi fluvio-lacustri, quasi dovunque di grande potenza, che nascondono su larghe superficie il loro antico imbasamento: dove questi mancano, come nella sezione sud-occidentale della Nuova Castiglia, le linee dell'antico rilievo ercinico si fanno ancora evidenti, non fosse che per la direzione imposta alle acque superficiali (Estremadura, gomito del Guadiana). Codesti depositi continentali neogenici e quaternarî sono anzi tipici della meseta settentrionale, di cui coprono la parte più estesa e di dove si continuano nella finitima depressione dell'Ebro e, oltre la Sierra de Guadarrama, nella Mancia, mentre le contemporanee sedimentazioni della fossa andalusa hanno origine marina, e solo dopo il Pliocene recente si ammantano di materiale alluvionale. Di contro alla larga diffusione del Cenozoico, spiccano in territorio spagnolo essenzialmente le formazioni cristalline e paleozoiche a O. e a SO., le mesozoiche soprattutto a E. e a N. Le prime costituiscono da sole il margine occidentale della meseta dalla Galizia al Tago, affiorando di nuovo su larghi spazî nelle sierras mediane; le seconde le continuano tanto nelle Asturie e nei Cantabrici, quanto fra Tago e Guadalquivir, dove dall'Estremadura si spingono fino alla Mancia, formando lo stesso orlo rilevato della Sierra Morena. Assai più varia e complicata è la costituzione geologica del margine orientale della meseta: quasi dovunque, tuttavia, l'imbasamento paleozoico è mascherato da potenti pile di deposizioni mesozoiche, fra le quali prevalgono di gran lunga quelle, stratigraficamente piuttosto varie, del Cretacico, che si continua, attraverso la depressione basca, sul fianco meridionale della cordigliera pirenaica, come pure, oltre lo Júcar, negli allineamenti montuosi del sistema betico.
La maggiore complessità dei rilievi periferici in confronto alla meseta non deve tuttavia indurre a ritenere idealmente semplice la morfologia di quest'ultima. La sua relativa rigidità non ha impedito che le spinte orogenetiche posteoceniche vi facessero giungere la loro eco, sia pure ricalcando e rinnovellando accidenti tettonici più antichi. L'emergere delle anticlinali mediane (Sierra de Gata, de Gredos e de Guadarrama; M. di Toledo), la surrezione dei margini (orlo cantabrico, M. Universali, Sierra Morena) e l'accentuarsi delle depressioni interne (fosse di Toledo e del Guadiana) introducono tali varietà nel paesaggio naturale, che si passa entro breve spazio dagli aridi e piatti páramos castigliani alle aspre pendici del Peñalara (2406 m.), sulla cui sommità sono ben visibili le tracce della glaciazione pleistocenica. Ma anche senza far appello a questi contrasti, la cordigliera centrale, che divide tradizionalmente la Vecchia dalla Nuova Castiglia (questa seconda di circa 300 m. più bassa della prima), è in realtà limite di due zone morfologicamente a sé stantí. Alla tipica planizie dei campos settentrionali succede, a S. delle Sierras, un paesaggio collinare a molli ondulazioni, accentuantisi man mano si procede verso S. e specialmente verso SO., dove il rilievo assume un'importanza sempre più decisa. Solo la piatta distesa delle steppe della Mancia ricorda, per la sua perfetta orizzontalità, i páramos di León, ma qui, più che la comune storia geologica, entra in giuoco, come fattore determinante, la presenza, negli strati superficiali del terreno, delle argille gessose del Sarmaziano e dei calcari bibuli del Miocene superiore.
Comunque, il predominio di alte superficie livellate caratterizza bene, nel complesso, la meseta spagnola in confronto delle zone marginali. Di queste, la piu̇ notevole, per le sue proporzioni e per la sua importanza geografica, è certo il massiccio betico, che è anche l'unico edificio, in territorio spagnolo, di pretto tipo alpino. La larga frattura che da Lorca per la cònca di Granada adduce all'alto Genil, vi separa una fascia settentrionale prebetica, in cui sulle assise corrugate del Mesozoico e del Cenozoico superiore vennero carreggiate falde giurassico-cretaciche, che l'erosione ha poi isolato in lembi. La fascia si continua, oltre la costa levantina, nelle Baleari (Ibiza, Maiorca). I nudi costoni calcarei, nei quali è anche un discreto sviluppo di fenomeni carsici, contrastano col molle declivio delle interposte masse marnoso-arenacee, dove sono messe a nudo dall'intensa denudazione subaerea. Oltre il Genil, dallo Stretto di Gibilterra al Segura, s'alza l'imponente mole della cordigliera betica, che tocca in pari tempo la massima altezza della penisola (Mulhacen 3481 m.) nella Sierra Nevada: il nome richiama la presenza, eccezionale data la bassa latitudine (37° N.), di un piccolo ghiacciaio (Ventisquero de Veleta), che scende con la sua fronte a 2485 m. Caratteristiche, in questo massiccio, la costanza di un alto livello (3000 m.), sul quale s'adergono numerose cime; l'intensità della glaciazione quaternaria e della denudazione recente, la varietà della costituzione geologica, cui fa riscontro non minore varietà di forme topografiche, e una ancora non ben valutata dovizia di minerali utili.
Il raccordo fra questi rilievi e quelli che frangiano da E. e da NE. la meseta si compie attraverso la confusa chiostra di sierras che volgono al C. de la Nao, dove la costa ne tronca gli assi obliquamente (Sierra de Aitana, 1557 m.). Al N. del basso Júcar s'inizia il lungo cercine montuoso che per effetto dell'orogenesi cenozoica venne a segnare lo spartiacque fra Atlantico e Mediterraneo, riducendo notevolmente l'originario dominio di questo. L'unità del sistema consiste nel suo fondamentale motivo tettonico (da NO. a SE.), rivelato dalle sue radici paleozoiche: l'intensa denudazione, asportando largamente la copertura mesozoica, vi ha scolpito, accanto agli alti tavolati calcarei, depressioni e bacini attraverso i quali i fiumi mediterranei spingono le loro testate dentro la massa stessa della meseta, catturandone le acque. Senza raggiungere grandi altezze assolute (Moncayo 2316 m., Cerro di S. Lorenzo 2303 m.), queste sierras formano uno spesso bastione divisorio fra l'interno del paese da un lato, la fossa dell'Ebro e la pianura litoranea dall'altro: il passaggio si compie attraverso poche vie obbligate, lungo le quali si sono sviluppati i centri più importanti.
Verso settentrione, la sinclinale aragonese e le ultime digitazioni dei monti Iberici mettono capo a un'altra zona di confusi rilievi - il cosiddetto massiccio basso - separanti la cordigliera pirenaica dal costone cantabrico: anche qui vecchie superficie d'erosione si alternano a pitoni isolati da gole profonde, attestando un vivace ringiovanimento dei cicli erosivi. Più semplice, ma solo in apparenza, il margine rilevato che chiude da N. la meseta: la lunga fuga di montagne che sbarra a questa l'accesso all'Atlantico rivela grandi diversità di struttura e di forme a mano a mano che si procede dalla depressione basca verso il massiccio galaico. In sostanza, tuttavia, il rilievo attuale vi mostra evidenti gli effetti del sovrapporsi dell'orogenesi alpina a una regione nella quale il lungo logorio della denudazione subaerea, pur avendo raggiunto in complesso uno stadio di tarda maturità, non era ancora pervenuto ad obliterare i motivi fondamentali della sua tettonica. Di più, tutta una serie di movimenti postpliocenici riportò le vecchie superficie penepianate a differenti livelli: ciò che è ben visibile soprattutto sulla costa (Rasa, Ribamontana la mar), dove la piattaforma litoranea, sollevata, è stata di nuovo incisa e finemente scolpita dall'erosione. Notevole è la relativa costanza di questa barriera montuosa, che, pur superando di poco i 2000 m. (2642 m. nei Peñas de Europa), si lascia intaccare solo da pochi passi, e tutti piuttosto elevati (1800-1300 m.). I Cantabrici sono inoltre tipicamente asimmetrici, presentando il fianco più ripido alla costa: di qui l'entità della denudazione su questo lato, e la ristrettezza della cimosa litoranea, allargantesi via via che si procede verso O., dove l'asse del sistema tende ad allontanarsi dalla riva.
Tutt'altro carattere assume il rilievo nell'angolo NO. della penisola, dove la potente serie scistoso-cristallina, iniettata di graniti e di altre rocce eruttive antiche, si presenta come un ampio penepiano inciso da larghe docce vallive. Il nucleo della regione sembra essere la Cabeza de Manzaneda (1778 m.), donde irradiano quasi in ogni senso catene dalle sommità nude e arrotondate (da 1000 a 900 m. nella Galizia centrale, degradanti fino a meno di 900 verso NO.); lungo l'Atlantico le piatte estremità dei solchi fluviali, invase, per le recenti oscillazioni di livello, dalle acque marine, hano dato origine alle tipiche rías, che si continuano sino al confine portoghese.
Oltre la fossa dell'Ebro, l'istmo che individua la penisola dalla massa continentale europea, è occupato per intero dal sistema pirenaico (v. pirenei), della cui area il versante meridionale, che appartiene alla Spagna, occupa all'incirca i due terzi. In questo, il nucleo Cristallino centrale, sul qu̇ale s'adergono le massime vette (alcune superiori ai 3000 m.) e corre, in generale, il confine politico con la Francia, è fiancheggiato da più fasci di rilievi paralleli che dalla depressione basca si continuano, attraverso Aragona e Catalogna, fino all'Ampurdano. Caratteristico del versante spagnolo è lo sviluppo delle valli longitudinali (Aragón, Nogueras, Segre), che intagliano, scendendo all'Ebro, questi allineamenti prepirenaici, distinti in più serie di gradini da faglie parallele. Le comunicazioni attraverso la compatta muraglia non sono agevoli: i passi vi s'aprono relativamente radi ed elevati (Roncisvalle 1057 m., Somport 1640, Portalet 1758, Puymorens 1931, La Perche 1565; recente è l'apertura del Port de La Bonaigue, 2072 m. sulla via da Tolosa a Lérida), salvo che alle due estremità della catena, dove questa si deprime. La compartimentazione in piccoli bacini, più separati che riuniti dalle forre con cui li raggiungono i corsi d'acqua, è aggravata dall'intensa denudazione, le cui rapine si accumulano a valle, nelle aride distese alluvionali che frangiano la doccia dell'Ebro (Bárdenas, Monegros).
Quest'ultimo deve, prima di sfociare nel Mediterraneo, aprirsi la via in un duplice ostacolo montuoso, che supera con una gola epigenetica: la cosi detta catena catalana, che trova nel Maestrazgo la zona di sutura col margine orientale della meseta. Si tratta di una serie di rilievi che s'alzano in media poco oltre i 500-600 m. e si distribuiscono in due allineamenti press'a poco paralleli alla costa e separati da una depressione mediana: frammento, come pare probabile, di una massa continentale più estesa, sprofondata e parzialmente riemersa in epoca recente. Il suo nucleo cristallino-paleozoico è qua e là rivestito di deposizioni mesozoiche ed eoceniche, che l'erosione ha però in gran parte asportate. Dei due allineamenti, il più elevato è l'interno (m. 1747 nel blocco del Montseny).
Come il sistema iberico fa fronte, oltre la sinclinale aragonese, alla cordigliera pirenaica, così il lembo settentrionale della fossa andalusa è segnato dai rilievi compresi sotto il nome di Sierra Morena cioè, come già detto, dal margine stesso della meseta, ondulatosi e frammentatosi per effetto delle spinte paleogeniche provenienti da S. Il rilievo, che resta di regola entro limiti altimetrici modesti (1323 m. nella Sierra Madrona, in corrispondenza alla massima intensità dello sforzo orogenetico), appare tale soprattutto in rapporto alla depressione dove corre il Guadalquivir, eccezion fatta per la sua estremità orientale, che la salda ai costoni prebetici nell'aspra znna NO. della provincia di Jaén.
Anche più importante per le sue conseguenze geografiche è la cordigliera centrale, che dalla Sierra de Guadarrama per quelle de Gredos e de Gata si continua (800 km. all'incirca) in territorio portoghese: sul comune zoccolo cristallino della meseta le masse di rocce antiche (graniti e gneiss sopra tutto, ricoperti sui due versanti da deposizioni cenozoiche e recenti), che l'orogenesi alpina finì coll'inarcare, si presentano ora isolate in gruppi separati e di regola disposte a mo' di quinte. Rare le forme proprie dell'alta montagna: l'erosione recente vi ha cancellato quelle che i ghiacciai quaternarî vi avevano scolpite. Facili, relativamente, i passaggi, e tuttavia chiara la funzione divisoria che, tra i due compartimenti della meseta, ha esercitato questa lunga barriera, la quale d'altronde si estolle in più luoghi oltre i 2000 m. (2592 nella Plaza de Almanzór), ed è perciò nettamente denivellata su quelli.
Riassumendo, le massime altezze della Spagna si allineano sui suoi margini, ma la meseta, che è essa stessa elevata in media sui 750-800 m. a N. e 600-650 a S. della cordigliera mediana, è costituita su larghe superficie da piattaforme d'erosione oscillanti tra gli 800 e i 1200 m. Per contro, le zone inferiori ai 500 m. si riducono a poco più di un terzo dell'area complessiva (circa il 40% nella penisola) e si concentrano anch'esse soprattutto nelle regioni marginali: la fossa dell'Ebro e il basso bacino del Guadalquivir.
Clima. - Le condizioni del rilievo trovano il loro immediato riflesso in quelle del clima. Un'ampia massa interna a clima temperato continentale, circondata da frange più o meno estese di zone a clima marittimo, con intervalli che vi segnano transizioni abbastanza nette: il riflesso non potrebbe essere più evidente. Purtroppo, manca alla Spagna la costituzione di un servizio meteorologico tale da soddisfare le esigenze della moderna indagine scientifica (poche stazioni e mal distribuite; osservazioni lacunose e non sempre attendibili); ci si deve perciò accontentare di indicazioni generali.
La meseta determina evidentemente la tendenza alla formazione di un regime barometrico chiuso, quindi di aree cicloniche e anticicloniche proprie della penisola e contrastanti coi minimi e i massimi delle aree vicine. Le correnti che ne risultano si ordinano di regola dal mare verso l'interno d'estate, e in senso opposto d'inverno, ma con deviazioni e perturbazioni varie, in rapporto non solo con i due specchi marini, ma anche con la disposizione dei rilievi. Quasi dovunque si hanno però due massimi di pressione (estate e inverno), intervallati da due minimi nelle stagioni intermedie, durante le quali la meseta è centro di un'area di depressione fra il massimo atlantico (Madera-Azzorre) e il minimo dell'Europa centrale. In ogni caso, le correnti aeree depositano la loro umidità sui rilievi periferici, e ne risulta un regime di netta aridità per la maggior parte della penisola.
È tradizionale, dal Brunhes in poi, la divisione di questa in una Iberia umida e in una Iberia arida: per quel che riguarda la Spagna propriamente detta, il territorio della prima rappresenta appena poco più di un terzo (36,2%) del totale. Il limite fra le due regioni corre all'incirca lungo il margine settentrionale della meseta, parallelamente al corso dell'Ebro e ai Cantabrici, ma abbracciando l'intera Galizia, con due punte in corrispondenza all'aggetto più occidentale della cordigliera mediana (Estremadura). La maggior parte della Spagna ha precipitazioni inferiori ai 500 mm. annui e solo oltre il limite che s'è ora accennato si superano, in ristrette aree montane, i 1500 mm. Dell'Iberia arida più della metà (52%) rimane al disotto del mezzo metro, e quasi un quarto (19,5%) al disotto dei 400 mm. I minimi assoluti si raggiungono tuttavia non nella meseta, ma lungo la fascia costiera mediterranea, fra Almería e il C. di Palos, nella quale la piovosità oscilla fra 100 e 170 mm. annui: quindi la zona più arida d'Europa.
Alquanto diversa risulta, naturalmente, la distribuzione stagionale delle precipitazioni, ma l'estate corrisponde dovunque al periodo meno piovoso dell'anno. I più piovosi sono l'autunno e la primavera, se non che, mentre le piogge autunnali sopravvengono improvvise e gagliarde (soprattutto nelle regioni mediterranee), si passa lentamente, sotto questo riguardo, dall'inverno alla fine della primavera (soprattutto lungo il litorale atlantico). Grande importanza ha inoltre, per le sue conseguenze geografiche, il contrasto che le diverse plaghe della Spagna mostrano quanto all'evaporazione atmosferica. Nell'Iberia umida questa non riesce a eliminare se non una piccola parte delle acque meteoriche; al contrario nella meseta e lungo il litorale mediterraneo v'è sempre un più o meno accentuato squilibrio fra l'afflusso liquido e le perdite prodotte dall'evaporazione, anche perché questa è continua ed intensa, quello intermittente e irregolare.
Nel ricambio entra, d'altronde, l'altro elemento essenziale del clima: la temperatura. La quale si mostra essa pure in stretta dipendenza dalle condizioni di postura e di rilievo che caratterizzano le varie regioni spagnole, ma reagisce a sua volta su queste, determinandovi, in unione al comportamento delle piogge e dell'umidità atmosferica, possibilità diverse allo sviluppo della vita. Più che le medie annue delle temperature (oscillanti all'ingrosso fra 10° e 20°, e perciò tipiche di un clima temperato), giova considerare le escursioni degli estremi, sia stagionali sia giornalieri. Com'è naturale attendersi, l'interno è sottratto su larghissimi spazî alle influenze moderatrici del mare. Queste, che pur riescono a penetrare attraverso le depressioni periferiche, sono nettamente arrestate dagli spessi rilievi marginali; perciò il passaggio dal tipo continentale della meseta alle variazioni oceaniche delle frange costiere è brusco e risentito. Di più, l'interno vede accentuate queste disarmonie dalle sue condizioni altimetriche. L'escursione annua, che sul litorale atlantico si aggira intorno a 12°, e intorno a 14°-16° su quello mediterraneo, oltrepassa 20° nella meseta, ma, mentre in questa si riscontrano non raramente estremi di −20° (−22° ad Albacete; −13° a Madrid) e di oltre 40° (47° a Badajoz, 44° a Madrid), le zone periferiche beneficiano invece di una maggiore costanza di temperature.
Lungo la costa atlantica infatti, si scende sotto i 10° da dicembre a febbraio, ma l'estate supera raramente i 20°, mentre l'umidità e la nebulosità vi sono maggiori che nelle altre regioni spagnole.
Il litorale mediterraneo è caratterizzato soprattutto da inverni miti (uno o due mesi al massimo con temperature inferiori a 10°) ed estati asciutte; la sua porzione sud-orientale risente però delle convergenti influenze della meseta e della vicina Africa: di qui la forte insolazione, l'estrema aridità e la grande trasparenza dell'aria proprie del settore costiero tra Alicante ed Almería. Queste condizioni si attenuano nel bacino del Guadalquivir, dove si fa sentire il benefico soffio degli umidi venti oceanici (ciò non pertanto si sono registrati dei massimi assoluti di circa 50°; e minimi di −4° a Siviglia); meno, invece, nella depressione aragonese, che, circondata tutta da alti rilievi, partecipa in sostanza del tipo climatico della meseta (a Pamplona: −17° e 40°). Nella quale, di contro alla scarsa importanza delle variazioni locali (maggior quantità di piogge, minore ampiezza di escursioni annue e giornaliere, maggiore nebulosità atmosferica a N. della cordigliera mediana) stanno, come elementi tipici, oltre alla generale aridità e al notevole salto fra le temperature estreme (fino a 30° in un giorno e 60° nell'anno), la durata e l'intensità dei rigori invernali, la relativa abbondanza delle precipitazioni nevose, il lungo periodo dei geli - che dal dicembre si continua di regola fino al maggio - e la brevità, pure intollerabile, dei calori estivi; elementi tutti che si compendiano nel noto detto madrileno: "nove mesi d'invemo e tre d'inferno".
Idrografia. - Al pentagono peninsulare iberico, e perciò anche al territorio della Spagna, corrispondono sui due mari cinque distinti tratti litoranei, dei quali due guardano a S. e gli altri ognuno secondo uno dei punti cardinali. Lo spartiacque fra Atlantico e Mediterraneo corre lungo il margine nord-orientale della meseta e la cordigliera betica: oltre la metà di quel territorio è quindi tributaria del primo, ma dei maggiori fiumi che rientrano in tale versante uno solo, il Guadalquivir, corre per intero dentro i confini politici della Spagna, sfociando, insieme con il Guadiana, sul fronte marittimo di SO. Sugli altri fronti incombono, più o meno imminenti, i cercini montuosi della meseta o i rilievi periferici: manca perciò lo spazio per lo sviluppo di notevoli bacini idrografici. Sola eccezione, col Guadalquivir, l'Ebro, che convoglia le acque della depressione aragonese, ma è costretto ad aprirsi il varco attraverso i diaframmi montani che gli sbarrano il cammino presso la foce. L'Ebro è anche l'unico tra i grandi fiumi spagnoli che volga ad E., in contrasto con l'inclinazione prevalente che determina il corso degli altri. Ad onta del copioso afflusso liquido che gli viene dal suo fianco settentrionale (Pirenei), l'intensa evaporazione e i salassi irrigatorî (canali di Tauste e Imperiale) ne riducono d'assai la portata liquida, con la quale il fiume stenta a smaltire il suo pesante carico alluvionale. Tutt'altro carattere ha il Guadalquivir, che appena uscito dalla zona sorgentifera, a Cordova, ha solo un centinaio di m. d'altezza e viene risalito dalla foce per 120 km. dall'onda di marea. La sua navigabilità è inoltre in rapporto con la sua ricchezza di acque, cui contribuisce in primo luogo il regolare tributo della Sierra Nevada, recatogli dal Genil.
Gli altri tre fiumi maggiori - il Tago, il Duero e il Guadiana - sono caratterizzati anzitutto da un profilo d'equilibrio ancora assai irregolare: uscendo dalla meseta in cui sorgono e divagano, incassati in alvei profondi e interrotti da rapide, debbono vincere con una serie di cascate il brusco dislivello che separa a O. l'altipiano dalla fascia litoranea lungo l'Atlantico; di più la loro portata è variabilissima, con piene rapide e disastrose, che si alternano a lunghi periodi di magra, nei quali hanno spesso aspetto più di torrenti che di fiumi. Non cessa per questo la loro importanza antropogeografica, ma delle utilizzazioni tentatene, la più importante, che ne mette in valore le riserve idroelettriche, non riguarda esclusivamente la Spagna. Tutti e tre i fiumi attraversano infatti il territorio portoghese.
Quanto ai corsi d'acqua minori, si possono in complesso accomunare dai caratteri proprî di un ciclo di erosione ancora poco evoluto. Così sul versante meridionale della Sierra Nevada, come sul litorale cantabrico, per es., la prossimità del livello di base, l'abbondanza e la regolarità delle portate e la recente storia geologica determinano una denudazione assai intensa, con la quale questi fiumi tendono evidentemente ad un equilibrio ancora lontano. La copia delle sedimentazioni, che ne consegue, ha in talune plaghe un'importanza geografica che non può sfuggire: così, per es., la creazione delle huertas levantine è da porsi in rapporto coi materiali alluvionali che i fiumi del versante mediterraneo hanno trasportato e trasportano dalla meseta (Júcar, Segura), dove con erosione regressiva sono riusciti a spingere le loro testate, o dai margini rilevati di questa (Guadalaviar, Mijares).
Con tutto ciò, le differenze tra i diversi dominî idrografici sono spiccatissime: non fosse che tra la regolarità di deflusso propria dei fiumi cantabrici, e il capriccioso comportamento di quelli che mettono capo alla regione levantina, dove piene disastrose possono determinarsi in brev'ora lungo letti di torrenti che rimangono asciutti la più gran parte dell'anno.
Da rilevare la mancanza, in tutto il territorio spagnolo, di veri laghi, cui fa riscontro l'abbondanza di lagune litoranee (albuferas) e di lagune a perimetro variabile (la massima, quella di Gallocanta, giunge d'inverno a 25 kmq.) nelle zone aride a regime steppico.
Suoli. - Anche per ciò che riguarda le sue condizioni pedologiche, il territorio spagnolo presenta tutte le varietà riconoscibili nella penisola. In sostanza, quando si prescinda dal ristretto dominio atlantico, del quale sono caratteristici le terre brune e i suoli torbosi, i tre quarti del paese presentano le formazioni tipiche delle zone aride e subaride: soprattutto le terre rosse mediterranee, entro cui s'allargano a mo' di isole, nelle due Castiglie, in Aragona e a S. del Guadalquivir, i suoli ricchi di sali alcalino-terrosi proprî dei settori a facies steppica. Questo comportamento, oltre che col clima attuale, deve essere secondo ogni ragionevolezza messo in rapporto con le condizioni realizzate dal Miocene in poi, in seguito al predominio, o quanto meno al largo sviluppo, dei depositi continentali. Nemmeno durante il Glaciale - che vi ebbe due fasi intervallate da un periodo a clima più caldo e asciutto - dev'essere stato sostanzialmente turbato l'equilibrio tra i diversi compartimenti della penisola, nella quale non si determinarono probabilmente mai condizioni faborevoli all'esistenza di suoli del tipo del classico podzol.
Flora e vegetazione. - La grande varietà delle condizioni climatiche che si osserva nella Spagna ha una manifesta influenza sulla vegetazione e sulla flora delle diverse regioni che la costituiscono. Dagli aridi altipiani interni si passa all'umida costa atlantica, dagl'inverni rigidi di Madrid al caldo africano della depressione dell'Andalusia.
Nella vasta regione degli altipiani interni che occupa la maggior parte del territorio spagnolo e che si suddivide per mezzo delle catene montuose che la percorrono in parecchie sezioni, a una primavera umida che stimola la vegetazione e la fioritura delle fanerogame succede un'estate calda e secca e segue un'inverno rigido che riducono notevolmente il periodo vegetativo: qui, come conseguenza delle peculiari condizioni climatiche e ambientali, abbondano le specie endemiche caratteristiche della flora spagnola.
Nella parte orientale dove il clima è assai secco, i pascoli si trasformarmi in steppe; a questa trasformazione partecipano non solo i fattori climatici, ma anche la costituzione del suolo gessoso e salino. Il Willkomm limita la vegetazione steppica alle sole piante che rivestono a ciuffi questo terreno formando cespugli o pulvinuli, in mezzo ai quali biancheggia e luccica il suolo: qui vi sono circa 180 alofite (di cui un terzo almeno consta di specie endemiche e fra queste alcune Artemisia): Lygeum spartum che riveste vastissime superficie, Helianthemum squamatum, Ononis crassifolia, Gypsophila, Zollikoferia, Sideritis, Salsola, ecc. Nei fondi paludosi e salmastri delle valli si trovano le alofite sociali: Chenopodiacee, Statice, Herniaria fruticosa, ecc., e si presentano di color grigiastro per i diversi rivestimenti epidermici di cera, peli, scaglie, ecc., che costituiscono una difesa contro l'evaporazione. Tale vegetazione alofitica riveste tanto gli altipiani, quanto i bassopiani stepposi ed è piuttosto uniforme, essendo legatai in prevalenza alla costituzione fisico-chimica del terreno.
Nella flora spagnola si possono distinguere le seguenti regioni: a) cantabrica, con specie medioeuropee e boschi di piante settentrionali; b) centrale, o iberica, ove dominano gli arbusti sempreverdi e le specie aromatiche, come il timo e il rosmarino che occupano vastissime estensioni; c) meridionale, costituita dalla valle del Guadalquivir e dal sistema betico, che presenta caratteri africani; d) sud-orientale, formata dalla regione stepposa a caratteri nordafricani assai marcati; e) orientale, rappresentata dalla vera regione mediterranea.
Secondo Lazaro e Ibiza. altimetricamente si possono distinguere le seguenti zone:1. litorale da o a 100 m. s. m.; 2. inferiore da 100 a 600 metri; 3. submontana o media da 600 a 800 m.; 4. montana da 800 a 1600 m.; 5. subpirenaica da 1000 a 2000 m.; 6. pirenaica al disopra dei 2000 m. s. m.
Willkomm distingue nella vegetazione spagnola le seguenti formazioni:
A) Formazioni aperte: 1. formazioni costiere alofile, psammofile, ecc:; 2. formazioni steppiche a Graminacee (sparteti) e steppe saline; 3. formazioni psammofile interne: arenili e sabbie; 4. formazioni di rocce e rupi degli altipiani e dei monti; 5. formazioni ruderali.
B) Formazioni chiuse: 1. pascoli con le forme di transizione da una parte alle steppe e dall'altra ai prati; 2. prati e torbiere; 3. erbai; 4. formazioni suffruticose, come le associazioni di timi (tomillares) e altre analoghe di carattere xerofilo; 5. formazioni boschive basse; perennitoglie (cisteti, rosmarineti, sabineti e altre), planiestivifoglie (genisteti); 6. formazioni di alto fusto: selve planiperennifoglie (lecceti, sughereti), selve di conifere (pinete), selve planiestivifoglie (faggete, rovereti, castagneti); 7. formazioni culturali, nelle quali sono comprese le male erbe; 8. formazioni idrofitiche dei fiumi, canali e specchi d'acqua; 9. epifite, saprofite parassite e insettivore.
Se si esaminano i Pirenei e la Sierra Nevada, si vede che in questi gruppi montuosi la vegetazione è così distribuita. Nei Pirenei si trovano fino a 400 m. s. m. formazioni di piante atlantiche; seguono poi foreste di latifoglie fino a 1600-1700 m. e fra queste il castagno va fino a 500-800 m., Quercus robur fino a 1600 m., il faggio va da 650 a 1600 m. e in talune zone giunge fino a 1850 m., l'Abies pectinata si spinge fino a 1950 m.; le foreste di conifere dominano fra i 1600 e i 2200-2400 m. e fra queste la Picea excelsa va da 1500 a 2400 m. Fra i 2200 e 2400 m. si trovano arbusti e frutici e fra questi Vaccinium myrtillus, Rhododendron ferrugineum, Empetrum; le formazioni alpine si trovano fra i 2400-2700 m., ove raggiungono i limiti delle nevi perpetue.
Nella Sierra Nevada, a partire da 1400 m. circa, si trova una regione di foreste con specie di climi temperati come: Pinus silvestris, Taxus baccata, Sorbus aria, Acer opulifolium, Fraxinus excelsior; a 2000 m. s. m. cominciano i frutici alpini, a 2450 le erbe vivaci alpine e le formazioni di Graminacee. Nei piani inferiori si trovano piante dell'Europa centrale, ma non manca un'impronta caratteristica mediterranea per la presenza di Quercus tozza e di cespugli di Papilionacee-Genistee (Erinacea hispanica, Genista horrida e ramosissima, Astragalus creticus). La Genista aspalathoides copre vaste distese e si mescola qua e là con Juniperus nana e sabina. Gli erbai alpini sono costituiti da Agrostis nevadensis, Nardus stricta, Festuca. Fra le erbe vivaci si rimarcano: specie di Arenaria, Porentilla nevadensis, Artemisia granatensis, Plantago nivalis, ecc.
I generi più ricchi di endemismi nella flora spagnola sono: Centaurea con 50% delle specie endemiche, Linaria, Chaenorrhinum, Hieracium, Saxifraga, Genista, Thymus, Armeria, Teucrium, Cistus, Halimium. Delle piante più interessanti e più caratteristiche si possono segnalare: Davallia canariensis da Gibilterra alla Galizia; Asplenium palmatum coste SO., Woodwardia radicans e Hymenophyllum palmatum coste occidentali e NO.; Corema album in Galizia, a Huelva e a Cadice; Ilex perado a Tarifa e Algeciras; Ramondia pyrenaica ai Pirenei, Monserrato e Sant Llorenç de Munt; Valeriana longiflora nell'Aragona settentrionale; Daboecia polifolia e Lithospermum prostratum nelle colline cantabriche; Jasonia glutinosa si trova a Huarte Araquil; Retama sphaerocarpa nella nuova Castiglia, Andalusia; Microcnemon fastigiatum, Ruppia aragonensis, Ferula Loscosii nella steppa salata dell'Aragona; Ononis aragonensis dai Pirenei centrali alla Sierra Nevada; Forskolea tenacissima var. Cossoniana, Lafuentea rotundifolia, Kalidium foliatum nella steppa murciana e almeriense; Plantago nivalis nei borreguiles della Sierra Nevada; Erodium cheirantifolium e E. supracanum alla Sierra Nevada e al Monserrato; Artemisia granatensis e Ranunculus acetosellaefolius alla Sierra Nevada; Umblicus Winkleri ad Algeciras; Limoniastrum monopetalum nei terreni marittimi e palustri meridionali; Elizaldia nonneoides a Cadice. La flora spagnola ha relazioni con le flore della Francia, delle Baleari, dell'Africa settentrionale, delle isole atlantiche (Azzorre, Canarie, Madera), dell'Italia mediterranea (specialmente della Sicilia) e d'altre regioni di questo bacino.
Di 5660 specie di piante vascolari: 1465 sono endemiche; 1633 comuni con l'Europa centrale o con tutta l'Europa o con l'Europa più i paesi mediterranei; 1132 sono mediterranee e fra queste 16 sono proprie delle Baleari, 282 comuni con la flora del Nordafrica; 236 sono alpine o di altre alte montagne d'Europa; 215 sono comuni con la Francia, 188 esclusive dei Pirenei; 185 sono atlantiche; 40 orientali; 16 delle l'sole atlantiche; 8 dell'interno dell'Asia e 260 coltivate o avventizie.
Riassumendo, nella flora spagnola si trovano ⅓ di specie centroeuropee ed alpine, ¼ di forme endemiche, 1/5 di piante mediterranee e ½ di specie africane e atlantiche.
Per altri particolari, v. iberica, Penisola: Flora. e vegetazione.
Fauna. - La fauna della Spagna rientra nel complesso fauilistico della regione mediterranea occidentale. Notevole la presenza della Bertuccia, unica scimmia europea, sulle rupi di Gibilterra. Del resto, molte sono le affinità della fauna spagnola con quella dell'Africa settentrionale, specialmente dell'Algeria e del Marocco. Interi gruppi d' Invertebrati, specialmente d'Insetti, sono comuni alle due regioni. Parimente interessante è la presenza di forme africane, spesso desertiche, e di forme a fipo alpino che popolano le regioni montuose, specie le alte vette dei Pirenei. V. anche iberica, penisola: Fauna.
Popolazione. - Il censimento del 31 dicembre 1930 segna, per il territorio della repubblica spagnola, 23.817.179 ab. (ivi compresi i 561.347 ab. delle Canarie), che le stime ufficiali per il gennaio 1934 fanno salire a 24.242.038 (566.879 nelle Canarie). La distribuzione di questo totale nelle regioni storiche è riassunta nella tabella a piè di pagina, che permette di seguire le vicende della popolazione spagnola nell'ultimo settantacinquennio.
La popolazione dello stato spagnolo, che superava di poco i 10 milioni di ab. all'inizio del secolo scorso, è quasi esattamente raddoppiata negli ultimi cento anni, come risulta da queste cifre complessive:
L'accrescimento è dovuto solo all'attivo del bilancio demografico, che pone la Spagna a uno dei primi posti in Europa (innanzi l'Italia); tuttavia la natalità è andata sensibilmente diminuendo nell'ultimo secolo. Nel decennio 1861-70 il suo tasso era del 37,6%, e del 34,4% fra il 1901 e il 1910; ma nel 1920 s'era ridotto al 30%, per calare al 29% nel 1930 e al 26,2% nel 1934. Per fortuna, anche la mortalità, che al principio del nostro secolo era tra le più alte d'Europa e toccava il 33% nel 1910, è venuta via via contraendosi, fino a segnare valori non molto più elevati di quelli italiani. I dati relativi al movimento demografico sono, per gli ultimi venticinque anni, i seguenti (per °/oo):
Ben più popolata sarebbe certo oggi la Spagna, se l'emigrazione non l'avesse, specialmente in passato, privata ogni anno di un cospicuo numero di braccia. L'esodo è andato crescendo notevolmente dopo il 1900, fino a toccare nel 1913 un massimo di 220 mila espatriati. Questi, nella quasi totalità contadini, provenivano per circa il 50% dalle provincie nordoccidentali (Galizia), e poi da quelle sudorientali (Almería) e dalle Baleari, cioè da regioni agricole a relativamente alta densità di popolazione, forte frazionamento fondiario, scarso sviluppo di vie di comunicazione e notevole percentuale di analfabeti. Non tutta questa emigrazione è da ritenersi definitiva: all'incirca un 10% si diresse infatti all'antistante Africa minore (Algeria e Marocco). Ma il grosso si volse di preferenza a Cuba (oltre il 40%) all'Argentina (⅓ circa), all'Uruguay, al Messico, e al Brasile.
Dopo il 1913 l'esodo è andato rapidamente decrescendo, specie nel periodo bellico (il minimo cade appunto nel 1918), per riprendere, se pure in proporzioni minori, negli ultimi anni (185.918 emigranti nel 1920, 93.946 nel 1925, 100.988 nel 1929 e 94.571 nel 1930).
A parte l'attendibilità di tali dati, giova tener conto dei rimpatrî, che sembrano essere stati numerosi specialmente dopo il 1927.
A dare una più precisa idea del come sia distribuita la popolazione spagnola, è opportuno esaminarla secondo il suo raggruppamento in province. Va ricordato però che questa divisione amministrativa, che risale al 1833, e che non sempre tien giusto conto delle condizioni geografiche e delle vicende storiche, fa posto a unità territoriali di ampiezza assai diversa (dai 21.848 kmq. della provincia di Badajoz ai 1885 di quella di Guipuzcoa!).
Uno sguardo agl'indici della densità mostra subito come irregolarmente sia distribuita la popolazione spagnola. Le cifre più elevate contrassegnano le zone periferiche, in netto contrasto con quelle dell'altipiano interno. Mentre la cimosa litoranea raccoglie più della metà della popolazione spagnola, enormi estensioni di territorio rimangono nella meseta quasi del tutto spopolate. Quando si prescinda dalle provincie la cui densità è troppo decisamente influenzata da grossi nuclei urbani (Barcellona, Madrid, Valenza; le sole tre che oltrepassano ognuna 1 milione di ab.), i valori più alti corrispondono alla regione atlantica settentrionale, l'unica nella quale si superino, localmente, i 100 ab. per kmq. Abbastanza densamente popolate sono anche la costa levantina, la Catalogna e le Baleari, dove l'indice oscilla, in complesso, fra 75 e 90; un po' meno l'Andalusia, sempre nelle zone prossime all'Atlantico. In tutto il resto le cifre si mantengono bassissime, fino a scendere al disotto di 20 nelle provincie aragonesi di Huesca e Teruel, e in quelle castigliane di Cuenca, Guadalajara e Soria. Delle 50 provincie, quasi la metà hanno indici compresi fra 20 e 50; un terzo fra 50 e 100; quattro superiori ai 100, e due sole oltre 200. La maggior parte di questi contrasti sono di vecchia data, ma nel corso del secolo XX appaiono ancora esasperati dal solito fenomeno dell'urbanesimo, che consegue a ogni decisivo sviluppo della grande industria. E il fenomeno, insieme con l'emigrazione, spiega il debole aumento, o addirittura il regresso demografico, di alcune provincie, tra le quali ultime figurano, nel periodo posteriore al 1870, quelle che segnano i minimi assoluti di densità.
Con queste disarmonie di distribuzione interferiscono poi altre notevoli varietà nelle forme dell'accentramento. La cimosa settentrionale atlantica, dove predominano la piccola proprietà privata e il sistema della mezzadria, ha popolazione tipicamente sparsa; all'opposto, l'altipiano interno non conosce che forme accentrate. Nella meseta settentrionale gl'insediamenti, in genere non molto popolosi (500-1000 ab. ognuno), rifuggono dagli aridi páramos per disporsi di regola negli umidi fondi valle; a S. della cordigliera mediana, invece, si riducono ancora di numero, ma presentando l'aspetto di grossi borghi rurali (5-10 mila ab. ognuno). Le condizioni estreme sono realizzate da un lato in Galizia, dove i comuni risultano costituiti tutti da minuscoli centri, casali e abitazioni disseminate nella campagna, e dall'altro nella Mancia, dove capita di percorrere decine e decine di chilometri senza imbattersi in una sola casa. La regione levantina disposa alle forme accentrate, nelle huertas, una abbastanza larga disseminazione rurale, che si viene però sensibilmente riducendo quando ci si allontana dalla zona costiera. Condizioni simili si verificano nella depressione andalusa. Quanto alla Catalogna, l'insediamento vi assume una ricca varietà di forme, e avviene assai di frequente che anche i piccoli nuclei abitati vi mostrino carattere urbano, connessi come sono ab antiquo con l'attività indutriale. La regione pirenaica, infine, ha solo piccoli centri montani, disposti nelle valli e generalmente assai lontani gli uni dagli altri.
È palese dunque anche sotto questo riguardo la prevalenza, in territorio spagnolo, dei tipi mediterranei, il cui motivo fondamentale va messo in rapporto con le necessità imposte da un ambiente arido. Dove l'ubicazione non corrisponde all'affiorare di una sorgente, alla presenza di un pozzo o alla prossimità d'un fiume, non manca di regola, al centro dell'abitato, la caratteristica cavità riempita d'acqua piovana (charcha), destinata soprattutto ai bisogni del bestiame. La meseta non conosce in sostanza che la grande proprietà nelle zone piane, la media nelle elevate: di qui l'esistenza di un numeroso proletariato agricolo, costretto a vivere e a lavorare in comune. Nelle regioni, invece, nelle quali l'acqua abbonda, o per l'apporto delle piogge, o per quello dell'irrigazione, è fatta parte sempre più larga all'iniziativa individuale, che basta da sola alle diminuite esigenze dell'azienda agraria. Le plaghe marginali montuose conservano ancora efficiente, se pure in continua contrazione, l'attività pastorale: ma una netta impronta sulle forme d'insediamento non si rileva ormai che nei più isolati recessi della Sierra Nevada o della cordigliera pirenaica.
Non molto notevole, in complesso, è il numero delle grandi città, due delle quali tuttavia hanno raggiunto il milione di abitanti: non sfugga anche qui il contrasto fra le regioni interne e le periferiche. Le prime contano appena quattro centri con popolazione superiore ai 75 mila ab. (Madrid, Granada, Murcia, Saragozza e Valladolid); tutti gli altri sorgono sul mare o sotto la sua immediata influenza (Siviglia, Bilbao). In complesso, il maggior numero delle città spagnole risale, nelle origini, alla colonizzazione romana: il Medioevo fu infatti per la penisola un periodo a carattere spiccatamente rurale, fatta eccezione per le regioni meridionali. Con la reconquista sorsero, per necessità militari, molti dei centri più importanti della meseta, ma un deciso sviluppo urbanistico si ebbe soltanto con l'affermazione della borghesia municipale e, più ancora, come conseguenza del movimento di espansione che precede e accompagna le grandi imprese transoceaniche. Dopo di allora, una nuova trasformazione s'è verificata solo durante il secolo XX, in rapporto col processo di industrializzazione che lo caratterizza, e cui neppure la Spagna ha potuto sottrarsi. Com'è facile dedurre dall'unita tabella, di questa trasformazione si sono avvantaggiati soprattutto i centri periferici e la capitale; le città interne, invece, rivelano, tranne poche eccezioni, progressi meno accentuati, o stagnazione, o addirittura regresso. Molte di queste vivono anzi più in grazia della loro funzione amministrativa, che non per un reale adattamento al nuovo clima economico. Appena un piccolo numero dei maggiori centri abitati dell'interno è riuscito a sfuggire a questo destino: e solo dove, come nel caso della stessa capitale, l'impianto della grande industria moderna ha creato nuove condizioni di vita. Ma non è puro caso che Madrid, nata per volere di un sovrano e, in certo senso, creazione artificiale, abbia finito col cedere il suo primato a Barcellona, nonostante il suo recente e fortunato sviluppo. Comunque, le trasformazioni moderne hanno in genere alterato di poco i caratteri delle vecchie città castigliane, edificate quasi tutte in luoghi eminenti, accanto e attorno a grandi edifici pubblici (cattedrale, fortezza, municipio), circondate da mura, e a topografia pittorescamente irregolare. Dove l'aumento della popolazione, invece, è stato più rapido e intenso, i centri hanno cambiato assai la loro fisionomia originaria, ma (quando se ne eccettuino Madrid e Barcellona) senza alterazioni così profonde come nelle grandi metropoli centroeuropee.
La popolazione della Spagna è, quanto a nazionalità, una delle più compatte d'Europa. Gli stranieri ne rappresentavano, prima della guerra civile, appena lo 0,05% (120 mila Portoghesi, 28 mila Francesi, 25 mila Sudamericani, 17 mila Cubani, gl'Italiani erano circa 4500). Ciò nonostante, e a parte ogni considerazione antropologica, le differenze determinate dal diverso ambiente geografico e dai molti elementi che entrano in giuoco nel creare la coscienza nazionale (generi di vita, lingua, aspirazioni, costumi), hanno mantenuto e seguitano a mantenere vive separazioni regionali aventi ben diverso significato da quelle abituali. Ai Castigliani, la cui lingua è la lingua ufficiale dello stato, e che costituiscono il gruppo più numeroso, si contrappongono i gruppi marginali dei Catalani, dei Baschi e dei Galleghi.
Condizioni economiche. - Le attuali condizioni economiche della Spagna s'intendono appieno solo quando, accanto ai fattori naturali che contribuiscono a determinarle, si ricordi la lunga evoluzione storica attraverso la quale è passata la penisola. Prescindendo dall'antichissimo periodo della colonizzazione fenicia, l'acme della prosperità economica coincide col dominio arabo, sotto il quale vennero potenziate al massimo le risorse naturali del paese; ma ad un ciclo di sviluppo relativamente breve succede una lunga decadenza, che tocca il suo massimo in sul finire del sec. XVII. Segue, intorno alla metà del successivo, un'innegabile ripresa (sotto Carlo III), ma con le guerre d'indipendenza prima, e poi con la perdita delle colonie americane e il disastro di Cuba, il movimento che doveva riportare il paese nel circolo della vita europea, attrezzandolo alle esigenze della rinnovata economia capitalistica, subisce un arresto, che tuttavia non si traduce in pura perdita. Le stesse dolorose, ripetute esperienze politiche interne ed esterne (crisi marocchina) servirono a dare alla Spagna una più precisa coscienza delle sue possibilità e dei suoi bisogni, e dei mezzi più adatti per adeguare questi a quelle. La neutralità nella guerra mondiale, infine, impresse un energico stimolo all'attività industriale, per i benefizî economici ricavati, e la diminuita concorrenza estera sul mercato interno. Si venne così accelerando quel risorgimento economico già delineatosi al principio del secolo XX, e senza andar incontro ancora alle conseguenze che la recente crisi ha prodotto nelle nazioni industrialmente più progredite. Con tutto ciò, le disarmonie che turbano la vita del paese sono ben lontane dall'essere eliminate. La sua struttura economica resta, malgrado tutto, essenzialmente agricola, e con possibilità di sviluppo che trovano nelle determinanti geografiche una limitazione difficile a superare. L'attrezzamento industriale e commerciale è assai migliorato, ma ancora insufficiente ai bisogni della nazione, e si vede anch'esso ostacolato da troppi elementi (sia pure al di fuori da quelli proprî della sua costituzione geografica), per riuscire ad essere, come si era sperato, un elemento decisivo nella trasformazione moderna della vita spagnola.
Quanto alle basi di questa, è opportuno ricordare che la ricchezza agricola e pecuniaria era valutata, prima della guerra civile, intorno agli 85-90 miliardi di pesetas, mentre quella industriale si avvicinava forse ai 50.
Agricoltura. - Mancano dati attendibili sulla statistica delle occupazioni e delle professioni in Spagna, ma non si è lontani dal vero, ritenendo che la popolazione attiva si aggiri intorno a poco più di 1/3 della totale (37,2% nel 1920). Agricoltura, foreste e pesca assorbono più della metà degli abitanti (57% nel 1920); un quarto le industrie (comprese quelle estrattive) e meno di 1/10 (secondo i dati ufficiali l'8,1%; il 6,1%) il commercio e i traffici.
Della superficie totale del paese, tuttavia, solo il 44% risulta messo a coltura; una percentuale anche più elevata, circa la metà del territorio nazionale (48%), spetta a prati, pascoli, macchie e foreste; meno di 1/10 (8%) è del tutto improduttivo.
Una linea che da Tarragona per Huesca e Logroño metta capo a León e di qui scenda a Huelva, correndo poco distante dal confine portoghese, separa le zone umide (a N. e ad O.) da quelle aride, dove le colture più remunerative esigono l'irrigazione artificiale. Volendo dunque evadere da forme di sfruttamento estensivo, il problema basilare è, per la Spagna, tranne la Galizia e parte delle provincie basco-cantabriche, quello di compensare in qualche modo la deficienza di riserve idriche, nel momento più critico per le coltivazioni. Ma il territorio irrigato (regadio) non copre neppure un decimo (1,6-1,8 milioni di ha.) della superficie agricola, di contro ai 16,5-18 milioni di ha. del così detto secano, ed è anch'esso limitato, in sostanza, alle regioni periferiche: alcune delle valli pirenaiche, il bacino dell'Ebro, il litorale levantino e l'Andalusia. E poiché appare poco probabile che quel territorio possa essere di molto accresciuto (secondo le stime più ragionevoli al massimo fino a 2,5-2,8 milioni di ha.), non v'è dubbio che la conservazione delle pratiche estensive, che caratterizza la storia dell'agricoltura spagnola, risponde a una necessità difficilmente derogabile. D'altra parte, la distribuzione della proprietà terriera, nella quale domina ancora il latifondo (stando a fonti attendibili, oltre la metà delle terre è in mano di un'aristocrazia che rappresenta appena l'i % degli addetti all'agricoltura, mentre il 40% di questi non possiede nulla), rende molto ardue le possibilità di un'ulteriore conquista della terra e di un decisivo incremento della produzione agricola, mediante l'allargarsi delle colture intensive. Comunque, questo ramo di attività ha segnato nell'ultimo trentennio progressi costanti, tanto per l'estendersi dei sativi, quanto per i redditi unitarî e il valore dei prodotti.
Quest'ultimo è stato valutato per il 1932 in 10,5 miliardi di pesetas, dei quali 5,2 costituiti da cereali e leguminose, 1,2 da radici, tubercoli e bulbi; 770 milioni da piantagioni orticole; 285 da piante industriali; 878 da alberi da frutta; 760 da vigneti; 580 da oliveti; 350 da prati e 510 da pascoli e macchie.
Base dell'agricoltura spagnola sono dunque le colture cerealicole, che occupano più di metà dell'arativo, e sono di regola associate alle leguminose (alle quali viene riservato circa 1/8 dei sativi). Quella del grano (4,5 milioni di ha. nel 1933 contro 3,8 nel decennio 1900-09, 4,1 nel 1910-9 e 4,3 nel quinquennio 1925-29, senza però tener conto della superficie lasciata a maggese) è la più diffusa (specie nelle due Castiglie, nell'Andalusia e nell'Estremadura), ma poiché il rendimento medio rimane dei più bassi (8-9 q. per ha.; 9,2 nel quinquennio 1925-9; da un massimo di 10,3 si è scesi spesso a minimi di 7, 1 nell'ultimo trentennio), non basta sempre al consumo interno, non ostante la scarsa popolazione. Lo stesso accade del mais (450 mila ha.; 428 nel quinquennio 1925-29) il cereale proprio della regione atlantica (e anche del basso Guadalquivir), il cui raccolto oscilla fra 4,5 e 8 milioni di quintali, e del quale è perciò necessario importare (soprattutto dall'Argentina) da i a 3 milioni di quintali l'anno. In eccesso, se pur lieve, sono invece l'orzo (1,9 milioni di ha. 1,8 nel quinquennio 1925-29; per lo più nella Nuova Castiglia), la cui produzione è regolarmente cresciuta nell'ultimo ventennio (da 15 a 22 milioni di quintali fra il 1913 e il 1933), la segale (590 mila ha. nel 1933 contro 695 nel quinquennio 1925-9; Galizia), che sostituisce il mais nelle regioni montuose; l'avena (766 mila ha. nel 1933, e 758 nel quinquennio 1925-1929; Nuova Castiglia, Estremadura), che pur dovrebbe tendere a diminuire, per la sempre più larga sostituzione della trazione animale con quella meccanica. Tutt'altro che trascurabile è la produzione del riso (47 mila ha.), della quale due terzi provengono dalla regione di Valenza, non solo per il rendimento unitario relativamente alto (60-65 quintali per ha. contro 45-50 in Italia), ma anche per il beneficio che produce alla bilancia commerciale (10 milioni di pesetas nel 1931).
Fra le piante alimentari il primo posto spetta alla patata (la cui superficie è cresciuta da 170 a circa 400 mila ha. negli ultimi trent'anni), diffusa soprattutto in Galizia, Catalogna e nelle Asturie: va ricordata la coltivazione delle primaticce (Matarò, Malaga), destinate all'esportazione. Patate, cipolle e agli entrarono in questa per oltre 47 milioni di pesetas nel 1932; e con cifre pure notevoli vi contribuirono, e vi contribuiscono di regola, leguminose e ortaggi (specie i pomodori delle Canarie e della regione levantina).
Numerose e varie le piante industriali; di queste tuttavia né il cotone (5,3 mila ha. nel quinquennio 1925-29, ma 18,4 nel 1930-31 e 7,5 nel 1933-34; circa 40 mila quintali di cotone grezzo e 12,5 mila di fibra nel quinquennio 1925-29), né la canapa (40 mila quintali annui circa), né il lino (un migliaio di ha. nel quinquennio 1925-29; circa 3 mila quintali in media l'anno) coprono il fabbisogno nazionale. Molto più importante la barbabietola da zucchero, la cui coltura (85 mila ha. nel 1932, 66 nel quinquennio 1925-29, dei quali più di 1/3 in Aragona; prod. unitaria 235-250 quintali per ha.) ha limitato via via quella della canna (da 7 mila ha. nel 1910 e 3,4 attualmente), che continua ancora nelle hoyas penibetiche da Malaga ad Almería. Negli ultimi anni la superficie destinata alla barbabietola da zucchero ha oscillato entro limiti assai ȧmpî (112 mila ha. nel 1931, ma 78 nel 1933), dato il contrasto di interessi esistente fra coltivatori e industria zuccheriera.
Le piante legnose occupano un posto assai importante nell'economia agraria della Spagna. Tenendo conto delle colture promiscue, si può calcolare ch'esse assorbano non meno di 3,5 milioni di ha., cioè il 17,5% della superficie coltivata. Fra tutte prevale l'olivo, diffuso in 38 delle 50 province spagnole: la superficie relativa (per oltre la metà in Andalusia, e per un terzo nel Levante e in Catalogna) è passata da 1,2 a 1,9 milioni di ha. (di cui 1,6 destinata alla coltura specializzata) nell'ultimo trentennio. La maggior parte del raccolto viene trasformato in olio di cui gli Spagnoli fanno grande consumo e che è quindi assorbito largamente dal mercato interno. Per l'olio la Spagna si trova alla testa della produzione mondiale, di cui rappresenta da sola oltre la metà. Circa due terzi del quantitativo nazionale è ottenuto dall'Andalusia (Jaén, Cordova, Siviglia), ma gli olî più pregiati provengono dalla Catalogna (Lérida, Tarragona) e dalla valle dell'Ebro. La produzione dell'olio ha oscillato, nell'ultimo trentennio fra 0,6 (1912) e 4,3 (1917) milioni di quintali, con una media di oltre 4 milioni di quintali nel periodo 1925-29.
Di poco inferiore a quella dell'olivo, è l'area destinata a vigneto, ridottasi nondimeno da 1,75 a 1,41 milioni di ha. fra il 1900 e il 1930. Si tratta in complesso di vigneti giovani, ricostituiti dopo la metà del secolo scorso e relativamente in buone condizioni. Diffuso in tutta la Spagna, si concentra soprattutto nella Mancia, in Catalogna, nel Levante e nella Nuova Castiglia. Dell'uva, circa il 90% viene destinato alla vinificazione; per contro il raccolto delle province di Jaén e di Almería consta quasi totalmente di uve da tavola. Nella produzione del vino, la Spagna tien subito dietro a Francia e Italia, una con un quantitativo sensibilmente inferiore a quello italiano (da 10, 1 milioni di hl. nel 1915 a 26,8 nel 1920; in media 20 circa nell'ultimo trentennio). Grandi progressi sono stati compiuti dall'enologia spagnola, cui si debbono qualità di rinomanza mondiale; tuttavia l'esportazione consta essenzialmente di vini correnti (rossi soprattutto), il cui quantitativo toccò nel 1933 ben 1,8 milioni di hl. Il valore di questa esportazione si aggirò nello stesso anno sui 60 milioni di pesetas, cui sono da aggiungere 7 altri milioni per l'esportazione dell'uva passa.
Assai maggiore è il beneficio che l'economia spagnola ricava dalla coltivazione degli agrumi: per la produzione delle arance la repubblica è al secondo posto nel mondo, dopo gli Stati Uniti. Gli aranceti si estendono su una superficie di oltre 75 mila ha. (26,5 milioni di piante; 61 mila ha. nel quinquennio 1925-29) e si distribuiscono quasi tutti nel Levante (Valenza, Castellón): la produzione diede nel 1932-33 ben 11,7 milioni di quintali d'arance e mandarini, e poco più di 1,5 milioni di quintali di limoni. Data la debole richiesta del mercato interno, poco meno dell'intero quantitativo viene destinato all'esportazione, la cui importanza si è rivelata sempre meglio nell'ultimo cinquantennio. Nel 1850 vennero spediti all'estero appena 68,6 mila quintali di arance; nel 1900 si era già a 2,5 milioni di quintali, che sono saliti a 9,5 nel 1933, per un valore di oltre 166,5 milioni di pesetas oro.
Diverse e pregevoli qualità di frutta contribuiscono a ingrossare il volume della produzione agricola spagnola; fra quelle che hanno maggiore importanza per l'esportazione vanno ricordate almeno il mandorlo (145 mila ha.; 30 milioni di piante; il raccolto si tiene di poco al di sotto di 1 milione di quintali), che apporta all'economia spagnola un beneficio di circa 100 milioni di pesetas; le banane delle Canarie (2 milioni di quintali), fonte anch'esse di un buon reddito per la bilancia commerciale.
Dell'incolto produttivo, che occupa in Spagna una sì estesa superficie, poca importanza ha la macchia (monte bajo), che certo ne rappresenta la parte maggiore (4,5 milioni di ha.); discreta invece, non ostante la sua ristretta area (2,29 milioni di ha.), il bosco vero e proprio, per circa i 2/3 costituito dalle belle pinete della cordigliera pirenaica e dell'Andalusia. Più che la produzione del legname da opera, del quale la Spagna è costretta a rifornirsi all'estero, o della resina estratta dal pino marittimo (26 milioni di kg. nel 1930-1931), va ricordata quella del sughero, che cresce abbondante in Andalusia (Cadice, Serrania di Ronda) e, sebbene in proporzioni molto minori, anche nella Estremadura e nella regione levantina. La produzione del sughero, che nel 1932 consentì un raccolto di 315 mila quintali, costituisce uno dei più antichi primati spagnoli. L'esportazione, che aveva consentito nel 1928 un utile di 155 milioni di pesetas, è discesa però ad appena 20 nel 1933.
Fatte uguali a 100 le cifre del 1922, l'indice della produzione agricola è salito a 105,9 nel 1929, disceso a 98,9 nel 1930 e risalito a 104,3 nel 1931, per toccare 113,6 nel 1932, in seguito soprattutto al cresciuto volume dei cereali e delle leguminose. Con tutto ciò, l'agricoltura spagnola attraversa una crisi acuta: il costo dei mezzi di produzione e d'esistenza è cresciuto con un ritmo più rapido di quello dei prodotti agricoli, sui quali agiscono, come causa di deprezzamento, la sovraproduzione da un lato, e dall'altro gl'interventi statali diretti a contenere il rialzo almeno per alcuni prodotti indispensabili alle classi meno abbienti. Si deve infine tener conto che alla tentata dislocazione del latifondo le leggi si sono dimostrate ancora insufficienti, né una salutare riforma agraria può proporsi solo una transazione di proprietà e un aumento numerico delle superficie messe a coltura.
Allevamento e pesca. - Sebbene inferiore alla ricchezza di altri tempi (sec. XV-XVI) e forse alle possibilità offerte dal territorio (poco meno di 1/3 di questo è costituito da zone pascolative), il patrimonio zootecnico spagnolo appare abbastanza ben fornito, e non impari alle necessità della vita agricola. Esso comprendeva nel 1933 802.800 cavalli, 1.461.000 muli, 1.164.000 asini, 4.163.500 bovini, 1.670.600 ovini, 4.644.600 caprini e 5.048.200 suini. La sua distribuzisne mostra, al solito, un chiaro adattamento alle condizioni naturali. La cimosa litoranea dell'estremo N., più umida e perciò dotata di buoni pascoli e produttrice di foraggio, contrasta col resto del paese, nel quale l'allevamento ha carattere estensivo. Le quattro sole provincie di La Coruña, Oviedo, Santander e Lugo possiedono oltre la metà del bestiame bovino, nel cui numero sono compresi i tori da lotta, allevati specialmente nelle regioni di Siviglia e di Salamanca. Per numero di capi, la Spagna resta tuttavia assai indietro all'Italia; ciò che può ripetersi dei cavalli, diffusi in primo luogo nella campiña andalusa, in Estremadura, nelle provincie galleghe e in Navarra. Al relativamente scarso impiego del cavallo, si oppone alla Spagna quello, larghissimo, del mulo e dell'asino, come vuole il carattere montuoso e aspro del suo territorio e la deficienza di buone strade: perciò nessun altro stato ha in Europa un altrettanto copioso patrimonio di muli (2° posto nel mondo, dopo gli Stati Uniti; l'allevamento predomina in Estremadura e nella Nuova Castiglia; gli animali servono anche per i lavori agricoli) e di asini (3° posto, dopo il Messico e l'India; diffusi soprattutto nella valle del Duero, in Estremadura e nella Mancia). Le Canarie impiegano per gli stessi scopi i cammelli, il cui numero si aggira intorno a 4-5 mila.
Tipico delle regioni interne è l'allevamento ovino, per il quale la Spagna occupa il terzo posto in Europa (dopo l'U.R.S.S. e la Gran Bretagna): è curato quasi dovunque, ma con netta prevalenza numerica dell'Estremadura e delle due Castiglie. Di molto inferiore è il patrimonio caprino (terzo posto in Europa, dopo l'U.R.S.S. e la Grecia), concentrato soprattutto nell'Estremadura, nella Nuova Castiglia e nell'Andalusia. La Spagna è molto innanzi all'Italia per numero di suini (quarto posto in Europa); i principali centri d'allevamento si trovano in Estremadura (Badajoz), Andalusia (Siviglia, Cordova) e Galizia. Solo in quest'ultima regione ne viene però curato razionalmente lo sviluppo, data la disponibilità di buoni mangimi.
Tutt'altro che trascurabile la popolazione avicola: 29,4 milioni di galline, 4,3 milioni di colombi, 415 mila tacchini, 355 mila anitre, 152 mila oche e 8 mila fagiani, secondo un censimento effettuato nel 1933. La produzione delle uova supera, in media, 1 milione di quintali all'anno, coprendo oltre i due terzi del fabbisogno nazionale.
Più che alla produzione di carni (7,8 milioni di quintali nel 1931), l'allevamento ovino e bovino mira, rispettivamente, a quella delle lane (35-50 milioni di kg.) e del latte (1,7 milioni di litri, in media); nonostante il limitato fabbisogno interno, tuttavia, nessuno di questi prodotti esime dalla necessità di importarne più o meno notevoli quantitativi dall'estero.
Il patrimonio zootecnico spagnolo è da un quindicennio in una situazione statica: le condizioni dell'economia nazionale, e specialmente quelle dell'agricoltura, non permettono di farsi soverchie illusioni su un suo decisivo incremento, sia quantitativo, sia qualitativo.
Per contro, sempre maggiore s'è andata facendo, nel secolo XX, l'importanza economica della pesca, alla quale, fino agli ultimi anni del sec. XIX, non si riserbava alcun trattamento industriale. Se lo sfruttamento delle riserve, assai depauperato, delle acque interne è quasi trascurabile, il raccolto lungo le coste atlantiche e mediterranee (ma con larga prevalenza delle prime) si è aggirato, nel quinquennio 1929-33, intorno alle 300 mila tonn., delle quali 5-8 mila costituite da crostacei e 16-20 mila da molluschi, e per il resto essenzialmente da sardine (120-150 mila tonn.), merluzzi (60-100 mila tonn.) e tonni. Il valore globale della pesca salì nel 1932 ad oltre 264 milioni di pesetas. I porti più animati sono quelli della Galizia e delle Asturie, dove si localizzano anche i centri più importanti delle industrie relative. La popolazione che si dedica alla pesca si aggira sulle 21-22 mila persone.
Miniere e industrie. - Sebbene si sia spesso esagerato nel valutare, in Spagna, la ricchezza del sottosuolo, alla potenzialità di questo in minerali utili non corrisponde ancora uno sfruttamento qualitativamente, e neppure quantitativamente, adeguato. Se la Spagna è stata finora uno dei maggiori esportatori europei di minerali, soprattutto metallici, ciò va messo in rapporto non tanto con un'esuberante sua produzione, quanto con la scarsa utilizzazione che ne viene fatta dalle industrie trasformatrici del paese. Con tutto ciò il numero delle concessioni produttive, quello degli operai e il valore globale delle industrie minerarie-metallurgiche sono andati crescendo nell'ultimo trentennio (prescindendo, s'intende, dalla crisi generale che ora si attraversa), sebbene con frequenti disarmonie che non si spiegano senza riconoscere come ancora non si sia raggiunto, nell'attrezzatura economico-politica dell'industria spagnola, un grado di equilibrio soddisfacente. Una delle ragioni - non però la sola, né forse la principale - è nel netto contrasto tra l'abbondanza dei minerali metallici e la relativa deficienza dei combustibili, I primi giustificano infatti pienamente la fama di ricchezza attribuita al sottosuolo della Spagna. Tanto per il piombo quanto per il rame questo paese gode da lungo tempo del primato europeo. Il piombo, che si estrae soprattutto dal pendio meridionale della Sierra Morena, nelle provincie di Jaén (metà, circa, della produzione, viene dalle miniere di Linares e La Carolina), Cordova (Peñarroya) e Murcia (Cartagena), ha dato fin oltre 300 mila tonn. di minerale l'anno: la superficie dei perimetri coltivati è tuttavia almeno trenta volte inferiore a quella coltivabile. Quasi tutto il rame spagnolo si raccoglie nella provincia di Huelva (Tharsis, Río Tinto): la sua produzione, dal 1913 ad oggi, s'è mantenuta di poco oscillante intorno ai 3-3½ milioni di tonn. annue. Di queste, però, solo 500-700 mila tonn. rappresentano minerale puro; il resto è costituito da piriti cupro-ferrifere che negli ultimi tempi vengono trattate anche per ricavarne zolfo. Varî per i terreni che che li racchiudono (dai cristallini ai terziarî) e bene distribuiti sono i depositi di ferro. La regione più ricca è la Biscaglia, che fornisce più della metà del totale estratto; seguono le Asturie (Santander), le provincie di Almería, Teruel, Huelva e Murcia. La produzione annua presenta sensibili dislivelli: negli ultimi tempi s'è tenuta sempre al disotto dei 5 milioni di tonn., mentre al principio del secolo se ne ricavavano più di 7 dalle sole miniere basche. La Spagna è anche tra i più forti produttori di mercurio (ora, però, superata dall'Italia): il cinabro (20-30 mila tonn. annue) si estrae per 9/10 dalle famose miniere di Almadén (Ciudad Real), ritenute le più ricche del mondo. Buone quantità di minerale di zinco dànno le provincie di Santander, Murcia, Guipúzcoa e Cordova (150-100 mila tonn. annue); e tutt'altro che trascurabili sono i quantitativi del manganese (45 mila tonn. nel 1925; 113 mila nel 1900; le miniere si trovano tutte in provincia di Oviedo) e dell'argento (da 75 a 90 tonn. negli ultimi anni), per non ricordare che i principali tra i molti minerali metallici coltivati o accertati (stagno, cobalto, nichelio, antimonio, bismuto, ecc.).
Abbastanza varî sono anche i minerali non metallici; tra questi, tuttavia, più che lo zolfo (75-100 mila tonn. annue), che si ricava, oltre che dalle piriti, dai depositi solfatici delle provincie di Teruel, Albacete, Murcia e Almería (22 mila tonnellate di prodotto finito nel 1931), meritano speciale attenzione i minerali potassici rinvenuti in varî luoghi della Catalogna e della Navarra. Il quantitativo estratto è salito da 251 mila a circa 700 mila tonnellate fra il 1931 e il 1933.
Di contro a questa abbondanza di materie prime sta, come s'è detto, la relativa deficienza dei combustibili. Non però che manchino. Le riserve di carbon fossile son calcolate a 5,5 miliardi di tonn., e distribuite essenzialmente in due bacini. Il più ricco, che trova posto nei depositi paleozoici delle montagne asturiane (Oviedo), e provvede da solo ai due terzi della produzione spagnola, si continua, oltre la cordigliera cantabrica, nella regione leonese. Anche migliore è la qualità dei carboni nell'altro bacino, quello andaluso (Bélmez, prov. di Cordova), che fornisce del pari oltre la metà dell'antracite spagnola. Tanto questa quanto la lignite sono d'altronde abbastanza diffuse (León e Palencia per la prima; Teruel, Saragozza, Guadalajara, Santander, la Catalogna e le Baleari per la seconda). La produzione complessiva, che al principio del secolo era già sui 3 milioni di tonn. annue, saliva a oltre 7 nel 1918, ma scendeva a 4,7 nel 1922, per riportarsi verso i 7 negli ultimi tempi. Con tutto ciò la Spagna è costretta a procurarsi ancora da i a 2 milioni di tonn. di carbone all'anno, alimentando così una notevole corrente d'importazione di minerale inglese.
L'unita tabella aiuta a formarsi un'idea dell'andamento della produzione mineraria spagnola nell'ultimo ventennio:
Confrontando questa con l'altra tabella che riassume i dati relativi alla trasformazione delle più importanti fra le materie estratte, è possibile cogliere intanto alcuni dei caratteri proprî dell'industria spagnola.
Metallurgia e siderurgia hanno fatto nell'ultimo trentennio grandi progressi in Spagna, avendo tratto un decisivo impulso dalla guerra mondiale. Tuttavia la loro produzione esaurisce solo una piccola parte della materia prima disponibile (tipico il caso del ferro e del piombo), che viene esportata grezza o semilavorata. Lo sviluppo di questo ramo d'attività ha comunque permesso di ridurre via via il tributo che il paese doveva all'estero, e l'industria pesante, ch'era prima esclusiva della regione basca, s'è andata diffondendo in Galizia, nel Levante (Valenza) e in Andalusia (Malaga). La produzione metallurgica raggiunge per il ferro (grezzo, leghe e acciaio) oltre 1,5 milimi di tonn. annue, di contro a un'esportazione di 3,5 milioni di tonn. di minerale bruto.
I progressi sono stati favoriti dall'ampio sviluppo avuto, in epoca posteriore alla guerra mondiale, dalle industrie idroelettriche, e dovuto esclusivamente all'iniziativa privata. Si calcola in modo piuttosto vario la potenzialità del territorio spagnolo: è probabile che si debba rimanere al disotto di 5. milioni di HP, dei quali attualmente installato poco meno di 1/3. Comunque, la produzione d'energia elettrica è quasì raddoppiata in dieci anni, toccando circa 3 milioni di kWh nel 1933. Del consumo totale, il 60% circa è assorbito dall'industria, il 10% va all'illuminazione, e un po' meno del 10% ai trasporti. Fra idroelettriche, termiche e miste, si contano oltre 450 centrali. Gl'impianti più notevoli si localizzano nei bacini dell'Ebro (Segre, Noguera Pallaresa, Esera), dei fiumi catalani, del Duero (Esla), del Júcar, del Tago (Bolarque), del Guadalquivir e del Segura. Circa i 3/4 della potenza installata spettano alla Catalogna e all'Aragona, delle quali la prima si lascia addietro di gran lunga tutte le altre regioni spagnole non solo per il consumo, ma anche per l'utilizzazione dell'energia idroelettrica nelle industrie.
Lunga tradizione hanno in Catalogna le industrie tessili, ma, mentre quelle del cotone e della lana hanno continuato i loro progressi e si tengono oggi in grado di bastare non solo alle esigenze del mercato spagnolo, ma anche di alimentarne una buona corrente esportatrice, l'industria serica è andata declinando fino ad assumere proporzioni assai modeste. La produzione di bozzoli è discesa da 1 milione a 520 mila kg. dal 1927 al 1932, e la produzione di seta grezza supera di poco le 50 tonn. annue. Un po' migliori sono le condizioni dell'industria del rayon, i cui stabilimenti maggiori si trovano in Catalogna, ma i quantitativi prodotti non coprono se non una piccola quota del fabbisogno nazionale. Fabbriche destinate alla lavorazione della iuta (40 mila fusi, 4800 telai), della canapa e del lino esistono in Catalogna e nelle Baleari, ma anche per questi prodotti la Spagna è largamente tributaria dell'estero.
Ben diverso è stato il progresso realizzato dall'industria cotoniera, che è senza dubbio una delle più importanti del paese, e per il capitale investito e per la sua attrezzatura tecnica e, sopra tutto, per la sua funzione nettamente esportatrice. La stragrande maggioranza delle imprese cotoniere spagnole, sia per filati (92,7%) sia per i tessuti (82%), è localizzata in Catalogna: questa regione possiede da sola 1,91 milioni di fusi (1,6 milioni in provincia di Barcellona) e 66 mila telai su 2,1 milioni di fusi e 80 mila telai censiti nell'intera repubblica. Seguono, a grande distanza, la provincia di Valenza, l'Andalusia, le provincie basche, la Galizia, ecc. Il numero degli operai occupati in questa industria supera i 100 mila, per due terzi donne. L'esportazione, che ha luogo quasi tutta attraverso il porto di Barcellona, dopo avere avuto un periodo di fiore, è di molto diminuita per effetto della forte concorrenza e della perdita di varî mercati. Nel quinquennio 1926-1930 gli sbocchi principali furono l'Argentina, le repubbliche latine americane, le Canarie e la Francia. Abbondanza di materia prima nazionale favorisce l'industria laniera, i cui prodotti coprono completamente il consumo interno, e consentono anzi una discreta esportazione. Oltre 370 mila fusi e 60 mila telai si trovano in Catalogna, dove (Sabadell e Tarragona) è parimenti il centro di questa fiorente attività, cui dànno opera non meno di 25 mila operai.
Recente è in Spagna lo sviluppo della grande industria chimica (metà del sec. XIX), sorta anch'essa in Catalogna con le fabbriche barcellonesi di acido solforico. Pur rimanendo tuttora in questa regione (Llobregat, Badalona, Tiana) gl'impianti più vasti e moderni, non pochi prodotti vengono preparati anche altrove (Asturie, Galizia, Valenza, Madrid, Andalusia). Il ramo più importante è quello dei perfosfati, dei quali nel 1932 si è giunti a fornire 1 milione di tonn., lavorando quasi tutta materia prima importata (piccole quantità provengono dai giacimenti di Logrosán, in provincia di Cáceres). L'industria dei coloranti risponde ormai in pieno alle esigenze del paese, e lo stesso si può dire di quella delle vernici, che arriva anzi ad esportare. Di fresca data sono gli impianti destinati alla fabbricazione dell'azoto sintetico (Flix, in Catalogna) e del petrolio sintetico, ottenuto mediante idrogenazione dei carboni e distillazione delle ligniti e degli scisti bituminosi di Puertollano (Ciudad Real). Soda caustica, cloruro potassico, solfato di rame, carburo di calcio, acido cloridrico e tartarico, ecc., sono pure prodotti in buona quantità: e anche l'industria farmaceutica è ormai a punto per limitare di molto le importazioni dall'estero. Queste, ínvece, sono ancora cospicue per ciò che riguarda gli articoli di gomma, cui dànno opera varî stabilimenti in Catalogna (Manresa, Villanueva y Geltrú) e in Biscaglia.
Gran numero di imprese contano le industrie meccaniche, meno dipendenti delle siderurgiche dai luoghi di produzione delle materie prime, e di preferenza raccolte nei grandi centri, e tuttavia diffuse e prospere soprattutto nelle regioni atlantico-settentrionali la fabbricazione di materiale ferroviario (anche a Barcellona, però), di utensili d'acciaio e di macchine industriali; la seconda domina nel campo delle costruzioni elettromeccaniche, per i quali tuttavia l'industria spagnola è impari alle richieste del mercato. Anche più grave è lo squilibrio nel campo delle costruzioni automobilistiche, limitate d'altronde alla Catalogna: le automobili occupano il terzo posto, in valore, nel complesso delle importazioni spagnole. Rinomata e attiva è invece l'industria delle armi (cannoni a Trubia presso Oviedo, armi minute a Toledo e a Siviglia).
Fra le industrie alimentari, che sono numerosissime, diffuse in tutto il paese, va ricordato in primo luogo lo zuccherificio, le cui fabbriche si concentrano in Andalusia (Granada) e nella valle dell'Ebro: la produzione relativa (che si aggira sulle 250 mila tonn. annue) soverchia il consumo nazionale, senza riuscire a trovare sbocchi sufficienti alle scorte sempre più vaste. Quasi per intero al consumo si adegua anche il quantitativo medio annuo di alcool e derivati, di cui si produce un po' dovunque. Fiorente il ramo delle conserve alimentari: quello delle frutta ha il suo centro nel Levante, nella Catalogna e nelle Baleari; a Logroño, Lérida e Saragozza quello degli ortaggi. E fiorente su tutte, quello delle conserve di pesce, con un centinaio di fabbriche, in prevalenza lungo le coste cantabriche e galiziane. La produzione di tali conserve - impiantata e animata da Italiani - raggiunse nel 1932 un quantitativo di oltre 75 mila tonnellate, per un valore di circa 100 milioni di pesetas. L'esportazione, diretta largamente anche in Italia, toccò nello stesso anno le 33 mila tonn. In promettente sviluppo è il caseificio, localizzato essenzialmente nella Spagna umida (La Coruña, Logroño, Oviedo) e nelle Baleari, dove è anche notevole la fabbricazione della birra (75 milioni di litri l'anno), in parte destinata all'esportazioni.
Delle altre varie industrie spagnole nessuna merita un cenno speciale, salvo forse, per il loro valore artistico, quelle della ceramica (Segovia) e del vetro (Catalogna, Baleari), e, per la loro importanza economica, quelle del cuoio e della concia, che contano circa 15 mila operai.
La fabbricazione delle calzature, anch'essa concentrata in Catalogna, non solo copre il fabbisogno nazionale, ma è in condizioni di esportare quantitativi notevoli.
La varietà e l'abbondanza di questa produzione non debbono illudere sulle vere caratteristiche e sulle reali capacità dell'industria spagnola. L'importanza di questa nel quadro dei rapporti internazionali è ancora piuttosto modesta, certo sproporzionata al peso che vi esercita l'attività agricola. Mentre la percentuale delle esportazioni di generi alimentari è salita nell'Ultimo trentennio da 36,3 a 56,8, quella dei manufatti si è mantenuta quasi stazionaria. D'altra parte è difficile pensare efficiente l'industria spagnola senza il concorso di una vigile protezione doganale, che le consenta di provvedere essenzialmente al fabbisogno nazionale. Disarmonie, fluttuazioni, crisi e disagi che hanno tormentato e tormentano questo ramo dell'attività nazionale sono perciò i sintomi d'un processo di adeguamento al quale l'economia spagnola tende con faticosa esperienza. Adeguamento che vuole essere rivolto da un lato, ai reali bisogni del paese, e dall'altro alle esigenze tecniche della produzione moderna. È facile vedere, anche dalla semplice esposizione qui fatta, come il primo compito sia il più difficile; per quanto riguarda il secondo, invece, è fuori dubbio che molta strada è stata percorsa.
Comunicazioni. - La mancanza di una buona rete di vie di comunicazione è invocata di prammatica a giustificare, almeno in parte, il poco accentuato o ritardato sviluppo economico della Spagna. Indubbiamente questa condizione di cose è anche in rapporto con la difficile natura del terreno, oltre che con cause storiche e politiche (regionalismo); nondimeno è facile persuadersi che assai scarse furono in ogni tempo le provvidenze tentate dallo stato e dai privati per porvi rimedio.
La rete ferroviaria spagnola ha una lunghezza complessiva di 16.747 km. (14.117 nel 1910; si noti il modestissimo aumento nel ventennio) dei quali 4495 (3 mila nel 1910) a scartamento ridotto (i m.), corrispondente a 31 km. ogni 1000 kmq. di superficie, e a 71 km. ogni 100 mila ab.; è, cioè, una delle più rade d'Europa. Le strade ordinarie si estendono su 104.327 km., ma di questi solo 92.797 sono interamente costruiti ed efficienti, e per appena una metà costituiscono strade statali (le altre meritano appena il nome di strade). Comune ai due mezzi di comunicazione è la scarsa aderenza dei tracciati alle necessità della vita economica: i percorsi tra località vicine si compiono spesso attraverso lunghe deviazioni (p. es., da Cadice ad Algesiras, da Madrid a Valenza, da Málaga ad Almería, da Avila a Segovia per ferrovia; quanto alle strade, queste stesse che uniscono i centri maggiori si sviluppano in lunghissimi tracciati per raggiungere piccole località intermedie). La rete ferroviaria è divisa in un gran numero di società private (una sessantina soltanto per quelle a scartamento ridotto); di più lo scartamento ordinario (m. 1,674) è diverso da quello normale in Europa, sì che i traffici internazionali ne risultano notevolmente inceppati. Pendenze e curve vi sono così frequenti e notevoli, che il percorso più che doppio (1324 km.). Le comunicazioni, abbastanza numerose e ben ordinate nelle regioni periferiche (Catalogna, Biscaglia, bacino d'Oviedo, regione di Siviglia), diventano quanto mai insufficienti nell'ambito della meseta. Un certo compenso s'è avuto con l'istituzione dei servizî automobilistici pubblici: 2346 linee per un percorso di 89.334 km. nel 1932. Anche le città sono male attrezzate: i servizî tramviarî e metropolitani si estendevano alla stessa data su una lunghezza di soli 1349 km. (contro 5500 circa in Italia).
Secondo le statistiche del Lloyd's Register la marina mercantile spagnola è ascesa da 694.780 tonn. lorde nel 1900 a 840.995 tonn. nel 1913; dopo la parentesi bellica (che la ricondusse, nel 1919, a 750.611 tonn.) si sono segnati nuovi progressi quantitativi, poiché essa comprendeva, al 30 giugno 1934, 1.177.627 tonn. (in confronto a 1.265.321, 1.164.000, rispettivamente, alla stessa data del 1932, 1933). Si ha dunque un aumento del 31,7% in confronto al naviglio sotto bandiera spagnola nel 1913. Ma la percentuale di incremento è di parecchio inferiore a quella realizzata nel naviglio mondiale (41,74%).
Oggi la marina della Spagna occupa il 12° posto nella graduatoria mondiale.
Nel complesso del naviglio prevalgono i piroscafi eon 940.954 tonnellate, mentre le motonavi ascendono a sole 223.535 tonn.; 17 cisterne di 1000 e più tonn. unitarie, per tonn. 80.268; soltanto sette grandi navi (di cui 3 a motore) comprese fra 10.000 e 15.000 tonn. unitarie; solo 11 turbonavi per 71.826 tonn. Fra i piroscafi predomina la combustione a carbone; soltanto 27, per tonn. 124.853, vanno a nafta. Tutto questo materiale è poi abbastanza invecchiato: un buon terzo del materiale supera i 25 anni.
Le principali compagnie di navigazione sono la "Compañía Transatlántica", che ha esercitato ed esercita tuttora, sotto un regime provvisorio, i più importanti servizî sovvenzionati; la "Compañía, Transmediterranea", che esercita le linee sovvenzionate per il Marocco, le Canarie, le Baleari; la "Ybarra" di Siviglia, che possiede le moderne motonavi Cabo San Agustín (tonn. 11.868 lorde, costruità nel 1931); Cabo San Antonio (tonn. 12.275, costruita nel 1930); Cabo Santo Tomé (11.868 tonn., costruita nel 1931); la "Sota y Aznar" di Bilbao, la "Pinillos" di Cadice, ecc.
La marina mercantile spagnola è assistita dall'erario; l'assistenza si basa su sovvenzioni, premî di navigazione e di costruzione, ecc.
L'industria delle costruzioni navali non è molto sviluppata; nel 1900 furono varate 2752 tonn.; nel 1913, 8488; il massimo è stato raggiunto nel 1929 con tonn. 37.023, passato a 18.044 nel 1934; i cantieri più importanti sono la "Sociedad Española de Construcción Naval" con sede a Madrid e capitale di 60 milioni di pesetas (nel quale c'è molta ingerenza estera: 40%, il massimo che poteva essere tenuto da stranieri); essa ha parecchi cantieri nella Spagna; effettua tutti i lavori per l'armata e produce anche cannoni, proiettili, materiale ferroviario; la "Compañía Euskalduna" di Bilbao, la "Unión Naval de Levante" di Valenza.
Le leggi del 1899, 1909 e 1925 assistevano la costruzione navale: premî di costruzione, diritti doganali sul naviglio importato, ecc. Un recente progetto - che per la guerra civile non ha naturalmente ancora avuto attuazione - si ispira ad uguali principî; esso istituisce inoltre il credito navale (il cui germe era già nella legge 21 agosto 1925), garantito ipotecariamente, e la cui applicazione dovrebbe essere affidata a un'apposita banca.
Il cabotaggio è riservato alla bandiera; è imposto anche il versamento di un diritto, stabilito dalla legge del 20 marzo 1900, su tutte le merci e i passeggeri che entrano o escono dai porti spagnoli; esistono anche tariffe preferenziali ferroviarie.
Le compagnie di navigazione spagnole assicurano il collegamento con i grandi porti transoceanici: si hanno così linee dirette da Barcellona a Cuba, alle Filippine, a Portorico e alle colonie spagnole del Golfo di Guinea; da Bilbao per l'America Settentrionale e Centrale; da Siviglia e Cadice per l'America Meridionale Vigo e La Coruña sono toccate soprattutto da navi estere dirette all'America Settentrionale.
Anche gli scambî col Mediterraneo centrale e orientale hanno luogo sotto bandiera estera.
Il movimento complessivo delle merci nei porti spagnoli ha segnato nel 1932 un totale di 21,8 milioni di tonn., delle quali 10,7 di provenienza o destinazione straniera; 11,1 di provenienza o destinazione spagnola. I passeggeri imbarcati o sbarcati furono alla stessa data 735 mila, dei quali 161 mila di provenienza o destinazione straniera. Questi dati indicano una certa contrazione rispetto a quelli del quinquennio 1925-29, e anche a quelli dell'anteguerra (1910).
Massimo fra i porti spagnoli è quello di Barcellona, metropoli industriale e commerciale della Spagna: il tonnellaggio globale vi è stato di 3,5 milioni di tonn. nel 1900, di 4,6 nel 1910 e di 6,8 nel 1930 (di cui 3,6 sotto bandiera estera). Al contrario di questo, che è porto eminentemente importatore, Bilbao (3, 1 milioni di tonn. nel 1930) esporta (minerali di ferro, lane) molto più che non importi (carbone). Seguono, per importanza, Vigo e Santander (scali di linee di navigazione), Valenza e Málaga (esportazione di frutta e vini), Cadice e Huelva (esportazione di minerali), Cartagena, Siviglia, Almería, ecc.
Prima della guerra civile, l'aviazione civile, poco sviluppata, dipendeva dalla Direzione generale dell'aeronautica civile. Una compagnia di trasporti aerei, "Lineas aereas postales españoles" (L.A.P.E.), gestiva le linee Madrid-Barcellona, Madrid-Siviglia, Madrid-Valenza, Siviglia-Las Palmas, e si proponeva di iniziare quelle di Barcellona-Palma di Maiorca e Santa Cruz de Tenerife-Las Palmas. I seguenti aeroporti, aperti al traffico civile, erano o stavano per essere equipaggiati con tutte le installazioni necessarie per il traffico aereo internazionale: Getafe (presso Madrid), Carabanchel (id.), Albacete, Vitoria, Lasarte (San Sebastiano), Barcellona, Alicante, Málaga, Siviglia, Larache (Marocco), Valenza, Burgos, Galicia ed isole Canarie.
Commercio estero. - Già da oltre due secoli almeno il volume del commercio spagnolo, che pure fu uno dei più attivi della Terra, s'è ridotto a cifre modeste, non certo paragonabili a quelle delle altre principali nazioni dell'Europa (non arrivando a rappresentare neppure il 2% in valore del commercio mondiale).
Ciò nondimeno queste cifre sono andate aumentando nel corso degli ultimi tempi:
Sessant'anni fa, importazioni ed esportazioni riunite non toccavano ancora un miliardo di pesetas. Nel 1900 erano salite a 1800 milioni, nel 1910 a quasi 2 miliardi e a poco meno di 2½ nel 1920, per avvicinarsi ai 5 miliardi nel 1930 (va però tenuto conto che nel 1930 la peseta conservava appena 1/3 del suo valore aureo). L'andamento delle due voci mostra come fatto generale l'eccedenza delle importazioni sulle esportazioni (50 milioni di pesetas circa, in media, tra il 1892 e il 1910, fino a 200 dopo questa data), eccetto la parentesi (1915-19) della guerra mondiale, durante la quale si ebbe un saldo attivo, che toccò il suo culmine nel 1918 con la cifra di 387 milioni di pesetas.
Ma dopo il 1920 il movimerto commerciale riprese in complesso la sua marcia regolare, accentuando anzi il deficit, che nel triennio 1922-24 salì a oltre 1,3 miliardi di pesetas, in media, all'anno.
Anche da una prima, generale specificazione delle categorie di merci che entrano in questo commercio, saltano agli occhi i suoi principali caratteri, e quello che ne è lo squilibrio fondamentale: la necessità di un'esportazione di materie prime di grosso volume e di debole valore per controbilanciare un'ingente importazione di costosi manufatti. L'accentuarsi di questo squilibrio negli ultimi tempi ha ragioni certo complesse, ma è forse in stretto rapporto col cambio della peseta, che, mentre favoriva la concorrenza estera sul terreno delle esportazioni dei prodotti fabbricati, ostacolava l'acquisto delle materie prime di cui la Spagna ha larga disponibilità. Così, mentre la percentuale dei generi alimentari è cresciuta nel valore globale delle merci vendute, cresciuta è pure quella dei manufatti nelle merci acquistate; molto minore è stato, invece, l'aumento di questi ultimi all'esportazione.
Le tabelle che seguono consentono un più particolareggiato esame delle due voci e non abbisognano di lunghi commenti. Si deve aggiungere, nondimeno, che non sempre le categorie delle tabelle dànno l'esatta misura della prevalenza, nell'uno o nell'altro capitolo, dei singoli prodotti. Scendendo a una più minuta analisi, si rileva che nelle esportazioni degli ultimi anni prevalgono nettamente, quanto a valore, le arance (167 milioni di pesetas nel 1933), seguite a grande distanza dai vini (70 milioni), dagli olî (41) e dalle mandorle (32), dai minerali di ferro, dai pesci in conserva, dai sali potassici, dal piombo, dalle pelli, dal sughero, ecc. Le manifatture di cotone, che vi entrano per 17 milioni appena, rappresentano l'unico prodotto fabbricato di qualche importanza che contribuisca alle esportazioni.
Analogamente a quanto s'è detto a proposito delle esportazioni, va rilevato come nelle importazioni il primo posto spetta al cotone (93 milioni di pesetas nel 1933), cui tengono dietro le macchine (43 milioni), le automobili (41 milioni), le uova (39 milioni), il legname, il materiale elettrico, la benzina, il carbon fossile, il caffè, il tabacco, la pasta di legno, la gomma e varî prodotti chimici e farmaceutici.
I principali fornitori e i principali clienti della Spagna risultano dalla seguente tabella, che mostra le variazioni avvenute nelle posizioni relative dall'anno 1913 al 1933 (% del commercio estero, in valore).
La bilancia commerciale italo-spagnola si è chiusa - salvo poche eccezioni - in favore dell'Italia nel periodo postbellico fino al 1933. Le importazioni italiane in Spagna constano essenzialmente di automobili, ferro, acciaio lavorato, canapa, e tessuti varî; le esportazioni, di pesce (fresco e conservato), olio d'oliva, sughero, minerali di ferro e di piombo, ecc.
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Carte: Prima della guerra civile, lo stato maggiore spagnolo aveva in corso di pubbl. due carte topografiche a colori dell'intera Spagna: una al 50 mila in 1078 fogli (dei quali circa 1/4 già editi), e una al 100 mila (appena iniziata). Completati sono invece il Mapa militar minerario al 200 mila, sul quale però non figura il rilievo, e il vecchio (Madrid 1848-70), ma ancora utile, Atlas de España, anch'esso al 200 mila, di F. Coello. Di carte geologiche, quella al 400 mila (in 64 fogli), terminata nel 1893, non risponde più alle esigenze dell'indagine moderna; e di tutto il territorio spagnolo non si hanno che le due alle scale di 1 milione e di 1 1/2 milione curata dall'Instituto Geologico y Minero. Questo sta pubblicando tuttavia altre due nuove carte geologiche, al 400 (in 16 fogli) e al 50 (in 1078) mila. Eccellenti le carte topografica e geologica al 100 mila della Catalogna.
Per quanto riguarda la geologia e la morfologia, cfr. specialmente: H. Douvillé, La péninsule Ibérique, in Handbuch der regionalen Geologie, VII, iii, 3, Heidelberg 1911; L. Dantín Cereceda, Resumen fisiográfico de la Península Ibérica, Madrid 1912; L. Fernández-Navarro, Paleogeografía. Historia geológica de la Península Ibérica, Madrid 1916; J. Carandell e J. Gómez de Llarena, El glaciarismo cuaternario en los montes Ibéricos, ivi 1918; H. Obermaier, Die eiszeitliche Vergletscherung Spaniens, in Petermann's Mitteil., LXVII (1921); J. Dantín Cereceda, Ensayo acerca de las Regiones naturales de España, Madrid 1922; E. Hernández Pacheco, Rasgos fundamentales de la constitución e historia geológ. del solar ibérico, ivi 1922; Congrès géolog. intern., Comptes rendus de la XVIe session en Espagne, Madrid 1927; R. Staub, Gedanken zur Tektonik Spaniens, in Vierteljahrschr. der Naturforsch. Gesell. Zurich, LXXII (1926), pp. 196-261; E. Hernández-Pacheco, Los cinco ríos principales de España y sus terrazas, in Trabajos Mus. Nac. Cienc. Nat. Ser. Geol., Madrid 1928, n. 36; S. Calderón, Observaciones sobre la constitución de la meseta central española, ivi 1884; Ensayo orogénico sobre la meseta central española, ivi 1885; J. Macpherson, Ensayo de historia evolutiva de la Península Ibérica, ivi 1901; C. De Peret e L. Vidal, Sur le bassin oligocène de l'Èbre et l'Histoire tertiaire de l'Espagne, Parigi 1906; E. Hernández Pacheco, Elementos geográfico-geológicos de la Península Ibérica, Granada 1911.
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Ordinamento.
Ordinamento costituzionale. - Le notizie che seguono si riferiscono naturalmente al periodo anteriore allo scoppio della guerra civile; il nuovo governo apporterà senza dubbio in materia importanti innovazioni.
La costituzione del 9 dicembre 1931 porta le caratteristiche della situazione nella quale fu elaborata e promulgata. Il governo di coalizione del periodo di transizione, non potendo per il suo stesso carattere elaborare un proprio progetto di costituzione, ne deferì la compilazione e la stesura a un comitato "apolitico" di esperti; il progetto steso da questo comitato fu trasmesso dal governo alle Cortes costituenti, le quali a loro volta lo trasmisero a un comitato dei partiti "rivoluzionarî". Quest'ultimo comitato elaborò il suo progetto, che sta a base della costituzione. Nonostante la dichiarazione preliminare, per la quale lo stato (art. 1) spagnolo viene definito una "repubblica democratica di lavoratori di tutte le classi", la costituzione è quindi a carattere democratico-parlamentare piuttosto che socialistico. Il modello principale di essa è stata la costituzione francese, dalla quale la spagnola si discosta specialmente per la grande parte fatta al diritto internazionale come si va concretando attraverso la Società delle nazioni (dichiarazione di rinuncia alla guerra come mezzo di politica nazionale, ecc.: articoli 6, 7).
La base della costituzione spagnola è una democrazia parlamentare notevolmente sviluppata. Il capo dello stato è il presidente della repubblica, che deve avere per lo meno quarant'anni, e dura in carica per sei anni. Esso viene nominato dai membri delle Cortes (Congreso de log diputados) e da un numero di elettori speciali pari a quello dei membri delle Cortes o Congresso (compromisarios): questi elettori vengono eletti con mandato valevole esclusivamente per l'elezione del presidente, e a suffragio universale (esteso anche al sesso femminile: la Spagna è il primo paese latino che abbia concesso il voto alle donne), segreto e diretto.
Il presidente dichiara la guerra (difensiva) e conclude la pace; nomina i funzionarî e li dimette; ha il diritto di emanare provvedimenti speciali in caso di necessità, ha un diritto di veto dilatorio contro le decisioni del Congresso, e può anche sciogliere il Congresso stesso. Basta il voto dei tre quinti dei deputati perché sia posta ai voti la deposizione del presidente: ma questa dev'essere decisa dal Congresso al quale vengono aggregati i compromisarios; se tale votazione non decide la deposizione del presidente, il Congresso è automaticamente disciolto. La stessa proporzione di voti è richiesta affinché si possa accogliere la messa in stato d'accusa del presidente, davanti al tribunale delle garanzie costituzionali (Tribunal de garantías constitucionales): anche qui la condanna implica la deposizione del presidente, l'assoluzione il discioglimento del Congresso.
Il Congresso è costituito da circa cinquecento membri, eletti a suffragio universale, segreto, diretto, con mandato valevole per quattro anni (il diritto all'elezione si acquista al compimento dei ventitré anni, tanto per gli uomini quanto per le donne). Il Congresso esercita il potere legislativo: a capo di esso sta il consiglio dei ministri (Consejo de ministros), il cui presidente è nominato dal presidente della repubblica, il quale nomina anche i ministri su proposta del loro presidente. Il consiglio dei ministri è responsabile davanti al Congresso.
La repubblica democratica spagnola secondo la costituzione del 1931 è uno stato laico (art. 3). Essa è uno stato unitario (integral): la lingua ufficiale è quella castigliana. Ma è ammesso che le regioni (Regiones autónomas), territori di spiccate caratteristiche che formino unità particolari per la loro storia, per la loro costituzione economico-sociale, per la loro situazione geografica, per la cultura, si costituiscano in provincie autonome, che possano regolare in un proprio statuto il proprio diritto pubblico. Questa autonomia, che è stata una concessione alla Catalogna, è limitata fortemente dalle seguenti clausole: la politica estera, compresi i rapporti commerciali, quelli con la Chiesa, gli affari militari, la finanza pubblica, la legislazione sociale e del lavoro di carattere generale, la legislazione scolastica, l'assistenza sociale sono riservati all'autorità centrale. Inoltre gli statuti delle provincie autonome o regioni, per essere accettati dal governo della repubblica, debbono essere accettati dalla maggioranza (di due terzi) dei comuni della regione autonoma stessa, ed essere approvati dalle Cortes che possono anche revocare gli statuti autonomi. Alle regioni rimangono i seguenti diritti fondamentali, oltre quello di darsi uno statuto autonomo (il quale non può essere incorporato nella costituzione, e quindi è sempre soggetto ad emendamenti): il diritto di emanare leggi proprie, a integrazione e in aggiunta a quelle dello stato, o per le necessità locali, e di assumere, in base ad accordi speciali, l'amministrazione di alcuni servizî spettanti all'autorità centrale. Benché oltre la Catalogna anche i Baschi e altri gruppi "regionali" abbiano pretese all'autonomia, questa dal vecchio governo era stata concessa solo alla Catalogna (Generalidad de Cataluña; Generalitat de Catalunya), il cui statuto era stato approvato nel 1931 in Catalogna e il 9 settembre 1932 dalle Cortes.
La principale legge integrativa della costituzione è quella per la riforma agraria (15 settembre 1932, decreto integrativo 7 settembre 1933), per la requisizione di terre incolte o mal coltivate, terre abbisognevoli di speciali misure d'irrigazione, ecc.; e per l'espropriazione dei possessi dei grandi di Spagna, della corona, degli ordini espulsi dalla Spagna, e per la ridistribuzione e per l'amministrazione statale di tali terre. Altre leggi importanti sono quella per l'amnistia (14 aprile 1934), quella sugli averi del clero (6 aprile 1934), quella sulla riforma e il reclutamento dell'esercito (specialmente i quadri, 26 ottobre 1933); quella sull'ordine pubblico (28 luglio 1933).
Culti. - In poche nazioni, come nella Spagna, la storia religiosa è strettamente legata con quella politica e con tutti gli aspetti della vita nazionale. La Spagna ebbe già nel corso del sec. IV e all'inizio del V una ventina di sedi episcopali. Sotto i Visigoti il numero delle sedi appare ancora accresciuto, a circa 70, nei concilî di Toledo. La conquista araba non diede subito un grave colpo al cristianesimo, ché all'inizio, conformemente ai principî dell'Islām, i dominatori si mostrarono abbastanza tolleranti verso i cristiani. Ma essi esercitarono senza dubbio una grande attrazione su molti: onde, sulla base della liturgia e delle tradizioni risalenti all'epoca visigotica, la formazione di quei gruppi arabizzati, o mozarabi, che svilupparono un'arte e una letteratura caratteristiche e alla loro liturgia (v. liturgia, XXI, p. 310) rimasero attaccati anche durante il periodo della Riconquista. Ma già in questo periodo si assiste alla fondazione di monasteri (alcuni già nei secoli VIII e IX), al ristabilimento, o al trasferimento, anche per breve tempo, di varie sedi vescovili, mentre il cristianesimo spagnolo superava altresì la crisi della controversia adozionistica; e accanto al rifiorire della vita monastica e alle imprese militari contro i musulmani sorgevano i grandi ordini militari di Calatrava, di Santiago, di Alcántara, ecc. Con la stessa riconquista si accompagnarono i tentativi da parte del papato di ricondurre la Spagna a una totale uniformità col resto del mondo cattolico, mediante l'introduzione del rito romano: che Alessandro II, come legato, riuscì ad attuare abbastanza facilmente in Aragona e in Catalogna, mentre non la poté effettuare, come papa, in Navarra. Tuttavia l'opera fu ripresa da Gregorio VII e da Urbano II, e la liturgia romana prevalse, a scapito di quella mozarabica che pure era stata riconosciuta ortodossa, verso la fine del sec. XI. Grande importanza nella vita spagnola del Medioevo ebbe anche l'elemento giudaico. Il carattere di movimento a un tempo nazionale e religioso della riconquista spiega appunto come, con l'unione delle corone di Aragona e di Castiglia, i "re cattolici" sentissero la necessità di procedere, non solo contro i musulmani, ma anche contro gli Ebrei. E il carattere nazionale della Chiesa spagnola spiega altresì come, specialmente sotto la casa d'Asburgo, la Spagna fosse, per motivi a un tempo politici, religiosi e dinastici, la grande sostenitrice del cattolicismo contro la Riforma, specialmente nei Paesi Bassi, e contro l'Inghilterra; mentre la prevalenza acquistata dal clero spiega pure la violenza che, dalla seconda metà del sec. XVIII, assunsero a varie riprese le tendenze contrarie agli ordini religiosi - in particolare i gesuiti - e in genere anticlericali. Mentre ad animare la lotta contro i Francesi contribuirono, all'inizio del sec. XIX, anche cause religiose e mentre il concordato del 1851 affermava ancora la religione cattolica come esclusiva nella nazione spagnola e la costituzione del 1871 limitava la tolleranza concessa ai culti acattolici con le due clausole del rispetto dovuto alla morale cristiana e del divieto di manifestazioni pubbliche, successivi provvedimenti di governi liberali autorizzavano (r. decr. 3 febbraio 1910) scuole private in cui non fosse obbligatoria l'istruzione religiosa e (r. decr. 10 giugno 1910) permettevano l'uso di segni esteriori per gli edifici destinati ai culti non cattolici. La costituzione repubblicana del 9 dicembre 1931 dichiara che la Spagna non ha religione ufficiale, garantisce le libertà di coscienza e di culto, ma limita fortemente la capacità di acquistare degli enti ecclesiastici, sottoposti a tassazione e a un rigoroso controllo da parte del Ministero della giustizia, mentre scioglie gli ordini religiosi i cui membri si assoggettino al voto di ubbidienza al papa.
Tuttavia i tentativi ripetutamente fatti nel corso del sec. XIX di diffondere anche nella Spagna i principî della Riforma hanno incontrato scarso successo: e le varie chiese non cattoliche (evangelica, riformata, battista) raccolgono un numero di aderenti che non sembra in alcun modo superare l'1% della popolazione totale.
La gerarchia cattolica in Spagna comprende attualmente le provincie di Burgos (1075; metropolitana, 22 ottobre 1574) con suffraganee Calahorra (sec. V) e La Calzada (sec. XIII) unite nel sec. XIII, León (sec. IV), Osma (sec. XII), Palencia (sec. III?), Santander (1754), Vittoria (1862); di Granata (sec. III?; metropolitana, 1492) con suffraganee Almería (ristabilita nel 1492), Cartagena (sec. I?; residenza in Murcia), Guadix (sec. I?), Jaén (sec. VII), Málaga (sec. IV; ristabilita nel 1486); di Santiago de Compostela (sec. IX; metropolitana, 1120) con suffraganee Lugo (sec. II?), Mondonedo (1114), Orense (sec. V), Oviedo (811), Tuy (sec. VI), di Saragozza (sec. V; metropolitana, 1318) con suffraganee Alharracín (sec. XII; dal 1851 in amministrazione a Temel), Barbastro (1100) e Huesca (sec. VI) unite nel 1851, Jaca (1063), Pamplona (sec. V) e Tudela (1783) unite nel 1851, Tarazona (sec. V), Temel (1577); di Siviglia (sec. III; metropolitana, sec. IV) con suffraganee Badajoz (1255), Cadice (1267) e Ceuta (1421) unite nel 1851, Cordova (sec. III), Canarie (1406; residenza in Las Palmas), S. Cristoforo della Laguna o Tenerife (1819; unito a Canarie nel 1851, separato nel 1877; residenza in La Lagerna); di Tarragona (sec. IV; metropolitana, sec. V) con suffraganee Barcellona (sec. IV), Gerona (sec. I?), Lérida (sec. V), Solsona (1593) e Vich (sec. V) unite nel 1851, Tortosa (sec. IV), Urgel (sec. IV; residenza in Seo de Urgel); di Toledo (sec. II; metropolitana, sec. IV; sede primaziale), con suffraganee Coria (ristabilita nel 1142), Cuenca (1183), Madrid (1884; ha unito il titolo di Alcalá de Henares, o Complutum), Plasencia (sec. XII), Sigüenza (589); di Valenza (1238; metropolitana, 1492), con suffraganee Iviza (1782; unita a Maiorca nel 1851, separata nel 1927), Maiorca (sec. V), Minorca (sec. V), Orihuela o Alicante (1564), Segorbe o Castellón de la Plana (sec. VI); di Valladolid (1595; metropolitana, 1857), con suffraganee Astorga (747), Ávila (ristabilita nel sec. XI), Ciudad Rodrigo (sec. IV; ristabilita nel 1175) e Salamanca (ristabilita nel sec. X) unite nel 1851, Segovia (sec. VI), Zamora (sec. X); inoltre la prelatura di Ciudad Real (1875), priorato dei Riuniti ordini militari di Spagna (Santiago, Calatrava, Alcántara e Montesa), immediatamante soggetta alla Santa Sede.
Forze armate. - Esercito. - La forza bilanciata, anteriormente alla guerra civile, comprendeva 9400 ufficiali, 145.000 militari di truppa. Organo supremo di comando e amministrativo è il Ministero della guerra, nel quale allo Stato maggiore centrale incombe particolarmente la preparazione alla guerra, al sottosegretariato la funzione amministrativa. Alto organo consultivo del Ministero della guerra è il Consiglio superiore della guerra, presieduto dal ministro e composto dei tre ispettori generali e del capo dello Stato maggiore centrale. Il territorio dello stato è diviso in: 8 regioni (Madrid, Siviglia, Valenza, Barcellona, Saragozza, Burgos, Valladolid, La Coruña); 2 comandi militari di isola (Baleari e Canarie). L'esercito comprende: le forze metropolitane e le forze del Marocco.
Le forze metropolitane constano di 3 ispezioni generali, 8 divisioni di fanteria, 1 divisione di cavalleria, 1 divisione motorizzata, 2 brigate miste da montagna, truppe e servizî non inquadrati in grandi unità. Le ispezioni generali sovrintendono a un numero vario di divisioni e brigate autonome. La divisione di fanteria è composta di: 2 brigate di fanteria, ciascuna di due reggimenti; i brigata di artiglieria leggiera, di due reggimenti (i di cannoni, i di obici); 1 squadrone di cavalleria (provvisto di sezione armi automatiche); 1 sezione ciclisti di fanteria; 1 battaglione zappatori; i gruppo trasmissioni; 1 squadriglia aeroplani; unità del genio e dei servizî. La divisione di cavalleria comprende: 3 brigate di cavalleria (6 reggimenti e 2 squadroni automitragliatrici); 1 reggimento di artiglieria a cavallo; 1 compagnia genio zappatori; 1 gruppo trasmissioni; 1 squadriglia aeroplani; servizî. La divisione motorizzata si compone di: 3 reggimenti di fanteria autoportati; 1 reggimento di artiglieria motorizzato; 1 gruppo di cavalleria motorizzato (provvisto di automitragliatrici e carri veloci); 1 compagnia carri armati; servizî motorizzati. La brigata mista da montagna è costituita da: 4 battaglioni fanteria da montagna, 1 reggimento artiglieria da montagna (obici), 1 compagnia zappatori; 1 gruppo trasmissioni; servizî. La fanteria comprende 35 reggimenti, 8 battaglioni da montagna, 2 reggimenti carri armati leggieri, 4 battaglioni mitraglieri, i battaglione ciclisti. La cavalleria: 10 reggimenti cacciatori, 1 gruppo automitragliatrici. L'artiglieria: 16 reggimenti leggieri, 2 da montagna, 3 da costa, 1 a cavallo, 4 a piedi, 2 gruppi contraerei. Il genio: 3 reggimenti (specialità zappatori, minatori, ferrovieri, trasmissioni), 8 battaglioni zappatori divisionali, 1 battaglione pontieri, 1 reggimento aerostieri, 1 battaglione autonomo zappatori.
Le forze del Marocco comprendono: a) Forze regolari bianche: 2 gruppi di fanteria (in totale 7 battaglioni), 2 legioni straniere di "tercio" (ciascuna su 9 compagnie fucilieri e 3 mitraglieri: in totale circa 160 ufficiali, 3600 sottufficiali e militari di truppa), 2 sezioni cavalleria di scorta, 15 batterie di vario calibro (14 di obici da 105 a 155, 1 da costa), 2 battaglioni genio, 2 gruppi treno, i gruppo automobilisti, 4 compagnie ciclisti, servizî. b) Forze regolari indigene (circa 13.000 uomini), riunite in 2 gruppi composti di fanteria e cavalleria e inquadrati da ufficiali, sottufficiali, specialisti metropolitani. c) Distaccamento del Sahara: 1 compagnia di disciplina, 1 sezione mitragliatrici, 1 distaccamento di artiglieria, elementi del genio e dei servizî (in totale pochi ufficiali e circa 400 militari di truppa).
Il servizio militare è obbligatorio, per la durata di 18 anni: alle armi (ferma) 1 anno; 5 anni nella disponibilità; 6 nella prima riserva; 6 nella seconda riserva.
Mediante il pagamento di una tassa militare, gli arrolati possono ottenere la riduzione della ferma a sei mesi. Le reclute che, in apposito esame all'atto dell'incorporazione, dimostrino sufficiente preparazione teorico-pratica, sono congedate dopo 8 mesi.
La chiamata del contingente avviene in due scaglioni: febbraio e novembre. Il contingente non incorporato, perché eccedente il fabbisogno, compie un periodo di istruzione di durata non superiore a 4 settimane.
Marina militare. - La marina militare spagnola constava prima della guerra civile delle seguenti unità:
Corazzate: Jaime I ed España (ex Alfonso XIII), varate nel 1913-14 a El Ferrol, da 15.700 tonn. e 20 nodi, armate con 8/305, 20/102, 2/76 a.-a. e 10 mitragliatrici. Una terza unità dello stesso tipo andò perduta per incaglio sulle coste del Marocco durante la campagna contro i Riffani.
Incrociatori: Canarias e Baleares, varati nel 1931 e 1932, da 10.000 tonn. e 33 nodi, armati con 8/203, 8/120 antiaerei e 4 tubi di lancio trinati sopracquei da 533; Míguel de Cervantes, varato nel 1928, da 7400/9200 tonn. e 33 nodi, armato con 8/152, 4/102 antiaerei e 4 tubi di lancio trinati sopracquei da 533; Libertad e Almirante Cervera, varati nel 1925, con caratteristiche simili al precedente; Méndez Núñez, varato nel 1922-23, da 4500 tonn. e 29 nodi, armato con 6/152 e 4 tubi di lancio trinati da 533; República, varato nel 1920, da 4800/6450 tonn. e 26 nodi, armato con 9/152 e 2 tubi binati da 533.
Conduttori di flottiglia: 14 di cui 7 varati nel 1926-30 e 7 varati nel 1931 o in costruzione, tipo Barcaiztegui e Almirante Miranda, da 1500/1800 tonn. e 36 nodi, ammati con 5/120 e 2 tubi di lancio trinati da 533.
Cacciatorpediniere: Alcedo, Lazaga, Velasco, varati nel 1922-1924 a Cartagena, da 1044/1350 tonn. e 34 nodi, armati con 3/102, 2/47 e 2 tubi di lancio binati da 533.
Torpediniere: 11 antiquate.
Sommergibili: 6 tipo D da 1050/1370 tonn. e 20,5/9,5 nodi, armati con 6 tubi da 533 e1/102; 12 tipo C, varati negli anni 1924-29, da 842/1290 tonn. e 16/8,5 nodi, armati con 6 tubi da 533 e1/100; 6 tipo B, varati nel 1921-26, da 570/715 tonn. e 16,5/10,5 nodi, armati con 4 tubi da 450 e 1/76; 1 antiquato.
Cannonniere: Dato, Canalejas, Canovas del Castillo, varate nel 1922-23, da 1340 tonn. e 18 nodi, armate con 4/100; 2 tipo Lauria, varate nel 1910-12, da 800 tonn.; 9 per servizio costiero in Africa, varate nel 1917-18 in Inghilterra e in Francia.
Posamine: 4 tipo Vulcano, varati nel 1935 o in costruzione, da 2100 tonn. e 18,5 nodi, armati con 4/120, 4 mitragliere da 40, 2 lanciabombe, capaci di portare 264 torpedini.
Inoltre: 1 nave scuola a vela e motore Juan Sebastián de Elcano, varata nel 1927, da 3400 tonn.; 1 nave salvataggio sommergibili Kanguro da 2700 tonn., varata nel 1916 in Olanda; 1 nave idrografica Giralda, e un certo numero di unità per trasporto e protezione della pesca.
La forza era di 1729 ufficiali in servizio attivo e 374 della riserva; 14.000 marinai; 2800 uomini di fanteria di marina.
Basi navali principali: El Ferrol, Cadice, Cartagena. L'Accademia navale è a Cadice.
Aviazione militare. - La direzione generale dell'aviazione dipendeva dal primo ministro e comprendeva l'aviazione civile, l'aviazione militare, l'aviazione navale e la meteorologia. Il consiglio superiore d'aviazione era il massimo ente consultivo dell'aeronautica. L'aviazione navale era comandata dal capo dell'aviazione navale che dipendeva direttamente dal direttore generale dell'aviazione.
I reparti aerei erano dislocati sui seguenti aeroporti: Alcalá de Henares (Madrid): scuola di pilotaggio e da caccia; Barcellona (Prat de Llobregat): squadra n. 3; Cuatro Vientos (Madrid): scuola per specialisti e osservatori, dipartimento tecnico, protezione per il volo, paracadutisti, armamento, fotografia, centro chimico trasporti; Getafe (Madrid): squadra n.1; León: 21° gruppo della 1ª squadra; Logroño (Recaio): 23° gruppo della 3ª squadra; idroscalo di Los Alcázares (Cartagena): scuola di tiro e bombardamento, idroscalo di Atalayón (Melilla): 6° gruppo; Nador (Melilla): una del i° gruppo (squadra n. 2); Tetuán: un gruppo delle forze aeree africane.
I reparti avevano in dotazione velivoli in generale di tipo estero. L'aviazione navale ha le seguenti basi: San Javier, Prat de Llobregat, Marín, Mahón, nave portaerei Dédalo.
Lo stato non aveva arsenale proprio e si serviva presso ditte private; le officine di Cuastro Vientos venivano adibite alle riparazioni.
Organizzazione scolastica. - L'insegnamento si distingue, come in Italia, in primario, secondario e superiore, ed è fondamentalmente di stato, dipendendo dal Ministerio de instrucción pública y bellas artes. Accanto alle scuole elementari di stato sussistono peraltro scuole provinciali comunali e private: l'insegnamento è obbligatorio dal 3° al 14° anno di età ed è, nelle scuole statali, gratuito. A esso segue l'insegnamento complementare, impartito da scuole serali e industriali. L'insegnamento secondario è rappresentato, dal 1926, da un unico tipo di scuole, gli Institutos nacionales, che solo nelle ultime due classi, delle sei di cui sono costituiti, si distinguono in una sezione letteraria e in una sezione scientifica. Dopo i primi tre anni si sostiene l'esame per il "baccellierato elementare", dopo gli altri tre quello per il "baccellierato universitario": ma anche anno per anno è obbligatorio l'esame in ciascuna disciplina, mentre alla fine del corso il "baccelliere universitario" deve ancora sostenere, per entrare all'università, l'esame di reválida, di fronte a una commissione composta di tre professori universitarî e due medî, uno degli Institutos nacionales e l'altro delle scuole private di pari grado. Esiste infatti anche un insegnamento medio privato, che è in tal modo strettamente legato ai programmi e al controllo della scuola pubblica. Le università sono 11: Madrid, Salamanca, Valladolid, Saragozza, Oviedo, Santiago de Compostela, Barcellona, Valenza, Siviglia, Granata, Murcia. Le facoltà sono cinque: giurisprudenza (5 anni di corso), medicina (7 anni), farmacia (5 anni), filosofia e lettere (4 anni), scienze (4 anni): ma la maggior parte delle università ne ha soltanto alcune. Vi sono poi tre scuole superiori di commercio (Escuelas de altos estudios mercantiles) a Madrid, Barcellona e Bilbao, e due scuole superiori di architettura a Madrid e a Barcellona.
Finanze. - Bilanci e debito pubblico. - Le principali entrate del bilancio spagnolo derivano dall'imposizione diretta e indiretta e dai monopólî. Tra le spese emergono quelle per il servizio del debito pubblico, per i lavori pubblici, per la difesa nazionale, per l'istruzione e per le pensioni.
L'analisi delle su riportate cifre non può condurre a conclusioni corrispondenti all'effettiva situazione finanziaria spagnola se non si tiene contemporaneamente conto dello sviluppo del debito pubblico. Per dissimulare il deficii, largo fu infatti il ricorso all'emissione di buoni del tesoro, specie durante i primi anni della dittatura, in cui fallirono, per le proteste suscitate, quasi tutte le riforme tributarie tentate dal governo e non fu quindi possibile fronteggiare le spese straordinarie con un incremento delle entrate fiscali. Una cassa di ammortamento del debito pubblico, con fondi proprî, fu creata nel 1926, ma anche il suo risultato può dirsi sia stato press'a poco nullo. Quando, nel 1927, fu perciò necessario procedere a un consolidamento del debito fluttuante, la cifra del debito pubblico consolidato (sia perpetuo sia ammortizzabile) ne risultò improvvisamente gonfiata di 5,6 miliardi (da 12.050 alla fine del 1926 a 18.304 alla fine del 1927). La liquidazione della gestione finanziaria della dittatura può dirsi sia stata compiuta negli esercizî 1930, 1931 e 1932, in cui le spese furono ridotte al massimo e si provvide nello stesso tempo a pagare gl'impegni arretrati. La maggior parte delle imposte furono quindi inasprite; l'accentuarsi della crisi economica non permise tuttavia un aumento delle entrate conforme alle previsioni.
Per valutare i risultati effettivi degli ultimi esercizî bisogna tener presente che nelle entrate accertate figurano anche i gettiti dei prestiti pubblici, per cui il bilancio si è chiuso effettivamente con deficit crescenti dal 1931 in poi.
Alla fine del 1935 il debito pubblico era salito complessivamente a 21.779 milioni di cui 917 di debito estero e 1.940 di fluttuante. Ricordiamo inoltre che nel 1933, in base agli articoli 16 e 17 della costituzione del 15 settembre 1932, la Generalidad della Catalogna ebbe un bilancio proprio.
Moneta e credito. - L'unità monetaria è la peseta divisa in 100 céntimos, il cui valore nominale è tuttora pari a quello del franco francese prebellico. In realtà però, abbandonata la base aurea durante la guerra mondiale, la peseta si svalutò fortemente e la sua stabilizzazione per le varie complicazioni della politica interna non è stata ancora effettuata, nonostante che più volte il governo si sia messo su questa via negli ultimi anni (interventi sul mercato dei cambî a partire dal 1924, nomina di un comitato di esperti nel 1928, elaborazione nel 1931 di un piano di stabilizzazione da attuarsi col concorso della Banca dei regolamenti internazionali, ecc.). A partire dal 1931, in conseguenza, prima, della speculazione internazionale, poi soprattutto della sempre più grave situazione interna, la svalutazione della peseta si è anzi ancor più accentuata.
La circolazione è composta quasi esclusivamente di biglietti della Banca di Spagna: istituto che ha il privilegio dell'emissione (la convenzione col governo è stata prorogata per 25 anni il 1° gennaio 1922), nonché l'obbligo di disimpegnare gratuitamente il servizio di tesoreria e di versare al governo, in determinate condizioni, parte dei suoi utili. La banca è autorizzata a emettere biglietti fino a 5 miliardi e, solo col consenso del governo, fino al limite massimo di 6 miliardi di pesetas, e deve coprire detta circolazione con una riserva metallica del 45% (40% in oro) per i primi quattro miliardi e del 60% (50% in oro) per gli ultimi due. Alla fine del giugno 1936 i biglietti in circolazione ammontavano a 5.455 milioni di pesetas e la riserva metallica alla stessa data era di 2.202 milioni in oro e 656 in argento. L'oro è quasi scomparso dalla circolazione.
I principali istituti di credito, oltre il Banco de España e il Banco Hipotecario (il quale, avendo il monopolio dell'emissione di cedole ipotecarie, è anch'esso soggetto all'intervento dello stato che ne nomina il governatore), sono il Banco Central, il Banco Hispano-Americano, il Banco exterior de España, il Banco Español de credito, il Banco de Bilbao, il Banco de Vizcaya, e il Banco Urquijo.
Bibl.: A. Posada, La nouvelle constitution espagnole, Parigi 1932; G. Schwarsemberg, Die Verfassung der spanischer Republik, Berlino 1933. - Per le finanze, v.: Visconte de Eza, La pasividad de España ante las futuras luchas económicas, Madrid 1919; L. Graux, L'Espagne économique, Parigi 1932; J. Ventosa y Calvell, La política económica de España, Madrid 1934; J. Ruiz Almansa, Intervención del Estado en la economia española, ivi 1934; M. Marfil, La Hacienda y la Constitucion de 1931, ivi 1935. V. inoltre l'Anuario económico financiero della rivista El Financiero e l'Historia econom., financiera y política de España en el siglo XX (voll. 7), a cura di J. G. Ceballos Teresi, ivi 1933.
Preistoria.
Per la preistoria della Spagna, v. iberica, penisola, XVIII, pp. 675-678.
Storia.
Antichità. - Il possesso della Sicilia e della Sardegna era stato la posta della prima guerra punica, quello della Spagna fu la posta della seconda: la vittoria diede ai Romani successivamente l'uno e l'altro. Il rinnovato interesse dei Cartaginesi per la Penisola Iberica e l'estendersi del loro dominio su essa dopo la guerra dei mercenarî mossero Roma, che l'acquisto della Sardegna e i rapporti di amicizia con i Focesi di Marsiglia portavano inevitabilmente ad affermare la sua influenza nel Mediterraneo occidentale, a fermare l'avanzata rivale nel settentrione della Spagna. Il primo tentativo di arrestare questa avanzata con mezzí pacifici, e cioè il trattato con cui le parti avversarie s'impegnavano a tenere come limite della rispettiva zona di espansione il corso dell'Ebro, doveva in breve rivelarsi inefficace, per l'asprezza onde i contendenti erano animati l'uno contro l'altro l'assedio e la presa di Sagunto da parte di Annibale segnarono la rottura fra le due parti, ché il Senato decise in conseguenza di essi l'invio di un esercito nella Spagna: nel 218 questo esercito sbarcava ad Emporiae. Il primo obiettivo cui i generali romani, Cn. e P. Scipione, poi P. Scipione, il futuro Africano, rivolsero le loro armi, fu quello di colpire la potenza cartaginese, ma una volta sfuggito dalla Spagna l'esercito di Annibale, e portata da questo la guerra in Italia, tale obiettivo avrebbe potuto anche apparire d'ordine secondario, se al di là di esso i Romani non avessero mirato a sostituirsi ai Cartaginesi nel dominio della Penisola Iberica. Ben poco frutto infatti si può dire Roma avesse ottenuto nei riguardi dell'esito generale della guerra, quando nel 206 Scipione lasciò la Spagna per tornare in Italia: invece il possesso della penisola, per quanto per allora limitato a una parte relativamente piccola di essa, e anche in questa tutt'altro che fermamente stabilito, era ormai definitivamente assicurato: i Cartaginesi ne erano per sempre esclusi, e l'estenderlo e il raffermarlo era soltanto questione di tempo e di volontà.
Durante la guerra contro i Cartaginesi i rapporti fra i generali romani e le tribù iberiche, che fornivano mercenarî indifferentemente all'una e all'altra parte in lotta, furono varî e oscillanti, a seconda, come è naturale, del più o meno favorevole corso degli eventi; i primi successi di Cn. Scipione alla foce dell'Ebro e il successivo arrivo di Publio facilitarono la loro avanzata fino al saltus Castulonensis, cioè fino ai limiti della regione del Baetis, ma ogni influenza sui popoli indigeni sembrò perduta dopo la dolorosa sconfitta dei due fratelli. Le vittorie militari e l'accorta politica di P. Scipione, che agli occhi degl'Iberi dovette apparire tanto più generosa quanto più gretta, e ispirata soltanto alle esigenze del momento, doveva essere stata in generale quella dei comandanti cartaginesi, conciliarono senza dubbio larghe simpatie ai Romani. All'indomani della presa di Nova Carthago (Cartagena) i capi delle tribù della regione superiore dell'Ebro, e fra i primi Indibile, re degl'Ilergeti, che era stato tra i più fedeli alleati dei Cartaginesi, facevano atto di sottomissione a Scipione; dopo la vittoria d'Ilipa, le tribù della fertile regione del Baetis ne seguivano l'esempio. Ma bastò che Scipione si allontanasse per poco dalla Spagna per recarsi in Africa a trattare l'alleanza con Siface, perché alcune di quelle tribù si staccassero da Roma; come più tardi l'infermità del generale romano determinò la defezione d'Indibile; riprese le armi, Scipione ridusse all'obbedienza gl'Ilergeti, mentre inviava C. Lelio e L. Marcio nel mezzogiorno a cacciare i Cartaginesi dall'ultimo lembo che essi tenevano ancora nella penisola, la città di Gades (Cadice), i cui abitanti inclinavano già dalla parte di Roma. La fuga di Magone determinò la resa della città, cui furono assicurate autonomia e libertà.
Tolti in tal modo completamente di mezzo i Cartaginesi, Scipione abbandonò la Spagna per tornare in Italia, non senza avere prima fondato nel mezzogiorno di essa, nella valle del Baetis, la colonia cui diede il nome augurale di Italica, e nella quale stabilì alcuni dei suoi veterani, e particolarmente quelli che la guerra aveva resi inabili a nuovi cimenti armati.
Le regioni che ora possedevano i Romani nella Penisola Iberica erano costituite in due gruppi, uno a mezzogiorno, tra il Baetis e l'Anas, un altro a settentrione, a cavallo del corso dell'Ebro, congiunti appena da una stretta striscia costiera, nella quale era Nova Carthago. Siffatta costituzione del possesso spiega perché il senato, quando nel 197 credette opportuno dare un ordinamento stabile al suo governo, fece di esso due provincie separate, dette, dalla loro posizione rispetto a Roma, Hispania citerior e H. ulterior. Nel periodo che va dalla partenza di Scipione al 197 quel governo ebbe invece carattere provvisorio, e fu affidato a generali che, come già Scipione, non avevano ancora rivestito alcuna carica pubblica. I primi mandati a succedergli furono L. Cornelio Lentulo e L. Manlio Acidino: la partenza di Scipione aveva dato luogo a una nuova insurrezione d'Indibile, che le truppe romane riuscirono questa volta a tagliere definitivamente di mezzo; altre azioni militari, forse tuttavia d'importanza più limitata, si seguirono negli anni dipoi: d'altronde è certo che né la zona posseduta era ancora interamente tranquilla, né in essa poteva considerarsi chiuso il dominio romano, di cui quella zona era invece destinata soltanto ad essere il primno nucleo, da allargarsi via via a tutta la penisola.
I confini stessi delle due provincie create nel 197, il cui governo venne dato a due pretori, aggiunti da quell'anno a quelli che normalmente si eleggevano dapprima, non erano sicuramente definiti, se non dalla parte del mare, e per la Citeriore verso i Pirenei. Per la stessa Citeriore verso occidente, per la Ulteriore verso occidente e verso settentrione, quei confini non erano segnati che dal limite della zona d'influenza romana, limite incerto, contro cui le tribù di confine o di oltre confine di continuo premevano con l'intento di fare arretrare, e che invece i Romani, prendendo occasione dalle ribellioni o dalle incursioni degl'indigeni volevano spingere sempre più innanzi.
Il punto in cui le due provincie si toccavano erano: sul mare il territorio di Nova Carthago, che era nei limiti della H. Citerior, e ne costituì anzi, da principio, la normale residenza del governatore, e verso l'interno il saltus Castulonensis, regione essa stessa tutt'altro che tranquilla per i Romani. La sede del governatore dell'H. ulterior sembra fosse dapprima Hispalis, poi, dopo la fondazione di Corduba, quest'ultima.
Per tutto il periodo repubblicano le due provincie restarono normalmente divise: la loro riunione si effettuò soltanto in qualche momento particolare, per motivi di carattere transitorio: e cioè una prima volta durante la guerra macedonica (dal 171 al 168 a. C.), più tardi quando a Pompeo la lex Trebonica conferì speciali poteri per tutta la penisola (dal 54 al 49).
Gli anni seguiti alla costituzione delle provincie furono ancora anni di dura lotta per i Romani, impediti da altre guerre in Italia insurrezione di tutte le tribù iberiche scoppiò fin dall'estate del 197, né i parziali successi riportati negli anni seguenti dai governatori romani, uno dei quali vi perdette la vita, erano riusciti a domarla interamente, se nel 195 il senato decise d'inviare nella penisola, oltre ai due pretori normali, un console, M. Porcio Catone, con più forte esercito. Catone, sbarcato a Emporiae, sconfisse non lontano da questa i ribelli della Citeriore, imponendo loro ostaggi; dopo un'azione, più che altro di carattere dimostrativo, nella Ulteriore, dove vano rimase il tentativo di estendere il dominio romano fino all'Anas, e dove Turdetani e Celtiberi continuarono a sottrarsi a questo dominio, Catone ritornò verso settentrione, percorse il paese dei Celtiberi, indusse con un'astuzia molte città della valle dell'Ebro ad abbattere le loro mura, quindi s'imbarcò di nuovo per l'Italia. Dopo la partenza di Catone, la ribellione riprese con eguale intensità; nella Ulteriore per la prima volta si affacciarono da occidente i Lusitani, che furono battuti da P. Cornelio Scipione Nasica. Nel biennio 193-191 i pretori C. Flaminio e M. Fulvio Nobiliore presero essi stessi l'offensiva, forse in azione combinata, battendo con successo i territorî degli Oretani, dei Carpetani, di cui fu presa la capitale Toledo, dei Celtiberi, dei Vettoni e dei Vaccei. Un ritorno dei Lusitani, da cui il successore di Nobiliore, L. Emilio Paolo, toccò dapprima una sconfitta, ma che poi egli stesso riuscì a battere, non arrestò che momentaneamente questa azione offensiva, ché il medesimo Paolo poté ancora conquistare un gran numero di fortezze delle tribù ribelli della Ulteriore.
Dopo due anni circa di relativa tranquillità, nel 187, Lusitani e Celtiberi insorsero nuovamente: la guerra si protrasse per varî anni, nonostante che contro i ribelli i pretori romani, che avevano con loro un forte esercito di circa cinquantamila uomini, più gli ausiliarî iberici, avessero pure riportata qualche vittoria di non lieve momento. Particolarmente attivi nella lotta contro Roma erano i Celtiberi del centro della penisola. Nel 181 fu inviato contro di loro Q. Fulvio Flacco, il quale penetrò nel loro territorio e umiliò la loro baldanza, sì da poter annunziare al senato, con esagerata fiducia, la loro definitiva conquista. A Flacco succedette nel 180 Ti. Sempronio Gracco, che perseguì tenacemente la campagna contro i Celtiberi, mentre il suo collega della provincia Ulteriore, L. Postumio Albino, moveva da sud verso nord, verso il paese dei Vaccei. Successi militari, aggiuntisi a quelli riportati prima da Fulvio Flacco, e accorta politica permisero a Gracco d'indurre alcune fra le maggiori tribù dei Celtiberi, Titti, Belli, Lusoni e Arevaci, a stringere un patto con Roma, per il quale esse riconoscevano l'autorità della repubblica (179 La pace, e con essa il fiorire della vita civile, sembrò assicurata per un periodo di tempo abbastanza lungo alle regioni ormai sottomesse a Roma: Gracco stesso, prima di partire, fondò al dilà dell'Ebro la colonia di Gracchuris. I Fasti trionfali e Livio ricordano ancora negli anni seguenti alcune azioni militari; ma tutto induce a credere che si trattasse di azioni di limitata importanza; d'altronde le ripetute memorie che per questo stesso periodo di tempo abbiamo di accuse e di processi per concussione contro governatori della provincia, ci fanno credere che nella pace e della pace questi governatori approfittassero per amministrare le terre soggette, così ricche di risorse soprattutto minerarie, più a vantaggio proprio che per quello della repubblica. Onde più che mai fermentarono nel venticinquennio tra il 179 e il 154 i germi della rivolta. Fu in quest'anno che ebbe inizio quella guerra celtiberica che Polibio chiama πύρινος πόλεμπς, guerra, che, attraverso varie vicende e gravissime lotte estese a tutta la penisola, troverà la sua fine soltanto nel 133 con la caduta di Numanzia.
I primi segni della lotta si erano avuti già nel 155-154 con una nuova più fiera invasione dei Lusitani e dei Vettoni, condotti prima da Punico poi da Cesaro, nella provincia Ulteriore, dove prima i pretori M. Manilio e L. Calpurnio Pisone, poi L. Mummio nel 153 erano stati gravemente battuti; quest'ultimo era tuttavia riuscito a vendicare la sconfitta. Nello stesso anno scoppiava la rivolta nella Celtiberia, cui dava occasione il divieto opposto dal senato alla costruzione delle mura della città di Segeda (o Begeda), nel territorio dei Belli. La gravità della situazione si rileva dal fatto che il senato ritenne necessario inviare nella provincia un console, M. Fulvio Nobiliore, con grande esercito di fanti, cavalieri ed elefanti. Nonostante il valore e l'audacia dimostrati, portando le truppe fin nel cuore del paese degli Arevaci all'assedio di Numanzia, la sorte fu contraria a Fulvio, che prima alla gola del Barranco, affluente del Duero (battaglia dei Volcanalia, 23 agosto), poi sotto le mura di Numanzia ebbe a subire perdite gravi e dolorose. Lo sverno nel campo presso Numanzia accentuò ancor più queste perdite. L'anno dopo (152) assunse il comando dell'esercito il nuovo console M. Claudio Marcello giunto con nuovi rinforzi. Operando con forza insieme e con mitezza, egli riuscì a impadronirsi di alcune città, Ocili e Nertobriga, e indusse i Celtiberi a trattare la pace: nonostante il senato respingesse i patti proposti e inviasse nella Spagna un nuovo generale, Lucio Licinio Lucullo, egli tuttavia, ansioso di legare alla pace il suo nome, riuscì a piegare ad essa le tribù celtiberiche ribelli.
Lucullo, arrivando, avido soprattutto, a dire di Appiano, di procacciarsi ricco bottino, invase, senza giusta ragione, il territorio dei Vaccei al di là del Tago, ma dopo una serie d'imprese, né felici né gloriose (la presa di Cauca, l'assedio d' Intercazia e il tentativo di assedio di Pallanzia), ripassò il Duero e svernò nel paese dei Turdetani. Alla primavera seguente (150) scese nel mezzogiorno della penisola, nella provincia Ulteriore, dove il pretore Servio Sulpicio Galba si trovava stretto dai Lusitani, che, dopo essere stati sconfitti da Mummio, erano tornati ancora ripetutamente ad assalire i Romani. Lucullo saccheggiò il territorio dei Lusitani e fece larga strage di essi, ma assai più funesto per loro fu il perfido inganno con cui Galba riuscì a domarli, uccidendone i validi alle armi vendendo schiavi donne e bambini: successo passeggero, ché dalla strage si salvò proprio quegli che doveva più tardi guidare la nuova resistenza contro Roma e passare ai posteri come il campione dell'indipendenza iberica, Viriato. Per nove anni, dal 147 al 138, egli tenne testa agli eserciti di Roma, sconfiggendo l'uno dopo l'altro i generali mandati a combatterlo, C. Vetilio, C. Plauzio, Fabio Massimo Emiliano, Fabio Massimo Serviliano, né forse l'ultimo di essi, Servilio Cepione, sarebbe riuscito a porre fine alla guerra, se, come al solito, non fosse ricorso al tradimento. Il successore di Viriato, Tantalo, si arrese rapidamente dopo una sconfitta sul Baetis. D'altronde Viriato aveva dovuto, al pari di altri che come lui in altre provincie furono l'anima della resistenza a Roma, Vercingetorige, Arminio, ecc., lottare contro l'indisciplina e il particolarismo dei suoi stessi seguaci, anzi forse più di loro, in quanto più tale spirito era diffuso tra gl'Iberi frazionati in un numero incredibilmente grande di tribù, ognuna accentrata intorno alla propria fortezza.
Dell'insurrezione dei Lusitani avevano approfittato altre tribù per ribellarsi: scorrendo rapidamente tutta la parte centrale della penisola e giungendo audacemente fino nelle lontane regioni della Galizia, al dilà del Duero e del Miño, le aveva ridotte all'obbedienza D. Giunio Bruto, che per la sua impresa ebbe il titolo di Callaico.
Restavano ora da domare i Celtiberi della Citeriore: Q. Cecilio Metello, succeduto a Fabio Emiliano, sconfisse gli Arevaci e i Vaccei, ma due città ancora resistevano, Termanzia e Numanzia. Fu intorno a questa, protetta da particolari condizioni del terreno, che la guerra si accentuò e arse ancora per dieci anni. Si succedettero nel comando degli eserciti Q. Pompeo, M. Popilio Lenate, Ostilio Mancino, Emilio Lepido, Calpurnio Pisone: i Numantini resistettero all'assedio e inflissero ai Romani dure sconfitte; non meno gravemente fu battuto Emilio Lepido dai Vaccei, di cui aveva invano assediato la città, Pallanzia; pur tuttavia il senato insistette nella guerra, respingendo le trattative di pace più volte avviate sul luogo fra i Numantini e i comandanti romani. Parve pertanto al senato e al popolo che nessuno fosse in grado di porre fine alla lotta se non il vincitore di Cartagine, Scipione Emiliano, che era stato già nella Spagna come legato di Lucullo, e che da allora aveva in Roma guidato la politica in favore della resistenza e della lotta a fondo contro gl'Iberi. Scipione fu eletto console per la seconda volta nel 134. Riordinato e rianimato l'esercito, affermata la superiorità romana nei territori circostanti, Scipione serrò da presso con sapienti opere di attacco l'assedio, sì che la città fu costretta a capitolare. La città fu distrutta, e il suo territorio diviso fra i popoli vicini. È interessante osservare che, a detta di Appiano, fu ora mandata nella Spagna una commissione di dieci senatori, come si usava per le provincie appena conquistate, a fine di dare il dovuto assetto alle popolazioni domate da Scipione, e a quelle già qualche anno avanti sottomesse da Giunio Bruto: se la testimonianza dello storico è esatta, dobbiamo ritenere che il senato considerasse veramente importanti e decisivi, agli effetti della conquista della penisola, i risultati ottenuti nelle due recenti campagne. Certo, dopo il 133 la romanizzazione della penisola, cui nel 123 si aggiunsero le Baleari conquistate da Q. Cecilio Metello Balearico, la valorizzazione delle sue ricchezze minerarie, agricole e commerciali, e quindi il suo sempre più profondo inserirsi nella vita dello stato romano, fecero rapidi e sensibili progressi; è di questo tempo la sistemazione della grande strada costiera che dalla Gallia Narbonense, valicando i Pirenei, scendeva fino a Tarragona e a Nova Carthago. Invero anche dopo la guerra numantina si ha ricordo di nuove insurrezioni dei Celtiberi: più grave fra esse fu con probabilità quella degli Arevaci nel 98, a domare la quale fu mandato il console T. Didio; ma da Appiano stesso sembra doversi dedurre che tanto questa, quanto le altre da lui menzionate, avessero carattere episodico e importanza limitata. Più spesso invece si ha memoria di campagne contro i Lusitani nella Spagna Ulteriore, dove infatti la conquista era ancora da consolidare e da estendere verso occidente: su loro riportarono vittorie Q. Servilio Cepione nel 107, P. Cornelio Dolabella nel 98, P. Licinio Crasso nel 93: a condurre queste campagne furono talvolta destinati dei consoli, anziché i normali pretori: per cui è da credere che alcune di esse importassero azioni militari e impiego di truppe piuttosto considerevoli. Ma col sec. I a. C. al turbamento ancora in atto recato dalle guerre contro gl'indigeni, si aggiunge quello prodotto dai riflessi e dagli echi delle guerre civili, che lo stretto legame della penisola con l'Italia e con Roma non poteva non far risentire fino in essa, e assai più gravemente che in altre regioni. Occorre tuttavia osservare che, pur attraverso i danni e il disordine arrecato da queste guerre, non si arrestarono né la graduale sottomissione delle tribù iberiche né soprattutto la loro assimilazione a Roma e alla sua civiltà.
Il primo episodio delle guerre civili che ebbe per teatro la Spagna fu quello di Sertorio: quando questi, dall'Africa dove si era rifugiato, tornò nella penisola chiamatovi dai Lusitani in lotta contro i Romani, poté sembrare che la sua azione fosse essenzialmente antiromana, e come tale certamente la secondarono i numerosi elementi spagnoli arruolati nelle sue truppe: ma quel senso di tolleranza e di liberalità verso i provinciali che Sertorio, seguace delle idee democratiche che erano state dei Gracchi e di Mario e che saranno poi di Cesare, dimostrò, soprattutto nei primi tempi della sua guerra, tolleranza e liberalità che dovevano tanto più favorevolmente impressionare gli Spagnoli quanto più dure repressioni e più cattivi inganni essi avevano subito durante le guerre del secolo precedente, inoltre la comunanza di vita fra Iberi e Romani militanti nello stesso esercito, non potevano non esercitare un'influenza decisiva sull'animo e sulle abitudini delle popolazioni spagnole, che d'altronde la vittoria finale di Pompeo, celebrata dal vincitore con l'erezione di un trofeo sui Pirenei, rinsaldava nel loro vincolo di dipendenza a Roma. Così è che vediamo poco a poco venir meno nella penisola i moti d'insurrezione e di resistenza, o limitarsi questi ormai quasi soltanto alle estreme regioni occidentali o nord-occidentali, ancora appena sfiorate dall'azione di Roma. Nel 70 e nel 69 celebrarono il trionfo sulla Spagna rispettivamente L. Afranio, già legato di Pompeo, e M. Pupio Pisone Frugi; più ampia fu certamente l'azione condotta da Cesare durante il suo governo della provincia Ulteriore nel 61, che ebbe appunto per teatro i territorî dei Lusitani e dei Calleci e quello delle tribù abitanti sulle rive dell'Oceano, dove Cesare s' impadronì, con l'aiuto di una flotta fatta venire da Cadice, del porto di Brigantium (La Coruña); una nuova insurrezione dei Vaccei nella Citeriore ebbe a reprimere nel 56 Metello Nepote. L'anno dopo, la legge Trebonia, in ordine agli accordi presi nel convegno di Lucca, dava a Pompeo per cinque anni il governo di ambedue le provincie spagnole. Nessuna meraviglia, pertanto, che allo scoppiare della lotta fra Cesare e Pompeo la penisola, che aveva già visto vittoriosi l'uno e l'altro, si dividesse a parteggiare fra i due: per il primo fu la Ulteriore, per il secondo la Citeriore: quivi i legati Afranio e Petreio avevano raccolto così grande esercito, che Cesare decise di affrontarlo prima ancora di quello che Pompeo aveva sotto di sé nella Grecia: ormai gl'Iberi, numerosi in ambedue gli eserciti, ma soprattutto in quello di Pompeo, formano un elemento di essi, non rappresentano più un partito in lotta per suo conto contro Roma. La battaglia di Lérida decise la sconfitta dei pompeiani, ma fu ancora nella Spagna che essi tornarono a raccogliere le loro ultime resistenze, dopo Farsalo e dopo Tapso, favorite in ciò dall'inettitudine o dal malgoverno dei legati di Cesare. Onde Cesare tornò ancora una volta nella penisola, a porre fine con la vittoria di Munda all'opposizione pompeiana. L'effetto della vittoria fu grande, non solo perché molte città passarono senz'altro dalla parte del dittatore, ma perché il soggiorno di questo nella regione, e le provvidenze da lui prese in favore di essa, specie la deduzione di numerose colonie, ne sospinsero e ne determinarono più attivamente che mai la completa assimilazione alla civiltà romana. Il tentativo fatto da Sesto Pompeo dopo Munda, di tenere viva la lotta contro il partito di Cesare, fu troncato dopo la morte del dittatore con il richiamo di Sesto dalla Spagna deciso dal senato. Costituito il secondo triumvirato, le provincie furono assegnate prima a Lepido, poi, dopo Filippi, a Ottaviano; di limitata importanza furono i disordini suscitati nel mezzogiorno da Bogud di Mauretania, d'accordo con Antonio. Nel settentrione invece continuavano quasi ininterrotte le guerre di sottomissione dell'ultima parte della penisola che ancora restava indipendente da Roma, soprattutto della regione degli Asturi e dei Cantabri: i fasti trionfali ci ricordano le vittorie di Lepido nel 43, di Cn. Domizio Calvino nel 36, di Norbano Flacco nel 34, di L. Marcio Filippo ed Appio Claudio Pulcro fra il 34 e il 29, di C. Calvisio Sabino nel 28, di Sesto Appuleio nel 26; da altre fonti abbiamo notizia di successi riportati nel 29 da T. Statilio Tauro sulle stesse popolazioni. Ma tale ripetersi quasi continuo di guerre, e qualche accenno che Augusto fa nel suo testamento a insegne perdute e poi riconquistate, fanno credere che né tutte le campagne romane si dovettero chiudere con vittorie, né soprattutto che queste fossero veramente decisive. Doveva pertanto spettare ad Augusto e ai suoi generali condurre a fine l'ultima guerra spagnola e completare in tal modo la conquista della penisola. In un primo momento Augusto assunse su di sé personalmente la condotta della guerra, e sulla fine del 27 scese nella Spagna: ma ammalatosi a Tarragona, la condotta rimase ad Agrippa; sotto la guida di questo, C. Antistio e C. Furnio combatterono contro i Cantabri, P. Carisio contro gli Asturi. Nel 25, partendo Augusto dalla Spagna, la guerra sembrava finita; ma si riaccese subito dopo, né i successi riportati da L. Elio Lamia, e, più tardi, nel 22, da Carisio e Furnio, vennero a capo delle fiere popolazioni montane, finché nel 19 tornò a riprendere il comando lo stesso Agrippa: questa volta, pur attraverso sforzi non lievi, la resistenza fu domata, e ad evitare nuovi tentativi di rivolta, le popolazioni furono costrette ad abbandonare le loro sedi più impervie e a scendere al piano. Tuttavia, ad assicurare la tranquillità della regione, vi fu posto un forte presidio militare, l'unico che rimanesse stabilmente nella penisola per tutto l'impero.
È da credere che soltanto dopo la definitiva sottomissione dei Cantabri e degli Asturi avesse applicazione nella Spagna il nuovo ordinamento augusteo, che sulla testimonianza di Dione Cassio viene normalmente datato all'anno 27. Per esso la penisola fu divisa in tre provincie, due imperiali, l'Hispania citerior o Tarraconensis e la Lusitania, la terza senatoria, l'Hispania ulterior o Baetica: i rispettivi confini subirono qualche anno dopo, tra il 7 e il 2 a. C., qualche mutamento per ciò che riguarda l'Asturia e Callaecia (v. asturie: Storia), prima attribuita alla Lusitania, poi definitivamente alla Hispania citerior. E fu appunto l'avere compreso in essa queste estreme regioni, meno toccate, anche più tardi, dalla romanizzazione, e nelle quali fu sempre necessario mantenere un presidio militare, che determinò probabilmente la permanenza di questa provincia Tarraconense fra quelle imperiali: perché d'altronde tutta la sua parte centrale e orientale era ormai, già al tempo di Augusto, completamente pacificata al pari della provincia meridionale della Betica. Il presidio militare, del tutto assente da questa, nella quale soltanto saltuariamente fu necessario inviare delle truppe, quando i Mauri la invasero nel sec. II d. C., era costituito nella Lusitania da truppe ausiliarie, nella Tarraconense invece da truppe legionarie e ausiliarie: le legioni furono dapprima tre, con Claudio si ridussero a due, con Nerone a una: dal 70 tale legione fu la legio VII Gemina, già coscritta da Galba nella regione e acquartierata nel luogo che da essa prese il nome: Legio (oggi León).
Le provincie spagnole furono d'altronde per oltre tre secoli fra le provincie più tranquille di tutto l'impero: non molestie di barbari ai confini, se non le poche incursioni dei Mauri nel mezzogiorno; non insurrezioni di popoli indigeni, ormai definitivamente inseriti nella civiltà di Roma, tranne qualche modesto movimento di rivolta degli Asturi e dei Cantabri; non travaglio di lotte dinastiche, prive nella penisola del loro più fecondo ambiente generatore: l'esercito; a queste lotte, quando esse spezzano l'unità dell'impero, la Spagna partecipa di riflesso, senza recarvi alcun efficace contributo di fervore o di passione. La sua stretta relazione con la Gallia la porta inevitabilmente a seguire le sorti di questa: l'invasione dei Franchi e degli Alamanni, che nel 257, attraversata la Gallia e valicati i Pirenei, avevano sciamato fin nella Catalogna e avevano saccheggiato Tarragona, aveva provato a sufficienza che anche per la Penisola Iberica, come per la Gallia e per la Britannia, il confine di contro ai barbari era sul Reno. La Spagna pertanto riconosce l'impero gallico, come nel secolo seguente si metterà dalla parte di Magno Massimo e di Eugenio.
L'ordinamento dioclezianeo, mentre lascia immutate la Lusitania, la Betica e l'Asturia e Callecia, che era stata costituita a provincia autonoma fin dal principio del sec. III, divide la Tarraconense in due provincie minori, l'una chiamata ancora con lo stesso nome, l'altra detta Carthaginiensis; più tardi, nel corso del sec. IV, dalla Tarraconense si staccano ancora le Baleari, che vengono a formare una sesta provincia spagnola. Alla dioecesis Hispaniarum, dipendente dal prefetto del pretorio delle Gallie, era stata peraltro aggregata fino da Diocleziano anche la Mauretania Tingitana, che si può dire costituisse il confine meridionale, contro i Mauri del deserto, della penisola.
L'ampliarsi e il consolidarsi degli stanziamenti barbarici nella Gallia, insieme con le lotte fra imperatori legittimi e usurpatori, furono le cause che determinarono sul principio del sec. V la perdita per l'impero della Spagna. Eletto infatti imperatore nella Britannia Costantino III, questi si accinse a combattere le truppe di Onorio per aggregare al suo trono le Gallie e la Spagna, e vi era riuscito, quando il suo rappresentante nella Spagna, Geronzio, gli si ribellò, contrapponendogli un altro usurpatore. Delle lotte che ne derivarono approfittarono i barbari germani, già scorazzanti nella Gallia, Alani, Svevi, Vandali, per scendere nella Spagna e insediarvisi (409).
Gl'imperatori legittimi, valendosi dell'aiuto di altri barbari i Goti, tentarono a più riprese di riguadagnare la penisola, e vi riuscirono in qualche parte e per qualche momento: ma non mai completamente ed effettivamente: i barbari che vi erano discesi finirono con essere considerati come federati dell'impero; più tardi, sotto Eurico, i Visigoti, passativi dalla Gallia, vi fondarono una propria monarchia.
Rinviando alle voci particolari (asturie; betica; lusitania; tarraconense) per ciò che riguarda la costituzione e i caratteri peculiari di ciascuna delle provincie spagnole, prospettiamo qui le osservazioni di carattere generale riguardanti le provincie stesse nel loro complesso. La Spagna fu l'unica regione, tra quelle venute in dominio di Roma ancora durante il periodo repubblicano, nella quale fin da questo periodo, pure ad onta delle guerre e delle repressioni talvolta crudeli condotte contro gl'indigeni, l'opera di romanizzazione fu promossa e sospinta con vigore; la conseguenza ne fu che nessun altro paese dell'impero, fu, all'infuori dell'Italia, più profondamente e più durevolmente improntato dalla civiltà di Roma come la Spagna.
A tale sollecito e rapido processo di romanizzazione contribuì innanzi tutto la priorità dello stabilimento romano, avvenuto oltre un secolo prima che la repubblica entrasse nel periodo di crisi determinato dalle guerre civili; ma vi concorsero ancora lo sforzo che Roma dovette fare per la completa conquista della penisola e l'importanza che il possesso di essa ebbe sin da principio per Roma, per le copiose risorse di cui essa era ricca: donde da un lato gl'intensi scambî commerciali tra Roma e la Spagna, dall'altro i frequenti e lunghi soggiorni che fin dal tempo della seconda guerra punica forti eserciti romani fecero nella regione.
Al momento della conquista le condizioni di civiltà della penisola erano assai ineguali fra le città e le zone della costa orientale e meridionale, dove Greci, Fenici e Cartaginesi avevano con i loro emporî importato e diffuso la loro cultura, e le regioni interne, rimaste ancora strette all'antica cultura indigena, che aveva conosciuto momenti di floridezza e aveva avuto manifestazioni anche di notevole valore e bellezza, soprattutto nel campo dell'arte, ma che, ormai da secoli decaduta, sembrava avere bisogno di un impulso esteriore per risollevarsi e avviarsi a nuovi fecondi destini. Tale impulso non poteva venire né dai Greci, fermatisi appena in qualche punto della costa orientale, né dai Cartaginesi, la cui civiltà non ebbe mai forza di espansione e di assimilazione; comunque in confronto a loro i Romani si trovarono presto di fronte a tale compito in condizioni di netta, indiscutibile superiorità. Le colonie greche erano state ancora prima della conquista favorevoli a Roma, gli emporî fenici e cartaginesi s'inserirono facilmente, anche per naturale spinta d'interessi, nell'orbita della città vincitrice; le popolazioni indigene, pur resistendo tenacemente e valorosamente alla conquista, finirono, una volta domate, non tanto e non solo con acconciarsi al nuovo signore, quanto con lasciarsi assimilare da esso e prenderne lingua, costumi, religione. Siffatta assimilazione dovette cominciare, si può dire, sul campo di battaglia, nel contatto tra soldati romani e mercenarî iberici; si continuò nelle colonie di veterani o di figli di soldati o d'indigeni vinti e sottomessi, stabilite fin da età molto antica nella penisola: Italica da Scipione, Corduba pare da Marcello, Gracchuris da Tiberio Gracco, Carteia e Valentia; si consolidò attraverso i nuclei di commercianti o di capitalisti romani andati di buon'ora a trafficare nei porti di Cartagena o di Cadice o a sfruttare le miniere di Cartagena e della Betica. Così, attraverso la guerra e la pace, immutabilmente e quasi fatalmente, la civiltà romana gettò radici e si diffuse nella Penisola Iberica, cominciando dalle regioni orientali e meridionali, più prospere, e via via proseguendo verso occidente e verso settentrione; sole le popolazioni dei Pirenei e delle altre zone montuose del Golfo di Biscaglia resistettero più tenacemente all'assimilazione romana e in parte, seppur piccola, ne rimasero pressoché intatte.
La fine della repubblica trovò pertanto l'opera di romanizzazione della penisola già largamente sospinta: Cesare e Augusto, fondandovi ancora numerose colonie, concedendo il diritto di cittadinanza ad altre città, aprendo e sistemando strade e promovendo quanto poteva contribuire al progresso civile ed economico della regione, diedero nuovo impulso a tale opera; essa poté dirsi compiuta quando Vespasiano accordò a tutta la penisola lo ius Latii: da allora non vi furono più nella Spagna né peregrini né civitates stipendiariae, ma solo municipî e colonie di diritto latino o romano. Giova a tal punto osservare che i Romani trovarono nella penisola un ordinamento indigeno fondato sulla tribù, ma intesa questa come un organismo di minime proporzioni, poco più ampio forse della gens latina, e ognuna accentrata intorno a una propria città (oppidum): sì grande è il numero di queste che ogni generale romano vincitore nella Spagna si vanta di avere preso e sottomesso. Contrariamente pertanto a quello che fecero nella Gallia, i Romani nella Spagna non lasciarono che l'ordinamento indigeno continuasse a sussistere, ma lo sostituirono via via con l'ordinamento municipale romano, fondendo in ogni civitas più d'una delle civitates preesistenti: questo progressivo ridursi di numero delle civitates ci è testimoniato dai dati di Plinio. La costituzione gentilizia non scomparve del tutto, ché ne troviamo ricordo ancora in epigrafi imperiali, ma ebbe soltanto carattere privato.
Tra la civitas e la provincia la Spagna non conobbe d'altronde altra circoscrizione intermedia che il conventus. Strabone parla, è vero, di tre diocesi per la Spagna citeriore o Tarraconense, ma tale suddivisione sembra abbia avuto carattere e durata limitati: dopo Claudio non si ha più ricordo, per tutte le provincie spagnole, che di conventus o distretti giudiziarî.
Al pari degli ordinamenti indigeni scomparve, almeno dall'uso più comune, la lingua, di cui non abbiamo iscrizioni che scendano oltre i primi tenpi dell'impero, e che non ha sopravvissuto alla dominazione romana che in piccoli nuclei di popolazioni del settentrione; e anche le divinità locali, a giudicare dalle testimonianze epigrafiche, cedettero presto completamente il campo alle divinità romane. Al contrario la lingua e la cultura di Roma appaiono fin dall'inizio dell'impero così efficacemente impresse in tutta la penisola, che spagnoli furono i maggiori rappresentanti della letteratura latina del sec. I d. C., Lucano, Marziale, Seneca, Quintiliano, e amanto ad essi Mela, Iginio, e più tardi Columella; e spagnoli furono del pari i due sovrani, Traiano e Adriano, sotto i quali, nella prima metà del sec. II, l'impero toccò il suo più alto fastigio; spagnolo ancora fu nel sec. IV uno degli ultimi più strenui difensori e assertori di esso, Teodosio.
La Spagna fu ognora tra le provincie più ricche e più produttive. Essa era stata ricercata dai più antichi colonizzatori del Mediterraneo, soprattutto per le sue ricchezze minerarie, che i Romani sfruttarono largamente dopo la conquista. Si cavava oro dai monti dell'alta valle dei Baetis, nella Lusitania e soprattutto nell'Asturia; nella Callecia una galleria di quattrocento metri di lunghezza era stata aperta attraverso un monte (Montefurado) per meglio giovarsi delle sabbie aurifere del Río Sil. Delle miniere di argento una delle più ricche era quella presso Nova Carthago, che al tempo di Polibio rendeva al popolo 25.000 dramme al giorno, ma ne esistevano altresì presso Castulo, nella valle del Baetis e nei paesi nord-occidentali dei Cantabri e dei popoli vicini. A tale ricchezza di metalli preziosi, cui vanno aggiunti ancora il ferro, il rame lo stagno, il piombo, si deve la copiosa monetazione delle città spagnole, a cui i Romani concedettero tale diritto subito dopo la conquista.
Accanto alle miniere vanno ricordate le cave di pietre preziose, quelle di marmi e di minio. Miniere e cave erano in origine di proprietà dello stato; passarono poi in parte a privati, ma via via tornarono tutte a far parte del fisco imperiale, che provvedeva allo sfruttamento col sistema della conductio; documento notevole per la conoscenza di tale sistema è la lex metalli Vipascensis (di Aliustrel nel Portogallo).
Ma non meno ricco del sottosuolo era il suolo, che nelle pianure irrigue e presso le coste produceva vino e soprattutto olio, largamente esportato a Roma, e sugli altipiani centrali dava pascolo a greggi numerosi; copioso era lo sparto, usato per cordami; industrie fiorenti erano quelle dei tessuti e, nei paesi costieri del Mezzogiorno e dell'Atlantico, quella dei pesci salati e delle salse di pesce (garum).
Agricoltura e commercio erano portanto le due più diffuse attività produttive, da cui traevano ricchezza le classi della borghesia cittadina, costituita prevalentemente da Romani immigrati, e, in misura minore, dai rappresentanti degl'indigeni romanizzati. La prima era fondata soprattutto sulla piccola e media proprietà, cui aveva dato largo incremento la deduzione di colonie di veterani; ma non mancava il latifondo, formatosi nell'impero soprattutto in conseguenza delle confische. Del commercio della Penisola Iberica con Roma, i cui principali porti di partenza erano Emporiae, Nova Carthago e soprattutto Gades, fanno ampia testimonianza le anfore del Testaccio, le stationes dei navicularî del piazzale delle corporazioni di Ostia, e numerose iscrizioni oltre che di Roma e di Ostia anche di Pozzuoli.
Giova infine ricordare che la Spagna, come aveva dato gran numero di mercenarî a Cartaginesi e Romani prima e durante le guerre di conquista, così continuò a offrire un largo campo di reclutamento all'esercito imperiale, sia alle milizie urbane, nelle quali i provinciali spagnoli furono tra i primi ad essere ammessi, sia alle legioni e alle milizie ausiliarie.
Sotto tutti gli aspetti pertanto la conquista morale della Penisola Iberica appare come una delle più profonde ed efficaci operate da Roma, sì che i frutti di essa durarono e durano nei secoli.
Le origini del cristianesimo. - Le origini del cristianesimo in Spagna sono avvolte in un profondo mistero intorno al quale la leggenda si è compiaciuta tessere le sue trame favoleggiando, secondo una tradizione che non ci riconduce oltre il sec. VIII, la venuta in Spagna dell'apostolo S. Giacomo, il quale vi sarebbe giunto verso il 40. Più fondata la tradizione di un viaggio spagnolo di S. Paolo il quale, scrivendo ai Romani, annunciava effettivamente a due riprese (Romani, XV, 24, 28) la sua intenzione di fermarsi a Roma quando sarebbe andato in Spagna. Ma ebbe poi luogo effettivamente questo viaggio? o invece S. Paolo, giunto a Roma in circostanze tanto diverse da quelle da lui immaginate, non lasciò più la città perché vittima della repressione neroniana del 64? È noto che per ammettere il viaggio spagnolo di S. Paolo occorre anche ammettere che l'apostolo sia stato liberato dalla sua prigionia, si sia recato in Spagna, di qui in Oriente, e quindi di nuovo a Roma dove avrebbe sofferto il martirio verso il 67. Ma questa ipotesi, necessaria d'altronde per collocare cronologicamente in qualche modo le cosiddette epistole pastorali, è rigettata da coloro che non ammettono appunto l'autenticità di queste epistole in base ad argomenti interni. D'altra parte occorre ricordare che nella Prima Clementis, scritta da Roma verso la fine del sec. IV, si afferma che Paolo soffrì il martirio dopo essersi costituito araldo del verbo divino in Oriente e in Occidente (κήρυξ γενόμενος ἔν τε τῇ ἀνατολῇ καὶ ἐν τῇ δύσει) usando una espressione, τὸ τέρμα τῆς δύσεως, abbastanza caratteristica, si afferma, "perché vi si possa vedere una designazione equivalente della Spagna e che ricorda l'Hesperia ultima di Orazio, e l'extremique orbis Iberi di Lucano". Anche il Canone muratoriano, redatto probabilmente a Roma verso la metà del sec. II, attesta la realtà del viaggio di Paolo in Spagna. Tuttavia, nonostante questi indizî, anche uno storico conservatore come il benedettino H. Leclercq ha potuto scrivere che "la storia reclama delle certezze più positive e, poiché non è possibile, in questo caso, produrle, il viaggio di S. Paolo in Spagna non esce dai limiti della verosimiglianza". Opinione questa che potrebbe anche essere definita ottimistica da chi consideri il fatto che, comunque si vogliano interpretare i testi addotti, manca assolutamente nella storia del cristianesimo spagnolo quella traccia profonda che l'apostolo ha sempre lasciata dovunque egli è passato. Una notizia riferita dal "Piccolo martirologio romano" afferma che, dopo il viaggio di S. Paolo, la Spagna fu visitata da sette vescovi inviativi da S. Pietro, che avrebbero fondato alcune chiese nella regione fra le Betica e la Tarraconense. Se questa notizia va considerata come assolutamente leggendaria, essa ha tuttavia importanza sia perché adombra un fatto assai probabile (come risulterebbe dalla storia dei rapporti delle chiese spagnole con la chiesa di Roma) ricollegando il primo fiorire del cristianesimo in Spagna con l'Italia (non va peraltro dimenticato che la storia del cristianesimo spagnolo ci mostra questo in ottimi rapporti con le chiese africane, il che fa pensare che anche l'Africa abbia recato il suo contributo alla cristianizzazione della penisola), sia perché indica la zona dove effettivamente il cristianesimo dovette fare la sua prima apparizione.
Comunque sìa di tutto ciò, Ireneo alla fine del sec. II, afferma esplicitamente che il cristianesimo si è diffuso in Spagna (Adversus haereses, I, 10) e Tertulliano, pochi decennî dopo, può vantare che oramai "Hispaniarum omnes termini" sono stati raggiunti dalla propaganda cristiana (Adversus Iudaeos, 7). Eppure bisogna attendere ancora fino alla metà del sec. III perché il cristianesimo spagnolo dia la prima traccia di sé. L'episodio, che va collocato nella cornice della famosa controversia battesimale fra S. Ciprîano e Stefano II e sul quale siamo ampiamente informati dalla lettera LVII (ed. Bayard) del vescovo di Cartagine, ci mostra due vescovi spagnoli, Marziale di Emerita Augusta (Mérida) e Basilide di Legio (León), che per avere ricevuto il libello di sacrificio durante la persecuzione di Decio, erano stati deposti dall'episcopato. Reintegrati da papa Stefano, sorpreso nella sua buona fede, a richesta del clero e dei fedeli delle due chiese, sono formalmente dichiarati indegni dell'episcopato dal concilio di Cartagine del 254. Pochi anni appresso Fruttuoso vescovo di Saragozza, con i due diaconi Eulogio e Augure, soffriva il martirio durante la persecuzione di Valeriano. Notizie di altri martiri spagnoli della persecuzione di Diocleziano si possono ricavare, con una certa cautela, dal Peristephanon di Prudenzio. Il cristianesimo doveva essersi effettivamente diffuso su larga scala in Spagna: deduzione questa ampiamente confermata dagli atti del concilio di Elvira, il più antico concilio di cui ci siano stati conservati canoni disciplinari. In una località corrispondente all'odierna Alarife, a circa 8 km. da Granata, si radunarono, verso l'anno 300, 19 vescovi spagnoli, rispettivamente: per la Galizia, il vescovo di Legio (León); per la Tarraconense, il vescovo di Caesaraugusta (Saragozza); per la Lusitania i vescovi di Emerita (Mérida), Ossonova (Faro) ed Evora; per la Cartaginense i vescovi di Acci (Guadixi, Castulo, Mentesa, Urci Toletum, Salavia, Eliocroca, Basti; per la Betica i vescovi di Corduba, Hispalis (Siviglia), Tuccis, Ipagrum, Illiberis, Malaca. Negli atti è ancora ricordo dei rappresentanti, preti, di altre 13 chiese almeno. Il documento non ci permette di constatare con sicurezza quale fosse, allora, l'organizzazione della chiesa spagnola, che sembra non conoscesse ancora l'istituzione metropolitana. Il canone 58 parla bensì di quel luogo "in quo prima cathedra constituta est episcopatus", ma questo testo, nel quale si potrebbe vedere un accenno a una gerarchia fra le diverse chiese stabilite nelle città spagnole, è troppo vago, tanto che, ad es., il Batiffol l'interpreta come un'allusione alla supremazia romana (P. Batiffol, La "prima cathedra episcopatus" du concile d'Elvire, in The journal of theological Studies, 1922, pp. 263-270). Solo in seguito, quando l'organizzazione ecclesiastica manifestò la tendenza a modellarsi sull'organizzazione civile, la chiesa spagnola fu divisa in sei sedi metropolitane: Bracara, Emerita, Hispalis, Toletum, Caesaraugusta, Palma, rispettivamente per la Galizia, la Lusitania, la Betica, la Cartaginense, la Tarraconense e le Baleari. Fra tutte queste sedi, importanza particolare, come sede del vicario di Spagna, ebbe, dall'epoca costantiniana, quella di Siviglia, sostituita, di fatto o di diritto, in epoca visigotica, da quella di Toledo.
Gli atti del sinodo di Elvira hanno una grandissima importanza, perché ci permettono di precisare quali fossero le caratteristiche del cristianesimo spagnolo prima dell'editto di Milano, caratteristiche sulle quali il triste episodio di Basilide di León e Marziale di Mérida aveva già dato un indizio assai significativo. Accanto a una parte della chiesa perfettamente consapevole dei doveri che incombono al cristiano (lo mostra la stessa severità delle sanzioni previste dai canoni), la gran massa dei cristiani spagnoli, laici ed ecclesiastici, non sembra facesse una distinzione netta fra paganesimo e cristianesimo: il concilio rivela l'esistenza di cristiani esercitanti il flaminato, direttamente o per mezzo di supplenti; di catecumeni che per avere maggiore libertà d'azione rimandavano l'iniziazione cristiana fino al letto di morte; di cristiani che esercitavano le magistrature; di aristocratiche cristiane crudeli fino al punto di uccidere i proprî schiavi; di gente che non rifuggiva dal ricorrere alle arti magiche per procurare la morte dei proprî nemici. Il concilio denuncia altresì la piaga dei matrimonî misti fra cristiane e sacerdoti pagani, l'esistenza di padroni che consentono ai loro schiavi l'esercizio dei culti pagani. La stessa vita morale dei fedeli spagnoli lascia molto a desiderare: non v'è disordine morale o vizio, anche dei più gravi e abbietti, che i padri del concilio non denuncino e reprimano a carico dei fedeli, laici, ecclesiastici e persino vescovi. Questo strano miscuglio di pratiche pagane e cristiane, questo accostamento di mentalità e posizioni contrastanti, questa deficiente coscienza morale del cristianesimo spagnolo, si accompagna e trova in gran parte la sua spiegazione nell'atteggiamento totalmente assenteistico e indifferente di esso (e sono proprio gli Atti di Elvira a rivelarlo in modo clamoroso) di fronte a quei dibattiti religiosi, a quelle querele dottrinali, che rivelano, già nel sec. II, l'intrinseca vitalità delle cristianità coeve, affermatesi nelle altre regioni dell'Occidente romano. Questo carattere incerto, avventizio e superficiale del cristianesimo spagnolo, rivelato dalle sollecite preoccupazioni dei padri di Elvira, se da una parte conferma le difficoltà che s'incontrano nel voler legare le origini del cristianesimo spagnolo a una personalità come quella di S. Paolo, è d'altra parte la chiave di vòlta per spiegare gli sviluppi ulteriori della cristianità di Spagna dopo la "pace costantiniana" sopravvenuta solo pochi anni dopo il concilio di Elvira. Assente sostanzialmente nella controversia ariana (non è il caso d'insistere qui sulla personalità di Osio di Cordova, l'azione del quale si svolge quasi esclusivamente fuori dell'ambito della chiesa spagnola), come lo sarà in quella pelagiana (anche l'attività antipelagiana di Paolo Orosio si svolge fuori della Spagna), la chiesa spagnola che produce dal suo seno poeti e letterati mediocri (come Giovenco e Prudenzio) invece di teologi (unica eccezione il luciferiano Gregorio di Elvira), ha la sua prima e caratteristica crisi religiosa, prima e unica all'epoca antica, nell'episodio priscillianista. Ma per comprendere la genesi intima di questo movimento e le ragioni profonde della sua diffusione bisogna rifarsi precisamente a quelle constatazioni suggerite dal sinodo di Elvira. Se da una parte Priscilliano (per i particolari, v. priscilliano) si mostra in un certo senso aderente allo spirito singolarmente sincretistico del cristianesimo spagnolo nella sua stessa mancanza di un orientamento teologico ben definito e in quel suo affannarsi intorno a formule posizione cristiana e preoccupazioni derivate dalla lettura di Apuleio e di Firmico Materno, che da una consapevolezza esatta dei valori dottrinali del cristianesimo; d'altra parte rivela e testimonia l'intima insufficienza e mediocrità morale del cristianesimo spagnolo attraverso l'indirizzo rigidamente ascetico e rigorista da lui impresso al suo movimento, in opposizione marcata alla corruzione e allo spirito accomodante di tanta parte del clero e dell'episcopato spagnoli a lui ostili. Itacio, il grande avversario di Priscilliano, "doveva avere poca simpatia - ha scritto il Leclercq - per dei fedeli, i priscillianisti, la cui vita mortificata condannava la sua intemperanza. Là deve ricercarsi la ragione del suo odio per Priscilliano. Ma non si tratta di una ostilità personale: Itacio e Priscilliano sono rappresentativi di una società intera". Le parole accorate che Sulpicio Severo rivolge, a conclusione della sua Chronica, contro i vescovi cortigiani avversarî di Priscilliano, sono la miglior conferma di ciò che si è detto; e d'altra parte lo sdegno sollevato per ogni dove dalla brutale esecuzione di Priscilliano e dei suoi compagni non spiegherebbe da solo il persistere del priscillianesimo per oltre un secolo nelle regioni settentrionali della Spagna, se in fondo al movimento non si dovesse vedere anche una reazione di una parte del cristianesimo spagnolo contro il vizio d'origine che minava la compagine dell'altra parte, la maggiore. Su questo terreno, giunge l'arianesimo degl'invasori Vandali, Alani e Visigoti. La chiesa spagnola non sa opporre alcuna resistenza e passa dal cattolicismo all'arianesimo e da questo al cattolicismo (con Recaredo, nel 587), quasi senza difficoltà, secondo la volontà dei nuovi dominatori. I concilî generali della Spagna, tenuti a Toledo, sono più che altro le assemblee nazionali della monarchia visigotica, fedeli esecutrici della volontà del sovrano.
La dominazione visigota. - Dopo numerosi attacchi, superata infine la resistenza dei Baschi, già da molti anni accaniti difensori dell'indipendenza della propria terra, nel 409, ai Vandali, ad alcune schiere di Alani e a un ramo degli Svevi riuscì di attraversare le gole dei Pirenei. Buona parte della Penisola Iberica fu saccheggiata; e poi, intorno al 411, gl'invasori così si ripartirono il paese: gli Svevi e i Vandali Asdingi presero dimora nella Galizia, gli Alani nella Lusitania e nella Cartaginense, i Vandali Silingi nella Betica. La provincia Tarraconense restò in dominio dei Romani, che inoltre continuarono a reggere le città più importanti delle altre provincie. Qualche anno dopo un nuovo pericolo apparve sull'orizzonte, ché nel 415, costretti a passare i Pirenei, i Visigoti occuparono Barcellona, dove il loro re Ataulfo cadde ucciso. Tuttavia, con il successore Walia, questi ultimi accettarono d'essere foederati dell'impero, sconfissero i Vandali Silingi e gli Alani - che allora si unirono agli Asdingi e si sottomisero al loro sovrano - e dopo la vittoria abbandonarono la penisola per stabilirsi nell'Aquitania, ad essi conceduta da Onorio (418). Inoltre, scoppiata la discordia tra gli Svevi e i Vandali, questi ultimi insieme con gli Alani si trasferirono nella Betica (420), e, dopo avere battuto le forze romane e visigote del magister militum Castino, saccheggiato le Baleari e conquistato Cartagena e Siviglia, già presidiate da guarnigione romane, nel 429 con Genserico preferirono passare nella Mauretania.
Ma breve durata ebbe questa parziale restaurazione romana, se pure merita questo nome. Nella penisola restavano sempre gli Svevi; nelle campagne della Tarraconense ben presto cominciò ad assumere forme paurose una rivolta di contadini (bagauda); e le lotte intestine dell'impero, mentre indebolivano ogni giorno di più la sua capacità di resistenza contro l'assalto dei nemici, rendevano incerto l'atteggiamento dei suoi foederati, che alle turbinose vicende di tali lotte subordinavano il rispetto del foedus. Così, prima che la morte lo cogliesse gloriosamente sui campi catalaunici nella lotta contro gli Unni (451), nella quale le sue truppe furono accanto a quelle dei Romani, dei Franchi e dei Burgundî, il visigoto Teodorico I nei periodi di guerra contro l'impero combatté anche nella Spagna romana, ora a favore, ora contro, ora indipendentemente dagli Svevi. E questi, o per l'aiuto avuto o traendo profitto dalla situazione, poterono estendere i proprî dominî nella Betica e nella Cartaginense e giungere a conquistare Saragozza. In seguito, l'ascesa al trono imperiale di Avito, sostenuto dai Visigoti (455), portò questi ultimi a combattere di nuovo in favore dell'impero: la sommossa dei bagauda fu soffocata e re Teodorico II riuscì a fermare per sempre i progressi del regno degli Svevi, che, dopo qualche anno, fu travolto dalla guerra civile e quasi scomparve dalla storia per riapparirvi soltanto il giorno prima della sua fine. Ma l'accordo non sopravvisse al governo di Avito; e, di contro, brevissima durata ebbero anche i successi di Flavio Giuliano Maioriano, che personalmente mosse contro i Visigoti per ridurre i loro dominî nella Gallia e per frenare le loro incursioni nella Penisola Iberica. Egli fu l'ultimo imperatore che toccò il suolo spagnolo (460). Poi gli avvenimenti precipitarono. Mentre l'impero si sfasciava, ai Visigoti non riuscì difficile ampliare i proprî possedimenti nella Gallia; e, sostituite alle precedenti scorrerie spedizioni di effettiva conquista, verso il 470 il loro re Eurico poté divenire signore di gran parte della Spagna: ad eccezione, cioè, della Galizia e di una zona, a confini malsicuri, della Lusitania, che restarono in possesso degli Svevi, e di alcuni vasti territorî montuosi che la nobiltà indigena o ispano-romana riuscì a conservare indipendenti. Inoltre, qualche anno prima della sua morte, il monarca provvide anche a codificare di nuovo il diritto nazionale del proprio popolo. E forse appartiene al suo tempo la divisione delle terre tra gl'invasori e i proprietarî ispano-romani, la quale è da ritenere che si compisse almeno parzialmente con i criterî che già gli Svevi avevano applicati nella regione nord-occidentale, che gli stessi Visigoti avevano seguiti in Aquitania e che, del resto, erano stati fissati nel foedus.
Lo stato di Eurico (467-85), che in Tolosa aveva la propria capitale, divenne allora il più potente organismo politico dell'Occidente. Ma era appena formato che poco mancò non crollasse. All'avanzata di Clodoveo e dei Franchi, che, come cattolici, potevano dare quasi un carattere di crociata religiosa alla propria guerra contro i Visigoti ariani, e anche per questo trovavano valido aiuto nell'elemento romano, Alarico II (485-507) tentò di resistere opponendo le armi alle armi e, per conquistarne l'animo, mostrandosi tollerante verso i cattolici e (506) facendo codificare il diritto dei sudditi romani (Lex romana Visigothorum o Breviarium alaricianum). Ma a Vogladum egli fu vinto e ucciso (507); e i suoi vennero ricacciati verso i Pirenei.
Il colpo era ben rude. La monarchia con la Gallia perdeva il suo centro; e non soltanto non aveva la forza necessaria per riconquistarla, sibbene vedeva messa in pericolo la sua stessa esistenza. La Penisola Iberica, sulla quale ormai doveva fare quasi esclusivo affidamento, era paese di troppo recente conquista per poter divenire subito suo valido sostegno. Per di più, poiché la conversione al cattolicismo di Clodoveo aveva dato nella Gallia un nuovo indirizzo alla tradizionale politica delle monarchie barbariche verso le popolazioni cattoliche dei paesi invasi, si era rafforzato in queste ultime il loro naturale desiderio di riscossa, e quindi si era resa più difficile la convivenza degli ariani con i cattolici e precaria la vita degli stati, come quello dei Visigoti, nei quali l'arianesimo era la religione dell'invasore. E finalmente, le contese per la successione al trono, abituali presso i popoli, come il visigoto, la cui monarchia era elettiva, e rese ora più gravi dalla sconfitta, avevano indebolito il potere del governo e facilitavano la marcia del nemico che, spintosi sino a Narbona, sembrava tutt'altro che disposto a porre fine alle proprie conquiste. Tempestivo fu allora l'intervento di Teodorico, accorso in aiuto del nipote Amalarico e rimasto effettivamente al governo sino alla propria morte (526). I Visigoti, è vero, perdettero la Provenza, che il sovrano ostrogoto prese per sé; ma l'avanzata franca fu fermata e un ordine almeno relativo venne instaurato nel paese. Il resto lo fecero, da un lato, la sopravvenuta certezza che fosse impossibile togliere il frutto delle loro vittorie ai Franchi ormai troppo rafforzatisi: la quale persuase gli sconfitti ad abbandonare il programma della rivincita, a ripiegare dalle antiche posizioni, a ricercare una stabile sistemazione nella Penisola Iberica; e, dall'altro, la capacità di rassodarsi in un paese di civiltà romana e la duttilità nel sapersi adattare alla situazione, che non facevano difetto ai Visigoti.
Infatti questi, ancora prima del loro arrivo nella Gallia, avevano sentito l'influsso di quella civiltà, e poi ne avevano tratto sempre maggiore profitto nella loro secolare dimora nella nuova sede. Ed anzi qui avevano avuto modo di acquistare esperienza nell'arte di organizzare lo stato, quando, dal continuo progredire della loro vita portati a modificare gradualmente la sua costituzione a carattere militare, sul principio coesistente con quella politico-amministrativa romana del paese invaso, e a ridurre il distacco con i suoi abitanti, erano stati costretti ad affrontare il complesso problema ed avevano cominciato a risolverlo attenuando sempre più il dualismo politico, fra l'altro con l'affidare molte cariche pubbliche all'aristocrazia provinciale, e avviandosi ad assicurare una base territoriale al proprio stato.
Finita la tutela ostrogota, il successo non arrise alla politica di avvicinamento ai Merovingi tentata da Amalarico, e avversa gli fu anche la sorte delle armi: vinto da Childeberto, il re venne ucciso dai proprî soldati. Allora, costretto a modificare tale linea di condotta, il suo successore Teudi (531-48) prese a seguirne una peculiarmente spagnola. Così, mentre all'interno si rivelava degno continuatore dell'opera pacificatrice di Teodorico, nei suoi rapporti esterni il nuovo sovrano non si limitò a respingere i Franchi giunti fin sotto le mura di Saragozza, sibbene rivolse il proprio sguardo anche alla frontiera meridionale dello stato e, per garantirla contro una possibile offensiva bizantina, mosse contro la Mauretania nel vano sforzo di toglierla ai Vandali, ll cui avvenire era già segnato. In seguito, Agila (549-54) tentò di fare un passo in avanti, e cercò, ma con poca fortuna, d'impossessarsi dei territorî della Betica e della Cartaginense che erano ancora in dominio della nobiltà ispano-romana. Finalmente la radicale trasformazione delle direttive di governo fu affrettata dai gravissimi rivolgimenti che provocarono e accompagnarono il colpo di stato compiuto da Atanagildo, quando l'elemento cattolico-romano insorse contro il tentativo di Agila e, chiamati dall'usurpatore per averne aiuto, i Bizantini penetrarono proprio nelle regioni dove più viva ardeva la lotta e ne accrebbero l'intensità: e tutto ciò, mentre sulle frontiere tornava a farsi pericolosa la pressione dei Franchi e riapparivano minacciosi gli Svevi, che, convertitisi al cattolicismo sotto re Teodomiro (559-70), ricominciarono ad aver parte nella vita della penisola, e, gettatisi nella contesa con l'ardore dei neofiti, sembrò volessero riconquistare in breve quanto avevano perduto un secolo prima. Allora, dal seno stesso della monarchia scaturì la decisiva reazione salutare.
In un primo tempo si provvide a rafforzare l'autorità del monarca e ad estenderla su tutta la penisola, creando una salda unità iberica: naturalmente, in questa sua prima fase il movimento assunse il carattere di riscossa nazionale visigota. Lo stesso Atanagildo (554-67), ottenuto il trono, mosse contro i suoi antichi alleati, e cioè contro i Bizantini e la nobiltà cattolico-romana; eliminò il pericolo franco stringendo rapporti di parentela con i Merovingi; scelse Toledo, al centro della penisola, come capitale del suo stato. Poi, il rassodamento militare e territoriale della monarchia si compì sotto Leovigildo (567-86), che così acquistò la fama d'esserne stato il vero fondatore. In continua lotta contro i nemici interni ed esterni, in gran parte fra loro coalizzati, represse energicamente le rivolte cittadine della nobiltà; conquistò i dominî di quest'ultima, come il territorio dei Montes Aregenses (forse l'attuale provincia di Orense), e la provincia Oróspeda; ridusse le conquiste dei Bizantini; tolse gran parte del loro secolare ardire ai Baschi, che furono ricacciati sui monti e tenuti a freno dalla fortezza di Vittoriaco (Vitoria) costruita contro di essi (581); rafforzò la diîesa dei possedimenti che a tutela dei Pirenei i Visigoti conservavano nella Gallia; nel 585 pose fine al regno svevo e ne occupò i territorî.
Alla morte del sovrano la monarchia ormai abbracciava tutta la penisola: i Bizantini, ridotti alle coste, che presero a scorrere, anche di qui saranno cacciati fra una trentina d'anni da Sisebuto (612-20) e da Suintila (621-31), e quest'ultimo contro i Baschi costruirà Oligitum (Olite?). Occorreva provvedere alla sua organizzazione interna.
Nel fervore della lotta Leovigildo aveva acuito il distacco fra Visigoti e popolazione indigena: ai primi aveva dato una riforma sistematica del codice di Eurico, forse modellata sull'esempio giustinianeo, e nei riguardi della seconda si era mostrato irriducibile avversario del cattolicismo. Ma a vittoria raggiunta non si poteva più insistere in tale linea di condotta. Anche se vinto, l'elemento ispano-romano era pur sempre il predominante per numero, ricchezza, civiltà; la sua forza si era accresciuta dopo l'annessione del regno degli Svevi, già convertiti; e la differenza religiosa, come nel passato, era destinata a rendere più profonde le lotte civili. Per di più, da tempo il cattolicismo era penetrato tra le fila dei Visigoti, e durante il regno di Leovigildo aveva conquistato l'animo di suo figlio Ermenegildo, che, insorto contro il padre, era caduto nella lotta ed era stato elevato agli onori dell'altare. Inoltre, la stessa reazione dei Visigoti era da ritenere passeggera, perché ormai il loro sentimento nazionale era stato troppo affievolito dalla romanizzazione, e sempre minore diveniva il loro distacco morale e materiale dal mondo romano circostante. E, finalmente, per soffocare lo spirito di rivolta proprio della nobiltà visigota, per tradizione incline al regicidio, si dovette finire col considerare utile la contrapposizione ad essa di un'aristocrazia ecclesiastica. Così Recaredo (586-601), figlio di Leovigildo, si convertì al cattolicismo; convocò il terzo concilio di Toledo (589), con il quale s'iniziò la partecipazione ufficiale al governo dell'alto clero; cominciò la repressione delle rivolte ariane, poi continuata dai suoi successori. Un altro passo in avanti si fece, in seguito, con Chindasvindo (641-52), che fino dal principio del suo regno volle fosse respinto nei giudizî quanto era frutto di violenza e di arbitrio da parte del giudicante, e con le sue costituzioni preparò l'abolizione della dualità dei diritti. E quest'opera di unificazione, che annullava le differenze di razza, fu completata da suo figlio Reccesvindo (649-72), il quale permise i matrimonî misti, e intorno al 654 pubblicò il Liber iudiciorum (la Lex Visigothorum per eccellenza), che fu esteso ai due popoli. Il diritto romano, è vero, fu allora abrogato; tuttavia, molti suoi elementi già da tempo erano penetrati nella legislazione visigota, alla quale, dopo la conversione religiosa, ȧveva dato il suo contributo il diritto canonico.
Così lo stato visigoto vide perfezionati gli ordinamenti che si era dati gradualmente, adattando le consuetudini del popolo dominatore e le esigenze del momento alle particolari condizioni nelle quali l'invasore aveva trovato il paese, già travolto dalla crisi che aveva colpito tutto l'impero. La monarchia restò elettiva. Le disuguaglianze sociali, esistenti negli ultimi tempi dell'impero, furono conservate: anzi, vincoli sempre maggiori limitarono la libertà personale; il "colonato" ebbe grande sviluppo; per la ben scarsa protezione che lo stato poteva concedere ai sudditi, ansiosa si fece la ricerca di un "patrono" da parte dei piccoli proprietarî o dei liberi lavoratori. Continuò il processo di accentramento in poche mani della proprietà fondiaria, e quindi crebbe l'estensione dei latifondi, che avevano cominciato a formarsi prima delle invasioni. Divenuti, questi, centri di vita, si aggravò la decadenza della città, già esausta di uomini e di risorse, e ora trascurata dall'invasore che non aveva tradizioni cittadine. Lo scarso lavoro industriale continuò ad essere organizzato con il sistema corporativo. Furono conservate soltanto in parte le tradizioni romane circa lo sfruttamento di alcune miniere e la lavorazione dei tessuti e dei metalli. Ma in tal modo, più che sanati, finirono con essere stabilizzati gli effetti della crisi che i Visigoti avevano trovato in atto al loro arrivo, e, sotto alcuni aspetti, anche aggravati. Per di più, a penisola unificata, per il popolo invasore cessò qualsiasi possibilità di un'ulteriore espansione; per il perfezionamento dell'organizzazione dello stato sulla base di una comunanza di vita e d'interessi con le popolazioni indigene, tramontò anche la sua condizione di privilegio; e cominciò per esso l'epoca del ripiegamento dalle precedenti posizioni d'avanguardia e quindi del disarmo. Finalmente, gl'indigeni, già allontanati dalla vita politica nei primi tempi dell'invasione, si disinteressarono del nuovo stato che non era opera loro o non riuscirono a rafforzarlo: ad es., fallì la politica ecclesiastica tendente a dare effettivo potere al monarca, continuamente in lotta con la nobiltà; e quindi inutili, talvolta dannosi, si rivelarono i concilî di Toledo, ai quali partecipavano l'aristocrazia, i funzionarî di grado più elevato, sempre l'alto clero, e che, corpi consultivi, liberamente convocati dal sovrano per avere il loro parere e il loro aiuto, almeno in teoria non avrebbero dovuto diminuirne l'autorità e anzi avrebbero dovuto permettere alle classi più potenti e colte di avere qualche parte nel governo e di collaborare alla vita del nuovo organismo politico. Allora, la crisi, che già aveva provocato la fine dell'impero, per la diversità della situazione assumendo nuove forme nel campo politico, ebbe uguali conseguenze deleterie per lo stato visigoto.
Re Wamba (672-80) cercò di arginarla organizzando militarmente il paese; e a tale scopo impose una specie di servizio obbligatorio e comminò la pena dell'infamia per i renitenti. Ma la sua legge suscitò le proteste generali, non escluse quelle della Chiesa, che nella leva aveva veduto compresi i proprî servi; e così forte fu l'opposizione e così alto il numero dei disertori che re Ervige (680-687) dovette abrogarla, affermando che altrimenti la pena minacciata avrebbe dovuto colpire la maggior parte del popolo. Allora non fu più possibile frenare la turbolenza della nobiltà e dell'alto clero, che presero a disporre della porpora regia e a legiferare nei concilî; l'intemperanza religiosa, che alla fine del secolo settimo divenne feroce contro gli Ebrei e da questo tempo cominciò a dare un peculiare carattere alla storia della Spagna, accrebbe il numero dei nemici interni; e la messa al bando di coloro, come gli Ebrei, che dominavano la finanza del paese, rese più acuta la generale crisi economica.
Molto poco si sa degli ultimi anni di vita della monarchia: sembra che, per impedire la loro rivolta, Witiza (701-09) facesse abbattere le mura di gran parte delle città, e la colpa di un'errata politica verso la Chiesa e tristi accuse di dissolutezza furono attribuite e rivolte a lui e al suo successore Rodrigo, salito sul trono nel 710 per un colpo di stato. Soltanto di un'amara verità non si può dubitare: la rapida conquista che della penisola poterono fare gli Arabi.
La dominazione araba. - La conquista. - La stessa incertezza regna sulle cause che determinarono l'invasione araba e sulle vicende della campagna di conquista.
Qualche secolo dopo, mescolando elementi storici ed elementi fantastici attinti un po' dappertutto, i cristiani spagnoli, già avanti nella guerra di riscossa e desiderosi di spiegare e giustificare la propria iniziale sconfitta, in una serie di leggende intorno a Rodrigo attribuirono a un conte Julián, governatore di Ceuta, la triste colpa di avere lanciato i musulmani contro il regno dei Visigoti perché vendicassero l'oltraggio fatto a sua figlia; e, rivivendo le passioni e gli odî dei primi anni del sec. VIII, della massima offesa arrecata all'onore di una donna fecero responsabile o Witiza o Rodrigo. Ora, fino dai tempi di re Wamba i musulmani dell'Africa del Nord avevano pensato ad una scorreria sulla costa iberica, e durante il suo governo si era avuto il primo scontro tra la flotta visigota e quella araba, che era stata battuta.
In seguito, a tentare di nuovo l'impresa dovettero essere spinti dai gravissimi disordini che salutarono l'ascesa al trono di Rodrigo e che, nel paese dominato da una turbolenta aristocrazia, trovarono alimento nella discordia scoppiata tra i sostenitori dei diritti dei discendenti di Witiza e i partigiani del nuovo monarca, fattasi tanto profonda che era ancora viva secoli dopo, quando s'iniziò la formazione delle citate leggende. E molto probabilmente, in tale stato di cose, il loro intervento invocò, certamente sperò di utilizzare, quello dei due contendenti che non aveva il trono e desiderava di conquistarlo.
Sembra che l'invito partisse da Olian, il conte Julián delle leggende, ma in realtà berbero cristiano, capo della tribù di Gomera nella Mauretania del Nord, secondo alcuni suddito del re visigoto, secondo altri dell'imperatore bizantino: il quale, dopo avere resistito a lungo contro l'assalto degli Omayyadi, all'ascesa al potere di Rodrigo, finì col cedere Ceuta a Mūsà ibn Nuṣair, governatore dell'Africa musulmana, e lo consigliò e con il miraggio di un largo bottino lo persuase a muovere contro la Penisola Iberica (ottobre 710). Seguì una fortunata scorreria di Ţārif che, sbarcato là dove poi sorse Tarifa, si spinse fino ad Algeciras (luglio 710). E poi, nell'aprile del 711, con alcune migliaia di soldati, in gran parte reclutati fra i Berberi seguaci di Olian, Ţāriq ibn Ziyād andò a stabilirsi nel luogo che dal suo nome venne chiamato Gibilterra. Allora Rodrigo mosse contro l'invasore. Ma la battaglia decisiva, detta del Guadalete e combattuta sulle rive del Río Salado tra Medina Sidonia e Vejer de la Frontera (luglio 711), non gli fu fortunata, ché al momento opportuno dalla parte del nemico passarono quelle delle sue truppe che erano sotto gli ordini dei figli di Witiza. Non si sa se lo stesso sovrano cadde ucciso: forse riuscì a salvarsi con la fuga per tentare di nuovo, due anni dopo, la sorte delle armi, che anche questa volta gli fu avversa, a Segoyela (Salamanca): ma dell'esistenza di questa battaglia (settembre 713) non si è del tutto sicuri. Certamente Ţāriq poté continuare la sua fruttifera razzia fino nel centro della penisola, e nello stesso anno 711 entrò in Toledo, la capitale del regno visigoto.
Il paese non fece resistenza alcuna, forse perché Witiza lo aveva privato, con i mezzi di offesa, anche dei mezzi di difesa; forse perché si ritenne che quella del condottiero arabo fosse una passeggera incursione; e, del resto, a quest'ultimo si era unito uno dei partiti in lotta, e l'altro era battuto. Ma, se pure ebbe qualche resipiscenza - starebbe a dimostrarlo la resistenza opposta, sembra, da Mérida e da qualche altra città - il paese non seppe, o non poté, o non volle organizzare una valida resistenza neppur quando nel 712, all'arrivo di Mūsà con rinforzi, la scorreria si trasformò in spedizione di stabile conquista; e quando alla fine dell'anno dopo in Toledo il califfo di Damasco fu proclamato sovrano della regione occupata. I privilegi e gli onori dati ai figli di Witiza e ai loro sostenitori, locali dissidî politici, la tolleranza religiosa, i favori conceduti agli Ebrei, specialmente la lieta accoglienza fatta dalla popolazione rurale e da almeno una parte della cittadina, le quali sperarono un miglioramento della propria triste situazione da un cambiamento politico e da un alleviamento del fiscalismo visigoto subito promesso dall'invasore, resero facile a quest'ultimo l'occupazione (rinnovandosi in Spagna quanto già era avvenuto nella Mesopotamia, nella Siria e nell'Egitto) e l'atteggiamento delle classi popolari diede all'avvenimento il carattere di una profonda rivoluzione sociale. Certo si è che gli Arabi soltanto al dilà dei Pirenei furono fermati dal franco Carlo Martello a Poitiers, ove cadde il loro emiro ‛Abd ar-Rāḥmān al Ghāfiqī (732): sicché, nel tentativo di ripercorrere in senso inverso la strada già battuta dai Visigoti, di assicurarsi il possesso dei territorî che questi avevano conservato nella Gallia sino al giorno della fine della loro dominazione, di dare ai Berberi avidi di bottino nuovi paesi da saccheggiare, dovettero decidersi ad abbandonare la speranza in ulteriori conquiste. E nella Penisola Iberica, più che da una reazione cattolica, tra il 732 e il 756 il loro dominio fu messo in pericolo dalle lotte civili che scoppiarono tra gl'invasori. Infatti, fra le tribù arabe, che avevano conservato la propria compagine e che appartenevano specialmente all'Arabia meridionale, si riaccesero quei dissidî che già avevano reso turbolenta la vita della patria d'origine, e i conflitti assunsero proporzioni maggiori all'arrivo di nuove schiere di musulmani, come quelle provenienti dalla Siria: i capi delle une e delle altre, formanti la nuova aristocrazia, presero a disporre del potere, in una confusa ridda di colpi di stato, di congiure, di scontri sanguinosi. E inoltre gravissima fu la lotta fra Arabi e Berberi, che, già scoppiata in Africa e per poco tempo calmatasi in Spagna, dove i Berberi erano stati condotti perché vi sfogassero il loro ardore, qui risorse con rinnovellata forza. I Berberi, malcontenti per aver avuto nella spartizione dei territorî le regioni più povere (Galizia, Asturie, León), sebbene la conquista della penisola fosse stata in gran parte opera loro, insorsero per ottenere una rettifica di tale divisione; e, vinti e poi decimati dalla fame del 753, emigrarono in massa verso il Sud, lasciandosi dietro il deserto. Allora, la frontiera della Spagna musulmana, che aveva raggiunta la massima espansione al tempo di ‛Oqba (734-40), divenne press'a poco una linea che toccava Coimbra, Coria, Talavera, Toledo, Guadalajara, Tudela e Pamplona, e, nei Pirenei centrali, non oltrepassava Alquézar (Sobrarbe), Roda (Ribagorza), Ager (Pallás).
L'emirato indipendente. - Tuttavia, la tradizione unitaria, sopravvissuta all'invasione, impedì il prevalere definitivo dell'anarchia disgregatrice. Già ‛Abd al-‛Aziz, figlio di Mūsà e primo governatore musulmano (713-15), aveva stabilito in Siviglia una corte resa magnifica dalla presenza dell'aristocrazia gota, e, marito della vedova di Rodrigo, forse era giunto a ricercare l'aiuto dei sostenitori di questo re per rendersi indipendente da Damasco. Ma i suoi tentativi erano stati resi vani dalla reazione del partito dei discendenti di Witiza, schieratisi in favore del califfo, e dall'ostilità dei suoi correligionarî, che lo avevano ucciso, forse per evitare una sua conversione al cristianesimo, più probabilmente per impedire un rassodamento dello stato, che avrebbe posto fine alle imprese di Conquista e alle razzie. Poi, il paese fu saldamente organizzato da ‛Abd ar-Raḥmān ibn Mu‛āwiyah, nipote del califfo Hishām e uno dei pochi Omayyadi sfuggiti alla strage della sua famiglia. Nell'ansiosa ricerca di un trono, che le profezie di uno zio gli avevano promesso, dopo cinque anni vissuti in Africa e ricchi di avventure, approfittando dell'aiuto di pochi fedeli, nel settembre del 755 sbarcò ad Almuñécar, presso Málaga. Presa posizione nelle locali lotte civili, con l'appoggio di uno dei contendenti il 14 maggio dell'anno dopo seppe conquistare la vittoria ad Almozara, sul Guadalquivir, e questa gli assicurò il possesso di Cordova, dove nel luglio fu riconosciuto come emiro anche dal vinto rivale. Allora prese a governare come un vero e proprio monarca indipendente (756-88). E in continua lotta contro le varie stirpi arabe e contro i Berberi, di nuovo insorti sotto gli ordini di Chaqya, un maestro di scuola che si vantava discendente da Fāṭima figlia del Profeta, sebbene talvolta abbandonato dagli amici e tradito dai parenti, con meravigliosa energia e abilità seppe rafforzare l'unità dello stato. "Non avendo altro aiuto che la sua accortezza e la sua perseveranza - di lui scrisse il califfo ‛abbāside al-Manṣūr - seppe umiliare gli orgogliosi avversarî, uccidere i ribelli, difendere le frontiere contro gli attacchi dei cristiani, fondare un grande impero e unire sotto il suo scettro un vasto paese che sembrava diviso fra numerosi capi".
L'opera da lui compiuta era così solida, e così profonda l'esperienza che lasciava, che, varî essendo il talento e le direttive di governo dei suoi successori, pur tra il succedersi e l'accavallarsi di numerose crisi, e nonostante i gravi colpi che gl'infersero nemici vecchi e nuovi, l'organismo politico da lui creato sopravvisse al suo artefice per due secoli e mezzo.
Dopo la morte di ‛Abd ar-Raḥmān, alle precedenti ragioni di disordini altre se ne aggiunsero o le sostituirono. Grande autorità acquistarono i giureconsulti (fuqahā'), specialmente per effetto della politica religiosa dell'emiro Hichām I (788-96), figlio del morto: e insaziabile divenne la loro brama di potere, senza limiti il loro fanatismo. Insorsero, perché malcontenti della propria condizione, i "rinnegati", cioè quelli degl'indigeni che per propria volontà avevano abiurato il cristianesimo, e i muwallad, come erano chiamati i figli dei matrimonî misti, soggetti alla legge musulmana e pure mal veduti dagli Arabi e in genere esclusi dal governo dello stato, sebbene, specie i primi, fossero ricchi e, per le sempre più numerose conversioni, in continuo aumento. Alcune monarchie cattoliche, come vedremo, sorte nel frattempo nei territorî non occupati del Nord, cominciarono a muovere violenti attacchi contro l'invasore; e, sebbene per il momento non fossero molto vaste le loro conquiste, tuttavia riuscirono a compiere ardite e pericolose incursioni, s'intromisero nelle lotte civili e spinsero sempre più all'azione coloro che nel paese occupato avevano serbato la fede cattolica ed ora con crescente preoccupazione vedevano attenuata la precedente tolleranza religiosa. Inoltre, tanto tra questi quanto tra i "rinnegati" risorse il sentimento d'indipendenza; si ripresero ad usare i metodi di vita politica seguiti al tempo della monarchia visigota, promovendo congiure e rivolte; si rinnovarono i dissensi scoppiati negli ultimi giorni della sua esistenza, che resero più turbolenta la vita dello stato. E finalmente si aggiunsero le scorrerie dei Normanni, che apparvero per la prima volta nell'844, saccheggiarono Lisbona, Cadice, Siviglia, Algeciras, la provincia di Todmir, le Baleari, e poterono essere respinti soltanto quando si provvide a combatterli con navi del tipo da essi usato.
I fuqahā', protetti da Hichām I, insorsero contro suo figlio el-Ḥakam I (796-821), che, spirito libero, aveva ridotto il loro potere e, per il genere di vita che menava, era condannato dagli ortodossi; e riuscirono a sollevare la classe più bassa dei "rinnegati" e il popolo fanatico, specialmente in Cordova. Nella repressione del movimento l'emiro non risparmiò mezzo alcuno: l'8 maggio 814, per frenare il decisivo assalto mosso al suo palazzo, fece dare alle fiamme un intero quartiere della città, sicché, presi tra due fuochi, i ribelli furono spaventosamente decimati; e poi espulse quindicimila famiglie, specie di "rinnegati", le quali ripararono ad Alessandria, a Fez, nell'Isola di Creta, dove fondarono un regno: fu blando soltanto verso i fuqahā' per non alienarsi del tutto il loro potente partito. Inoltre, uguali metodi violenti si usarono contro i malcontenti, in gran parte cattolici (mozarabi), di Toledo, dove, più che altrove, era vivo il desiderio dell'indipendenza: a tradimento furono uccisi i loro capi (807). Infine, se non si riuscì a impedire una scorreria su Lisbona del re delle Asturie e la riconquista al cristianesimo di Barcellona, tuttavia si compirono ardite razzie al nord della penisola. La rivolta dei cattolici si riaccese sotto i due primi successori di el-Ḥakam, suo figlio ‛Abd ar-Raḥmān II (821-52), e suo nipote ex filio Moḥammed I (852-86): ché quelli non solo tornarono a insorgere a Mérida e a Toledo, sibbene, diretti da Eulogio e da Alvaro, per rafforzare la fede dei proprî correligionarî, presero ad usare dell'arma molto più pericolosa del martirio, che si procuravano offendendo pubblicamente la religione musulmana, e diedero inizio a quella che fu chiamata la "seconda era dei martiri". Dopo aver ordinato i primi supplizî e aver veduto la loro inutilità, per impedire il dilagare del movimento ‛Abd ar-Raḥmān, da un concilio da lui convocato invano, ottenne con le minacce la condanna della ricerca del martirio (852). Le feroci persecuzioni di suo figlio, sostenuto dai fuqahā', se costrinsero moltissimi all'abiura, peraltro fecero di nuovo insorgere Toledo, che ottenne l'aiuto di Ordoño I di León. E soltanto la disfatta di Quadacelete e numerose altre condanne a morte persuasero i cristiani ad abbandonare la lotta. Poi si aggiunsero, fra tutte le più pericolose, le insurrezioni separatiste dei "rinnegati" provinciali, che mossero alla conquista della piena indipendenza dall'emiro e dall'aristocrazia araba, e all'uno e all'altra contrapposero dei proprî re e una propria nobiltà. Toledo divenne una specie di repubblica, che Alfonso III di León pose sotto il proprio protettorato. L'antica famiglia visigota dei Banu-Qasi prese a dominare l'Aragona, e Mūsà assunse il titolo di "terzo re di Spagna". Un altro "rinnegato", ‛Abd ar-Raḥmān ibn Merwān, creò un principato di Mérida e poi si rafforzò in Badajoz. ‛Omar ibn Ḥafsūn, del pari discendente da una famiglia visigota, audacemente s'impadronì di Bobastro e divenne l'effettivo sovrano del Mezzogiorno. Infine la situazione precipitò allorché il governo fu assunto da ‛Abdallah (888-912), figlio di Mohammed I, che salì al potere dopo aver avvelenato suo fratello el-Mundhir (886-88). Allora insorse anche l'aristocrazia araba tanto contro l'emiro, quanto contro i "rinnegati"; i Berberi di nuovo si fecero avanti; Siviglia fu spaventosamente saccheggiata; il re di León che aveva portato al Duero la frontiera del suo stato, da un lato, ed i Fāṭimiti di Africa, dall'altro, presero a minacciare da presso l'indipendenza dello stato; il paese, nel confuso intrecciarsi delle lotte e per la tortuosa politica di ‛Abdallah divenne preda dell'anarchia, e ‛Omar fu sul punto di divenire emiro.
Il califfato di Spagna. - Tuttavia, alla Spagna musulmana l'unità fu di nuovo restituita; e questa volta da ‛Abd ar-Raḥmān III (912-61), nipote ex filio di ‛Abdallah, il più grande degli Omayyadi spagnoli, che per le direttive politiche seguite, per l'ideale prefissosi, per l'abilità mostrata e per i risultati raggiunti acquistò allora grande fama in Europa e anticipò i sovrani dell'età moderna. Traendo profitto dalla morte dei capi dell'aristocrazia, specialmente di ‛Omar (917) - al quale la conversione al cristianesimo aveva alienato le simpatie dei musulmani - favorito dalla generale stanchezza del paese e giovandosi anche dell'aiuto e del consiglio di ebrei, di cristiani e di "rinnegati" in pochi anni restaurò la propria autorità in Siviglia (913), in Bobastro (928), in Toledo (932), ultimo baluardo della resistenza: gli Arabi, i Berberi, gli Spagnoli gli si sottomisero e, imitando l'esempio fāṭimide, fino dal 929 egli assunse il titolo di califfo. Contemporaneamente, mosse contro gli stati cristiani del Nord: vinse i re di León e di Navarra a Valdejunquera (920); alle loro razzie altre ne contrappose arditissime, giungendo fino a Pamplona; ottenne che la regina Tota di Navarra si dichiarasse sua tributaria; e, aiutato dalle lotte civili e dinastiche scoppiate in quegli stati, poté rendere vani anche alcuni loro fortunati ritorni offensivi e divenire arbitro della sorte del regno di León; il cui re Sancho I, insieme con i sovrani della Navarra, forse si recò personalmente da lui a Cordova per invocarne l'aiuto contro un usurpatore e riconquistò il trono con il suo valido sostegno. Finalmente riuscì ad allontanare definitivamente la minaccia dei Fāṭimiti dalla Spagna spingendo contro di essi i Berberi dell'Africa nord occidentale, che lo riconobbero come proprio califfo, e impossessandosi di Ceuta.
Il figlio el-Ḥakam II (961-76) trasmise intatta l'eredità paterna a suo figlio Hichām II (976-1008). E durante il califfato di questo ultimo acquistò il predominio la politica delle ardite imprese militari, a carattere di redditizie razzie, contro gli stati cristiani del Vord, per fermarne i possibili progressi e specialmente come mezzo per tenere in piedi un potente esercito e per conservare con il suo aiuto l'unità del paese: il suo vero artefice fu Muḥammad ibn Abī‛Amir al Manṣūr, il più grande generale degli Omayyadi di Spagna.
Per rendersi indipendente dall'aristocrazia araba e berbera e poterla dominare del tutto, già ‛Abd ar-Raḥmān I si era servito di mercenarî; e poi ‛Abd ar-Raḥmān III aveva pensato di sopprimere nell'esercito l'antica partizione per tribù, che sempre ne aveva diminuita la disciplina, e si era circondato di stranieri, i così detti eslavos, originarî di ogni parte d'Europa, i quali educati a corte da piccoli, dotati di una solida preparazione e devotissimi al sovrano, erano chiamati a ricoprire le alte cariche nell'amministrazione e nell'esercito. Ora quest'ultimo fu organizzato con la sostituzione delle unità tecniche dei reggimenti alle tribù e con l'arruolamento nei suoi ranghi degli eslavos, dei Berheri di Ceuta, di cristiani del León, della Castiglia, della Navarra, attirati dall'alta paga, dalla passione per l'avventura, dalla sicurezza della vittoria; e divenne sicuro strumento nelle mani del condottiero. Il quale, vittorioso sempre dei rivali, nel 981 invase il regno di León, saccheggiò Zamora, prese Simancas; il i° luglio 985 conquistò Barcellona; nel 987 s'impadronì di Coimbra, distrusse León, occupò Zamora; nel 997 in una spaventosa razzia raggiunse Santiago de Compostela, dove risparmiò soltanto il sepolcro dell'Apostolo. Infine, nel 1002, al Manṣūr fu sorpreso dalla morte a Medinaceli al ritorno di un'altra incursione nella Castiglia, forse meno fortunata delle precedenti, se pure è veramente esistita la battaglia di Calatañazor, nella quale, secondo alcuni posteriori cronisti cattolici, sarebbe stato battuto dai cristiani.
La Spagna musulmana. - L'età dell'emirato indipendente e specialmente del califfato di Cordova è senza dubbio l'epoca più fiorente della Spagna musulmana. Allora il paese si diede una nuova, brillante civiltà, come quella di tutto l'impero arabo risultante dalla fusione di molti elementi orientali e occidentali - e nella Penisola Iberica specialmente con il concorso dei Romano-Spagnoli - che ebbero il sopravvento sul contributo dato dalla razza conquistatrice e dai Berberi, suoi ausiliarî. E al suo rigoglioso sviluppo molto contribuirono alcuni dei sovrani dei quali abbiamo parlato, come ‛Abd ar-Raḥmān III, che, oltre al resto, volle che Cordova per bellezza potesse rivaleggiare con Baghdād, e come el-Ḥakam II, che alla politica preferì sempre le lettere; e in special modo i cristiani, i "rinnegati", gli ebrei, che ebbero la direzione della vita economica del paese e collaborarono intensamente a quella spirituale, letteraria, artistica.
La vita economica divenne particolarmente rigogliosa. Meraviglioso fu lo sviluppo dell'agricoltura: ché, rinnovandosi le tradizioni romane e traendosi profitto dell'esperienza dei popoli asiatici, si procedette a grandi lavori d'irrigazione; s'introdusse tutta una serie di nuove coltivazioni, come il riso, la canna da zucchero, il melograno; s'intensificò quella della vite, dell'olivo e specie quella del gelso, che nel sec. IX era la predominante nei territorî di Granata, di Cordova, di Siviglia. L'importazione dei merinos, dovuta ai Beni-Merin dell'Africa settentrionale, diede tutto un nuovo impulso alla pastorizia. Anche in questo campo, riprendendo le tradizioni romane, si provvide a un razionale sfruttamento delle miniere. Parimenti superbo fu il contemporaneo incremento delle industrie: le chimiche si arricchirono di grandi scoperte; le tessili si svilupparono a Cordova, a Granata, a Murcia, a Siviglia, ad Almeria, divenuta una delle più grandi piazze industriali dell'Occidente, e la seta della Spagna poté fare la concorrenza a quella della Siria; l'acciaio fu lavorato in armi famose a Cordova e a Toledo; il cuoio a Cordova; il vetro ad Almeria, e allora si tornò a fabbricare il cristallo; lo sparto a Murcia, la ceramica a Valenza, a Calatayud, a Málaga. E finalmente attivissimi si fecero gli scambî commerciali nel bacino del Mediterraneo, attraverso i porti di Siviglia, di Jaén, di Málaga, di Almeria.
Questa intensa vita portò alla formazione di un ricco ceto medio e contribuì allo sviluppo della città, che riprese il sopravvento sulla campagna. Così in Cordova si giunse a contare duecentomila case, seicento moschee, novecento bagni, e un milione di abitanti. E il generale benessere economico e la ricchezza di mezzi che avevano a loro disposizione per il forte gettito delle entrate dello stato permisero agli emiri e ai califfi di compiere meravigliose costruzioni e di proteggere le arti e gli studî, e ai privati di collaborare con i monarchi in quest'opera di ricostruzione della passata grandezza romana, procurando così alla Spagna giorni di superbo splendore.
A quanto sembra, ai tempi di al Manṣūr, e cioè nel momento della sua maggiore potenza politica, economica e militare, la Spagna musulmana giunse ad avere tra i sette e gli otto milioni di abitanti: imponente insieme d'individui provenienti quasi da ogni parte dell'Europa, dell'Asia occidentale e dell'Africa settentrionale, i quali in tre secoli d'immigrazioni si erano aggiunti agl'indigeni e ai primi venuti e ne erano rimasti divisi da profonde differenze etniche, religiose e sociali, che le inevitabili mescolanze di sangue, avvenute anche nella casa regnante, avevano rese sempre più complicate. Ora, senza dubbio, la collaborazione alla vita del paese di elementi così disparati diede alla civiltà spagnola un potente sviluppo e il suo particolare carattere, permettendole di giovarsi dell'esperienza accumulata in secoli di sviluppo dal mondo civile; e dalla fusione, dal contemperamento o dal cozzo dei molteplici interessi scaturirono sempre nuovi elementi di vita. Ma la mancanza di un'unità nazionale fu nello stesso tempo il punto debole dell'organismo politico e determinò molti dei rivolgimenti che, come vedemmo, travagliarono l'esistenza della monarchia. Sicché, quando la conquistatrice razza araba si esaurì o perdette il predominio per il prevalere degl'indigeni o degl'immigrati di data recente, allora non fu più possibile stroncare per sempre la minaccia degli stati cristiani del Nord, occupandone stabilmente i territorî, e l'unità politica dello stato dipese dall'abilità dell'emiro o del califfo. In tali condizioni l'indebolimento del potere centrale provocherà la fine dell'unità territoriale, che potrà essere ricostituita, e soltanto in parte, dal vittorioso impeto di nuovi popoli o di nuove dinastie, venuti a dominare la Spagna.
RANDE LETT-S 32esimo 57
I regni di Taifas. - La politica di ‛Abd ar-Raḥmān III e le imprese militari di al-Manṣūr avevano distrutto, è vero, l'antica turbolenta aristocrazia araba; ma l'avevano sostituita con una non meno turbolenta nobiltà di spada, formata di Berberi e di eslavos; e questa, divenuta potentissima, negli ultimi tempi era stata tenuta a freno soltanto dal prestigio personale del vittorioso condottiero, il quale all'autorità del califfo di diritto aveva sostituita la propria, di califfo di fatto. D'altro canto, non per questo il paese aveva modificato i proprî tradizionali sentimenti monarchici, che lo portavano a condannare le palesi aspirazioni al trono di al-Manṣūr; né i fuqahā' erano stati del tutto convinti dal gesto del potente ministro, che, per togliere ogni dubbio sulla propria ortodossia, aveva fattti bruciare tutti i libri di filosofia della grande biblioteca di el Ḥakam II. Inoltre, lo stesso notevole incremento della vita economica e i sempre maggiori bisogni dello stato impegnato in dispendiose guerre e dal lusso di corte costretto a gravi spese, provocando spostamenti nella distribuzione delle ricchezze e una più profonda differenziazione di ceti e rendendo esoso il fiscalismo, avevano aperto la strada a grandi conflitti sociali. Finalmente, a rendere più profondo il movimento e a dargli salda unità, sopraggiunse la rivoluzione religiosa, la quale aveva sconvolto il mondo musulmano, ripreso dalla sua passione e datosi a trasformare l'Islām in un organismo teologico-morale, e che, propagatosi al dilà dello Stretto di Gibilterra, nel sec. XI trascinò nelle sue spire anche la Spagna. Allora, di contro alle classi più elevate tenutesi lontane dal movimento, il popolo maomettano, di nuovo dominato dal fanatismo, divenne intollerante verso mozárabes e nella condanna li accumunò ad al-Manṣūr, in politica interna e in quella finanziaria considerato violatore delle massime fissate nel Corano.
In tale stato di cose la morte di al-Manṣūr, il quale aveva retto lo stato con mano di ferro, provocò la fine dell'equilibrio politico e sociale faticosamente conservato negli anni precedenti; e la crisi, già in atto si poté sviluppare liberamente e sovvertire tutto il regime. Infatti, soltanto pochi anni si resse al potere la dinastia dei ministri (‛amirides), che al-Manṣūr avrebbe voluto creare con i proprî discendenti, onde aprir loro la strada al trono. Combattuto dai fuqahā' e da un rivale parente di Hichām II, nel 1009, ucciso dai soldati, cadde suo figlio, che dal debole califfo si era fatto riconoscere come erede. Ed allora un periodo di spaventosa anarchia (el fitna) cominciò per la Spagna musulmana, dilaniata dalla guerra civile tra Berberi ed eslavos e scossa da rivolgimenti sociali a sfondo religioso. Hichām II scomparve misteriosamente; nessuno dei varî califfi che si contesero il posto, riuscì a rafforzarsi sul trono, e nel 1031 a Cordova fu abolito il califfato: la missione storica della città, come capitale di una potente monarchia, era finita. Come era già avvenuto in Persia all'epoca degli Arsacidi, lo stato, perduta l'unità, si frazionò in staterelli, che giunsero ad essere più di venti e che furono governati da famiglie divenute potenti negli anni precedenti: per indicarli, gli storici arabi adottarono la stessa espressione che avevano usato per la Persia, e li chiamarono "regni di Taifas".
Nelle regioni orientali ebbero la prevalenza gli eslavos (Almeria, Dénia e Baleari, Tortosa, Valenza); nelle meridionali i berberi (Málaga, Algeciras, Granata, Carmona, Ronda, Jerez); nelle altre gli Arabi o gli Africani venuti al tempo della conquista. I nuovi regoli, anticipando i signori italiani del Quattrocento, alternarono la vita di lusso e il mecenatismo per le arti e specialmente per le lettere con le imprese militari, con atti di sottile astuzia, di profonda sagacia, di selvaggia crudeltà: talvolta, letterati, filosofi, poeti essi stessi, al pari dei loro ministri e consiglieri. Gli stati più importanti furono quelli di Saragozza, Valenza, Badajoz, Málaga, Almeria, Dénia, Granata, Siviglia. E fra di essi continuò ad ardere quella guerra civile che aveva provocato il loro sorgere. I Ḥammūditi di Málaga tentarono di restaurare in proprio vantaggio il califfato, mettendosi alla testa dei Berberi; ma si trovarono di contro i ‛Habbādidi di Siviglia, e poi Málaga cadde in dominio del sovrano di Granata. Invece, i ‛Habbādidi, che nei primi tempi per legalizzare il proprio potere si erano serviti del nome di Hichām II sostenendo la finzione di un tale di Calatrava, il quale rassomigliava stranamente allo scomparso califfo e si faceva passare per tale, riuscirono ad assumere la direzione del partito arabo del SE., s'impossessarono di Carmona, di Mértola, di Niebla, di Huelva, di Silves, di Santa Maria de Algarbe, di Morón, di Ronda, di Jerez, di Algeciras, infine di Cordova e di Murcia, e assunsero il titolo di "emiro" di Spagna. Tuttavia, varie vicende ebbe la loro contesa contro i regni di Badajoz, di Granata e Málaga, di Almeria, che restarono indipendenti, al pari di quelli di Toledo, di Saragozza, di Albarracín, di Alpuente.
Poi, a gettar lo sgomento negli animi giunse l'avanzata degli stati cristiani che, per il passato lasciati in vita dagli emiri e dai califfi anche nei periodi di maggiore potenza per i musulmani, appunto in quegli anni si erano riorganizzati e rafforzati e avevano progredito verso il Sud non senza l'inconsapevole aiuto dei re di Taifas, che erano entrati in stretti rapporti con essi, avevano partecipato alle loro contese, si erano serviti delle loro armi nelle proprie guerre civili, li avevano sostenuti nelle loro imprese contro questo o quel monarca musulmano, secondo lo avevano richiesto i propri interessi particolari. Innanzi ai loro grandi progressi, che non potevano più frenare, i sovrani musulmani tentarono di salvarsi piegando innanzi al nemico: quelli di Siviglia, di Toledo, di Badajoz, di Saragozza si dichiararono vassalli o tributarî di Fernando I di León e Castiglia; e il regolo di Siviglia diede la propria figlia in moglie ad Alfonso VI e rinnovò con lui i patti già stipulati con Fernando I. Ma non per questo divenne meno grave la minaccia di una completa riconquista al cristianesimo della penisola. E d'altro canto si aggiunse l'opposizione a tale politica dei fuqahā' e del popolo musulmano, malcontenti sempre più della scarsa ortodossia dei principi, dei legami da essi contratti con i cristiani, del loro fiscalismo già di per sé contrario al Corano ed ora tanto più odiato in quanto era imposto dalla necessità di pagare tributi ai sovrani cattolici. Minacciati dall'interno e dall'esterno, dove avessero voluto usare soltanto delle proprie forze, i regoli musulmani non avrebbero avuto da scegliere che tra il sottomettersi ai monarchi cristiani e l'emigrare. Ed allora i re di Granata, di Almeria, di Siviglia, di Badaioz, riunitisi di fronte al pericolo, preferirono domandare l'aiuto dei Berberi almoravidi di Africa, i quali sostenevano i principî della rivoluzione religiosa scoppiata nel seno del mondo maomettano e, come dicemmo, diffusasi anche in Spagna, ed erano alla testa di un impero che, fondato appunto in una ripresa del fanatismo musulmano da un ramo dei Sanhagiāh, alla fine del sec. XI si estendeva dall'Algeria al Senegal.
Gli Almoravidi e gli Almohadi. - L'almoravide Yūsuf ibn Tāshufīn accolse l'invito e, sbarcato ad Algeciras, insieme con i regoli alleati sconfisse a Zalhaca, vicino ad Albuquerque, Alfonso VI, che a stento riuscì a salvarsi (ottobre 1086). Tuttavia, la vittoria non fu sfruttata, perché Yūsuf si dovette ritirare a Ceuta; ed anzi, dopo poco tempo, i cristiani poterono riprendere il terreno perduto e tornare a minacciare gli staterelli musulmani. Allora fu di nuovo necessario invocare l'aiuto dell'almoravide, che ritornò in Spagna. Ma, fin dalla sua prima spedizione conquistato dalla ricchezza del paese, e nel suo fanatismo tutto preso dal sogno di restaurarvi, come in Africa, quella che egli credeva fosse la pura fede maomettana, ingannando le speranze di coloro che lo avevano chiamato, Yūsuf questa volta venne con l'intenzione di rimanervi come califfo. Di fronte al gravissimo pericolo di cadere in balia di un principe rozzo e straniero, appartenente a una razza che era stata sempre odiata, invano i regoli e i loro coltissimi consiglieri decisero di allearsi con Alfonso VI, come minor male. In favore dell'almoravide si schierò il popolo, fiducioso negli effetti della riforma religiosa da lui patrocinata e conquistato dalla politica che aveva attuato nel suo stato africano, dove erano state abolite tutte le imposte non contemplate nel Corano; e al berbero del Sahara diedero il loro potente appoggio i fuqahā', i quali, a sua richiesta, condannarono solennemente i principi musulmani come "libertini, empî, dissoluti" e, accusandoli d'aver richiesto contributi illegali e di essersi legati al re di Castiglia, "il nemico più implacabile della vera religione", sciolsero Yūsuf dall'obbligo di rispettare i patti con loro stipulati e affermarono che egli aveva il dovere di abbattere senza indugio il loro potere. Così la conquista dell'Andalusia fu rapida e facile: dopo Tarifa, Cordova, Carmona, anche Siviglia si arrese nel settembre 1091; e poi gli Almoravidi s'impossessarono di Almeria, di Murcia, di Dénia, di Jativa, di Badajoz (1094), dopo la morte del Cid di Valenza (1102), e finalmente del regno di Alpuente (1103) e di Saragozza (1110).
L'unità dello stato musulmano parve saldamente ricostituita; e nella battaglia di Uclés (1108) contro Alfonso VI di León e Castiglia la vittoria salutò anche l'avvento al trono di ‛Alī (1106-43), succeduto a Yūsuf. Ma, per il carattere stesso assunto dal movimento, divenuti schiavi dell'ambiente e invischiati anche in intrighi di corte, gli Almoravidi, che pure in Africa non respingevano l'aiuto dei cristiani e concedevano loro il diritto di costruirsi delle chiese, in Spagna dovettero limitarsi ad essere passivi strumenti della volontà di coloro che li avevano sostenuti. Il fanatismo del popolo e l'intolleranza dei fuqahā', di fatto detentori del potere, dando vita a un regime di terrore e di oscurantismo, tolsero al nuovo governo l'appoggio delle classi colte e gli alienarono le simpatie tanto degli ebrei, che per salvarsi si videro costretti a sborsare forti somme di denaro, quanto dei mozarabi, che furono perseguitati e anche obbligati ad emigrare in Africa. In tal modo, non soltanto si sconvolsero le basi sulle quali sino allora aveva poggiato lo stato e la civiltà musulmani, che dovevano il proprio superbo sviluppo all'attiva collaborazione, svoltasi in regime di tolleranza, dei maomettani e dei non maomettani; sibbene si favorì la formazione nel paese di un partito recisamente avverso al nuovo ordinamento e pronto a favorire le imprese delle monarchie cattoliche. Per di più, dalla rivoluzione non scaturirono fresche energie indigene che fossero in grado di sostituire quelle che erano state allontanate dalla vita pubblica e rese ostili, ed unico sostegno dello stato restarono le truppe dell'invasore. Ma, vinto dal lusso e dalla civiltà andalusa, troppo progredita perché potesse assorbirla senza danno, anche l'esercito africano esaurì il proprio ardore e perdette non solo la capacità di ampliare le conquiste iniziali, sibbene ancor quella di mantenerle. Così i sovrani cristiani poterono conservare i loro precedenti dominî, rendere vani tutti i tentativi compiuti per restituire Toledo all'Islām, infine riprendere l'offensiva. Allora, nella penisola tornò a farsi pericolosa la pressione cattolica; e poiché la rivoluzione si rivelò incapace a dare un autonomo stabile assetto all'ordinamento politico del paese e quindi ad assicurarsi il definitivo trionfo, il suo fallimento rese malcontenti anche coloro che l'avevano creata o patrocinata e li spinse contro l'invasore, nel quale già avevano riposto fiducia e al quale ora si attribuiva ogni colpa.
Finalmente il colpo di grazia allo stato almoravide fu dato da una nuova rivoluzione, che scoppiò nell'alto Atlante per opera degli Almohadi (Al-Muwaḥḥidūn o unitarî), i quali, resi fanatici dalla propaganda di un proprio mahdi, mossero contro gli Almoravidi, e, servendosi degli stessi mezzi militari e religiosi da essi impiegati nella conquista, indebolirono e poi fiaccarono la loro potenza nella patria d'origine e quindi in Spagna, e finirono per sostituire la propria alla loro dominazione.
Nel 1118 Alfonso I d'Aragona conquistò Saragozza; negli anni seguenti, tornò a sconfiggere gli Almoravidi, e, approfittando delle loro difficoltà, costretti com'erano a richiamare molte truppe per opporle agli Almohadi, in un'arditissima spedizione in Andalusia riuscì a liberare varie migliaia di mozarabi, con i quali ripopolò i territorî alla destra dell'Ebro (1125-26). Inoltre, altre incursioni compì nella stessa regione e nell'Estremadura (1133) Alfonso VII di León e Castiglia, che pose a ferro e a fuoco i dintorni di Carmona, di Cordova, di Siviglia, di Jerez. Contemporaneamente, per l'affievolirsi dell'autorità del potere centrale, tornò a spezzarsi l'unità spagnola, sì che nella penisola si organizzarono altri "regni di Taifas", fra i quali si rinnovarono le precedenti lotte civili, con tutti i loro tradizionali caratteri. E poiché il popolo musulmano, di nuovo assalito dal terrore di cadere sotto il dominio cristiano e riconquistato al fanatismo dalla propaganda religiosa degli Almohadi, insorse contro gli Almoravidi e spianò la strada agli Almohadi, e alcuni dei regoli di Taifas, per averne aiuto, invocarono l'intervento di questi ultimi, all'almohade ‛Abd al-Mu'min (1129-62), che nel 1139-47 si era impossessato di gran parte dei dominî africani degli Almoravidi, fu possibile conquistare le regioni musulmane della penisola. Maiorca, ultimo baluardo degli Almoravidi, cadde nelle mani del nuovo invasore nel 1202.
Gli Almohadi, assunto il governo della Spagna musulmana, si mostrarono meno intolleranti dei loro predecessori. Inoltre, per più anni riuscirono ad opporre una solida barriera all'avanzata dei monarchi cristiani, fra loro dissidenti e pronti a servirsi dell'aiuto dell'africano nelle proprie contese. Sicché, se il catalano-aragonese Ramón Berenguer IV poté conquistare Tolosa (1148), Lérida (1149) e il castello di Ciurana (1153), suo figlio Alfonso II avanzare nei territorî del regno di Valenza, e Alfonso VIII di Castiglia vincere a Ciudad Rodrigo e a Silves e occupare Cuenca (1177); tuttavia, questi fu sconfitto ad Atarquines, a Santarem e il 18 luglio 1195 ad Alarcos, in una terribile rotta che fece perdere ai Castigliani Guadalajara, Madrid, Uclés. Poi, l'unità dell'impero almohade fu spezzata da lotte dinastiche, scoppiate in Africa e in Spagna, e dalla travolgente offensiva dei monarchi cristiani di Castiglia, di León, di Navarra e di Aragona, che, finalmente uniti contro il comune nemico e aiutati da crociati accorsi da ogni parte d'Europa, il 16 luglio 1212 in una grande battaglia a Las Navas de Tolosa distrussero l'esercito musulmano e si aprirono la strada del Sud. Allora regni indipendenti almohadi sorsero in Valenza, in Murcia, il cui monarca per qualche anno estese il suo dominio su gran parte della Spagna maomettana, in Niebla, in Arjona. Ma le loro forze non furono sufficienti a contenere l'assalto dei cristiani. E mentre Ferdinando III di León e Castiglia conquistava Andujar (1225), Cordova (1236), sottometteva il regno di Murcia (1241), occupava Carmona (1247), Siviglia (22 dicembre 1248) e infine Medina Sidonia, Arcos, Cadice, Sanlúcar; Giacomo I d'Aragona tra il 1228 e il 1235 s'impadronì delle Isole Baleari, e poi, rivolte le proprie forze contro il regno di Valenza, entrò nella sua capitale il 28 settembre 1238. Intorno al 1270 ormai non rimaneva che un solo stato musulmano: il regno di Granata, retto dai Naṣridi, originarî di Arjona, che per salvarsi dal disastro si erano fatti tributarî di Ferdinando III e lo avevano aiutato nelle sue imprese.
Qui trovarono riparo quei maomettani che preferirono abbandonare le loro terre innanzi all'avanzata cristiana e non emigrarono in Africa: sicché, a quanto sembra, la popolazione dello stato raggiunse i tre milioni di abitanti.
Il regno di Granata. - Questo stato visse per più di due secoli. Premuto, da un lato, dai monarchi cristiani e, dall'altro, dai BanuMerīn di Africa, seppe avvalersi dell'aiuto dei Berberi per opporsi ai cristiani - che, per altro, dopo la morte di Ferdinando III e di Giacomo I mitigarono il proprio entusiasmo e furono distratti da gravissime guerre civili, - e del soccorso dei cattolici per evitare il sopravvento degli africani. Per di più, i monarchi cristiani molte volte interessarono i Naṣridi e i Banu-Merīn alle proprie contese o parteciparono alle loro lotte intestine; e, giovandosi del loro aiuto, o intervenendo nelle loro vicende, o accettando il loro tributo, li posero al proprio livello e attenuarono il tradizionale antagonismo. Infine, i regni di Portogallo e di Aragona - quest'ultimo specialmente per i trattati conclusi con la Castiglia, i quali a priori attribuivano ai Castigliani il possesso dei territorî che sarebbero stati conquistati al regno musulmano - non più interessati nell'impresa, cominciarono ad abbandonare il teatro della guerra. E le forze castigliane e quelle musulmane finirono per equilibrarsi. Così, ben settant'anni durò la lotta per tagliare le comunicazioni tra l'Africa e il regno di Granata, isolare quest'ultimo e ricacciare definitivamente al dilà dello Stretto di Gibilterra i Banu-Merīn, che avevano occupato alcuni centri dell'Andalusia, come Tarifa, Algeciras, Ronda, e minacciavano di rinnovare le gesta degli Almohadi. Tarifa fu conquistata nel 1292, e per anni difesa eroicamente da Alfonso Pérez de Guzmán el Bueno. Ma nel 1309 non raggiunse il suo scopo la lega conchiusa contro Granata da Ferdinando IV di Castiglia, Giacomo II d'Aragona e i Banu-Merīn: se Fernando poté impossessarsi di Gibilterra, tuttavia la piazza ritornò in dominio musulmano nel 1333, e l'assedio posto ad Almeria da Giacomo e finito miseramente fu l'ultima impresa aragonese contro il regno maomettano. E fu soltanto il 30 ottobre 1340 che, con il soccorso di Alfonso IV di Portogallo, Alfonso XI di Castiglia poté vincere al Río Salado le truppe del re di Granata e dei Banu-Merīn; il 27 marzo 1344 con l'aiuto di cavalieri inglesi, tedeschi e francesi conquistare Algeciras; e allontanare per sempre la minaccia di un ritorno offensivo in Spagna degli Africani. Ma, d'allora in poi, la lotta contro il regno di Granata s'isterilì in una guerriglia di scarsa importanza, sostenuta più che altro dalle popolazioni di confine e ingaggiata dai monarchi come mezzo per ricavare denaro e popolarità: ché pochi furono gli avvenimenti di qualche rilievo, come la conquista di Antequera (1410), la battaglia detta della Higueruela vicino a Granata al tempo di don Alvaro de Luna (1431), l'occupazione di Huéscar (1435) e di Huelma (1438), la riconquista di Gibilterra (1462) per opera del primo duca di Medina Sidonia. . Il regno di Granata fu distrutto dai re cattolici soltanto nel 1492 e con le forze riunite di Castiglia e di Aragona, collaboranti ora in perfetto accordo e sotto un'unica direzione.
Gli Arabi che nel 711 invasero la Penisola Iberica non vi trovarono una civiltà in pieno sviluppo organico, bensì una società in condizioni torbide e disordinate, in cui i Visigoti dominatori della popolazione romanizzata si erano appropriati alcuni elementi della civiltà classica, ma non ne avevano né assimilato né elaborato l'eredità spirituale; sicché al disfacimento, quasi interamente compiuto, del mondo antico non si era ancora sostituita quella sintesi degli elementi romano e germanico che segna il formarsi della civiltà medievale. Condizioni, queste, che erano in sostanza le stesse nel resto dell'Europa occidentale; sennonché in Spagna il processo formativo del Medioevo fu bruscamente modificato dall'intrusione di un nuovo fattore, che per molti secoli predominò in maniera quasi assoluta sugli altri. Gl'invasori, peraltro, non introdussero fin da principio una civiltà superiore, già compiutamente svolta: troppo recente era l'inizio della trasformazione religioso-culturale provocata nell'Asia Anteriore dall'Islām perché le milizie di Tāriq potessero farsene le propagatrici nella Spagna romano-visigotica. Pertanto i primi tempi dell'occupazione araba (tempi difficili e duri anche per le continue guerre esterne e interne) non si segnalarono per un'intensa attività di cultura; né gli Arabi, esercito stanziato in paese di conquista, ebbero contatti stretti con la popolazione soggiogata. Tuttavia, in procedere di tempo, quella sorprendente unità che caratterizza lo sviluppo della civiltà islamica a malgrado dell'immensa estensione territoriale, fece sì che le stesse linee direttive, gli stessi fenomeni tipici della storia dell'Islām in Oriente si riscontrassero anche in occidente. Il cristallizzarsi della poesia in forme arcaizzanti e il formarsi da un lato di una prosa d'arte scaturita dall'antica eloquenza del deserto e fissata in uno stile meramente retorico, dall'altro di una prosa scientifica sobria ed efficace; la raccolta del corpus di tradizioni normative risalenti a Maometto e il sorgere, sulla base di esse, di sistemi teologici, rituali e giuridici; le lotte politico-religiose che, nate da contese dinastiche, sboccarono in atteggiamenti antagonistici nella considerazione dei massimi problemi religiosi, filosofici, politici, sociali: tutti i fenomeni del rigoglioso svolgimento della civiltà islamica si manifestano nella Spagna a pochi anni di distanza dal loro primo apparire in Siria e nell'‛Irāq.
Le relazioni dirette tra i due estremi dell'impero islamico non cessano neppure con la scissione politica di questo: mentre non molti, ma pur sempre non infrequenti, sono i viaggi di Orientali verso la Spagna, frequentissimi sono quelli compiuti in Oriente da Spagnoli, specialmente da dotti che si recano alla ricerca delle fonti più autentiche delle scienze religiose e mondane; non pochi sono gli Spagnoli i quali, fin da antico e poi sempre fino alla completa ricristianizzazione della Spagna, si stabiliscono definitivamente in Africa o in Asia. La civiltà islamica spagnola non è quindi sostanzialmente diversa da quella delle altre regioni dove l'Islām attenne la supremazia, e il suo aspetto particolare le viene, piuttosto che dalla sua natura intrinseca, dall'influsso che essa ha esercitato sull'Europa cristiana.
Naturalmente, poiché la civiltà islamica dai suoi centri più vitali si propagò in Spagna attraverso l'Egitto e l'Africa settentrionale, il carattere dell'Islām spagnolo è più vicino a quello di queste due religioni, e sopra tutto della seconda (anche in Spagna, p. es., finì col prevalere il sistema giuridico mālikita), e, non meno naturalmente, il movimento di cultura, appunto perché riflesso e non spontaneo, ha in Spagna minore originalità e minore importanza che in Oriente. Ma il precoce distacco politico della penisola dall'unità califfale, dopo che in essa si rifugiò e riacquistò potenza la dinastia degli Omayyadi soppressa in Oriente, ne fece un centro autonomo di cultura, pur non recidendo, come si è visto, i vincoli spirituali col rimanente mondo islamico. Alla corte degli emiri omayyadi si ritrova un mecenatismo analogo a quello della corte di Baghdād ed esso s'intensifica nel sec. X, l'età del massimo splendore della Spagna musulmana, quando viene proclamato il califfato omayyade, in consapevole antagonismo sia con quello ortodosso di Baghdād sia con quello eretico dei Fātimiti d'Egitto. L'impulso dato alla cultura dai califfi ‛Abd ar-Raḥmān III e al-Ḥakam II (di cui è rimasta celebre la grande biblioteca, dedicata soprattutto alle scienze laiche) fu immenso, e benché i monumenti letterarî superstiti di quest'epoca non siano molto numerosi, la loro influenza si fa sentire nella letteratura posteriore. Caratteristico della continuità della scienza attraverso i tempi e lo spazio, non meno che dello zelo nutrito per essa dall'arabismo spagnolo è il dono fatto dall'imperatore di Bisanzio al califfo al-Nakam II di un manoscritto illustrato di Dioscuride, il quale, tradotto in arabo, costituì il fondamento degli studî farmacologici in Spagna.
È anche di quest'epoca l'affermarsi in Spagna di una cultura arabo-ebraica: gli Ebrei, già numerosi sotto i dominî romano, vandalico e visigotico, si avvantaggiarono della maggior tolleranza della legge religiosa islamica in confronto di quella cristiana per stringere stretti rapporti sociali e culturali coi dominatori e per sviluppare la propria tradizione nazionale in forme tolte a prestito dagli Arabi, di cui imitarono tutti i generi letterarî (tanto nella poesia e nella prosa d'arte quanto nella teologia e nella filosofia, nelle scienze e nella grammatica), adottando talora la lingua stessa degli Arabi, soprattutto nelle opere scientifiche e filosofiche, conservando altre volte la propria, soprattutto in quelle poetiche, non senza subire, nello stile e nel lessico, forti influssi dell'arabo.
Ma un altro elemento estraneo agli Arabi, e assai più numeroso e importante, subì l'influsso della loro civiltà: quello della popolazione indigena. Non si ebbe in Spagna (né la diversità delle condizioni l'avrebbe consentito) un fenomeno analogo alla penetrazione della cultura persiana tra gli Arabi: gl'indigeni romanizzati furono, rispetto ai conquistatori, piuttosto recettivi che attivi. Tuttavia essi non si lasciarono assorbire interamente, come avvenne invece in tutta la zona tra l'‛Iraq e il Marocco: conservarono la loro lingua e, soprattutto, la loro religione, essendo la maggioranza della popolazione (nonostante le numerose conversioni) rimasta fedele al cristianesimo. Se anche contenga qualche esagerazione la tesi di J. Ribera Tarragó seguita dagli odierni arabisti spagnoli, secondo la quale la Spagna musulmana sarebbe stata interamente bilingue, non c'è dubbio che la lingua nazionale non solo rimase in uso presso i cristiani, ma fu largamente parlata anche dai musulmani, perfino da quelli di stirpe araba o berbera (i quali, occorre ripeterlo, costituirono sempre un'esigua minoranza).
D'altra parte l'arabo, lingua ufficiale dell'amministrazione e inoltre sola lingua letteraria esistente nel territorio in seguito al decadere, anzi alla quasi totale estinzione, dell'uso del latino, s'impose come tale agli stessi cristiani, dando luogo al caratteristico fenomeno della liturgia e della letteratura mozarabica (v. mozarabi).
La caduta del califfato e il sorgere di dinastie locali (ryes de las taifas) non interruppe il corso della civiltà arabo-spagnola, anzi in un certo senso lo favorì, in quanto che le capitali dei varî principati divennero centri di arte e di cultura. Da questo tempo (sec. XI) ha inizio il movimento di riconquista da parte dei regni di León e di Navarra: le complicate fasi di questa, conducendo varî principati musulmani a farsi alleati o a divenire vassalli dei regni cristiani, alternando, in numerose città e in intere regioni, il dominio musulmano e quello cristiano, contribuirono a intensificare i rapporti fra le due stirpi e a creare una civiltà composita, di grandissima ricchezza e varietà, nella quale l'elemento dominante resta pur sempre l'arabo, tanto nel campo della cultura quanto altresì in altre manifestazioni di civiltà riguardanti la vita economica e sociale (agricoltura, tecnica, amministrazione civile: molti vocaboli riguardanti queste attività sono, nello spagnolo odierno, di origine araba).
La dominazione degli Almoravidi (secoli XI-XII), col suo spiccato carattere di reazione pietistica, non valse ad abolire la cultura di Spagna, che rifiorì sotto gli Almohadi (secoli XII-XIII); la caduta di questi, segnando il predominio definitivo dei cristiani nella Penisola Iberica, prelude al progressivo decadere ed estinguersi dell'arabismo, il quale tuttavia nei due secoli successivi diede ancora segni di vigorosa vitalità, sopra tutto durante il fiorire della dinastia dei Naṣridi (v.) di Granata. Ma nello stesso territorio passato per sempre ai cristiani alla supremazia e poi all'esclusivo dominio della lingua e della civiltà di origine latina si oppose la continuità della cultura araba, la quale si mantenne a lungo, accanto al rifiorire di quella nazionale, senza che il contrasto tra le due fosse sentito come irreconciliabile. La stessa capitale del regno di Castiglia, Toledo, occupata da Alfonso VI fino dal 1085, rimase città prevalentemente araba fino a tutto il sec. XIII e divenne il centro d'irradiazione della civiltà orientale verso l'Europa, soprattutto durante il regno di Alfonso X el Sabio, sotto i cui auspici furono tradotte in latino e divulgate numerosissime opere scientifiche arabe. Attraverso traduzioni eseguite in Spagna, il Medioevo cristiano ha conosciuto la filosofia aristotelica, e insieme con essa, sia nei commenti sia nelle opere originali, la filosofia, e in parte anche la teologia e la mistica, dell'Islām. La medicina, la matematica, l'astronomia, l'alchimia e altre scienze sono state studiate in Occidente quasi esclusivamente su autori arabi spagnoli, o, se appartenenti all'Oriente islamico, giunti all'Europa per il tramite della Spagna; del che sono prova, a tacer d'altro, le trascrizioni latine dei nomi degli scrittori e dei titoli dei libri, le quali seguono la pronuncia dell'arabo di Spagna: Algazel, Avicena, Avenpace, Avenzoar, Averroes, ecc. La massima parte dei vocaboli neolatini di origine araba non sono penetrati in Europa, come credeva una concezione storica ormai superata, al tempo delle crociate, ma provengono dalla Spagna e portano, nella forma con cui si presentano nelle lingue romanze, tracce della loro provenienza.
Se indiscussa è l'influenza esercitata sull'Europa dalla civiltà materiale e dalla cultura scientifica degli Arabi di Spagna, contestata è tuttora una loro eventuale influenza su forme artistiche sorte nel campo delle letterature romanze. Un genere letterario caratteristico della Spagna araba, il muwashshaḥah e una sua varietà detta zegel, di cui è rimasta principale testimonianza il canzoniere di Ibn Quzmān (v. anabi: Letteratura, III, pp. 856-57) composto in linguaggio dell'uso vivo e informato a un vivace impressionismo, è stato ritenuto il modello non solo dei romances spagnoli, ma anche della lirica provenzale quale fu modificata soprattutto dal duca Guglielmo IX di Aquitania; alla musica arabo-spagnola, attraverso le Cantigas di Alfonso el Sabio, risalirebbe tutta la musica medievale profana; dalla poesia mistica musulmana, in cui la donna amata è assunta a simbolo della conoscenza di Dio, deriverebbe la concezione della "donna angelicata" e dell'amore nella poesia provenzale e italiana, e perfino il disegno generale, nonché molti episodî particolari, della Divina Commedia trarrebbero lo spunto dalla teosofia di Ibn ‛Arabī (v.), il celebre mistico di Murcia. Le polemiche a cui ha dato luogo questa tesi, sostenuta in Spagna dal già citato Ribera, da M. Asín Palacios (v.) e dalla loro scuola e fuori di Spagna da A. R. Nykl e da altri, non hanno finora portato il problema a una soluzione soddisfacente (forse anche perché spesso inquinate, da una parte e dall'altra, da mal celate ambizioni di rivendicazioni nazionali). A ogni modo i materiali e le prove che i sostenitori della tesi arabo-spagnola hanno accumulato sono tali da non consentire di respingerla senza discussione.
La continuità della cultura araba in Spagna anche dopo il compimento della riconquista è attestata dalla letteratura dell'aljamía (v.; v. anche mori), con la quale i Moriscos, benché ispanizzati rispetto alla lingua, mantennero lode alla scrittura e alla religione dei loro padri: tale letteratura continua in Spagna fino all'espulsione definitiva dei Moriscos nel 1614, e in Tunisia, dove gli esuli si rifugiarono, anche più a lungo.
La riconquista cristiana. - Scarse e per di più molto confuse sono le notizie che ci rimangono sui primi secoli di vita degli stati cristiani sorti nel Nord della penisola; e ricostruire le loro origini e vicende iniziali è reso anche più difficile dall'esistenza di un complesso di leggende accumulate dalla "boria delle nazioni", dalle quali non è sempre possibile sgombrare del tutto il terreno. Si può soltanto dire con certezza che nel complesso il movimento di riscossa fu opera di cristiani fuggiti innanzi all'avanzata musulmana e riparati fra popolazioni viventi allo stato seminaturale o da secoli dedite al brigantaggio e insofferenti di qualsiasi estranea autorità, i quali eccitarono alla guerra conquistatrice le prime o nobilitarono le imprese delle altre; rinnovarono, in genere, le tradizioni d'indipendenza del precedente regime monarchico e riscaldarono, in particolare, le passioni politiche delle varie regioni, che fin dal tempo delle dominazioni romana e visigota avevano difeso la propria autonomia. Abbandonati a sé stessi, in luoghi trascurati dall'invasore perché poveri e impervî, poterono darsi una costituzione politica e prepararsi alla lotta. Ingaggiata questa, in loro aiuto intervennero fortunate circostanze, come l'esodo dei Berberi dalle regioni situate a nord del Tago, che permise ad essi d'impossessarsi di vasti territorî, e le rivoluzioni separatiste dei "rinnegati" provinciali, che non solo indebolirono la monarchia musulmana, sibbene fecero sorgere alla sua frontiera settentrionale degli stati, per la loro limitata estensione, di minore resistenza, e per la loro origine e la loro natura non del tutto alieni dal seguire una politica di avvicinamento alle monarchie cattoliche onde spezzare i proprî vincoli con il governo centrale. Poi, a facilitare il loro compito si aggiunsero: la collaborazione dei mozarabi, che fornirono folti contingenti di colonizzatori per i territorî disabitati e per quelli conquistati; i sistemi di lotta seguiti dal governo centrale musulmano, che diede scarso peso alle monarchie cristiane o non poté distruggerle per la propria debolezza alla periferia che alle proprie vittoriose spedizioni diede sempre il carattere di razzie e anche nei periodi di maggiore potenza non sottopose stabilmente al proprio dominio i territorî cristiani, ma si limitò a controllarne la vita politica; infine, le discordie civili scoppiate tra gl'invasori, che compensarono le contese ben presto insorte tra gli stati cristiani e nel seno di ognuno di essi: triste eredità della dominazione visigota. Così gli stati cristianì e quelli musulmani finirono per usare le stesse armi: ad incursioni si contrapposero altre incursioni, a interventi nelle vicende interne dei singoli organismi altri interventi. E fra di essi non mancarono spesso rapporti amichevoli, che giunsero a dar vita ad alleanze tra cristiani e musulmani contro cristiani o musulmani, o a trattati di protezione contro la minaccia degli uni o degli altri; e attenuando fra i maomettani il fervore della lotta contro il cristianesimo, perfino difendendo l'autonomia di questo o di quest'altro stato cattolico, e, di contro, permettendo alle monarchie cristiane di partecipare alle contese interne del mondo musulmano e di trarne profitto, diedero modo a queste ultime di consolidare la propria esistenza e di avanzare verso il sud. Infine, nell'organizzazione di buona parte dei territorî conservati o conquistati dai cristiani grande influenza ebbe lo stato franco, che talvolta v'intervenne anche direttamente, perché non soltanto sopravvissero alla fine della dominazione visigota quei vincoli tra Gallia e Spagna che i Visigoti avevano creati e poi mantenuti pur quando nelle loro mani al dilà dei monti non era rimasta che la Septimania, sibbene furono rinnovati dalla monarchia carolingia, allorché, rivolte le armi contro i musulmani, assunse l'eredità dei Visigoti nei loro territorî situati al diqua dei Pirenei; e perché tale monarchia fu portata ad assicurarsi il possesso dei valichi della catena montuosa di confine per meglio contenere l'impeto aggressivo degli Arabi e così conservare intatti i risultati raggiunti nella vittoriosa giornata di Poitiers.
I primi stati cristiani. - Lo stato del quale si hanno maggiori notizie e che, almeno secondo la tradizione, fu il primo a sorgere, è l'asturiano, nato nelle Asturie di Oviedo e comunemente considerato come una restaurazione della monarchia visigota. Il suo primo organizzatore e re sarebbe stato il visigoto Pelayo, un nobile già perseguitato da Witiza e poi protetto da Rodrigo, che, riparato sui monti di Cangas de Onís, sconfisse le truppe musulmane a Covadonga tra il 721 e il 725, in uno scontro, senza dubbio, di poco momento - una delle tante imboscate di montagna che allora dovettero esserci in quella zona alpestre - ma che la leggenda trasformò, al pari dell'eroe vincitore, in vero e proprio simbolo. Gli ampliamenti territoriali cominciarono con Alfonso I (739-57), quando i Berberi abbandonarono il Nord della penisola e ripiegarono su Coimbra e Coria: allora furono occupate o conquistate la Galizia, la Liébana, la Bardulia, forse la città di León; si compirono ardite razzie nei territorî circostanti; e soltanto per l'impossibilità di presidiarla e di popolarla non si occupò stabilmente la vasta zona quasi desertica che ora separava i nuovi dominî cristiani da quelli musulmani. Poi, un arresto nella marcia di riconquista determinarono, da un lato, una serie di guerre civili tra monarca e nobiltà e, dall'altro, il rafforzamento dello stato arabo per opera di ‛Abd ar-Raḥmān. Tuttavia, la guerra fu ripresa con rinnovellato ardore da Alfonso II el Casto (791-842), che nelle sue razzie non solo arrivò al Tago, sibbene portò la propria corte più a sud, in Oviedo; fu in relazioni con Carlo Magno; con l'aiuto dell'Aquitania riuscì a frenare l'impeto dei musulmani che, se giunsero ad occupare Oviedo, non poterono o non vollero conservare le proprie conquiste e soffrirono varie sconfitte, come quella disastrosa di Lutos (794); finalmente, nelle sue spedizioni liberò molti mozarabi, con i quali iniziò il ripopolamento del paese, che era indispensabile per fare avanzare la conquista. E in seguito la resistenza agli attacchi arabi, ai quali si aggiunsero anche le incursioni dei Normanni sulle coste, e la politica del ripop0lamento continuarono durante i proprî regni Ramiro I (842-50) e specialmente Ordoño I (850-66) e Alfonso III el Magno (866-910): perché, se lo stato cristiano fu di nuovo scosso da lotte dinastiche e dalla rivolta dei Galiziani, insorti contro gli Asturiani, tuttavia i suoi sovrani poterono compensare questa loro debolezza con quella del nemico, ancor lui divenuto preda di gravi rivolgimenti. Così, la frontiera meridionale, portata sul Duero, fu difesa con la costruzione delle fortezze di Zamora, Simancas, San Esteban de Gormaz e Osma, che costituirono una robusta linea; quella orientale fu protetta dagli assalti di Mūsà di Saragozza con un'ardita spedizione che giunse ad Albelda e portò alla vittoria di Clavijo (860), e dalle scorrerie musulmane, in genere, con una serie di castelli, che poi diedero alla regione il nome di Castiglia. Entro questi confini furono ripopolati León (856), Astorga, Túy, Amaya (860), Oporto, Braga, Viseo, Lamego, forse Burgos (882-84); al dilà, la zona d'influenza raggiunse Coimbra, Salamanca, Toledo; la capitale fu portata ancora più a sud, a León. Poi, all'energica controffensiva musulmana guidata da ‛Abd ar-Raḥmān III, che nelle sue incursioni giunse a prendere Burgos, opposero valida resistenza Ordoño II (914-24), che in una razzia saccheggiò i territorî di Mérida, ma non fu sempre fortunato, perché, vincitore del califfo a San Esteban de Gormaz (917), fu vinto nello scontro di Valdejunquera (920); e specialmente Ramiro II (931-51), che sconfisse i musulmani nella battaglia di Simancas (939), la prima di risonanza europea, e poté ripopolare la regione bagnata dal Tormes. La situazione si modificò negli anni seguenti. Già durante gli ultimi tempi del regno di Ramiro II aveva assunto gravi proporzioni la rivolta separatista scoppiata nella contea di Castiglia sotto la direzione di Fernán Gonzáles (circa 923-circa 970), l'eroe della leggenda e della poesia castigliane, e sostenuta da ‛Abd ar-Raḥmàn III; e per di più essa aveva permesso a quest'ultimo d'impossessarsi di Medinaceli (Soria), chiave dello stato. Durante i regni di Ordoño III (951-56), di Sancio I el Craso (956-66), di Ordoño IV (958), la monarchia divenne preda di lotte dinastiche e civili, nelle quali ebbe grande parte il conte castigliano, che allora divenne del tutto indipendente; e l'anarchia crebbe sotto Ramiro III (966-82) e Bermudo II el Gotoso (982-99), quando, seguendo l'esempio di quello castigliano, anche gli altri conti cercarono di rendersi autonomi dal sovrano, i Normanni rinnovarono i loro attacchi, e al-Manṣūr, chiamato in suo aiuto da Bermudo e divenuto il vero reggitore dello stato, ai tentativi compiuti dal monarca per liberarsi dalla sua tirannia, rispose ponendo a ferro e a fuoco tutto il paese e distruggendo Santiago de Compostela, che era sorta intorno al sepolcro dell'Apostolo, già scoperto al tempo di Alfonso II e divenuto meta d'imponenti pellegrinaggi. Tuttavia, anche in anni così tragici lo stato riuscì a salvarsi dalla distruzione, e per opera proprio di ‛Abd ar-Raḥmān e di al-Mansūr, che intervennero nelle contese assicurando il trionfo a questo o a quell'avversario, e si limitarono a rendere vassalli i monarchi e a ridurre i loro dominî. Particolarmente caratteristico è quanto avvenne per Sancio I, che ebbe da ‛Abd ar-Raḥmān un medico che curò la sua salute e fu da lui sostenuto contro le aspirazioni al trono di Ordoño III; allora sembra che egli si recasse a Cordova insieme con la regina di Navarra, sua nonna.
Incertissime sono le origini degli stati che sorsero nelle regioni situate lungo i Pirenei: Navarra, Aragona, Sobrarbe, Ribagorza, Pallás, Urgel, Cerdaña, territorî catalani. Come dicemmo, nella zona centrale i musulmani non toccarono o almeno non occuparono stabilmente il paese posto al nord di Alquézar (Sobrarbe), Roda (Ribagorza), di Ager (Pallás), e forse l'alto Urgel e la Cerdaña; territorî di transito per le spedizioni nella Gallia furono invece, da un lato, la Navarra, dove sembra che Pamplona sia stata dominio di Mūsà e poi di ‛Oqba, e, dall'altro, i territorî catalani, tra Lérida e Barcellona, dove gli Arabi s'impadronirono di Barcellona intorno al 718. Ora, in tali regioni, da secoli, esistevano locali tendenze autonomiste: molto marcate specialmente nelle provincie basche, i cui abitanti erano stati in continua lotta con la monarchia gota e nelle loro incursioni erano discesi a valle, verso Saragozza; rese più tenui altrove dalle precedenti dominazioni, ma pronte a risorgere. E queste dovettero trovare alimento nei mutamenti determinati nella situazione politica del paese dall'invasione araba, e rafforzarsi tanto nei territorî occupati più vicini ai Pirenei, dove anche i Visigoti fattisi musulmani aspiravano a rendersi indipendenti dagli emiri, quanto nei territorî rimasti liberi e abbandonati a sé stessi. Poi, in questo frazionamento territoriale e nell'iniziale scarsa differenziazione tra cristiani e musulmani, a dare profondità spirituale e una qualche unità politica all'opposizione dei cristiani contro i maomettani e alle contese scoppiate nel seno dei dominî settentrionali dell'emiro, intervennero: la propaganda religiosa promossa da monasteri, santuarî e vescovadi - come San Salvador de Leyre (Navarra), San Juan de la Peña (Aragona), San Victorián (Sobrarbe), Ovarra e Roda (Ribagorza), Ager e Aláon (Pallás), il vescovado di Urgel - e la conquista carolingia, che pose a diretto contatto Franchi e Spagnoli, aprì ai primi un nuovo campo di azione, cominciò a dare un preciso indirizzo alla vita politica dei secondi, tanto dei cristiani, quanto dei neofiti musulmani della pianura, che, per divenire indipendenti, presero a barcamenarsi tra musulmani e cattolici. Fu allora che molto probabilmente i cristiani della regione pirenaica si sottomisero a principi venuti d'oltremonte o riconobbero la supremazia di Tolosa. Ed è del 778 la prima spedizione di Carlo Magno, che, accogliendo l'invito di Saragozza, Lérida e Barcellona, passò i Pirenei e conquistò Pamplona, Huesca e Gerona, ma fu battuto a Roncisvalle dai Baschi; del 785 la seconda, che gli diede il possesso di Gerona, primo nucleo di quella Marca Hispanica, che nell'801 ebbe come capitale Barcellona, allora riconquistata al cristianesimo. Così, nei primi anni del sec. IX la linea di confine tra il mondo cattolico e il musulmano aveva ai punti estremi, da un lato, questa "Marca", che giunse a comprendere le contee di Gerona, di Ausona (Vich), di Ampurias, di Barcellona, ecc., e che nell'817 insieme con la Septimania formò il marchesato di Gotia; e, dall'altro, uno stato di Navarra, o meglio di Pamplona, forse creato come la Marca Hispanica e governato da elementi provenienti dalle regioni situate al dilà dei Pirenei, e forse anche dominato in parte dai re asturiani e dai conti di Castiglia. E nella zona centrale tale confine passava per Uncastillo, Sarsamarcuello, Loarre, Alquézar, Roda, Ager, e limitava gli staterelli di Aragona, comprendente l'alta valle del fiume omonimo, Ribagorza, Pallás, Urgel, Cerdaña, forse Sobrarbe, in genere contee appartenenti al ducato di Tolosa.
Le vicende politiche di questi staterelli furono strettamente legate a quelle dell'impero carolingio. L'indebolimento del potere centrale nello stato franco, portò anche qui come altrove a una rottura dei precedenti rapporti di dipendenza; ed ora che il pericolo musulmano si era attenuato, il distacco fu acuito dal risorgere delle antiche passioni delle singole regioni, autonomiste come le provincie basche, contrarie a una dominazione franca, come le catalane, che al tempo dei Visigoti erano state sempre in armi contro i Merovingi. Quasi contemporaneo fu dovunque il sorgere di organizzazioni che presto si resero indipendenti dallo stato franco e cominciarono a vivere una vita comune, insieme con la monarchia asturiana e con la contea di Castiglia: partecipando alla lotta contro i musulmani, intervenendo scambievolmente nelle proprie lotte civili, legandosi tra loro con vincoli di parentela stretti fra i principi. Nella prima metà del sec. IX in Navarra si ebbe come re di Pamplona un Iñigo Arista; e conte d'Aragona, in Jaca, divenne un Aznar Galindo. Nella seconda metà dello stesso secolo anche Ribagorza e Pallás, Ampurias e Rossiglione ebbero conti loro; e divenne indipendente Guifre el Pilós (Vifredo el Velloso), conte di Barcellona, Urgel, Cerdaña, Gerona, Besalú, Conflent, Ausona. In seguito, nel sec. XI questi stati riuscirono a superare la reazione musulmana diretta da ‛Abd ar-Raḥmān III e da al-Manṣūr, anche se furono costretti a riconoscere la supremazia del califfo. Infatti, Sancio I di Navarra (905-25), vinto a Valdenjunquera insieme con Ordoño II (920) e inseguito sino a Pamplona, che fu saccheggiata e in parte distrutta (924), riuscì per altro a spingersi su Nájera e Tudela, a occupare Viguera, e con gli aiuti di León e di Castiglia, forse, anche a vincere poco prima di morire. E poi il suo stato, rafforzatosi con l'annessione dell'Aragona - che Endregodo Galíndez, figlia del conte Galindo Aznáres, portò in dote al marito, il re García Sánchez (925-70) - durante il governo di questo sovrano e di sua madre e tutrice, la regina Tota, vide le proprie truppe combattere a Simancas accanto a quelle di Ramiro II di León, partecipò attivamente alle guerre civili scoppiate in León e condivise la politica di Sancio I di León verso al-Manṣūr. Contemporaneamente, sebbene alla morte di Guifre I si spezzasse l'unità del suo stato, diviso tra i figli, ed al-Manṣūr giungesse a conquistare Barcellona (985), tuttavia Borrell II, conte di Barcellona, Ausona e Gerona (morto nel 992), riuscì a riprendere la città con le proprie forze - e allora si rifiutò di fare atto di vassallaggio ai Capetingi, che tale condizione gli avevano messo per dargli aiuto - e suo figlio Ramón Borrell (992-1018) partecipò all'incursione cristiana, che giunse sino a Cordova (1010).
La formazione delle grandi monarchie cristiane. - Un primo raggruppamento di questi stati si ebbe nella prima metà del sec. XI: fu reso possibile appunto da quelle parentele antiche e nuove dei loro sovrani e da quella comunanza d'interessi, alle quali abbiamo accennato, e fu facilitato dalle particolari condizioni della Spagna musulmana, che, di contro, si suddivise nei "regni di Taifas", e, lacerata da profonde lotte intestine, non poté più controllare i progressi delle monarchie cristiane. Infatti, ai possedimenti ereditarî (Navarra e Aragona) Sancio III di Navarra el Mayor (circa 1000-35) tra il 1015 e il 1025 aggiunse per diritto di successione o di conquista gran parte di Sobrarbe e di Ribagorza; inoltre rafforzò la propria autorità sulla Cantabria già occupata dal nonno; come marito della figlia di Sancho García di Castiglia, alla morte senza discendenza maschile del cognato García Sánchez (1028) s'impossessò della sua contea; sfruttando la tragica fine di Alfonso V el Noble di León (999-1027), caduto durante l'assedio di Viseo, e la debolezza del suo erede Bermudo III (1027-37), occupò del regno di León la parte situata tra il Pisuerga e il Cea. Finalmente, timorosi del suo potere, anche altri principi dovettero riconoscere la sua sovranità: certo si è che egli assunse i titoli di re di Pamplona, Aragona, Sobrarbe, Ribagorza, Castiglia, Ávila, León, Asturie, Astorga, Pallás, perfino di Guascogna e di Barcellona. Ora, senza dubbio, tale unita durò pochi anni, ché, alla propria morte Sancio divise lo stato fra i figli, e lasciò la Navarra con la città di Nájera, la Guipúzcoa e la Vizcaya al primogenito García; la Castiglia e la citata parte del regno di León, il tutto elevato a regno, a Ferdinando; Sobrarbe e Ribagorza all'ultimogenito Gonzalo, e l'Aragona, ancor questa promossa a regno, al bastardo Ramiro I. Per di più, negli anni seguenti si ebbero nuove suddivisioni, avendo Fernando I el Magno (1035-65) ripartito il suo stato fra i figli e assegnato la Castiglia a Sancio II (1065-72), il León ad Alfonso VI (1065-1109), la Galizia a García, la signoria di Zamora a Urraca, quella di Toro a Elvira. Tuttavia, il movimento allora iniziato, nonostante alcune soste e alcuni indietreggiamenti, continuò negli anni seguenti, attraverso un intricato avvicendarsi di complesse contese, nelle quali non si risparmiò mezzo alcuno: non la lotta fratricida, ché García di Navarra morì nella battaglia di Atapuerca, vicino a Burgos, nel 1054 combattendo contro il fratello Ferdinando; non l'alleanza con i principi musulmani, ché, ad es., lo stesso García nella sua guerra contro Ferdinando I si valse di maomettani; Alfonso VI e García di Galizia ricorsero per aiuti rispettivamente ai regoli di Toledo e di Siviglia nella loro contesa con Sancio II, e García del medesimo suo precedente alleato in quella contro Alfonso VI. Fernando I come marito della sorella di Bermudo III di León, poté occupare la parte ancora indipendente di questo regno, quando Bermudo cadde nella battaglia di Támara (Palencia) nel 1037, nel vano tentativo di riconquistare i territorî del suo stato che erano in dominio del cognato; e l'unità della sua monarchia leonese-castigliana fu ricostituita da Alfonso VI, allorché all'assedio di Zamora cadde ucciso Sancio II, che aveva già vinto i fratelli e stava per sottomettere alla sua autorità tutti i dominî del padre, e allorché la sorte delle armi volse sfavorevole a García di Galizia, inutilmente accorso a sostenere i proprî diritti. Inoltre, Ramiro I d'Aragona (1035-1063) s'impossessò di Sobrarbe e di Ribagorza; suo figlio Sancio Ramírez (1063-94) divenne anche re di Navarra, quando Sancio IV (1054-76), successore di García di Navarra (1035-54), fu ucciso a Peñalén da un suo fratello bastardo; e le due corone restarono sulla testa dei re d'Aragona Pedro I (1094-1104) e Alfonso I el Batallador (1104-34).
Nello stesso tempo si fecero grandi progressi verso l'unità catalana: e anche a Barcellona il fratricidio insanguinò il trono del conte se, come sembra, Ramón Berenguer II fu ucciso dal fratello Berenguer Ramón II, figli ed eredi di Ramón Berenguer I, che aveva lasciato ad essi i proprî domini. Con questo conte (1035-76), figlio di Berenguer Ramón I el Corbat (el Curvo, 1018-35), la contea di Barcellona si pose alla testa delle varie contee della regione: i fratelli rinunciarono in suo favore all'eredità paterna e alcuni conti stipularono con lui accordi o si dichiararono suoi vassalli. Dipoi, Ramón Berenguer III el Gran (el Grande, 1096-1131) ottenne le contee di Besalú (1111) e di Cerdaña (1117); sicché, alla sua morte, non rimanevano indipendenti che le contee di Urgel, di Rossiglione e Ampurias, di Pallás.
La formazione di questi vasti organismi politici, nonché i mezzi impiegati per raggiungerla, e, di contro, il contemporaneo frazionamento della Spagna musulmana facilitarono e affrettarono la riconquista cristiana. Infatti, i "regni di Taifas" per la loro debolezza erano di per sé incapaci a sostenere la rafforzata offensiva cattolica; e, d'altro canto, parteggiando per questo o quel principe nelle loro lotte, accrescendo così la materia del contendere e giustificando almeno parte delle spedizioni fatte dai monarchi cristiani contro di essi in quanto alleati dei loro avversarî, resero più agevole la conquista dei proprî territorî. Ferdinando I di León e Castiglia s'impadronì di Viseo, Lamego (1057), Coimbra (1064), portò la frontiera dal Duero al Mondego, vinse il re di Valenza, rese tributarî il re di Saragozza (al quale tolse le fortezze al sud del Duero) e i re di Toledo, di Badajoz, di Siviglia (1063), e in un'incursione si spinse fin nelle vicinanze di questa città. Suo figlio Alfonso VI tornò a invadere il regno di Siviglia, che aveva sostenuto García di Galizia, giungendo sino a Tarifa (1082); con l'occupazione di Toledo (1085) raggiunse il Tago e poté consolidare le precedenti conquiste tra il Duero e questo fiume, popolando o impadronendosi di numerose città, come Salamanca, Ávila, Medina, Segovia, Talavera, Madrid, Uceda, Guadalajara, Mora, Alarcón, Uclés, Cuenca; s'impossessò del castello di Aledo, vicino a Lorca, che permetteva di dominare il regno di Almeria; assediò Saragozza; costrinse il monarca di Siviglia a cedergli i territorî appartenenti al regno di Toledo e da lui usurpati; diede Valenza al suo antico alleato nelle lotte contro Sancio, l'ex-regolo di Toledo, che era stato sbalzato dal trono da una rivoluzione prima dell'occupazione della città da parte dei Castigliani. Negli stessi anni anche l'Aragona si mosse: Sancio Ramírez, combattendo contro i musulmani di Lérida, Tortosa, Huesca, con l'aiuto del conte di Urgel s'impadronì di Barbastro (1065), conquisto Graus (1083) e Monzón (1089), cinse di assedio Huesca, sotto le cui mura fu mortalmente ferito. Infine, prese le armi anche il conte di Barcellona: Ramón Berenguer I tolse alcune terre al regno di Saragozza e raggiunse il Segre a Camarasa (1060) e nel 1091 Berenguer Ramón II el Fratricida (1076-97) conquistò Tarragona. In tal modo fu possibile resistere anche all'offensiva almoravide, che, anzi, in un secondo momento, ad alcuni sovrani non impedì di progredire verso sud. Alfonso VI fu vinto a Zalhaca (ottobre 1086), ma per più anni poté conservare gran parte delle sue posizioni avanzate, tornò ad allearsi con i regoli di Granata, Siviglia, Badajoz, da quest'ultimo ottenne la cessione di Santarém, Cintra, Lisbona (1093). E se fu battuto a Uclés (1108), ove cadde l'unico suo figlio e dove gli Almoravidi consolidarono il proprio potere su quasi tutta la Spagna musulmana, e se alla sua morte (1109), durante il governo di sua figlia ed erede Urraca (1109-26), lo stato fu travolto in gravissime contese; tuttavia, allora la difesa della monarchia leonese-castigliana fu assunta direttamente e indirettamente da Alfonso I d'Aragona, marito di Urraca e in lotta con lei; Toledo restò pur sempre cristiana, e l'offensiva venne poi ripresa con ardore dal nipote ex filia di Alfonso VI, Alfonso VII (1126-57). Contemporaneamente, Pietro I d'Aragona vinse ad Alcoraz le truppe di Saragozza, accorse in aiuto di Huesca e s'impadronì di questa città (1096), sottomise di nuovo al proprio dominio Barbastro (1101); e suo figlio Alfonso I, sebbene distratto dalla lotta che dovette sostenere con la moglie Urraca di Castiglia, vinse a Valtierra il regolo di Saragozza, che cadde nella battaglia; prese Tudela (1114); dopo quattro anni d'assedio ebbe Saragozza, che nel 1110 era caduta nelle mani degli Almoravidi (1118); a Cutanda sconfisse questi ultimi, accorsi a riconquistare il perduto (1120); tra il 1120 e il 1121 occupò Magallón, Borja, Tarazona, Calatayud, Bubierca, Ariza, Daroca, Monreal del Campo; e prese Mequinenza nella lotta contro i musulmani di Lérida e Fraga: lotta che per altro non gli fu del tutto fortunata, perché non riuscì a superare l'opposizione del conte di Barcellona, che desiderava per sé Lérida, e la resistenza di Valenza di Murcia e di Cordova, che intervennero per difendere nella città la propria indipendenza. Infine, sempre negli stessi anni, Ramón Berenguer III con l'aiuto del conte di Urgel conquistò Balanguer, si fece iniziatore di una crociata contro i musulmani, che gli diede per breve tempo il dominio di Valenza; e, se pure fu da loro vinto (1124), tuttavia seppe resistere alle incursioni degli Almoravidi, che giunsero a minacciare Barcellona.
Erano le prime grandi conquiste cristiane. E le passioni dei cattolici spagnoli - alla cui formazione avevano ibridamente collaborato la propaganda religiosa, le continue guerre, l'ansia di raggiungere un benessere che la povera patria d'origine negava loro, lo spirito d'avventura, specialmente, che li aveva indotti e l'induceva a combattere anche tra le file dei maomettani - furono esaltate dalla ricchezza del bottino, dallo spettacolo dei meravigliosi frutti della civiltà andalusa, che nelle incursioni apparvero agli occhi attoniti dei conquistatori e riscaldarono le loro speranze e accrebbero i loro desiderî, dai brillanti successi che diedero ad essi precisa coscienza del loro valore e distrussero il mito della superiorità militare araba. Allora, infatti, la Spagna cattolica ebbe il proprio campione in Rodrigo Díaz el Cid, soldato di Alfonso VI di Castiglia, poi difensore del regolo di Saragozza e del suo alleato di Valenza, infine vero e proprio signore di questa città. Egli, misto di feroce e spregiudicato avventuriero e di magnifico condottiero, pur combattendo per i suoi personali interessi, molto fece in favore della cristianità, con le sue straordinarie imprese provò luminosamente esser gli Spagnoli capaci di conquistar la vittoria sugli Arabi e di governarli, sì che "per la fermezza del suo carattere e per il suo eroico valore" perfino dagli Arabi, che ne avevano terrore, fu detto "uno dei più grandi miracoli del Signore"; ottenne il riconoscimento dell'opera sua dai monarchi cristiani, i quali s'imparentarono con lui e lo posero al proprio livello.
Ma in questi anni, attraverso lo stesso complesso di lotte che, come abbiamo veduto, s'intrecciano alle campagne di conquista, contribuiscono alla formazione dei nuovi stati, dànno alla vita della Spagna una spiccata unità d'indirizzo e di metodi politici e quindi il suo peculiare carattere, i varî stati cristiani - sorti dal precedente più minuto frazionamento del paese cattolico e animati dalle stesse passioni dei proprî sudditi - si avviarono a darsi una ragione di vita, a fissare il proprio avvenire, a subire quello che fu loro imposto. La lotta arse tra la Castiglia, la Navarra, l'Aragona; e poi, quando la Navarra e l'Aragona ebbero un unico sovrano, il monarca aragonese perseverò nella lotta contro la Castiglia a forze riunite, infine, nei conflitti ebbero parte anche i conti di Barcellona, di Urgel, di Pallás. Allora si trattò di fissare i confini dei singoli stati, e specialmente di decidere la sorte delle provincie basche (Alava, Guipúzcoa e Vizcaya) e della Rioja, contese tra la Castiglia e la Navarra sin dal tempo della morte di Sancio III el Mayor (ché Fernando I aveva vinto il fratello ed occupato parte del suo regno, per poi ripiegare innanzi alla coalizione di Sancio IV con Ramiro I), e alcune di esse di fatto autonome; anzi, è da ritenere che la Navarra alla morte di Sancio IV si desse all'aragonese anche per riceverne aiuto contro Alfonso VI, che si era impadronito della Rioja. E si trattò di ripartirsi il possesso delle grandi strade del Sud, verso cui gli stati cristiani ormai puntavano ansiosamente, il che equivaleva a determinare le rispettive zone d'influenza nei territorî musulmani e a fissare preventivamente i futuri confini delle varie monarchie - per evitare d'esser tagliati fuori nella riconquista del paese e di perdere, in tal modo, la possibilità di ulteriori espansioni. Infatti, Alfonso VI di León e Castiglia già assediava Saragozza, allorché dovette interrompere le operazioni per l'invasione degli Almoravidi, e poi tentò di opporsi all'avanzata aragonese sostenendo i musulmani di Huesca nella loro resistenza contro Pietro I. Invece Saragozza cadde nelle mani di Alfonso I, quando la Castiglia, durante il governo di Urraca, fu trascinata nelle lotte civili; ed anzi l'aragonese negli ultimi anni della sua vita con il possesso di Mequinenza si avanzò verso le rive del Segre e il corso inferiore dell'Ebro. Tuttavia, se, come per il passato, Alfonso I vide piegati verso la sua monarchia i conti di Urgel e di Pallás, sulla via di Lérida, importantissimo nodo di strade, si trovò di contro Ramón Berenguer III. Così, precisatisi nettamente gl'interessi delle maggiori monarchie, nella prima metà del sec. XII fallì clamorosamente il sogno di Alfonso VI che, dando la figlia Urraca in moglie ad Alfonso I, aveva pensato di unire le tre corone regie della Spagna cristiana, e si fece più profondo il distacco tra i rispettivi stati: dopo anni di caotici conflitti, nei quali parvero spezzati tutti i vincoli e l'anarchia prese il sopravvento in una ridda confusa di rivolte e di guerre, Alfonso I rinunziò disgustato alla lotta; e, di contro, alla sua morte, durante il regno del fratello Ramiro II el Monje (1134-37), la nobiltà aragonese si oppose a un matrimonio tra sua figlia ed erede Petronila con il primogenito del re di León e Castiglia. Inoltre, negli stessi anni, approfittando delle condizioni della Francia meridionale, una profonda opera di espansione politica nelle terre al dilà dei Pirenei iniziarono Alfonso I e i conti di Barcellona: il che era, per lo meno, una netta dimostrazione dell'indipendenza di quella parte della Spagna dalla monarchia capetingia, erede dei diritti della carolingia, che già l'aveva dominata. Il primo nel 1116 accolse come vassallo il conte di Tolosa, nel 1122 si recò nella Guascogna per ricevere il vassallaggio del conte di Bigorra e per aiutarlo, e nel 1130 si schierò in favore di Gastone de Bearne e assediò e conquistò Bajona, sì che la Gallia già gota si sottomise al suo dominio; dei secondi, Ramón Berenguer I per i suoi matrimonî con principesse del Mezzogiorno della Francia finì con essere impegnato nelle locali lotte feudali, e Ramón Berenguer III, sposando in terze nozze Dolce di Provenza, acquistò il diritto di succederle in questa contea, che occupò in parte dopo alcuni anni di lotta con il conte di Tolosa (1125) e che poi lasciò al figlio Berenguer Ramón, mentre il primogenito Ramón Berenguer IV diveniva conte di Barcellona. Infine lo stesso Ramón Berenguer III cominciò a rivolgere la propria attenzione al mare; fu in rapporti con le repubbliche marinare italiane; partecipò a una crociata promossa da Pisa (1114) contro le Baleari, e, se quest'ultima impresa fu di scarsa utilità immediata, ché si riuscì soltanto a diminuire la pirateria, tuttavia fu la prima manifestazione della nascente potenza marinara dello stato catalano: nome che troviamo usato nel Liber maiolichinus.
Poi la situazione si chiarì del tutto tra la seconda metà del secolo XII e la prima del XIII. Senza dubbio, in tale periodo si ebbe un nuovo frazionamento territoriale. Alla morte di Alfonso I d'Aragona (1134), la Navarra non volle come sovrano Ramiro II e, ritornata indipendente, si diede a García Ramírez (1134-50) nipote di Sancio IV, al quale successero il figlio Sancio VI el Sabio (1150-94) e il nipote ex filio Sancio VII el Fuerte (1194-1234). Alfonso VII di Castiglia e León nel 1157 lasciò i suoi dominî divisi tra i figli, dando la Castiglia a Sancio III (1157-58), al quale successero Alfonso VIII (1158-1214), Enrico I (1214-17) e sua sorella Berenguela, seconda moglie di Alfonso IX di Leon, e il León a Ferdinando II (1157-88) al quale successe Alfonso IX (1188-1230). Infine, approfittando delle lotte civili scoppiate al tempo di Urraca e nelle quali ebbe notevole parte, già da tempo aveva fatto grandi passi verso l'indipendenza la contea di Portogallo, sita tra il Miño e il Duero, che Alfonso VI di León e Castiglia aveva data a sua figlia Teresa, sposata con Enrico di Lorena, e che il loro figlio Affonso Henriques (1128-85) aveva trasformato in regno dopo aver vinto i musulmani a Ourique (1139); ora con Sancio I (1185-1211) e con Alfonso II (1211-1223) l'indipendenza dello stato ebbe la sua definitiva conferma. Tuttavia, avvenimento di grandissima importanza nella storia della Spagna, con il matrimonio tra Petronila d'Aragona e Ramón Berenguer IV di Barcellona nel 1137 (data della promessa nuziale e dell'abdicazione di Ramiro II) ebbe origine in effetti la monarchia catalano-aragonese; alla quale, in seguito, durante i regni di Alfonso II (1162-96), Pedro II (1196-1213) e Giacomo I el Conquistador (1213-76), passarono le contee di Rossiglione (1172), di Pallás (1198), di Urgel (1230). E poi le due corone di León e di Castiglia si unirono di nuovo, e per sempre, sulla testa di Ferdinando III el Santo (1217-52), figlio di Berenguela di Castiglia e di Alfonso IX di León. Il quale divenne re di Castiglia nel 1217 per l'abdicazione della madre in suo favore e dopo aver vinto l'opposizione del padre, aspirante ancor lui al trono e nei suoi tentativi di conquista aiutato da una parte della nobiltà, che fu vinta definitivamente nel 1219; e nel 1230, alla morte di Alfonso IX, ebbe anche la corona del León, per rinunzia degli eredi designati dal monarca.
Per quanto riguarda la guerra di riconquista, nei primi tempi l'avanzata cristiana verso il Sud fu resa più lenta dall'offensiva degli Almohadi e poi dalle guerre scoppiate tra i varî stati cattolici e nel seno di qualcheduno di essi, e alle quali presero parte anche gli Africani. Infatti, non ebbe risultati duraturi neppure la grande impresa di Almeria compiuta da Alfonso VII con l'aiuto di truppe dell'Aragona, della Catalogna, di Urgel, comandate da Ramón Berenguer IV, da García Ramírez e dal conte di Urgel Ermengol VI el de Castella, e con l'aiuto ancora di navi pisane e genovesi: la città fu conquistata e saccheggiata (1147), ma dopo qualche anno cadde in potere degli Almohadi (1158). Così, le grandi conquiste fatte dal Portogallo durante il regno di Affonso Henriques, che si era impossessato di Santarem, di Lisbona (1147), di Alcácer (1158), di Évora, di Beja (1159) e aveva stroncato la potenza dei musulmani di Badajoz, furono in maggioranza perdute durante il governo di Sancio I. Alfonso VII di León e Castiglia dovette limitarsi a compiere continue incursioni in Andalusia, arditissime, ma quasi del tutto inefficaci: Cordova, da lui occupata due volte, ritornò in dominio degli Almohadi; contro questi ultimi inutili furono i suoi accordi con alcuni regni di Taifas; e invano egli assediò Jaén (1151) e Guadix (1152). Durante il breve regno di Sancio III di Castiglia non si ebbe che la resistenza opposta in Calatrava agli attacchi musulmani da parte di alcuni monaci cisterciensi, così avendo inizio l'Ordine militare di Calatrava. E quando Alfonso VIII di Castiglia, divenuto maggiorenne, poté assumere il governo dello stato e porre termine alle guerre civili scoppiate nel regno durante la sua minore età, se riuscì a conquistare Cuenca con il soccorso aragonese (1177), peraltro, abbandonato a sé stesso da Alfonso IX di León e da Sancio VI di Navarra che gli avevano promesso degli aiuti, e lanciatosi all'attacco con troppa leggerezza, fu battuto ad Alarcos (18 giugno 1195) e vide Toledo e Cuenca assediate dagli Almohadi. La riconquista fece notevoli progressi soltanto nelle regioni orientali. Qui conquistò Tortosa (1148); poi s'impadronì di Lérida (1149), di Fraga, di nuovo di Mequinenza, infine del castello di Ciurana (1153), la cui conquista gli assicurò il dominio della Sierra de Prades e liberò tutta la futura Catalogna dal dominio musulmano. E suo figlio Alfonso II mosse contro il regno di Valenza: ne assediò la capitale (1171), conquistò Rueda, prese Teruel, che divenne il baluardo della resistenza cristiana contro i musulmani di Valenza, raggiunse il Guadalaviar e l'Alfambra, diede alla futura Aragona i suoi confini. Tuttavia, nel primo decennio del sec. XII a don Rodrigo Ximénez de Rada, arcivescovo di Toledo, riuscì di mettere d'accordo i principi cristiani; la crociata fu bandita; e il 16 luglio 1212 a Las Navas de Tolosa gli Almohadi erano disfatti dalle truppe spagnole e portoghesi comandate dai loro re - mancarono quelli del León e del Portogallo - e aiutate da contingenti stranieri intervenuti sotto gli ordini di vescovi e di principi francesi. Allora la guerra di riconquista fu ripresa con rinnovato entusiasmo; e poiché lo stato degli Almohadi si era frazionato e si poteva trarre profitto dalle discordie interne dei regni che erano sorti sulle sue rovine, e inoltre nel 1230 i due regni di León e di Castiglia furono di nuovo sottoposti a un unico sovrano, e la Navarra si allontanò dalla vita politica spagnola e in genere ebbero sosta le guerre tra gli altri tre stati peninsulari, i risultati ottenuti furono di enorme importanza. Sancio II di Portogallo (1223-48) riprese il perduto e si spinse innanzi; e il suo successore Alfonso III (1248-78) occupò l'Algarve e diede l'Oceano come confine meridionale alla propria monarchia. Alfonso IX di León riconquistò Cáceres (1227) e s'impadronì di Mérida e di Badajoz; e nello stesso tempo Ferdinando III di Castiglia occupò Andújar e altri luoghi vicino a Cordova. E quando quest'ultimo sovrano ebbe anche la corona del León, a forze riunite, d'intesa con Giacomo I d'Aragona e con l'aiuto degli ordini religiosi di Calatrava e di Alcántara, conquistò Truijllo, Montiel, Medellín, Alhange, Magacela (1232-35), nel luglio 1233 prese Ubeda, il 29 giugno 1236 fece capitolare Cordova, nel 1241 rese suo vassallo il re di Murcia e ne occupò quasi tutto lo stato; nel 1244-45 si spinse fin sotto Granata e l'anno seguente ottenne dal suo re Jaén, un tributo e promesse, mantenute, di aiuti nelle sue ulteriori imprese; nel 1247 conquistò Carmona; il 23 novembre 1248 costrinse Siviglia ad aprirgli le porte, e passò gli ultimi anni della sua vita in Andalusia, dove prese Jerex, Medina Sidonia, Lebrija, Arcos, Rota, Santa María del Puerto, Sanlúcar, spingendosi sino a Cadice. Contemporaneamente, Giacomo I d'Aragona nel settembre 1229 sbarcò nell'Isola di Maiorca e l'ultimo giorno dell'anno entrò in Palma; nel 1232 rese tributarî i musulmani di Minorca; nel 1235 ottenne Iviza, mentre altri successi riportava nel regno di Valenza, dove egli e i suoi occupavano Ares, Morella (1232), Burriana, Peñiscola (1233), Alzamora (1234) e raggiungevano lo Júcar; poi, datosi tutto alla conquista di questo regno, costrinse alla resa la sua capitale il 28 settembre 1238 e ne completò l'occupazione nel 1245, allorché s'impadronì di Játiva, di Alcira, di Biar; finalmente, accordò il suo aiuto ad Alfonso X, figlio di Ferdinando III, quando il regno di Murcia insorse contro la Castiglia, della quale era tributario, e per l'alleato conquistò Elche, Alicante, Murcia (1266).
Infine, nella stessa epoca i varî stati cristiani decisero o videro deciso il proprio avvenire, perfezionandosi sotto tale aspetto l'opera di riordinamento già iniziata negli anni precedenti. E, del resto, il particolare sviluppo che ognuno degli stati diede alla riconquista e che abbiamo indicato, deve esser considerato appunto come una delle espressioni e conseguenze dell'indirizzo via via assunto dalla loro vita; le altre furono la ripartizione fra le varie monarchie dei territorî già precedentemente restituiti alla cristianità, la definitiva delimitazione territoriale della Spagna, che ebbe ai Pirenei il suo confine, e, per alcuni stati, la determinazione della direzione che avrebbe avuto la loro espansione al dilà dei mari. Nel complesso processo di chiarificazione, nei confronti della precedente sistemazione, elementi negativi furono la separazione della Navarra dall'Aragona, la confermata indipendenza del Portogallo e, in via transitoria, la divisione tra il regno di León e il regno di Castiglia; di contro, elemento positivo fu l'unione tra l'Aragona e gli stati catalani, che pose fine alle loro contese peninsulari, permise ad essi di raccoglier tutte le proprie energie nel tentativo di rafforzare la loro espansione nella Francia meridionale, alla quale già precedentemente avevano mirato ognuno per suo conto; con l'Aragona diede sicurezza, forza, mercati per il suo commercio alla Catalogna tutta protesa verso il Mediterraneo, e con la Catalogna assicurò uno sbocco sul Mediterraneo all'Aragona, allontanata dall'oceano per la sua separazione dalla Navarra: sì che quando la monarchia francese respinse al dilà dei Pirenei i Catalani e gli Aragonesi, questi poterono dare un altro indirizzo alla loro attività e riguadagnare ad usura quanto avevano perduto. Durante il governo di Alfonso VII di León e Castiglia la direzione della vita politica peninsulare degli stati spagnoli cattolici si accentrò nelle mani di quel re, a tutto vantaggio della sua monarchia. Rinnovando con più fortuna la politica del nonno Alfonso VI, alla morte di Alfonso I d'Aragona occupò Tarazona, Daroca, Calatayud, Saragozza (1134); e se poi restituì a Ramiro II questa città (1136) per l'intervento dei conti di Urgel e di Barcellona interessati a impedire che Saragozza divenisse castigliana per lasciarsi libera la via di Lérida e dell'Ebro, tuttavia egli ottenne che Ramón Berenguer IV gli prestasse omaggio; inoltre insieme con il re di Francia rese vani i tentativi compiuti dal nuovo principe d'Aragona per obbligare il monarca di Navarra a restituire alcuni territorî di frontiera che nella separazione si era attribuiti; costrinse Affonso Henriques di Portogallo a venire a patti, e vide riconosciuta da tutti i principi la sua superiorità d'imperatore di Spagna". Ma alla sua morte la contesa riprese con grande accanimento e con una ricca varietà di alleanze e di guerre fra i varî stati, rese anche più intricate dal continuo conflitto tra la Castiglia e il León. Attraverso lunghe lotte con il León, il Portogallo giunse a fissare il suo confine settentrionale; e, se sulla frontiera orientale non poté assicurarsi il dominio di Badajoz, per altro al sud nel 1263 ebbe confermato il possesso dell'Algarve. I limiti delle rispettive conquiste nella Spagna orientale e meridionale furono fissati dagli accordi di Cazola (Cazorla?) e di Almizra conclusisi tra l'Aragona e la Castiglia rispettivamente nel 1179 e nel 1244, pei quali Murcia e il suo regno furono chiusi alla conquista aragonese, e quindi anche la superstite monarchia musulmana di Granata. La Navarra fu la sacrificata; García Ramírez riuscì a conservare l'integrità dello stato dalle pressioni dei vicini sovrani; ma durante il regno di Sancio VII l'accordo di Cazola, fissando come confini della Castiglia e dell'Aragona la Sierra del Moncayo, chiuse per sempre la via del sud alla Navarra, che poté salvare dalle mani dell'Aragona soltanto Tudela; e invano Sancio VII mosse alla riscossa alleandosi con i musulmani, il cui aiuto aveva chiesto recandosi personalmente nel Marocco: allora dominio di Alfonso VIII di Castiglia e León divenne l'Alava (1200), mentre già da tempo la Guipúzcoa e la Vizcaya erano entrate nella sfera d'influenza castigliana. Anzi, poco mancò che la Navarra non perdesse la propria indipendenza perché negli ultimi anni della sua vita Sancio VII strinse con Giacomo I d'Aragona un accordo, per il quale i due sovrani s'impegnavano reciprocamente a riconoscersi come eredi l'uno dello stato dell'altro. E se, invece, alla morte del sovrano salì sul trono Teobaldo figlio di Teobaldo di Champagne e di Bianca sorella del defunto, tuttavia la Navarra si appartò dalla vita politica della Spagna e affidò la tutela della propria libertà alle discordie che separarono l'Aragona e la Castiglia, sempre in lite per il suo possesso, e alla protezione della monarchia francese, interessata a impedire che su quel tratto pericoloso della propria frontiera si affacciasse un potente stato: la fine dei dissidî tra i due maggiori stati peninsulari e un loro anche temporaneo trionfo sulla monarchia francese coincideranno con il tramonto dell'indipendenza della sua parte spagnola. Infine, per quanto riguarda i rapporti tra la Catalogna unita all'Aragona e la Francia meridionale, l'epoca della maggiore espansione catalano-aragonese al dilà dei Pirenei coincise con il regno di Pietro II. Già Ramón Berenguer IV era intervenuto negli affari di Provenza durante la minore età di suo nipote ex fratre Ramón Berenguer III, che aveva avuta quella contea dal padre; rinnovando il conflitto tradizionale della sua famiglia e con l'aiuto di varî feudatarî della Francia meridionale e di Enrico II d'Inghilterra (1159), lo aveva difeso dagli attacchi del conte di Tolosa e dei suoi alleati De Baux, ed era riuscito a fargli avere l'investitura della contea da Federico Barbarossa insieme con quella di Arles e di Forcalquier. Poi, suo figlio Alfonso II aveva ereditato la Provenza dal cugino, morto all'assedio di Nizza; sostenuto dal re d'Inghilterra, ancora una volta aveva respinto gli assalti del conte di Tolosa; e suoi vassalli erano divenuti i signori del Bearn (1170), di Bigorra (1175), di Nîmes, di Béziers, di Carcassonne (1179). Con Pietro II si fecero altri passi in avanti: sposando Maria di Montpellier egli si assicurò l'eredità dei suoi dominî; fu sempre accanto al fratello Alfonso che dal padre aveva avuto la Provenza; si procurò l'amicizia del conte di Comminges e gli cedette in feudo la valle d'Aran (1201); perfino il conte di Tolosa Raymond VI divenne suo alleato e cognato, sì che parve prossima ad attuarsi l'unità politica del paese sotto lo scettro dell'aragonese. Ma invece il re fu travolto dalla crociata contro gli Albigesi; e, dopo aver tentato invano un accordo duraturo con Simone di Montfort, fu battuto e ucciso a Muret il 12 settembre 1213. La sua sconfitta segnò la fine del predominio catalano-aragonese nella Francia meridionale, a tutto vantaggio della monarchia francese; e alla liquidazione del precedente imperialismo del suo stato provvide Giacomo I d'Aragona, che con il trattato di Corbeil nel 1258 cedette a Luigi IX tutti i suoi diritti sulla regione, eccetto Montpellier che aveva avuto dalla madre. Ma, in cambio, dal capetingio egli ebbe la rinuncia a tutti i diritti che avrebbe potuto vantare sulle contee catalane come successore di Carlomagno, e poi, a conferma del trattato, qualche anno dopo, ottenne che il principe ereditario francese Filippo sposasse sua figlia Isabella. In tal modo, dopo secoli di contese che ebbero come teatro le regioni d'incerto dominio situate sui due versanti dei Pirenei, la Catalogna cominciò a separarsi nettamente dalla Francia. E a questo riguardo è da aggiungere che, neppure Alfonso VIII essendo riuscito ad occupare il ducato di Guascogna, dote di sua moglie Leonor Plantageneta (1204-06), la catena pirenaica divenne il confine anche della Castiglia. Allora la Catalogna-Aragona, nel suo profondo bisogno e ardente desiderio di conquiste e di espansione frenata al nord dalla Francia e ad occidente e al sud dalla Castiglia, si rivolse fiduciosa al mare, nel quale Giacomo I aveva conquistato le Baleari e Valenza, e con il matrimonio di suo figlio Pietro, che aveva sposato Costanza di Sicilia, e con la protezione accordata al commercio nell'Africa settentrionale e nel Levante aveva aperto orizzonti nuovi ai proprî sudditi.
La riorganizzazione della vita nella Spagna cristiana. - Intanto, via via che la riconquista progrediva, le monarchie cristiane, ognuna per suo conto, avevano provveduto alla propria organizzazione.
Della costituzione dello stato asturiano e delle contee catalane nei primi tempi della loro esistenza e della vita dei rispettivi territorî ben poco si sa; quasi nulla dell'Aragona e della Navarra, dove la monarchia dovette sorgere in epoca più tarda, ostacolata al suo nascere dal prevalere della nobiltà e dei grandi proprietarî, i quali mossero guerra ai musulmani e governarono le proprie terre in piena indipendenza. Poiché, come dicemmo, si trattava di paesi poveri, scarsamente popolati, che meno delle altre regioni spagnole avevano sentito l'influsso della civiltà romana e per di più erano meta di continue disastrose scorrerie da parte dei musulmani, la loro vita fu, in genere e sotto tutti gli aspetti, rudimentale e miserabile, in stridente contrasto con quella della contemporanea Spagna araba e in contrasto, anche se molto meno stridente, con quella della Spagna visigota. Inoltre, la loro organizzazione risentì delle necessità della guerra, alla quale i territorî cristiani dovevano la propria indipendenza, e che insieme con le lotte civili li costrinse a subordinare tutte le istituzioni al fine della difesa dal nemico e della sicurezza personale degli abitanti, sì che si rafforzò il carattere militare dello stato. Infine, creati dagli avvenimenti politici dell'Europa occidentale, che avevano spezzato la precedente unità territoriale e interrotto il già iniziato processo di unificazione morale e politica peninsulare, pur attenendosi alle tradizioni visigote - ché la società conservò la precedente partizione per classi e restarono in vigore le consuetudini e il diritto visigoti - i varî organismi politici furono sottoposti a influenze differenti, e perciò si avviarono a darsi particolari ordinamenti. Così le contee catalane ebbero le loro istituzioni dall'impero franco che le aveva create; e in esse si giunse a un vero e proprio regime feudale. Invece, lo stato asturiano fu piuttosto una reincarnazione del visigoto, riebbe i concilî, ritrovò nel Liber iudiciorum (Fuero Juzgo) la norma della vita giuridica, con queste aggravanti rispetto al regime che l'aveva preceduto: che l'autorità del sovrano diminuì per le continue concessioni fatte alla nobiltà e ai monasteri per averne aiuto nelle guerre; che di contro continuò più che nel precedente periodo a rafforzarsi la potenza di questi, così che i piccoli e infimi proprietarî si posero sotto la loro protezione per goderne il patrocinio (behetria).
Dagli albori del sec. XI in poi, la vita della Spagna cristiana si fece sempre più intensa e ricca di motivi. Da un lato gli stati videro di molto ampliati i loro territorî e per di più alcuni di essi ebbero un unico sovrano; dall'altro, il paese poté avvalersi delle esperienze della civiltà contemporanea, perché, come giustamente si è osservato, mai la Spagna è stata tanto aperta allo straniero come nel tempo della riconquista. Infatti divenne profonda l'influenza franca, specialmente per opera dei monaci di Cluny, che furono accolti nei suoi stati da Sancio III e trovarono un grande sostenitore in Ferdinando I di León e di Castiglia, e che importarono gli ordinamenti feudali franchi, diffusero la conoscenza del latino e sostennero nel culto e nella disciplina l'unitarismo romano. Poi, a tale influenza si aggiunse quella italiana, specialmente attraverso la Catalogna e l'Aragona. Inoltre, lo stato di León e Castiglia fu messo al corrente della civiltà di buona parte dell'Europa dagli avventurieri che militarono nel suo esercito e dai pellegrini che da ogni parte accorrevano a Santiago de Compostela. E infine il mondo arabo comunicò a tutti i suoi tesori per il tramite degli ebrei, dei mozarabi e dei musulmani rimasti nelle regioni occupate o mudéjares, che ora erano diventati sudditi dei monarchi cristiani e da essi avevano ricevuto ottima accoglienza. Allora notevole incremento ebbe il ripopolamento dei nuovi dominî, nonché degli antichi, favorito dagli ordini monastici e nella maggior parte degli stati dalla elargizione di cartas pueblas o cartas de población, con le quali molti privilegi erano conceduti dal monarca, dal monastero o dal signore agli abitanti dei paesi allora sorti, e di particolari statuti municipali o fueros municipales, che regolavano la vita dei centri già esistenti e rispondevano ai bisogni locali, essendo larghi di esenzioni quelli delle terre di frontiera (fueros de frontera). Così la vita cittadina cominciò ad avere un rigoglioso sviluppo, perché i piccoli commercianti, già girovaghi, presero stabile dimora; perché, sfuggendo alle persecuzioni degli Almoravidi e degli Almohadi, migliaia di mozárabes ripararono nei territorî cristiani, e perché s'inurbarono molti che sino allora avevano miseramente vissuto nelle campagne in condizioni d'inferiorità, in specie servi della gleba, e anche molti malviventi, accorsi a godere quelli della libertà personale, questi del diritto di asilo conceduti dai fueros. Cominciò a formarsi un ceto borghese, particolarmente ricco e potente nelle città commerciali e industriali. E anche nelle campagne migliorarono le condizioni delle classi rurali, alle quali i grandi signori fecero vaste concessioni per evitare il loro esodo: in specie nella Castiglia e nel León, ché nella Catalogna i coloni o servi (payeses de remensa) continuarono a trascinare una ben triste esistenza. Contemporaneamente s'iniziò l'assimilazione della cultura europea, in particolar modo dell'ebraica e dell'araba, e si fondarono le prime università a Palencia, a Salamanca, a Valladolid, a Lérida. Infine, l'istituto monarchico si rafforzò; dovunque la corona divenne almeno di fatto ereditaria; il sovrano per ridurre la potenza dell'aristocrazia e dell'alto clero poté avvalersi dell'aiuto delle città e della borghesia, rese privilegiate al pari di quei due ordini; e per dare qualche unità alla legislazione locale dei fueros, che s'ispiravano in genere al diritto germanico, nonché a un diritto consuetudinario visigoto, che la Lex Visigothorum non era riuscita a distruggere e che era seguito tanto nelle terre rimaste cattoliche quanto in quelle tolte ai musulmani, si fecero delle compilazioni di diritto consuetudinario a valore territoriale, come il Fuero di León (1020), il codice degli Usatges di Barcellona, pubblicato nel suo primo nucleo da Ramón Berenguer I (circa 1068), il Fuero d'Aragona (1247), quello di Navarra (sec. XIII). Fra i sovrani riformatori di quest'epoca merita particolare ricordo Ferdinando III di León e Castiglia: il quale molto si adoperò per il riordinamento amministrativo delle regioni conquistate, e fece tradurre il Liber iudiciorum per darlo a Cordova come legge municipale; seguace del principio dell'accentramento che già si era affermato in buona parte dell'Europa, pensò anche alla formazione di un unico codice che valesse per tutto lo stato; nel campo della cultura protesse le università, unendo, fra l'altro, quelle di Salamanca e di Palencia, e promosse la definitiva trasformazione del castigliano in lingua ufficiale e letteraria; in politica interna si mostrò tollerante verso gli ebrei e, per impedire la loro emigrazione nel regno di Granata, fu tutt'altro che severo verso gli assoggettati musulmani, e anzi a quelli del regno di Murcia concesse anche una parziale autonomia.
L'epoca delle guerre civili in Spagna e dell'espansione catalano-aragonese nel Mediterraneo. - Si era in tali condizioni, quando alle morti di Ferdinando III di León e Castiglia e di Giacomo I d'Aragona terminarono le grandi imprese militari contro il mondo musulmano. Infatti, se la guerra, continuata specialmente dalla Castiglia, durò ancora una settantina d'anni sino alla battaglia del Río Salado, per altro, ad eccezione del citato suo scontro conclusivo, essa fu condotta con scarsa energia e con il fine ben ristretto di rendere innocuo il sopravvissuto regno di Granata; e poi, a risultato raggiunto, s'inaridì in una guerriglia di frontiera, sterile di risultati degni di particolare ricordo. Ora, questa tregua nelle operazioni militari non ebbe come unico risultato un arresto, anche se durato un lunghissimo periodo di tempo, nella definitiva e totalitaria riconquista al cristianesimo della penisola: e tale conseguenza già di per sé sarebbe stata gravissima. Sino allora nello sviluppo della vita degli stati cattolici spagnoli, nell'intricato intrecciarsi delle loro vicende interne e dei loro scambievoli rapporti, enorme importanza aveva proprio avuto quella guerra, alla quale ora si era posto fine. Infatti, le monarchie peninsulari non soltanto le dovevano la loro stessa origine; sibbene da essa avevano ricavato i mezzi necessarî alla propria esistenza e moltissimi dei motivi della loro vita. Tali monarchie con le sempre nuove conquiste avevano ampliato i proprî confini e rinnovato continuamente le proprie risorse. Rendendo particolarmente redditizio il mestiere delle armi e dando così un'occupazione e uno scopo ai proprî sudditi, procurando ad essi vergini territorî di facile sfruttamento, e inoltre potendo usare delle armi raccolte per la lotta contro i musulmani, avevano avuto modo di prevenire, combattere, in ogni modo rendere vane le interne opposizioni che partivano dai varî ceti della società e che sono caratteristiche del Medioevo. E in tal modo, la guerra, più che come guerra d'indipendenza o religiosa, come guerra di conquista, e, almeno sotto alcuni aspetti, più propriamente come guerra di espansione coloniale, era divenuta la maggiore fonte di vita del paese ed era stata di grande utilità anche ai fini della politica interna. Ma per difendere le frontiere settentrionali e meridionali della Spagna cristiana dagli attacchi francesi e musulmani e muovere al contrattacco. E se gli opposti interessi degli stati portoghese, leonese-castigliano, catalano-aragonese avevano impedito la formazione di un'unica monarchia che abbracciasse tutti i territorî tolti agli Arabi, e anzi nel fervore della lotta il distacco fra di essi si era fatto più netto; tuttavia la stessa guerra aveva facilitato il raggruppamento in quelle tre monarchie di numerosi organismi politici generati dal frazionamento del mondo musulmano o nati sin dai primi tempi della riconquista, e tenuti uniti, nelle nuove costellazioni, oltre che dai vincoli dinastici, dalle imprese alle quali prendevano parte e dalle quali dipendeva il loro avvenire; e pur con i suoi sviluppi contribuendo a confermare la reciproca indipendenza di tali monarchie, aveva reso necessarî e possibili precisi accordi fra di esse e dato loro un comune carattere peninsulare: il che, come vedemmo, era stato un primo, decisivo passo verso una chiarificazione della molto complessa vita politica della regione. Ora, finite le guerre e cessata la precedente comunanza d'interessi, si rivelarono in tutta la loro evidenza i fondamentali difetti di ciascuno dei regimi spagnoli e l'esistenza di un'insanabile dissidio fra i varî stati: difetti tutti preesistenti, è vero, ma che negli anni trascorsi lo stato di guerra aveva nascosti e talvolta attutiti. Nel seno di ciascuna monarchia apparvero ben chiari la debolezza del potere centrale, la turbolenza dell'aristocrazia e in genere di coloro che con la pace avrebbero perduto i mezzi di vita, la mancanza di una salda unità morale e politica fra le varie parti di ogni stato, nel quale i precedenti organismi politici chiamati a formarlo avevano conservato la propria autonomia e per lo sviluppo territoriale avuto per effetto delle conquiste erano ora portati a difendere loro peculiari, talvolta contrastanti interessi. E, non avendo più nessun fine comune e mancando la Spagna di un centro unificatore della vita morale e politica delle sue parti, la lotta arse anche fra le varie monarchie, le quali, per di più, nell'affannosa ricerca di un avvenire, presero a battere strade diverse e divergenti, fissate loro dai precedenti avvenimenti e dalla posizione geografica dei loro territorî, e si allontanarono l'una dall'altra.
Poiché la guerra ormai era divenuta un'abitudine e per i molti che con essa vivevano una necessità, e poiché, per la mancanza d'ideali comuni e che trascendessero i gretti egoismi personali, di classe e municipalisti, era finita la precedente eguaglianza d'interessi e con il terminare della comune lotta questi si erano resi particolari, vennero in urto ceto sociale con ceto sociale, regione con regione, stato con stato, e si diede vita a un nuovo periodo di guerre: ma di guerre civili materiate di lotte dinastiche e di conflitti tra monarca, feudatarî e città, tra le autonome parti di ogni monarchia, tra i varî stati. Lo straniero fu chiamato in causa: e cioè, oltre agli Inglesi, che ora apparvero per la prima volta nella storia della Spagna, proprio quei Francesi e quei musulmani che sino allora erano stati tenuti a bada, sicché i primi (che poco mancò non affermassero la propria autorità sull'Aragona e sulla Catalogna, le quali già avevano dominato sulla Francia meridionale) diedero al trono della Castiglia la famiglia di Transtamare loro amica e da loro sostenuta, mentre invano tentò conquistarlo un ramo della casa regnante di Inghilterra. E allora, per rendere possibile la propria vita interna, la Spagna fu costretta a creare organizzazioni che le furono caratteristiche, come le hermandades, confederazioni tra città e luoghi abitati, formate quasi sempre per difendere le strade dal brigantaggio, talvolta per resistere all'oppressione della nobiltà, e impiegate non di rado per combattere l'autorità del monarca: in alcuni luoghi e tempi, perciò, permesse da quest'ultimo, come l'Hermandad general de Alava, organizzata nel 1417 con l'approvazione del sovrano, e in altri luoghi e tempi ora soppresse, ora consentite, come le hermandades di Castiglia, che ebbero una costituzione modello nel 1295, e, riorganizzate nelle Cortes di Burgos del 1313 e poi soppresse per ordine regio nel 1325, risorsero al tempo di Enrico II e poi di nuovo nel 1447.
Fallito miseramente il sogno di Alfonso X di León e Castiglia, che aveva sperato di essere incoronato imperatore (e nel suo folle tentativo aveva distrutto l'erario dello stato e rafforzato nel paese l'opposizione all'impresa che non era considerata d'interesse nazionale con i provvedimenti impopolari che era stato costretto a prendere per riparare alla mancanza di denaro, con le sue tendenze all'assolutismo e con alcune rinunzie a ingrandimenti territoriali del suo stato peninsulare), la guerra civile salutò l'avvento al tron0 di suo figlio Sancio IV: e fu guerra di successione da lui sostenuta contro i discendenti di suo fratello primogenito Ferdinand0 de la Cerda, premorto al padre, che questi aveva designati come eredi dividendo fra essi lo stato; nella quale ebbero parte la Francia, l'Aragona, il Portogallo, Granata e la nobiltà castigliana. Tale guerra poi si rinnovò, con l'intervento delle stesse monarchie e della stessa nobiltà, alla morte di Sancio, durante il regno di suo figlio Ferdinando IV (1295-1310), costringendolo a venire a patti con i suoi nemici. In seguito, dopo i successi militari di Alfonso XI, il vincitore della battaglia del Río Salado (1312-50), la lotta riarse, e questa volta con sviluppi tragici, durante il regno di suo figlio Pietro el Cruel, i cui anni di governo (1350-69) sono tra i più sanguinosi della storia della Castiglia. Nel conflitto tra il monarca e i figli di Leonora de Guzmán, favorita di Alfonso XI, intervennero l'Aragona, la Navarra, la Francia, l'Inghilterra, il Portogallo, Genova, Granata; sui campi castigliani si scontrarono, come in Francia, le compagnie di Bertrand du Guesclin e le truppe del principe di Galles; e la guerra si decise sotto il castello di Montiel (14 marzo 1369), nella Mancia, dove la cavalleria bretone ruppe l'assalto dei Mori di Granata. Pietro fu catturato e condotto innanzi al fratellastro Enrico; e allora fra i due nemici posti a fronte l'odio esplose nella sua forma più violenta e la tragedia ebbe il suo tremendo epilogo: ché slanciatosi contro Enrico in un folle tentativo, Pietro fu da questo mortalmente ferito e finito dai testimonî della scena. Ma neppure l'ascesa al trono della nuova dinastia segnò l'avvento della pace per il paese. Enrico II (1369-79) si vide contesa la corona dal re di Portogallo e dai duchi di Lancaster e di York, generi di Pietro I: il primo, anzi, assunse il titolo di re di Castiglia; nella guerra intervennero, secondo il solito, la Navarra, l'Aragona, Granata; poiché Enrico si unì al re di Francia, la guerra dei Cento anni travolse nelle sue spire anche la monarchia castigliana; e il sovrano per conquistare gli animi dei nemici e conservare l'appoggio degli amici dovette largheggiare nella concessione di onori e di favori (enriqueñas). Poi a eguali mezzi fu costretto a ricorrere suo figlio Giovanni I (1379-90), che in un vano tentativo per conquistare il trono di Portogallo fu battuto ad Aljubarrota (15 agosto 1385). E soltanto nel 1387 con il patto di Troncoso si poté porre fine alle tristi conseguenze del delitto di Montiel, quando il re acconsentì al matrimonio di suo figlio ed erede Enrico III con Caterina di Lancaster. Ma allora si risentirono le ben tristi conseguenze delle grandi concessioni fatte all'aristocrazia nel fervore della lotta. Enrico III (1390-1406) dovette affrontare la rivolta della nobiltà; e questa tornò a insorgere durante il regno di suo figlio Giovanni II (1406-54). Negli stessi anni uguali lotte civili travagliarono la monarchia catalano-aragonese, che già abbiamo veduto in continua guerra con la Castiglia. Essa aveva un'aristocrazia ben più agguerrita e più organizzata di quella castigliana; e inoltre per la ripartizione dei proprî dominî fatta fra i suoi figli da Giacomo I era stata divisa in due monarchie fra loro contrastanti: quella d'Aragona, di Catalogna e di Valenza e quella di Maiorca, alla quale erano stati assegnati gli ultimi possedimenti francesi: l'unità potendo esser ricostituita soltanto nel 1343 a beneficio dello stato peninsulare, ma con la perdita dei dominî francesi. Giacomo I aveva già dovuto combattere la feudalità, e con la Compilación de Huesca (1247) ne aveva ridotto i privilegi; ma poi nelle Cortes di Ejea (1265) era stato costretto a fare delle Concessioni. Suo figlio, Pietro III (1276-85), premuto dalle necessità della guerra che aveva ingaggiato per assicurarsi il possesso della Sicilia e che era ostacolata dalla nobiltà, dovette accogliere le sue richieste, e non solo giurò di rispettare le deliberazioni delle Cortes di Ejea, ma nelle Cortes di Saragozza (1283) concedette il Privilegio general, con il quale si confermavano tutti i privilegi antichi dell'Aragona; altre franchige diede a Valenza, a Teruel, a Barcellona; e nelle Cortes di Huesca e di Zuera (1285) giunse a permettere che i nobili formassero una loro Unión. Poi la nobiltà aragonese fece ancora un passo in avanti durante il regno di Alfonso III (1285-91), quando, guidata da figli naturali di Giacomo I e di Pietro III, con le armi alla mano invase le terre di Valenza e, minacciando di schierarsi in favore della Francia, ottenne la concessione del cosiddetto Privilegio de la Union, per il quale il re rinunziava al diritto di procedere contro i componenti l'Unión senza il consenso del Justicia d'Aragona e si obbligava a convocare ogni anno in Saragozza delle Cortes, che avrebbero nominato il consiglio del sovrano (1288). E dopo i regni di Giacomo II (1291-1327) e di suo figlio Alfonso IV (1327-36), al tempo di Pietro IV (1336-87) gravissima divenne la lotta tra l'Unión aragonese, alla quale si unirono città e ville, e l'Unión di Valenza (1347-48). Allora la vittoria arrise al monarca, che a Épila travolse l'esercito dell'Unión aragonese (1348), poi sconfisse quella di Valenza, e del successo trasse subito profitto per sopprimere le due uniones. E, senza dubbio, nel secolo seguente migliorò anche la situazione interna del regno castigliano. In genere, l'applicazione dei principî sostenuti da Alfonso X nel suo Libro del espéculo o Espejo de todos los derechos e nell'altro De la leyes o Las siete partidas, e la diffusione del diritto romano, che finì con essere accettato nonostante alcune forti opposizioni, modificarono sostanzialmente la vita giuridica del paese. Nella lotta contro la nobiltà il monarca poté servirsi dell'aiuto delle città: e questa fu l'epoca d'oro dei municipî, in alcuni luoghi, come nell'Aragona del Nord, regolati da un'oligarchia borghese, in altri, come nell'Aragona del Sud, a indirizzo più democratico, in altri ancora, come nella Castiglia, retti dalla classe dei caballeros o da alcune famiglie privilegiate, che si assicurarono l'esclusività delle cariche municipali, dapprima di elezione popolare; in altri infine, come nella Catalogna, governati da una classe media di commercianti e d'industriali; primo fra tutti per potenza era il municipio di Barcellona, che estendeva la sua giurisdizione su di un vastissimo territorio, aveva il diritto di battere moneta, nominava i consoli all'estero, aveva una sua milizia e godeva della giurisdizione mercantile, che esercitavano per delegazione due cónsules de mar. La riottosità della nobiltà castigliana ebbe un fiero colpo da Álvaro de Luna durante il regno di Giovanni II. L'aristocrazia aragonese fu impoverita per il prevalere della classe commerciante; e il sovrano poté tenerle testa perché non più preoccupato dalla guerra italiana. Ma restarono pur sempre molte materie di dissenso. In un ritorno offensivo, la vinta nobiltà castigliana riuscì a perdere il suo vincitore, che fu giustiziato dal monarca. Il disaccordo tra le varie parti della monarchia catalano-aragonese si rivelò profondo allorché, dopo il regno di Giovanni I (1387-95), alla morte di Martino I (1395-1410) senza eredi, per il compromiso de Caspe il trono passò a un principe castigliano, Ferdinando el de Antequera (1412-16). La Catalogna, offesa nel suo amor proprio per la scelta caduta su di un principe che considerava come straniero, non nascose il suo malcontento; e rese più vigorosa la sua opposizione contro il governo di Alfonso V (1416-58), invischiato in guerre lontane, come le italiane, o in lotte dinastiche, come quelle contro la Castiglia, mentre l'assenza del re e le contese scoppiate nel seno della reggenza rendevano di difficile soluzione alcuni conflitti insorti con il conte di Foix e con Carlo VII di Francia. Infine, quel che avvenne durante i regni di Enrico IV (1454-74) di León e Castiglia e di Giovanni II d'Aragona (1458-79) fu chiara prova della sopravvivenza delle antiche lotte dinastiche, dei contrasti d'interessi fra le varie regioni e dello spirito di rivolta dell'aristocrazia. In Castiglia la guerra civile tornò ad acquistare imponenti proporzioni quando di contro ad Enrico IV si schierò il fratello Alfonso e, morto questo, la sorella Isabella divenne principessa ereditaria: allora le sue nozze con Ferdinando d'Aragona, non approvate dal monarca, ruppero i rapporti tra il fratello e la sorella; nella disputa, durata molti anni, il paese si divise fra i due contendenti; in essa intervennero Giovanni II in difesa del figlio e, dopo la morte di Enrico, anche Alfonso V di Portogallo per proteggere i diritti di Giovanna la Beltraneja, che si era affrettato a sposare nella speranza di poter ottenere il trono di Castiglia; e tutto ciò mentre, rinnovandosi il secolare conflitto tra Aragona e Francia, Luigi XI tornava ad incrociare le sue armi con Giovanni II, e la Catalogna, approfittando del favorevole momento, insorgeva contro il suo sovrano per conquistare l'indipendenza e resisteva ai suoi assalti dal 1462 al 1472.
Quel che invece si acuì sempre più fu il distacco fra le regioni formanti la monarchia castigliana e quelle costituenti la catalano-aragonese: l'ascesa al trono aragonese di Ferdinando el de Antequera ben poco avendo modificato la situazione, seppure poté preparare in qualche modo il paese ad accettare vincoli dinastici più stretti; ché al momento del matrimonio fra Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia profonda era la differenza fra la vita politica, morale ed economica dei due stati.
L'occupazione dei dominî musulmani avendo reso più stretti i suoi rapporti con gli Arabi e con gli ebrei e avendole permesso l'acquisto di territorî di gran lunga più ricchi di quelli che già possedeva, dal sec. XII in poi nella monarchia castigliana lo sviluppo della vita divenne particolarmente intenso. Come è stato rilevato, in specie durante i regni di Alfonso X e di suo figlio Sancio IV, essa adempì al compito, che non poteva non esserle proprio, di mediatrice fra la cultura scientifica orientale, araba ed ebraica e quella moderna europea; allora, per opera degli stessi monarchi e dei loro collaboratori, nell'imponente lavoro di traduzioni, compendî e adattamenti, anche la lingua castigliana raggiunse una veramente notevole precisione di espressioni: e poi la poesia e la prosa grandiosi progressi fecero nel Trecento e, sotto l'influsso italiano, nel Quattrocento. Nel campo economico grandi benefici arrecò alla Castiglia la conquista del corso navigabile del Guadalquivir e in genere dell'Andalusia, che le diedero il possesso della regione più ricca della Spagna per dono di natura e per l'opera dell'uomo, e uno sbocco sul mare, molto più comodo dei pochi, di cui sino a quel tempo aveva goduto, nelle provincie del Golfo di Guascogna, separate dal resto del paese per la mancanza di facili mezzi di comunicazione. Allora la Castiglia cominciò ad essere una vera e propria potenza marittima; a Siviglia presero ad affluire navi e mercanti di ogni parte dell'Europa e dell'Asia e dell'Africa mediterranee; poiché si migliorarono le strade - con Alfonso X si ristabilì anche un regolare servizio di poste - il commercio interno rese affollate le fiere di Siviglia, di Medina, di Santiago de Compostela; e notevole incremento finì con avere anche la marina mercantile della Galizia e delle provincie basche, i cui armatori si spinsero fin nella Manica e nel Mare del Nord. Così si presero ad esportare prodotti agricoli, la lana greggia che gli armenti dell'altopiano fornivano in enorme quantità, i metalli estratti dalle miniere d'argento di Venasque, di mercurio di Almadén, di ferro della Vizcaya, che allora furono sfruttate con maggiore intensità. E un certo sviluppo ebbe o conservò anche l'industria, favorita in varî luoghi dal sorgere delle corporazioni (gremios), che regolavano la produzione e provvedevano alla ripartizione delle materie prime per evitare l'accaparramento, e che furono protette dal monarca per averne aiuto nella lotta contro l'aristocrazia. Così qualche importanza acquistò o continuò ad avere l'industria delle lanerie nella Vecchia Castiglia, quella delle seterie a Siviglia, quella del lino e della canapa a Toledo, a Siviglia, a Segovia, quella delle corderie nelle provincie dell'Est e dell'Ovest, quella del cuoio nell'Andalusia, quella delle ceramiche a Siviglia, quella dell'acciaio a Toledo, sempre di risonanza europea. Ma la già rilevata incapacità di assicurare una stabile sistemazione alla propria vita si rivelò anche nel campo economico e morale: perché anche qui apparve ben chiaro quanto fosse scarsa nel paese vincitore la capacità di far tesoro delle esperienze degli abitanti dei territorî occupati, di superare la differenza religiosa e d'accettare la manifesta superiorità della civiltà dei musulmani e degli ebrei, di collaborare intensamente allo sviluppo della vita rigogliosa del paese conquistato, per poi eventualmente rendersi indipendente dagli elementi che tale vita avevano creata. Come è stato giustamente osservato, l'annessione dell'Andalusia non modificò sostanzialmente l'economia castigliana: ché l'industria manifatturiera non riuscì a dare una produzione sufficiente ai bisogni del consumo interno, e la principale occupazione del paese restò pur sempre l'allevamento del bestiame, fornitore di ottima lana che almeno in parte era necessario esportare greggia per la mancanza di una ben attrezzata industria laniera. Sicché quando, passati i primi tempi della conquista, dilapidati i benefici immediati che essa aveva dati, apparsa impossibile la fusione dei tre popoli o il definitivo ed effettivo trionfo del conquistatore e finito il prevalere della nobiltà, alla quale molto utili erano stati ebrei e musulmani, la borghesia, entusiasta per i primi successi politici, si vide impotente a vincere la concorrenza dei due elementi che erano stati la fortuna del mondo musulmano e, per accrescere i proprî guadagni, volle sostituirsi ad essi; allora cominciarono le persecuzioni in specie contro gli ebrei, e il loro allontanamento dalla vita del paese, senza peraltro che si riuscisse a sostituirli per la mancanza di una congrua preparazione nella borghesia, rese effimero o soltanto apparente lo sviluppo economico del paese, che poté sembrare rigoglioso soltanto nei confronti di quello precedente della parte della Spagna che era ritornata al cristianesimo nei primi tempi della riconquista. Allora la Castiglia, che per la sua naturale povertà era la meno indicata, confermò definitivamente la propria supremazia sull'Andalusia e diede per sempre il proprio carattere alla monarchia.
Di contro, più favorita dalla natura e per la sua posizione geo- grafica ricca di facili sbocchi sul Mediterraneo, che era ancora il centro della vita economica e politica europea, la monarchia catalano-aragonese poté dare uno sviluppo meraviglioso ai suoi traffici commerciali e, nonostante l'opposizione dell'Aragona, legata al continente, visse gran parte della sua vita fuori della penisola, dando ai proprî sudditi nuove patrie sparse per tutto il Mediterraneo, assimilando la civiltà contemporanea, apportando a questa il proprio contributo. Infatti è questa l'epoca dell'espansione catalano-aragionese, alla quale collaborarono con perfetta unità d'intendimenti monarca e sudditi, commercianti e soldati, talvolta agenti ognuno per suo conto, ma avventurieri tutti, presi dallo stesso ardore e miranti allo stesso fine, conquistatori di stati per la corona, creatori di autonomi organismi politici, fondatori di colonie di mercanti sparse dovunque, e costruttori e armatori di una flotta imponente, che divenne una delle più importanti del mondo. Consolati del mare sorsero a Valenza, a Tortosa, a Saragozza, a Barcellona, e il Libro del consulado de mar di quest'ultima città divenne legge per quasi tutto il Mediterraneo; molte città ebbero le loro borse (lonjas). Non vi fu porto che non fosse toccato dai marinai della Catalogna e di Maiorca, nella Dalmazia, nella Morea, nell'Arcipelago, nelle isole di Candia e di Rodi, nel Mar Nero, sulle coste della Siria e dell'Asia Minore, nella Tunisia; al tempo di Alfonso V si cercò di stringere rapporti con l'Egitto e con l'Etiopia; attraverso i mercati di Orano e di Tlemecen si tentò di penetrare nel Marocco. Quanto ai possedimenti, si cominciò con la Sicilia, che se poi divenne indipendente, restò pur sempre nella sfera d'influenza aragonese e poi ritornò al monarca spagnolo. In seguito si aggiunse la Sardegna. E se le temerarie imprese della Compagnia Catalana (1302-10) soltanto per breve tempo le assicurarono il dominio sull'Asia Minore e poi il possesso del ducato di Atene (1311) e del ducato di Neopatria (1319) - ché l'Acropoli fu perduta nel 1388 e il castello di Neopatria nel 1390 - e se soltanto per qualche anno principi del ramo di Maiorca dominarono sul principato di Morea (1315, 1334); tuttavia, la contea di Salona si conservò catalana sino al 1394, l'Isola di Egina sino al 1418, la signoria di Piada (La Paiada) nell'Argolide, ultimo possedimento, sino al 1460; anche dopo le navi catalane, spesso dedicatesi alla pirateria, continuarono a incrociare nell'Arcipelago; ivi restarono molti Catalani; nel 1456 alle Cortes di Barcellona il vescovo d'Elna Joan Margarit così poteva celebrare le gesta dei suoi concittadini, in uno dei più brillanti discorsi dell'oratoria politica catalana: "Questa è quella tanto fortunata, gloriosa e fedelissima nazione di Catalogna, che nel passato era temuta nelle terre e nei mari, quella che aveva dato la lingua catalana all'antichissima e famosissima Atene, donde è uscita tutta l'eleganza, eloquenza e dottrina dei Greci". E infine Alfonso V, conquistando Napoli e tentando d'impossessarsi anche del Milanese, oltre che nuovi sbocchi di vita per il suo popolo, cercò trovare in Italia un centro più solido, perché più omogeneo e più ricco, per il suo governo.
L'età dei Re Cattolici. - L'unione tra la monarchia castigliana e quella catalano-aragonese si compì con il matrimonio d'Isabella di Castiglia e di Ferdinando d'Aragona. Si trattava, è bene tenerlo presente, di un'unione ancora personale, perché, pur conferendogli poteri più ampî di quelli che gli erano stati concessi nel contratto di nozze (1469), la convenzione stipulata fra i due sposi nel 1474, al momento della loro incoronazione come sovrani re di Castiglia, continuò a fare molte limitazioni all'autorità di Ferdinando come re di Castiglia. Ma in tal modo si raggiunsero due risultati di enorme importanza. Innanzi tutto, durante la vita dei due coniugi, le reciproche limitazioni non ebbero gravi conseguenze nella pratica; e poi, in attesa di divenir definitiva con Carlo I, l'unione si conservò anche alla morte di Isabella (26 novembre 1504), perché, in virtù delle disposizioni testamentarie della defunta regina, Ferdinando assunse subito la reggenza della Castiglia, la tenne sino alla fine del giugno 1506, allorché cedette il potere alla figlia Giovanna e a suo marito Filippo d'Austria, e la riprese dopo poco, alla scomparsa di quest'ultimo (25 novembre 1506), in nome del loro figlio Carlo, per serbarla sino alla propria morte (23 gennaio 1516). E così, ove si escluda il breve periodo che intercorse tra la morte di Isabella e l'inizio della seconda reggenza di Ferdinando, quando non mancarono dissensi fra il padre e la figlia e aspro fu il contrasto con Filippo d'Austria, sembrò che un'unica mente regolasse la vita della Spagna, completandosi a vicenda pienamente la volontà e le azioni dei due sovrani e allo stesso scopo lavorando attivamente gli uomini di prim'ordine che essi ebbero la fortuna di avere accanto a sé e l'abilità di prescegliere: come Pedro Gonzáles de Mend0za gran cardinale di Spagna, il conte di Tendilla Iñigo López de Mendoza, che si coprì di gloria nella guerra di riconquista, Gonzalo Fernandez de Córdoba el Gran Capitán, l'abilissimo marinaio conte Pedro Navarro, il viceré di Napoli Ramón de Cardona, il cardinale Jiménez de Cisneros. Di contro, le due monarchie, separate da secoli di storia, da interessi discordanti, da un infinito numero di pregiudizî, almeno apparentemente conservarono la propria indipendenza e non si ritennero l'una inferiore o sottoposta all'altra; sicché poterono collaborare di pieno accordo alla politica interna ed estera dei loro rispettivi sovrani e avviarsi, anche senza saperlo, a ridurre le differenze che le separavano e a dare unità effettiva alla loro vita.
Con le vittorie di Toro (1476) e di Albuera (1479) e con la pace di Alcoçobes (1479) si resero vani i tentativi di Alfonso V, che avrebbe voluto cingere la corona di Castiglia, forte dei diritti portatigli in dote da Giovanna la Beltraneja: sì che furono per sempre fiaccate le aspirazioni del Portogallo sul confinante stato. Poi, nel 1481, due anni dopo l'incoronazione di Fernando come re d'Aragona, alla morte del padre Giovanni II (1479), fu ripresa la guerra contro i Musulmani di Granata, e, come tante volte era avvenuto per il passato, anche ora alla lotta parteciparono con le forze riunite le due monarchie. Fortunate e sfortunate imprese militari s'intramezzarono con abili trattative e con accorti maneggi; si riuscì a rendere insanabili le discordie interne scoppiate nel campo nemico, tra il sultano Muley Abū'l-Ḥasan, suo figlio Boabdil (Abū ‛Abdallāh) e suo fratello Zaghal, che poi assunse il potere, e a servirsi dell'uno contro l'altro; Alora si arrese alla fine di giugno del 1484, Setenil nel settembre, Ronda nel maggio del 1485, Loja nel maggio del 1486, Vélez-Málaga nell'aprile del 1487, Málaga nel seguente agosto; Zaghal alla fine di dicembre del 1489 cedette Baza, Cadice, Almeria; e Granata, difesa da Boabdil e cinta d'assedio alla metà del 1491, il 6 gennaio del 1492 vide entrare trionfalmente fra le sue mura i due re cattolici che, ognuno per suo conto, rappresentavano i proprî stati e insieme la Spagna cristiana, debellatrice del suo secolare avversario.
Contemporaneamente e in seguito, la politica estera di Ferdinando e di Isabella e i risultati in essa raggiunti furono tali da soddisfare l'amor proprio delle varie regioni spagnole, da accontentare i loro particolari interessi, da mettere d'accordo le antitetiche politiche fino allora seguite dalle due monarchie. Senza dubbio, almeno in apparenza, quella prescelta fu la tradizionale della monarchia catalano-aragonese, alla quale si diede, anzi, sempre più profondo e più esteso sviluppo. E fu politica antifrancese, determinata da antiche discordie con lo stato confinante per il predominio sul regno di Navarra - del quale Giovanni II era stato sovrano e che era passato successivamente ai Foix e agli Albret - per il possesso del Rosellón e della Cerdaña - che Giovanni II era stato costretto a cedere a Luigi XI, - per l'espansione catalano-aragonese nella Sicilia e nell'Italia meridionale - che fino dalla guerra del Vespro Siciliano aveva messo di contro Francia e Aragona e che aveva separato sempre più gli animi dopo la conquista di Napoli compiuta da Alfonso V e dopo la protezione accordata dalla Francia alla rivoluzione separatista della Catalogna del 1462-72. Allora, l'inimicizia con la monarchia capetingia portò a stringere sempre più intimi rapporti con la sua tradizionale rivale, l'Inghilterra, con la quale si stipulò un trattato di alleanza offensiva e difensiva (1471-74), confermata poi dal matrimonio di Caterina, figlia dei re cattolici, con l'erede al trono inglese, il futuro Enrico VIII; e portò ancora a legarsi a casa d'Austria con doppio vincolo di parentela, e cioè con l'unione di due altri figli di Ferdinando e di Isabella, Giovanni principe delle Asturie e Giovanna, risp-ttivamente con due figli di Massimiliano d'Asburgo, Margherita e Filippo. Così di breve durata fu il patto conchiuso con Carlo VIII, quando questi, in procinto di tentare l'impresa italiana, volle assicurarsi le spalle da un attacco del pericoloso vicino: Ferdinando lo stipulò per ottenere gratuitamente il Rosellón e la Cerdaña (1492-1493); e dopo poco, con la lega del 1495 e con le armi del Gran Capitano, riuscì a restituire a Fernando II di Napoli lo stato toltogli dal re francese. Se poi, trascorso qualche anno, l'11 novembre 1500, con il trattato segreto di Granata l'aragonese accettò di mettersi d'accordo con Luigi XII per dividersi il Mezzogiorno d'Italia, anche questa volta lo fece per poter occupare senza colpo ferire una parte del paese, e impedire che la Francia, impadronendosi dello stato napoletano, tornasse a minacciare l'opposta Sicilia e si assicurasse l'effettivo predominio nel Mediterraneo, dove la Catalogna e Valenza avevano da difendere tutto un passato, un presente, e uno sperato avvenire: in realtà, dopo poco s'incrociarono di nuovo le armi, e Fernando le posò soltanto quando il già alleato esercito francese fu cacciato dal suo ultimo baluardo, la fortezza di Gaeta (1° gennaio 1504). Infine, se seguì un breve periodo di amicizia con il nemico, rafforzata dal trattato di Blois (12 ottobre 1505) e dal matrimonio del vedovo sovrano aragonese con Germana di Foix, questa fu imposta a Fernando dai suoi dissensi con il genero Filippo d'Austria; e se il monarca spagnolo accettò di partecipare alla Lega di Cambrai (dicembre 1508), la sua adesione gli fu dettata dal desiderio di fiaccare la potenza marinara di Venezia e di toglierle le città pugliesi che la repubblica adriatica aveva occupate dal tempo della spedizione di Carlo VIII: a risultato raggiunto egli riprese la sua politica antifrancese, aderendo alla Lega Santa contro Luigi XII e insistendo nella sua opposizione anche quando la vittoria di Marignano rafforzò il trono di Francesco I, e Carlo d'Austria, figlio di Filippo, cominciò a seguire una linea di condotta indipendente da quella prescelta dal nonno. Tuttavia, anche se dettata da interessi catalano-aragonesi, tale politica ben si accordava con gl'interessi castigliani. Innanzi tutto, l'alleanza tra la Castiglia e la Francia era stata conseguenza del sempre rinnovantegi conflitto tra la Castiglia e l'Aragona e delle lotte dinastiche scoppiate nel seno di quella monarchia; ed ora la situazione era del tutto cambiata. Il conflitto tra i due stati già alleati era scoppiato ancor prima dell'ascesa al trono d'Aragona di Fernando: cioè quando, alla morte di Enrico IV, Luigi XI si era schierato in favore di Alfonso V di Portogallo per fargli avere il trono del re defunto; e fino dal 1477 per iniziativa del monarca castigliano si era formata contro di lui una lega europea, primo esempio delle future coalizioni promosse dalla Spagna contro Carlo VIII e Luigi XII. Inoltre, la Castiglia era direttamente interessata nel successo della politica di espansione nella Navarra: e gli sforzi di Fernando diedero un risultato forse anche superiore allo . sperato, ché, dopo aver sottoposto a protettorato il paese con i trattati di Tudela (1476), di Granata (1492), ecc., il re aragonese nel 1512 s'impadronì della parte spagnola della monarchia. Anche la conquista di Napoli, alla quale seguirono quella di Orano (1509), di Bugia (1510), di Tripoli (1511) e la sottomissione di Algeri e di Tunisi erano tali da giovare alla Castiglia, che già dal tempo di Alfonso V d'Aragona era stata chiamata ad aver parte nelle vicende dell'Italia meridionale e con le vittoriose imprese africane del Cisneros e di Pedro Navarro vedeva allontanata la minaccia di un ritorno offensivo dei Musulmani. E infine per la prevalenza accordatale nella distribuzione dei frutti delle meravigliose imprese di Cristoforo Colombo, dalle quali doveva ricavare, o meglio avrebbe dovuto ricavare enormi vantaggi, la Castiglia fu chiamata a imitare, in un teatro immensamente più vasto e con un condottiero italiano, gli ardimenti mediterranei dei marinai catalani e si avviò ad assicurarsi il possesso di smisurati dominî.
Nella politica interna, il regno al quale si rivolsero maggiori cure fu la Castiglia, non solo perché era quello che più ne aveva bisogno per le condizioni ancora molto arretrate della sua vita etico-politica, ma anche perché esso, per la sua tradizionale politica peninsulare, era il nucleo centrale del nuovo organismo statale, e perché a considerarlo tale, oltre a Isabella per amor di patria, anche Ferdinando era stato tratto dalla sua sfiducia verso la malfida Catalogna e la debole Aragona e dall'affetto che egli, figlio di una castigliana e discendente dalla Casa di Castiglia, aveva per la sua terra d'origine. Ma uguali sistemi politici si applicarono anche all'altra monarchia. Quali sarebbero stati apparvero subito dalle deliberazioni che furono prese nelle Cortes di Toledo fino dal 1480: l'accentramento dei poteri nelle mani del monarca, il rafforzamento della sua autorità contro tutte le forze disgregatrici dell'unità di governo, la piena autonomia del sovrano nella sua opera di amministratore dello stato. Il prevalere dell'alta nobiltà finì non solamente perché furono distrutte molte delle sue fortezze, proibito di costruirne delle nuove, ridotte le sostanze dei signori obbligandoli a restituire cortigiani a corte o come tranquilli sudditi nelle loro terre; ma anche perché il monarca si fece nominare gran maestro dei tre ordini cavallereschi della Spagna: di Calatrava (1487), di Alcantara (1494) di S. Giacomo (1499); perché furono protette e accresciute le libertà dei comuni e le cariche e gl'impieghi furono affidati a borghesi, gli uni e gli altri fedeli amici e intelligenti collaboratori del sovrano; e perché fu del tutto rinnovata l'amministrazione della giustizia, specialmente con la creazione della Santa Hermandad, ordinata nelle Cortes di Madrigal del 1476: terribile istituzione, con la quale si represse con spaventosa ferocia il brigantaggio, rovina del paese e mezzo di dominio per i grandi, e che fu modificata nel 1498, allorché, per la bontà dei risultati ottenuti, non si ebbe più bisogno di essa. Inoltre il "re cattolico" difese sempre i diritti ecclesiastici appartenenti alla corona contro le usurpazioni papali. Infine, riordinando il sistema monetario, migliorando le comunicazioni con la costruzione di strade e ponti, sopprimendo gli ostacoli al libero commercio fra l'Aragona e la Castiglia, riordinando il sistema tributario, proteggendo le industrie oltre a dare nuove possibilità di sviluppi alle attività degli Spagnoli, accrebbe enormemente il gettito delle imposte e diede allo stato una qualche autonomia finanziaria, che accrebbe la fiducia dei banchieri nel monarca e rese possibili forti aperture di crediti presso di essi, sì che egli ebbe sempre a sua disposizione i mezzi per svolgere la sua dispendiosa politica internazionale. Ma, senza dubbio, nel suo assolutismo egli andò troppo oltre, allorché consentì all'introduzione nello stato dell'Inquisizione per combattervi energicamente le eresie. Tale permesso fu concesso anche perché si pensava che, rendendo unica religione permessa la cattolica, attraverso di essa si sarebbe data al paese una salda unità morale e politica, e quel tribunale sarebbe divenuto uno dei più saldi e potenti strumenti di un governo assoluto e accentratore.
Tuttavia in questo modo non si fece altro che aggravare sempre più uno dei mali fondamentali della Spagna, e cioè l'incapacità ad assorbire e assimilare le centinaia di migliaia di Ebrei e di Musulmani che l'abitavano. E non si tardarono a vedere i tristi effetti di tale politica, come anche dell'espulsione degli Ebrei, vera e propria speculazione economica del sovrano e della borghesia divenuta potente politicamente, alla quale si diede il carattere di crociata: non l'ultima dell'intemperante Castiglia.
Lo stato spagnolo. - L'imperialismo degli Asburgo. - In tal modo, per merito dei re cattolici, la Spagna, che ancora ne era priva in gran parte, cominciò ad avere un'organizzazione moderna, diede a sé stessa una certa unità morale, iniziò la propria trasformazione in grande potenza. E tale politica "nazionale", come è stata detta giustamente, continuò il cardinale Jiménez de Cisneros, durante la reggenza della Castiglia, della quale fu incaricato alla morte di Fernando e in attesa della venuta di Carlo d'Austria (1516-17), quando si trattò di salvare l'eredità lasciata dai re cattolici, minacciata all'interno e all'estero e specialmente di conservare l'unità allo stato. Contrario alle leve e agli allistamenti di gente raccogliticcia, organizzò una vera e propria milizia nazionale che sotto di lui fu elemento d'ordine; affidò a competenti le cariche amministrative locali; riordinò la finanza con profonda competenza; tenne testa ai numerosi tentativi compiuti dai Fiamminghi per impossessarsi del potere; frenò le opposizioni della nobiltà che invano macchinò contro di lui, imponendosi a Casa d'Alba, sostenendo la tesi della sottomissione alla corona dei tre ordini militari; soffocò la rivolta in Málaga, in Valladolid, in Burgos, in León, in Salamanca, in Villafrades; represse energicamente i tentativi compiuti dagli Albret per restaurare il loro potere nella Navarra spagnola; ridusse i successi delle armi musulmane comandate da Ḫair ad-din Barbarossa, continuò la politica estera di re Fernando verso la Francia e l'Inghilterra e difese i possedimenti spagnoli in Italia; facilitò il compito ad Alfonso d'Aragona, dal padre lasciato reggente in Aragona.
Ma l'ascesa al trono di Carlo d'Asburgo segnò la fine di tale politica e l'inizio di una nuova era nella storia della Spagna; l'annunzio lo diede l'immediato allontanamento dalla sua carica del Cisneros, subito ordinata dal principe.
L'inizio del governo del nuovo sovrano fu tempestoso: il paese, il cui amor proprio era stato esaltato dai gloriosi successi dei re cattolici, mal vide i Fiamminghi che accompagnavano Carlo, con alla testa Guglielmo de Croy signore di Chèvres, e che subito svelarono la loro intenzione di assumere la direzione dello stato. Nelle Cortes di Valladolid le città castigliane - i cui rappresentanti erano gli unici ad aver il diritto di partecipare ai lavori delle Cortes - imposero il loro allontanamento, domandarono che né cariche, né cartas de naturaleza fossero concesse a stranieri, pregarono il sovrano perché volesse apprendere la lingua nazionale "onde comprender meglio i suoi sudditi ed esser meglio compreso da loro" (1518). Poi, all'annunzio della sua elezione imperiale, l'opposizione divenne ancora più aperta, essendo sembrati un'offesa alla dignità della Spagna i primi atti compiuti dal monarca, il quale parve volesse dare la precedenza al nuovo titolo e allontanarsi dalla penisola; soltanto a stento le Cortes riunite a La Coruña, dopo una prima loro inutile convocazione a Santiago, gli concedettero il denaro necessario a sopperire alle spese d'incoronazione; e, durante la sua assenza, la rivolta scoppiò a Toledo e a Segovia, e si diffuse a Zamora, a Toro, a Madrid, a Guadalajara, a Soria, ad Ávila, a Burgos, a Valladolid, a León, ecc., dando origine alla cosiddetta guerra de las Comunidades, nella quale i ribelli, comandati da Juan de Padilla, si batterono per ottenere ampî privilegi e libertà municipali, il divieto di esportazione del denaro dal regno, il diritto per ognuno all'uso delle armi, che si sarebbe avuto l'obbligo di possedere, secondo la propria qualità. Tuttavia, la sommossa (1520-21) fu repressa energicamente; altrettanto vana fu una rivolta a sfondo sociale scoppiata poco dopo contro la nobiltà e l'alta borghesia a Valenza e in Maiorca (guerra de las Germanías, 1521-23); la nobiltà castigliana si schierò in favore del monarca, che sembrava dovesse realizzare con più fortuna il sogno di Alfonso X di León e Castiglia. E, sebbene fin d'allora non mancassero Spagnoli, come il cardinale arcivescovo di Toledo Juan Pardo y Tavera, i quali cercarono di distogliere l'imperatore dall'insistere in imprese che potevano dargli soltanto gloria transitoria y de ayre, il resto lo fecero: da un lato, le guerre combattute contro la Francia sino al 1530, che parvero, e sotto molti aspetti erano, una continuazione di quelle sostenute dai re cattolici, perché miravano a difendere le loro conquiste italiane e a rafforzare la posizione della Spagna nel Mediterraneo, e perché permettevano all'avventuroso soldato castigliano di continuare a mietere allori su campi di battaglia già ad essi in gran parte noti; e dall'altro, quel certo benessere economico che la politica mercantilista dei re cattolici e le conquiste coloniali avevano cominciato a procurare al paese, e che rendevano meno temute e anzi in qualche modo utili le imprese militari, anch'esse creatrici di un'industria di guerra. Infatti, allora aveva acquistato notevole incremento l'industria laniera, specialmente a Toledo, a Siviglia, a Valenza e ad alcuni centri minori dell'Andalusia; le richieste di prodotti dalle colonie e le forniture per l'esercito e per la flotta avevano fatto progredire altre industrie, accresciuto i traffici specialmente dei porti atlantici, reso più ricercati i prodotti agricoli; e mercanti stranieri erano accorsi in gran numero per collaborare con i proprî capitali e con la propria opera personale al commercio, allo sfruttamento delle miniere, in specie agli affari bancarî. Poi, negli anni immediatamente seguenti, anche se alcuni degli Spagnoli e dei consiglieri italiani non nascosero il loro disappunto nel vedere Carlo V non perseguire unicamente una politica mediterranea, necessaria all'Italia, tradizionale per la Catalogna, l'Aragona, Valenza e divenuta cara anche alla Castiglia, che sulle coste dell'Africa settentrionale era stata condotta dal Cisneros, e criticarono la lotta ad oltranza che egli aveva ingaggiato con la Francia, con la Germania luterana, con i loro alleati; tuttavia, nel tentativo di realizzare il suo sogno di una restaurazione nello spirito e nella forma dell'impero medievale universale, che avrebbe dovuto comprendere nel suo seno tutti i principî della Cristianità, il corpus christianum, e riformare in senso imperiale la Romana Chiesa - sogno che allora ebbe il suo riscontro nell'altro accarezzato da Solimano II il Magnifico di sottomettere tutto il mondo all'Islām - l'Asburgo, oltre alla sua patria, si trovò accanto la nobiltà castigliana, dominata sempre da quello spirito eroico, religioso-cavalleresco, che tanta parte aveva avuto nella sua storia passata e che ora le imponeva una personale profonda devozione a un sovrano, nel quale l'educazione borgognona aveva nutrito sentimenti e passioni che qualche rassomiglianza avevano con i suoi, e che essa sentiva vicino a sé anche nel suo smisurato amore per la vita e per la politica avventurose. Inoltre, ebbe l'incondizionato appoggio della fanteria castigliana, pur sempre quella che aveva dato alla Spagna i suoi conquistadores, schietti uomini del Rinascimento con vivide luci e ombre sanguigne. Infine, poté contare sulle energie del paese, che ancora godeva dei frutti del precedente benessere economico ed era interessato nella politica imperiale del suo sovrano: perché allora l'industria tessile della seta raggiunse uno sviluppo uguale, se non superiore, a quello che aveva avuto nei migliori tempi della dominazione araba; grandissimo incremento acquistò il commercio internazionale, favorito dall'enorme estensione dei dominî di Carlo V, verso le colonie, le Fiandre, i maggiori porti del Mediterraneo, le coste dell'Africa occidentale; dall'America cominciavano ad arrivare i primi carichi di oro e di argento.
Ma la guerra parve rendesse sempre più necessaria la guerra; e il conflitto travolse nelle sue spire tutta l'Europa. La Francia, pur tanto più piccola del vastissimo stato degli Asburgo, era ormai una monarchia omogenea e compatta, con unici interessi, con una robusta organizzazione finanziaria ed economica, mentre i dominî di Carlo V erano separati da grandi distanze e da istituzioni, costumi, interessi diversi, avevano conservato la propria autonomia: più che uno stato unico formavano una federazione di stati. Nel campo nemico spesso o sempre si schierarono l'Inghilterra, la Scozia, la Germania, la Svizzera, la Danimarca, l'Ungheria, la Turchia, talvolta anche alcuni stati italiani, insorti tutti contro la minaccia dell'impero universale e, di contro alla sua teorica, sostenitori di quella antitetica dell'equilibrio politico interstatale come necessario "per la comune libertà dell'Europa". La Chiesa, minacciata dalla Riforma, che sembrava volesse attuare il principio teocratico, e dall'Islām, che era la vera realizzazione della teocrazia, tornò a sostenere la propria piena autonomia e alla teorica dell'impero laico contrappose quella teocratica, mentre, d'altro canto, Lutero distruggeva la stessa unità religiosa e, con questa, l'unità ideale dell'impero. Le imprese militari cominciarono a sconvolgere le finanze della Spagna e degli altri dominî dell'Asburgo, costrinsero a imporre un carico tributario assolutamente insopportabile, dilapidarono l'oro e l'argento americani: ché, come in quel tempo fu detto, a pagare le spese non sarebbero bastati "sette Perù". Allora invano dai suoi consiglieri Carlo V fu invitato a scegliere tra una politica imperiale e una politica nazionale-spagnola; e la discussione insorse alla morte di Francesco II Sforza (1535), quando i seguaci della tendenza imperiale sostennero l'opportunid di abbandonare il ducato di Milano, la cui annessione avrebbe reso impossibile una pace duratura con la Francia, più gravi le preoccupazioni europee sulle intenzioni dell'Asburgo e, per l'ampliarsi del conflitto, insostenibili le spese per la guerra; mentre i favorevoli a una politica spagnola si mostravano propensi a sacrificare piuttosto le Fiandre e a conservare Milano, il cui possesso si riteneva necessario per rafforzare la difesa dei regni di Napoli e di Sicilia e per poter dominare su Genova e avere l'aiuto della sua flotta nella lotta contro il Turco nel Mediterraneo. Per Carlo V il problema era di altra natura. Senza dubbio, il sogno giovanile era tramontato; ma aveva lasciato nel suo animo un'insaziabile bramosia di potere. E d'altro canto si trattava pur sempre di difendere l'unità dell'impero, l'eredità borgognona e quella spagnola: un insieme di dominî legati non da vincoli nazionali o tradizionali, ma soltanto dalla sua persona, e, per di più, nel comune programma di difesa, l'uno necessario all'altro; ché con l'abbandono delle Fiandre egli avrebbe perduto la sua terra natia, alla quale era profondamente legato, il suo dominio più ricco, uno dei maggiori centri dei traffici spagnoli, la barriera di difesa della Germania, dove i maneggi di Francesco I avevano cominciato a dare buoni risultati, l'unico fronte sul quale era possibile infliggere alla Francia una sconfitta decisiva (e lo si vide a San Quintino qualche anno dopo); mentre l'abbandono di Milano avrebbe significato la perdita di una delle parti più importanti dell'impero, come parte cattolica e italiana, la rottura delle comunicazioni dirette tra la Germania e i dominî italiani, l'indebolimento della difesa di questi ultimi e in genere del predominio spagnolo sulla penisola, e avrebbe resa effimera la soggezione di Genova, indispensabile, oltre che per la lotta nel Mediterraneo, per gli aiuti che i suoi banchieri concedevano alla Spagna e all'impero. In tali condizioni era naturale che egli dovesse considerare come unico il problema della protezione dei suoi stati, tale da richiedere parimente un'unica soluzione, totalitaria e unitaria; e che dovesse ritenere necessario difenderli su tutti i fronti e contemporaneamente: potendo l'abbandono di uno qualsiasi dei fronti provocare la sconfitta a breve scadenza anche sugli altri. Così per più tempo egli si barcamenò tra le due soluzioni che gli erano state proposte; e anche se, dopo il fallimento della spedizione contro Algeri del 1541, rimandò a tempo migliore, il che equivaleva a un abbandono, qualsiasi progetto africano e di lotta ad oltranza contro il Turco nel settore del Mediterraneo, e parve desse la prevalenza alla politica imperiale, per altro continuò a tenere per sé e le Fiandre e Milano; e a rivolgere maggiore attenzione all'impero fu indotto dalla persuasione, confermata dai fatti seguenti, che ivi si sarebbe risolta la contesa. Ma, messo di fronte al problema religioso, egli, vincolato dalla tradizione e, anche se non ve lo avessero costretto la sua educazione e il suo passato, obbligato a seguire la fede predominante e dominante nella parte più potente dei suoi dominî, si conservò cattolico e perdette la Germania. D'altro canto, nel tentativo di sottomettere la Chiesa all'impero, inutilmente cozzò contro la resistenza della prima, che nella lotta contro la Riforma aveva cominciato a ritemprare le proprie energie e nella Controriforma volle conservare la direzione del movimento, intenta a difendere la causa propria e non quella dell'Asburgo. Infine, nei suoi dominî esausti, in contrasto con la politica personale del monarca si rafforzarono gl'interessi concreti dei singoli aggruppamenti nazionali e cominciarono le resistenze passive e le rivolte. Allora, unica a serbar fede nel suo sovrano restò la Castiglia; e, adattandole alla propria natura, ne ereditò le passioni.
Forse non si riuscirà mai a ricostruire il dramma vissuto negli ultimi anni della sua vita da Carlo V, le cui energie parvero lentamente esaurirsi e che, cedendo gradualmente al fratello e al figlio Filippo i propri dominî, si spogliò ancor prima di morire dei suoi stati e si allontanò dalla vita politica, che pure era stato l'unico vero scopo della sua esistenza. Già nel 1552 ai contemporanei il suo impero personale sembrava prossimo a frantumarsi; e al principe Filippo si rivolgeva viva, accorata, incessante preghiera perché volesse assumere le redini del governo e salvare quanto era possibile dall'imminente naufragio. Allora anche Carlo V dovette cominciare ad avere chiara percezione del prossimo crollo di tutto il mondo che aveva creato o difeso con un'energia che ha del miracoloso; o per volontà propria, non intendendo di riconoscersi vinto di fronte a un'Europa che spesso aveva dominato, o, come si è anche detto, per imposizione del figlio, lasciò ad altri l'arduo compito di liquidare la sua politica; e, per renderlo possibile, ultimo sacrificio e per lui dolorosissimo, perché aveva sperato di trasmettere tutti i propri stati al figlio, acconsentì a dividerli: dando a Filippo i dominî spagnoli, italiani e fiamminghi, oltre alle colonie americane, e al fratello i dominî ereditarî di Casa d'Austria. Ma tale partizione, anche se di immediata utilità pratica, non soltanto era un compromesso tutt'altro che felice fra le due tendenze che invano i suoi consiglieri gli avevano indicato, perché univa dominî fiamminghi a dominî italo-spagnoli e rinnovava così le precedenti pericolose confusioni d'interessi, sibbene era destinata a non avere nessuna effettiva attuazione.
La separazione delle due corone, l'imperiale dalla spagnola, agevolò subito il compito di Filippo II (1556-98), liberandolo dalla grande contesa tedesca. Il nuovo sovrano, desideroso di ritornare nel nucleo centrale del proprio stato, donde gli giungevano notizie allarmanti perché il paese era stanco delle guerre e perché la Riforma aveva cominciato a farvi dei proseliti, con maggiore facilità poté chiudere così l'ancora aperto conflitto con la Francia. Le armi del duca d'Alba ebbero ragione delle truppe di papa Paolo IV, che avrebbe voluto togliere il regno di Napoli all'Asburgo, e anche di quelle del Guisa; fortunate azioni militari spagnole, in specie la battaglia di San Quintino, nella quale rifulse il genio militare di Emanuele Filiberto di Savoia e che per poco non si trasfomò in un'irreparabile rotta per l'esercito francese, persuasero Enrico II a venire a un accordo; la pace stipulata a Cateau-Cambrésis, confermando all'Asburgo il possesso delle Fiandre e di buona parte dell'Italia (i regni di Napoli, di Sicilia e di Sardegna, il ducato di Milano, lo stato dei Presidî), assicurò alla Spagna il predominio sull'Europa (1559). E allora Filippo II poté ritornare in patria, divenuta il vero centro del suo grande stato non soltanto per la forza degli avvenimenti, sibbene ancora per la volontà del monarca, che era e si sentiva, e da tutti era considerato, profondamente Castigliano. Dalla Spagna non doveva più allontanarsi.
Tempra meravigliosa di lavoratore, sì che nel suo regno nulla si fece mai senza che egli ne venisse informato, diresse la vita dello stato in tutte le sue manifestazioni, non escluse quelle intellettuali, alle quali prese parte di persona. Così in Spagna fu instaurato il più rigido assolutismo. Ostile a tutti i regionalismi e a tutte le tradizionali libertà che da secoli i suoi sudditi godevano e che anche i re cattolici e Carlo V avevano rispettato, perché toglievano unità alla monarchia e limitavano il suo potere, volle che la Spagna avesse una capitale unica e centrale, e prescelse Madrid, sino allora cittadina di ben scarsa importanza, ma che ai suoi occhi aveva il gran merito di essere nel cuore della penisola e di non avere tradizione o privilegio alcuno di capitale di stato regionale; finì di distruggere i privilegi di casta della nobiltà e del clero; dominò con mano ferrea la Castiglia, togliendo quasi ogni potere alle sue Cortes e limitando le autonomie amministrative; e poi, approfittando della rivolta scoppiata nell'Aragona, insorta in difesa di Antonio Pérez, ma specialmente dei suoi fueros, rudemente riformò la legislazione aragonese nelle Cortes di Tarragona (1592), ove si decise che il justicia mayor sarebbe stato di nomina regia e si riconobbe al monarca il diritto di designare come viceré anche uno straniero. Con una visione troppo semplicistica delle rivoluzioni religiose, fermamente persuaso "che mai avvengono mutamenti di religione senza che avvengano nello stesso tempo mutamenti nell'ordinamento dello stato e senza che i poveri, gli oziosi, i vagabondi colgano il pretesto per depredare gli averi dei ricchi", rese più ampî i poteri del tribunale dell'Inquisizione e distrusse sino all'ultimo i convertiti alla Riforma in Spagna. D'altro canto, mentre accettava per i proprî regni i decreti del Concilio di Trento (12 luglio 1564), attenendosi alle tradizioni politiche di Ferdinando e di Carlo V, conservò la Chiesa sotto il diretto controllo dello Stato e anzi accrebbe la potestà del monarca negli affari ecclesiastici. Nello stesso tempo diede una prima soluzione al problema dei Moriscos del regno di Granata, che la Spagna cristiana, ancora una volta rivelando la sua incapacità di assorbimento, non era riuscita ad assimilare: dapprima cercò di farli convertire al cattolicismo, proibì loro l'uso della lingua e dei vestiti nazionali e impose nuove abitudini e nuovi costumi; e poi, essendosi i Moriscos rivoltati con il coraggio della disperazione e con selvaggio furore, ordinò che si usasse la forza, e Don Giovanni d'Austria, da lui incaricato, pose a ferro e fuoco le loro terre e, internandoli, li disperse nella Castiglia (1568). Tendenze assolutiste seguì nel governo degli altri stati appartenenti alla sua corona, con il fine di dare ad essi un'anima spagnola: a Napoli, ove molto aveva fatto negli anni precedenti il marchese di Toledo, sì che l'autonomia non era più che un ricordo; a Milano, che vide insediarsi degli Spagnoli nelle cariche più alte, prima affidate a Milanesi; in specie nelle Fiandre, che ebbero ridotte le loro innumerevoli e vastissime libertà. E, nella prima metà del suo regno, anche alla politica estera diede un carattere schiettamente nazionale spagnolo. Per rafforzare la pace con la Francia sposò in terze nozze nel 1559, Elisabetta di Valois, figlia di Enrico II, e, per rendere difficile un possibile ritorno offensivo del tradizionale nemico della Spagna e togliere valore alla lega franco-scozzese consolidatasi con il matrimonio di Maria Stuart con Francesco II, si tenne amica la regina Elisabetta sebbene non fosse cattolica e, per di più, fosse sovrana di un paese che già molte ragioni di contesa separavano dalla Spagna, e in segreto fece dare aiuti ai calvinisti ribelli agli Stuart contro i cattolici amici della Francia. Ai Turchi non diede quartiere, non concedendosi riposo nella lotta che il suo ardore religioso di re cattolico e il meno mistico desiderio di liberare il Mediterraneo da ospiti così pericolosi e così avversi a un'espansione spagnola tenevano continuamente desta: Malta fu salvata da Don Garcia di Toledo marchese di Villafranca (1565); l'armata della lega italo-spagnola, promossa da papa Pio V e da Filippo II e sostenuta da Venezia con tutta la flotta, sotto i comando di Don Giovanni d'Austria fiaccò a Lepanto la potenza navale turca (7 ottobre 1571). E poi, pure nella seconda parte del suo regno, quando la sua attenzione era rivolta tutta all'immane lotta che aveva affrontata, riuscì perfino a dare unità politica alla Penisola Iberica. Infatti, alla morte di Sebastiano, scomparso tragicamente nello scontro di Alcazarquivir (1578), e di Enrico (1580), essendo rimasto senza sovrano il regno di Portogallo, Filippo II fece valere i suoi diritti su quel trono come nipote da parte di madre di Manuel I il Fortunato e, dopo aver preparato il terreno a una propria successione con l'aiuto di un abile portoghese, il De Moura, nel 1580 fece occupare il paese da un esercito comandato dal duca d'Alba, nell'anno seguente ottenne che gli si giurasse fedeltà come a re nelle Cortes di Tomar, e poi conquistò le Isole Azzorre e almeno in teoria si assicurò il possesso delle colonie portoghesi che, unite alle spagnole, lo avrebbero dovuto rendere l'unico signore in Europa di dominî coloniali.
Ma, sebbene ridotto a regnare soltanto su di una parte, anche se la maggiore, dei dominî di suo padre, Filippo II si considerava, ed era in effetti, l'unico suo vero erede. Senza dubbio, non rinnovò mai l'ideale imperiale, che tanto funesto era stato a Carlo V; tuttavia si assunse il compito di difendere il predominio sull'Europa che il suo predecessore ed egli avevano conquistato; ed ancor quello di sostenere le sorti della sua casa: rendendo così ben poco duraturi i primi benefici effetti che si erano ricavati dalla divisione in due rami della famiglia degli Asburgo, compiuta da Carlo V al momento della sua abdicazione. Infatti, tenne sotto il proprio controllo lo zio imperatore; volle presso di sé gli arciduchi d'Austria per dirigerne l'educazione e in effetti furono suoi allievi coloro che poi in Germania iniziarono la riscossa cattolica; tentò di far salire la propria famiglia sul trono polacco e rafforzò i proprî vincoli di parentela con il ramo tedesco sposando in quarte nozze Anna d'Austria, figlia di Massimiliano II imperatore. Ora, il compito che si era assunto era ben gravoso, ché i dominî italiani erano esausti per le passate imprese militari; le Fiandre non nascondevano il loro malcontento contro la politica interna e finanziaria di un sovrano che, a differenza di suo padre, per essa si faceva sentire straniero; la Spagna cominciava a provare le tristi conseguenze delle guerre, che, attirando negli eserciti un gran numero di braccia valide, spopolavano città e campagne e diminuivano la produzione agricola e industriale, già per l'innanzi insufficiente al consumo locale, e vedeva aggravato il male dall'emigrazione verso l'America; e gravissima era la situazione finanziaria, che Filippo II aveva cercato di sanare nel giugno 1557 con una vera e propria bancarotta, sospendendo i pagamenti e convertendo in titoli di rendita perpetua o a lunghissima scadenza al 5 per cento gli assegni a breve termine che i creditori avevano sulle entrate della corona e sui quali riscuotevano un interesse variante dal 10 al 14 per cento: ché se, in tal modo, è vero, egli aveva potuto assicurarsi i mezzi necessarî a riprendere la guerra che doveva condurlo alla pace di Cateau-Cambrésis, tuttavia aveva dato un grave colpo al credito pubblico e svelate le tristi condizioni delle finanze dello stato. Ma il peso della sua politica divenne assolutamente insostenibile quando la rivolta nelle Fiandre, gli avvenimenti interni della Francia e la politica offensiva dell'Inghilterra misero di nuovo in pericolo il predominio degli Asburgo sull'Europa, e rivoluzioni politiche e sociali assunsero l'aspetto di rivoluzioni religiose e guerre di religione divennero quelle di preponderanza.
L'intolleranza religiosa e l'assolutismo politico, se erano stati sopportati in Italia, dove la dominazione spagnola o era di vecchia data o era sostenuta da un esercito tenuto sempre in armi, applicati in paesi, come le province settentrionali dei Paesi Bassi, che avevano accolto con gran fervore il calvinismo e che godevano di secolari privilegi, determinarono una rivolta a carattere politico-religioso, alla quale sul principio diedero la loro adesione anche i cattolici delle provincie meridionali insofferenti ancor essi del dispotismo spagnolo che minacciava le risorse economiche della regione, e, al pari dei calvinisti, fieramente avversi a Filippo II. La rivoluzione era gravissima, perché, se avesse trionfato, il monarca avrebbe perduto lo stato suo più ricco; ma ben presto acquistò sviluppi impreveduti per l'intervento della Francia e dell'Inghilterra. La Francia si schierò contro la Spagna, e non soltanto la Francia ugonotta, sibbene anche la cattolica, ché Caterina, nella speranza di assicurare un trono al figlio, mandò nelle Fiandre Francesco duca di Alençon (1582). Già da parecchi anni l'Inghilterra rivolgeva il suo cupido sguardo alle colonie spagnole e, nell'impossibilità d'iniziare traffici regolari con esse, ché la madrepatria si era serbato il monopolio del loro sfruttamento, pur non venendo a guerra aperta, aveva armato potenti flotte di corsari che disturbavano il commercio nell'Atlantico; ora l'insurrezione delle Fiandre, dove gl'Inglesi avevano molteplici interessi, segnò l'inizio dell'apertura delle ostilità. Tutto questo avrebbe dovuto dimostrare l'errore che era alla base del compromesso tentato da Carlo V quando aveva dato al figlio, oltre agli stati spagnoli e italiani, anche le Fiandre, che appartenevano a tutto un altro mondo e difficilmente si sarebbero sottomesse a un governo che non avessero ritenuto nazionale e che non avesse abbracciato una politica nazionale. E avrebbe dovuto svelare finalmente il fondamentale equivoco sul quale poggiava la separazione tra regno e impero, che mentre aveva privato il ramo principale degli Asburgo, lo spagnolo, di una parte dei suoi dominî, gli aveva lasciato per intero il dovere di difendere le due eredità di Carlo V e il frutto delle guerre che avevano portato a Cateau-Cambrésis, e quindi gli aveva precluso la possibilità di seguire una politica strettamente spagnola. Invece, insistendo nell'errore, Filippo II ritenne che il possesso delle Fiandre gli fosse necessario per quelle stesse ragioni che già avevano persuaso suo padre a non abbandonare la regione, e che sui campi fiamminghi si decidessero le sorti della sua casa. Per di più non si arrestò qui. Ben ricordando quali tristi conseguenze avesse avuto per suo padre la Riforma e, castigliano nell'animo, portato ad esaltare la più rigida intransigenza e a considerare l'unicità della religione come indispensabile per dare solida base unitaria allo stato - già vedemmo che questo fu uno dei canoni fondamentali della sua politica interna - e per rendere l'Europa meno restia ad accettare il predominio di una nazione, come la Spagna, che tradizioni e opera di governo avevano reso totalitariamente cattolica; nel conflitto apertosi egli vide specialmente il carattere religioso e, di contro al luteranesimo e al calvinismo, considerati come movimenti antispagnoli, egli si assunse l'enorme peso di difensore in tutta l'Europa della fede cattolica. Senza dubbio, in tal modo egli assicurò un carattere nazionale alla lotta da lui ingaggiata. La Castiglia già molto aveva fatto per il trionfo della Controriforma, dandole prima di tutto il Loyola e poi una fitta schiera di teologi e di filosofi scolastici restauratori della dottrina della Chiesa, e ancora le armi della sua forte fanteria; ora si schierò in favore del suo monarca rivelando un entusiasmo anche maggiore di quello che aveva mostrato nel sostenere la causa di Carlo V, perchè il nuovo ideale lo sentiva più aderente alle proprie tradizioni e al proprio spirito ed era portata a considerare la guerra iniziata come nazionale e a trasformare la difesa della Chiesa in ambizione nazionale. E si potrebbe anche aggiungere che, contrapponendo calvinisti a cattolici, Filippo II riuscì a conservare per sé la parte cattolica delle Fiandre. Ma in questo suo adattamento nazionale e religioso l'imperialismo degli Asburgo divenne per l'Europa molto più pericoloso e per il suo sostenitore di molto più difficile attuazione, perché aveva perduto i precedenti confini territoriali e mirava diritto alla conquista delle coscienze dei popoli; e perché, dopo il frazionamento politico-religioso dell'impero e la rivoluzione delle Fiandre, era sostenuto quasi unicamente da un paese, come la Spagna, che era il meno adatto a una conquista morale dell'Europa (già aveva fatto pessima prova nei riguardi degli Ebrei e dei Moriscos e sul proprio suolo), che fino allora non aveva avuto il tempo o la capacità di organizzare saldamente una propria autonoma vita economica, e che aveva soltanto un esercito temibile e temuto, per lo spirito che l'animava e per la sconfinata fiducia che riscuoteva in patria, vera manifestazione della regione che lo aveva creato. Così, la guerra che ne scaturì, nella quale più nazioni difesero la propria indipendenza politica e morale, assunse proporzioni e intensità mai viste sino allora; e la Spagna ne uscì non soltanto fiaccata per sempre sotto l'aspetto economico, politico e militare - ché anche l'esercito finì con risentire l'influsso della crisi che travagliava il paese e pose termine alle proprie glorie - ma impoverita nelle fonti della sua vita etica: ché, non scossa, come lo fu la Francia, dal contrasto religioso e quindi non portata ad affinare nel dibattito la sua vita interiore e ad aprire la mente e l'animo a più vasti e più profondi problemi, inaridì la propria morale nella casistica, nel rigorismo, nel cosiddetto "punto d'onore": manifestazione evidente, quest'ultima, dell'eticità di un popolo, nel quale l'orgoglio stava per prendere il sopravvento su gli altri motivi di vita. Filippo II contro gli ugonotti sostenne i Guisa con forti aiuti finanziarî; nel 1584 come erede di Enrico III riconobbe il cardinale di Borbone, e poi, alla morte di quest'ultimo, tentò di far valere i diritti al trono di Isabella, figlia sua e di Elisabetta di Valois. Contemporaneamente mosse contro Elisabetta, che, in contrapposto al programma religioso del nemico, si era elevata a sostenitrice di tutti i protestanti d'Europa, aiutava gli ugonotti e gl'insorti dei Paesi Bassi ed aveva seminato i mari di arditissimi pirati, primo fra tutti il Drake, per annientare i traffici spagnoli e saccheggiare le coste del Chile, del Perù, della Colombia. Ma un'imponente flotta da guerra, che rappresentava il massimo sforzo militare della più grande potenza navale dell'epoca e che avrebbe dovuto proteggere lo sbarco di un esercito destinato a colpire nel suo cuore la monarchia di Elisabetta, la Armada invencible, fu distrutta dalle tempeste del Mare del Nord senza poter sbarcare un uomo sul territorio nemico (1588); e il suo disastro segnò il crollo del predominio spagnolo sui mari. La conversione al cattolicesimo di Enrico IV distrusse tutti i progetti di Filippo II sulla Francia, ché il nuovo sovrano, ottenuto il trono, si attenne nei riguardi della Spagna alla politica che aveva seguito da ugonotto e che, del resto, era tradizionale per la monarchia francese; invano l'Asburgo prese le armi: nel trattato di Vervins (1598) fu costretto a riconoscerlo come re e a confermare le conclusioni della pace di Cateau-Cambrésis. Parimenti fallì il suo piano di coalizzare tutta l'Europa cattolica contro l'Europa protestante. E infine, anche la Chiesa, come già aveva fatto con Carlo V, e ora a più forte ragione, reagì al tentativo da lui compiuto per farla strumento della sua politica e finì per battere una propria strada. Sicché se le armi di Filippo II giovarono alla causa del cattolicismo, la direzione effettiva di quest'ultimo e l'utilità pratica della sua diffusione sfuggirono ancor esse dalle mani di colui che si era atteggiato a paladino della Chiesa, ultimo crociato.
Le ben tristi conseguenze di questa politica si videro nel secolo seguente, quando per di più la Spagna alla propria testa ebbe monarchi moralmente e intellettualmente di molto inferiori ai due che li avevano preceduti: Filippo III (1598-1621), Filippo IV (1621-65), Carlo II (1669-1700), tutti e tre di Casa Asburgo, sotto i quali il governo passò nelle mani dei loro ministri e dei loro favoriti, che non di rado aggravarono la situazione del paese con gl'intrighi di corte.
A Filippo III, e per lui ai due privados che si successero al governo dello stato, Francisco de Sandoval duca di Lerma e suo figlio, ma rivale, il duca di Uceda, toccò il compito di chiudere le guerre ingaggiate da Filippo II. Nel conflitto con l'Inghilterra invano si tentò uno sbarco sulle sue coste e fallì al suo scopo una spedizione inviata in soccorso dei cattolici irlandesi: la pace fu conclusa soltanto quando salì sul trono Giacomo I (1604), che ad essa fu indotto specialmente dalla persuasiva parola del suo amico Don Diego Sarmiento de Acuña conte di Godomar, accorto e abile diplomatico spagnolo. Vicende varie ebbe la guerra nelle Fiandre, che l'anno prima di morire, nel vano sforzo di calmare i suoi nemici, preoccupati dal prevalere della potenza iberica, Filippo II aveva cedute a sua figlia Isabella Clara Eugenia e a suo marito Alberto arciduca d'Austria, pur ponendole sotto il protettorato spagnolo: Alberto fu vinto a Nieuport (1602), ma d'altra parte Federico Spinola s'impadronì di Ostenda. Tuttavia, la stanchezza e la mancanza di denaro costrinsero il re a venire a patti e a firmare una tregua, nella quale di fatto riconosceva l'indipendenza delle provincie unite. La fortuna fu propizia soltanto nella lotta contro la Francia, ché alla morte di Enrico IV, irriducibile avversario della Spagna, la reggente Maria de' Medici acconsentì al matrimonio di suo figlio Luigi XIII con l'infanta Anna d'Austria e del principe delle Asturie Filippo con Isabella, tutti rinunziando, per altro, ai diritti sulle corone di Francia e di Spagna che sarebbero loro derivati dalle rispettive unioni. Ma ormai non si trattava che di momentanee pause nella guerra ad oltranza ingaggiata contro gli Asburgo dalla Germania protestante, di nuovo in rotta con l'impero cattolico, dalla Francia sempre più decisa ad abbattere gli ultimi resti della supremazia spagnola, dall'Olanda e dall'Inghilterra tutte intente a soppiantare la Spagna e il Portogallo nei loro dominî coloniali o per lo meno a impadronirsi delle loro ricchezze. Era sempre la guerra che chiamava la guerra; ma con queste profonde differenze: che ormai era il nemico quello che aveva assunto l'offensiva e costringeva la Spagna a chiudersi nella difensiva e a indietreggiare dalle sue posizioni; e che il conflitto non era più localizzato all'Europa, ma aveva come teatro il mondo intero, legalizzava il più grande contrabbando che la storia ricordi prima del blocco continentale, portava alla creazione degli imperi coloniali olandese, inglese, francese, e nell'un modo e nell'altro sconvolgeva la politica coloniale spagnola che fino allora aveva poggiato sull'esclusività del possesso e del traffico. Allora nei dominî del re di Spagna si cominciò ad avvertire la gravità della situazione. L'espulsione dalla penisola dei Moriscos, già prima perseguitati, per gelosia e rapacità decretata con folle gesto dal governo di Filippo III (1609), aveva privato la Spagna di mezzo milione di provetti agricoltori, reso disabitate intere regioni, acuito la crisi economica del paese, che, come dicemmo, mai aveva prodotto quanto sarebbe stato necessario al suo consumo e ai bisogni delle colonie. La rivolta delle Fiandre aveva sottratto al traffico spagnolo il suo più importante mercato europeo. Le guerre avevano distrutto le finanze dello stato, che per la sua insolvenza poteva ottenere crediti soltanto a condizioni gravosissime e per i suoi continui bisogni era costretto a imporre un carico tributario del tutto insopportabile e a ricorrere a un sempre più esoso fiscalismo; e, per di più, anche per altre ragioni erano stati fatali al paese, distruggendo nelle loro origini le fonti della sua vita economica. Così, distraendo l'attenzione dai problemi di fondamentale importanza, dopo la battaglia di Lepanto, che perciò non aveva avuto risultati pratici, le guerre avevano fatto abbandonare la politica mediterranea, e il mare era rimasto in dominio dei Turchi e dei barbareschi, i quali, signori quasi incontrastati della costa africana, facevano continue scorrerie sulle coste dei dominî spagnoli e rendevano ben difficile il commercio marittimo. Era così divenuto, più che inutile, dannoso il possesso di un immenso dominio coloniale, perché per il contrabbando inglese, francese e olandese la Spagna era l'ultima a ricavarne qualche beneficio, e mai tale da compensare l'enorme sacrificio di denaro e di armi che richiedeva la sua difesa, e perché anche questi scarsi benefici erano resi nulli dalle necessità della guerra, che costringevano a disperdere per l'Europa l'oro e l'argento americani; in tal modo giustificandosi il detto degli Spagnoli: fare ad essi questi metalli preziosi "quell'effetto appunto che fa la pioggia sopra i tetti delle case, la quale se ben vi cada sopra, discende poi tutta al basso senza che quelli che primi la ricevono ne abbiano beneficio alcuno". Allora, in mancanza di un giusto compenso, profondo dolore arrecarono la distruzione delle autonomie locali, la persecuzione dei loro sostenitori che erano i migliori patrioti, la soppressione di secolari e amati privilegi, già un tempo fonte d'intensa vita economica e politica. E risorsero gli antichi regionalismi nella penisola iberica; si rafforzò negli stati spagnoli d'Italia la passione per l'indipendenza o il desiderio di avere qualsiasi sovrano anche il turco, piuttosto che lo spagnolo; cominciarono le rivolte, e i ribelli chiamarono lo straniero e resero anche più complesse le guerre europee. Soltanto la Castiglia, alla quale sembrava che le difficoltà accrescessero la forza di resistenza, restò tenacemente avvinta al suo programma politico; e fu essa, colpevole d'aver avuto grande parte nella sua compilazione, ma sempre pronta a difenderlo, che riuscì a conservare unite le due monarchie che avevano formato lo stato peninsulare di Ferdinando e di Isabella, e, pur non potendo impedire il tramonto del suo predominio in Europa e la perdita di alcuni dei suoi stati, difese dagli attacchi dell'Europa la propria casa regnante e sino alla sua estinzione le conservò i dominî italiani.
Per molti anni, durante il regno di Filippo IV, la direzione dello stato fu tenuta dal valido Gaspar de Guzmán conte de Olivares. E l'inizio del suo govemo parve felice: ché egli si circondò dei migliori uomini della Spagna, fu implacabile contro i rei di concussione, riformò la pubblica amministrazione, ridusse le spese, cercò di migliorare le condizioni economiche del paese diminuendo il numero dei conventi, liberando parte della manomorta, incoraggiando l'agricoltura. Ma ben presto la vita del paese riprese il suo antico, deprecato ritmo; e si rinnovò la politica interna ed estera di Filippo II, insistendosi nel partecipare alla guerra dei Trent'anni e riducendosi o sopprimendosi del tutto i privilegi politici che ancora avevano le provincie spagnole e il Portogallo. Ma la guerra non ebbe altri risultati che quello di distruggere le ultime risorse, a fatica raccolte, dello stato, e ancor quello di rendere gravissime le conseguenze della politica interna e finanziaria. L'insurrezione travolse le province basche, la Galizia, Maiorca, altre regioni; provocò complotti nell'alto baronaggio; assunse particolare gravità in Portogallo, dove sempre vivo era il rimpianto per la perduta indipendenza e profondo l'odio contro la dominazione spagnola che aveva distrutto il suo impero coloniale e i suoi traffici rigogliosi; nella Catalogna, la più riottosa sempre delle provincie e profondamente danneggiata dalla mancata protezione del suo commercio mediterraneo; nell'Italia meridionale e in Sicilia, dissanguate dal fiscalismo. I Catalani uccisero il viceré, fecero strage dei Castigliani e con il trattato del 7 giugno 1640 si diedero alla Francia; nel Portogallo, ancor esso sostenuto dalla Francia, il 28 gennaio 1641 fu proclamato re Giovanni IV di Braganza; anche su Napoli si avanzò la Francia. Ma se fu relativamente facile soffocare la rivolta in Italia, la sottomissione di Barcellona richiese ben dodici anni di aspra lotta, e la Catalogna riottenne i suoi privilegi; invece, nonostante ventisei anni di guerra non fu più possibile rientrare in possesso del Portogallo. E con la pace dei Pirenei (1659) si dovettero cedere a Luigi XIV l'Artois, il Lussemburgo, alcune piazze forti delle Fiandre, il Rosellón e la Cerdaña. Era la fine dell'egemonia spagnola. Poi la decadenza divenne rapidissima durante il regno di Carlo II, tanto durante la reggenza della madre Maria Anna Teresa d'Austria, quanto durante la maggiore età del sovrano. Nelle continue guerre contro Luigi XIV, ciecamente intraprese e peggio condotte, la corona perdette altre piazzeforti delle Fiandre e la Franca Contea (paci di Aquisgrana, 1668; di Nimega, 1678; di Ryswik, 1697). Sintomo evidente dello stato delle cose, nel governo della monarchia ebbero il sopravvento gl'intrighi di corte: ché si contesero il potere la regina madre con i suoi favoriti (il gesuita tedesco Giovanni Everardo Nithardt e Fernando de Valenzuela y Enciso), Don Giovanni Giuseppe d'Austria, figlio naturale di Filippo IV, Maria Anna di Baviera Neuburg, seconda moglie del debole monarca, nessuno riuscendo a mantenere stabilmente la propria supremazia. E poiché finì per ritenersi, come poi in realtà avvenne, che il monarca non avrebbe avuto diretti discendenti, ancor prima della sua morte presero a contendersi il suo trono i Borboni e gli Asburgo d'Austria. Parve che lo stato spagnolo dovesse perdere perfino la sua indipendenza, e, secondo il solito, per le rivoluzioni separatiste subito scoppiate, la sua unità.
L'età dell'Illuminismo in Spagna. - Le paci di Utrecht (1713) e di Rastatt (1714) - che chiusero la guerra di successione spagnola (1700-14) e diedero il trono di Spagna a Filippo V di Borbone (1700-46), nipote di Maria Teresa figlia di Filippo IV e moglie di Luigi XIV di Francia - segnarono l'inizio di una nuova vita per la monarchia iberica. Non le tolsero l'indipendenza politica, ché, contrariamente a quanto aveva disegnato Luigi XIV e a quanto aveva fatto sperare allo stesso Filippo V il triste destino che sembrava perseguitasse inesorabilmente i Delfini, i Pirenei continuarono a dividere i due stati che li avevano per confine; inoltre, le permisero d'impedire il prevalere dei movimenti separatisti; ma la privarono di tutti i dominî fiamminghi e italiani - e con essi degli ultimi resti del suo impero europeo - e, negli stessi dominî spagnoli, di Gibilterra e di Minorca, che l'Inghilterra tenne per sé. Per di più il ramo spagnolo di casa Borbone ebbe in Filippo uno sfortunato e anche inabile fondatore della sua potenza. Uomo di pochi difetti, ma anche di poche virtù, come giustamente fu detto, incline sempre a lasciarsi dominare da coloro che gli erano vicini, parve che effettivamente a un solo scopo mirasse nella sua vita: ad abbandonare il trono al più presto possibile nelle mani di qualche figlio, nascondendo sotto apparenti scrupoli religiosi quel che molto probabilmente era frutto di una consapevole incapacità a governare e, senza dubbio, di una completa abulia. Infatti, il 10 gennaio 1724 a ogni costo volle abdicare in favore di Luigi, figlio della prima moglie Maria Luisa Gabriella di Savoia; se, alla morte del giovane re (31 agosto 1724), riprese la corona, lo fece a malincuore, costretto dalle pressioni del nunzio Aldobrandini e della regina, la sua seconda consorte Elisabetta Farnese, e ancora dall'impossibilità di provvedere diversamente, data l'infantile età del secondogenito Fernando; e poi, fino alla morte, preso da una triste melanconia, che talora rasentava la pazzia, tenne in continue angustie la regina e i suoi ministri, timorosi che egli volesse rinnovare il suo gesto, annullando o mettendo in serio pericolo la loro opera. Così la precedente politica imperialista degli Asburgo non fu abbandonata d'un tratto: e non soltanto perché né la monarchia spagnola, né quella austriaca avevano voluto riconoscere subito e scambievolmente il fatto compiuto, che ormai non doveva più modificarsi in vantaggio della prima; o perché non poteva considerarsi del tutto chiuso il conflitto con l'Inghilterra, che continuava a minacciare i dominî americani della Spagna e a sostituirsi alla loro madrepatria negli scambî commerciali con essi, e che ormai, dopo l'occupazione di Gibilterra e di Minorca, mirava ad assicurarsi il dominio sul Mediterraneo. Tale tradizionale politica era troppo cara alla Castiglia, alla quale due secoli d'imprese europee avevano dato aspirazioni e desiderî difficilmente cancellabili, perché potesse rinunziarvi senza rimpianti. E l'imperialismo degli Asburgo rivisse in Elisabetta Farnese e negli italiani che la circondavano, tutti protesi nello sforzo di reintegrare la monarchia iberica di almeno una parte di quanto aveva perduto per effetto della guerra di successione: imperialismo per di più acuito dall'amore materno della seconda regina di Spagna, desiderosa di assicurare degli stati ai proprî figli, che sembrava dovessero restarne privi per la presenza di Fernando, figlio di primo letto di Filippo V. Nei primi quarantasei anni di vita della nuova dinastia si ebbe perciò un'intricata, più che abile, serie di maneggi diplomatici, di trattative con questo o con quest'altro stato e con questo o con quest'altro partito interno nei singoli stati per averne aiuto, di progetti rimasti tali o di progetti che ebbero anche un principio di attuazione, come quelli ideati dal cardinale Alberoni; e nella vita della Spagna fecero la loro apparizione strane figure di avventurieri, come Giovanni Guglielmo Ripperda, che, anche se per poco, giunse a dominare la vita della monarchia, facendosi iniziatore di una politica di avvicinamento tra la Spagna e Casa d'Austria, che avrebbero dovuto rinnovare l'antica alleanza e tornare a creare in Europa una solida coalizione ispano-austriaca, anche se a parti invertite, e cioè con il predominio austriaco. Senza dubbio, qualche cosa si ottenne. Nel 1725, con il trattato di Vienna, l'Austria e la Spagna diedero il loro riconoscimento alle conclusioni cui erano giunte le paci di Utrecht e di Rastadt. Già nel congresso di Cambrai, nel 1723, si era ottenuta l'investitura del ducato di Parma e di Piacenza e del granducato di Toscana in favore del primo figlio di Elisabetta Farnese, Don Carlos: ora, nel 1731, questo principe poté prendere possesso del ducato e, nel 1734, durante la guerra di successione polacca, occupare i regni di Napoli e di Sicilia; nel 1748 ad Aquisgrana, dove si pose fine alla guerra di successione austriaca, il ducato di Parma e Piacenza fu assegnato a Don Felipe, secondogenito di Elisabetta; e infine, nel 1732, una flotta spagnola tornò a impossessarsi di Orano, che il Cisneros aveva conquistata e che era stata perduta nel 1708. Ma la progettata alleanza ispano-austriaca si rivelò irrealizzabile e la Spagna fu costretta a rinunziare alla sua politica estera tradizionale e a piegarsi all'amicizia con la Francia, fallirono le speranze di una successione di Filippo V sul trono francese; inutili si rivelarono i tentativi di accordo o la guerra contro l'Inghilterra, nonostante i successi militari riportati dalla flotta bene armata dal Patiño, ché Gibilterra e Minorca continuarono a rimanere nelle mani della rivale; la stessa nuova espansione spagnola in Italia, se appagò l'affetto materno di Elisabetta, fu di scarsa utilità per la Spagna, e poi tanto i regni di Napoli e di Sicilia, quanto il ducato di Parma e Piacenza finirono con spezzare i legami che li univano alla monarchia iberica e con entrare nell'orbita della politica austriaca. Ormai la Spagna aveva cessato di essere una grande potenza europea. E, incapace di sopportare il peso di una politica a grande sviluppo e vittima della tradizione locale che continuava ad assegnargli programmi imperialistici, il paese finì con esaurirsi del tutto nel vano sforzo di rinnovare un passato che non doveva essere più che un ricordo.
Allora parve che la Spagna volesse ripiegarsi su sé stessa e sanare gl'infiniti mali che la travagliavano e che erano conseguenza della politica interna ed estera seguita dai suoi monarchi austriaci. Il movimento già si era iniziato durante lo stesso regno di Filippo V, per influsso della corte di Versailles che regolò l'opera del D'Orry e dell'Amelot e per l'attività degl'Italiani e per il lavoro di ministri spagnoli conquistati dal predominante dispotismo illuminato, come il Patiño, che, seguace del mercantilismo e, non senza ragione, detto il "Colbert iberico", riorganizzò la marina da guerra e mercantile, protesse le industrie indigene, alcune delle quali ebbero perciò notevole sviluppo, e contribuì alla formazione di compagnie mercantili per lo sfruttamento delle colonie americane e delle Filippine. Poi, ebbe particolare sviluppo durante i regni di Ferdinando VI (1746-59), per l'opera di José de Carvajal y Lancaster e di Zenón de Somodevilla, marchese de la Ensenada, e in specie di Carlo III (1759-88), al quale la dimora in Italia come re di Napoli e di Sicilia (1734-59), aveva dato una sana esperienza politica e che ebbe la fortuna di avere accanto ministri come Pedro Pablo Abarca de Bolea conte de Aranda, Pedro Rodriguez Campomanes, José Moñino conte de Floridablanca, che si può ben dire "il ministro tipo del dispotismo illuminato spagnolo". Già Filippo V, per punire le regioni che con le loro rivoluzioni separatiste avevano reso più difficile la sua vittoria nella guerra di successione, aveva abolito i fueros di Aragona e di Valenza (1707) e quelli di Catalogna e di Maiorca (1714-15), proibito l'uso della lingua catalana nell'amministrazione della giustizia (1716), e, pur conservando ad esse i loro fueros, accresciuto i poteri dei proprî rappresentanti nelle provincie basche. Ora s'insistette nell'opera di unificazione, riducendo il numero delle persone che si giovavano del fuero militare (1768) allo scopo di sottomettere al monarca tutte le giurisdizioni particolari; conservando in vita e accrescendo i poteri dei varî consejos, specialmente del Consejo de Castilla, "chiave dell'organizzazione politica e amministrativa di tutta la vita spagnola durante il secolo", i quali con un esercito di funzionarî dirigevano e controllavano qualsiasi manifestazione della vita del paese; creando nel 1783 una Junta de estado, destinata a sua volta ad accentrare nelle mani dei ministri il governo di tutto lo stato e a coordinare l'opera dei consejos. E le riforme toccarono anche l'amministrazione municipale, che ancor essa fu sottomessa al potere centrale. Nei rapporti con la Chiesa si accentuò il regalismo che era una tradizione secolare della Spagna; furono limitate le attribuzioni del Tribunale dell'Inquisizione, che spesso si rassegnò ad essere strumento del governo e vide messa in pericolo la sua stessa esistenza; nel 1767 furono espulsi i gesuiti e negli anni seguenti fu presa gran parte nelle trattative diplomatiche che nel 1773 dovevano portare alla pubblicazione del breve di soppressione della Compagnia. Così s'iniziò per la Spagna un'epoca di tolleranza; il paese si aprì alle nuove correnti di pensiero europee, ponendosi fine al precedente isolamento; si pensò a ridurre l'analfabetismo e a combattere la superstizione, che erano le due secolari piaghe della Spagna; si cominciò a dare un razionale sviluppo all'ordinamento scolastico, creando scuole primarie e, in gran numero, quelle professionali, e facendo in modo che le università rinnovassero i loro programmi d'insegnamento; si fondarono numerosi istituti di cultura, come la Academia de la historia (1738), tanto a Madrid quanto nelle provincie. Finalmente, con particolare attenzione si studiarono i problemi economici, la più appariscente delle tristi eredità del passato: a questo scopo creandosi nel paese una serie di "società economiche" (amigos del pais), delle quali facevano parte nobili, ecclesiastici e borghesi conquistati dalle nuove idee e che molto lavorarono per diffondere la cultura e incoraggiare l'agricoltura e l'industria. Così si provvide a colonizzare la Sierra Morena; si ridusse la manomorta ecclesiastica; s'iniziò la quotizzazione di terre adatte alla coltivazione; si liberarono dai vincoli le terre municipali e i cosiddetti bienes de propios; si posero limiti all'accrescersi dei maggioraschi; per favorire l'agricoltura si ridussero i privilegi della Mesta, che nel 1792 perdette la propria giurisdizione. Anche l'industria ebbe notevole sviluppo - è da notare che all'influenza del colbertismo, prevalso durante il regno di Filippo V, si sostituì quella dei fisiocratici durante il governo di Carlo III; si esentarono dai dazî d'importazione i macchinarî richiesti da alcune industrie; ad altre si concedettero particolari privilegi; si crearono numerose manifatture regie; le miniere furono sottoposte a uno sfruttamento più intensivo; si soppressero le restrizioni imposte dalle corporazioni medievali d'arti e mestieri (gremios). Infine un grande impulso ebbe il commercio interno ed esterno - quest'ultimo in gran parte in mano dei Francesi, degl'Inglesi e degli Olandesi - con la creazione di un buon istituto di credito, il Banco de san Carlos; con la costruzione di una fitta rete di strade integrate da canali navigabili (come quelli d'Aragona, di Urgel, di Alcira, di Campos); con il riordinamento del servizio postale, che nel 1794 ebbe un vero e proprio codice fra i più perfezionati del tempo; con la creazione di compagnie di navigazione, come la "Real Compañia guipuzcoana de Caracas", quella dell'Avana, quella di Barcellona, quella di Escaray e Burgos, quella delle Filippine; con la riduzione o la soppressione dei dazî per le merci spagnole inviate nelle colonie e per le merci coloniali inviate in Spagna; con la concessione di libero commercio, accordata nel 1778 con una prammatica rivoluzionatrice, tra i porti di Barcellona, di Palma, di Alicante, di Cartagena, di Almeria, di Málaga, di Cadice, di Tenerife, della Coruña, di Gijión e di Santander con altri venti porti americani. E anche le colonie americane risentirono i benefici vantaggi di questo movimento che si andava sviluppando nella madrepatria, e specialmente per opera del Gálvez, autore di due fondamentali riforme: quella già ricordata della libertà di commercio, che fu completata da tutta una serie di provvedimenti miranti a riordinare l'amministrazione interna, finanziaria e giudiziaria del paese, e quella che nel 1786 istituì le intendenze destinate ad accentrare il governo.
Ma la politica estera non diede risultati ugualmente soddisfacenti. Durante il suo governo, Ferdinando VI, sollecitato dagl'Inglesi e dai Francesi a far causa comune con uno di loro, aveva preferito una politica di pace, aveva stipulato un accordo anche con l'Austria e si era dichiarato neutrale allo scoppio della guerra dei Sette anni. Alla sua morte Carlo III si legò alla Francia con il "patto di famiglia" (1761). Ora, senza dubbio, tale unione era indispensabile, perché, per il capovolgimento della politica estera dell'Europa, determinato dal conflitto con la Prussia, era finito il dissidio tra Francia e Austria, e la Spagna, ormai sicura sul continente, ma pur sempre costretta a cercare un'alleata nella lotta contro l'Inghilterra, che era sempre proclive a stender le mani sui suoi dominî coloniali e che aveva attratto nella propria orbita anche il Portogallo, non aveva a sua disposizione che la vicina monarchia borbonica, la quale aveva da difendere sui mari interessi uguali ai suoi. Inoltre, tale unione procurò anche benefici, perché un trattato di alleanza con il Marocco (1780), quello di pace, commercio e amicizia con la Turchia (1782), la pace con Tripoli (1784) e quella con Algeri (1785) permisero alla marina spagnola di solcare liberamente il Mediterraneo; e perché la Spagna riuscì a conservare intatto, o quasi, il suo dominio coloniale e a riconquistare Minorca. Tuttavia, Gibilterra restò sempre in possesso dell'Inghilterra; la partecipazione alla guerra dei Sette anni e alla guerra per l'indipendenza degli Stati Uniti annullò i benefici arrecati al paese dalla politica delle riforme, ancora una volta avendosi modo di constatare come le spese sostenute per la difesa dei possedimenti fossero di molto superiori ai benefici economici che essi procuravano: la difesa del principio di autonomia per le colonie inglesi contribuì al trionfo di un ideale che non era quello accarezzato dalla Spagna come potenza coloniale; data la profonda crisi che travagliava lo stato francese e che sempre più lo estraniava dalla politica internazionale europea, l'unione franco-ispana finì per giovare alla Francia più che alla Spagna. Poi si aggiunse la rivoluzione francese, la quale, distruggendo il potere del ramo primogenito della famiglia di Borbone e sconvolgendo la politica estera dello stato confinante, sembrò dovesse assegnare nuovi compiti alla Spagna come sostenitrice dei diritti dei Borboni, e la lasciasse sola nella lotta contro l'Inghilterra, che avrebbe potuto trarre profitto dagli avvenimenti: e tutto questo mentre alla testa della monarchia era Carlo IV (1788-1806), sovrano debolissimo, e il potere era, di fatto, nelle mani della corrotta regina, Maria Luisa Teresa di Borbone, che la politica intendeva come basso intrigo e anche come mezzo atto ad appagare la sua sete di piacere, e del suo favorito (i contemporanei lo dissero amante), Manuel Godoy, principe de la Paz y de Bassano. Per timore che contribuisse alla diffusione nel paese delle teorie rivoluzionarie, la politica delle riforme ebbe un arresto; e la guerra scoppiò quando si richiese la libertà per Luigi XVI. Ma le operazioni militari non ebbero l'esito desiderato; allora si ritenne opportuno firmare la pace (Basilea 1795), nella speranza di poter assumere la funzione d'intermediario tra l'Europa dell'ancien régime e il nuovo stato francese, e infine, rinnovando l'antica politica borbonica, si tornò all'alleanza franco-spagnola e alla guerra contro l'Inghilterra. Tuttavia anche questa politica fu tutto un fallimento, ché la Spagna nessun vantaggio ne ricavò sul continente, e nella lotta con la sua tradizionale rivale condivise gl'insuccessi del Direttorio. Né miglior successo ebbe, e non poteva averne, la seguente politica, che fu tutta un continuo ondeggiare tra i due grandi rivali: lo stato napoleonico e la coalizione antifrancese; il Godoy essendo giunto perfino a sperare una corona regia per la sua testa, e a subordinare ai proprî gl'interessi della patria. Ancora una volta la Spagna fu esclusa del tutto dalla ripartizione dei benefici arrecati dalle imprese militari, anche come alleata nella quale non si poteva aver fiducia per la doppia politica seguita dal suo ministro e per le discordie scoppiate nel seno stesso della famiglia regnante, fra il sovrano e il princípe delle Asturie; e, di contro, fu definitivamente battuta dall'Inghilterra: a Trafalgar (20 ottobre 1805) essendosi decise per sempre le sorti della potenza marittima spagnola. E infine, elevatosi ad arbitro delle liti fra padre e figlio, Napoleone impose all'uno e all'altro di rinunziare ai loro diritti, e diede la corona della Spagna al proprio fratello Giuseppe (maggio 1808).
L'Ottocento e gli ultimi avvenimenti. - Allora, contro il sovrano straniero imposto dall'imperatore, la Spagna insorse compatta, dando origine a una terribile rivolta, che Napoleone invano tentò soffocare, esaurendo nella lotta la sua armata (1808-13); e fu guerra che giustamente venne detta guerra de la independencia perché parve che il paese nella difesa del nobile fine ritrovasse la sua vera unità, anche se la lotta nel suo svolgimento si localizzò nelle singole regioni storiche e queste si diedero un governo loro proprio, in gran parte autonomo. Il crollo dell'impero napoleonico, del quale in tal modo la Spagna fu uno dei maggiori artefici, rese infine possibile il ritorno dei Borboni sul trono, e Ferdinando VII (1814-33) il 22 marzo 1814 rientrò nella penisola. Ma durante la lotta le colonie americane avevano cominciato a separarsi dalla madrepatria; e il movimento in Spagna, almeno nei suoi dirigenti, aveva assunto il carattere di una vera e propria rivoluzione, con molti punti di contatto con quella francese, anche se si disse che non si trattava che di un ritorno alle antiche libertà medievali: di una rivoluzione, è bene notarlo, non imposta, ma spontanea e, come tale, avente in sé la ragione della sua esistenza e i mezzi del suo sviluppo; sì che il paese aveva reso costituzionale la propria monarchia e nelle Cortes di Cadice nel 1812 le aveva dato ordinamenti che avevano rassomiglianze con quelli assegnati alla monarchia francese nel 1791 e presentavano un carattere spiccatamente democratico. Per di più i lunghi anni di guerra, da un lato, avevano rovinato economicamente il paese e, dall'altro, avevano portato alla formazione di un forte contingente di milizie, che la vittoria aveva inorgoglite e che ormai si ritenevano autorizzate ad aver parte nella vita politica della loro patria, e in genere avevano dato una buona esperienza di guerra civile al paese e lo avevano reso, nella materia, il più edotto di tutta l'Europa. In tali condizioni, che rendevano peculiare la situazione spagnola, la politica reazionaria di Ferdinando VII, mirante a combattere specialmente gli uomini del 1812 (i doceañistas), che si erano battuti in favore del proprio sovrano e avevano dato un carattere nazionale al proprio movimento, e non invece a temperare saggiamente quanto questi avevano deliberato spinti dalle circostanze e dal proprio razionalismo rivoluzionario, ebbe conseguenze gravissime, che spiegano tutta la storia spagnola dell'Ottocento e dei tempi nostri. Appoggiandosi sui monarchici di vecchio stampo, su gran parte del clero e sulla massa popolare che, pur fornendo loro tutto il proprio aiuto, erano rimasti estranei al movimento dei doceañistas e continuavano ad essere legati alle proprie tradizioni, il re abolì tutta l'opera delle Cortes di Cadice e instaurò un regime assolutistico, che parve, e in molti punti era, un ritorno alle concezioni precedenti all'illuministica. Ma tale politica non ritrovò la sua giustificazione neppure in qualche successo militare che riconducesse sotto la soggezione della Spagna i suoi dominî: sobillate anche dall'Inghilterra, pronta a trarre vantaggio dalla situazione, e approfittando dei torbidi scoppiati nella madrepatria e dell'allontanamento dalla sua vita politica degli uomini del 1812, che erano i migliori politici e militari del paese, le colonie americane si resero indipendenti. Nel 1820 anche in Spagna scoppiò la rivoluzione che costrinse Ferdinando VII a rimettere in vigore la costituzione del 1812 e il movimento, soffocato dall'esercito francese nel '23, che permise al monarca di rendere sempre più reazionario il proprio governo, riprese vigore subito dopo, dando origine a congiure, a rivolte, a pronunciamientos, triste peculiarità della vita spagnola; a render più complessa tale vita contribuirono la lotta scoppiata alla morte di Fernando VII tra sua moglie Maria Cristina, che difendeva i diritti di sua figlia Isabella, e il fratello del re defunto Don Carlos, che aspirava alla successione - i due contendenti si attribuirono un programma politico, assolutista i carlisti, in qualche modo liberale i cristini, e la guerra, finita nel 1839 con la vittoria di Isabella (convenzione di Vergara del 31 agosto), anche in seguito ebbe varie riprese - e le rivolte separatiste particolarmente gravi nelle provincie basche e nella Catalogna, sì che si giunse a parlare di una federazione di stati spagnoli; i dissensi nel partito liberale, nel quale sin dal 1820 si era formata una corrente più radicale, di "esaltati", di "progressisti", dal 1854 anche di repubblicani. Allora la Spagna perdette quasi ogni importanza nella vita politica dell'Europa, richiamando la sua attenzione soltanto perché i principî politici che in essa lottavano per il trionfo erano in contrasto anche altrove, e quando si trattò di dare un marito a Isabella. Infatti, in questa occasione, poco mancò non scoppiasse un conflitto franco-inglese, avendo preso il sopravvento il partito francese, ed essendosi sposata Isabella II con il cugino Francisco de Asís, e sua sorella Luisa con il duca di Montpensier.
La politica della corona, rivolta a trovare un compromesso tra l'assolutismo ed il liberalismo, con manifeste tendenze conservatrici, fu tutta un fallimento. Nel 1848, è vero il Narváez riuscì soffocare alcuni tentativi rivoluzionarî: ripercussioni della generale crisi europea di quell'anno, e resi più complessi da una partecipazione alla congiura dell'Inghilterra, ancora memore del precedente scacco, da una ripresa del movimento carlista e da una rivolta separatista della Catalogna. Ma ben presto agli antichi motivi di dissenso se ne aggiunsero dei nuovi; e il regime fu discreditato da molti intrighi di corte e, fra l'altro da un clamoroso scandalo per la costruzione delle strade ferrate, nel quale furono coinvolti la regina madre Maria Cristina e il suo amante, poi marito morganatico, il Muñoz. Poi, una vittoriosa rivolta militare capitanata dai generali Dulce e O' Donnell (28 giugno 1854), che sul principio diede il potere a Espartero, parve dovesse segnare per il paese l'inizio di una nuova vita. Infatti, la regina madre fu costretta a prendere la via dell'esilio; cominciarono le riforme; salito al potere O' Donnell (1858), il successo tornò ad arridere anche alle armi spagnole, in una guerra nel Marocco, che si chiuse con la vittoria di Tetuán (4 febbraio 1860); e truppe e navi di Isabella II parteciparono nei primi tempi all'impresa del Messico. Tuttavia, anche questa volta l'accordo fu di breve durata. Si rinnovarono le lotte tra i varî partiti, le crisi ministeriali, gli ondeggiamenti nelle direttive da seguire nel governo; l'esercito riprese a cospirare, pronto com'era a partecipare attivamente a tutti i conflitti d'idee e d'interesse; e mentre i politici si esaurivano in interminabili discussioni dottrinarie sui generali indirizzi da dare alla politica interna ed estera dello stato, nel paese gli abusi di potere, la povertà, il fiscalismo imposto dal gravissimo dissesto finanziario cominciarono a rendere profondi i malcontenti e i disordini, e ad alimentare nella massa aspirazioni e rancori, difficilmente appagabili e controllabili. Nel gennaio 1866 si riuscì a soffocare una rivolta militare promossa dal generale Prim; ed eguale sorte ebbero alcuni altri tentativi del genere. Ma poi il Narváez, sostenuto dai moderati, piegò decisamente verso destra e iniziò una severa reazione, adottando gravi provvedimenti contro la burocrazia, l'esercito, la stampa. Allora, a dare una qualche effettiva unità all'azione dei monarchici-liberali, dei repubblicani e dell'esercito, a rendere popolare il movimento e ad assicurargli il trionfo collaborarono la perdita di qualsiasi fiducia nella regina, che ormai neppur celava le proprie tendenze reazionarie, la soppressione di ogni libertà, le deportazioni in massa, il disgusto per le malversazioni del denaro pubblico, il malcontento diffusosi nell'esercito per le numerosissime punizioni, la mancanza di abilità e di energia nel governo, che nel momento in cui aveva prescelto la propria politica si era ridotto a contare sull'aiuto dei meno adatti all'azione, e neppure sapeva usare le sue poche forze. La rivolta esplose nel settembre 1868. Dapprima si mosse la marina, agli ordini dell'ammiraglio Topete, che era d'accordo con il Prim; poi alla rivoluzione diedero la loro adesione uomini dalle tendenze più disparate: i repubblicani, i progressisti come il Prim, i seguaci di O' Donnell, antichi ministri o favoriti di Isabella, come il Serrano. Il 28 settembre quest'ultimo vinse al ponte di Alcolea nella Mancia il marchese di Novaliches; e, dopo la partenza della regina (30 settembre), il 5 ottobre assunse il potere.
Il 26 ottobre la Gaceta de Madrid pubblicò il programma del nuovo governo, nel quale si cercava di mettere d'accordo le richieste avanzate dalle varie giunte rivoluzionarie che nelle storiche regioni del paese avevano diretto il movimento; le elezioni risultarono favorevoli a una continuazione del regime monarchico, pur con un'altra dinastia; seguirono ampie riforme; nel 1869 fu approvata la nuova costituzione che teneva conto degl'ideali del 1812 e di quelli del tempo. E, senza dubbio, almeno parte dell'attività legislativa era adatta a rinnovare la vita del paese, sotto molti punti di vista ancora arretrata nei confronti di quella degli stati più civili d'Europa, e poteva far ritenere superato il precedente dottrinarismo e possibile l'affrontare i problemi politici concreti. Ma la rivoluzione del settembre 1868 non aveva fondato un grande partito nazionale sulle rovine degli antichi, sibbene questi continuavano a contendersi la direzione della vita dello stato; e in tali condizioni particolarmente pericoloso doveva divenire il dibattito delle riforme da attuare, al quale tendevano a partecipare sempre più vasti ceti, e doveva rivelarsi chimerica la speranza di dare uno sviluppo ordinato al movimento. Per di più gli animi si divisero allorché si trattò di designare il nuovo sovrano: l'esercito, malcontento per una riduzione dei quadri, tornò ad agitarsi; una reazione provocò la nomina a reggente del Serrano, la quale avrebbe dovuto accontentare tutti perché, in attesa dell'accordo, lasciava impregiudicata la questione, ed invece parve attribuisse ad uno solo i frutti della rivoluzione. Così la seconda metà del 1869 e quasi tutto il 1870 passarono tra pronunciamientos e disordini, in un continuo ondeggiare di uomini e di idee, che mutavano opinione e direzione di giorno in giorno: essendosi rivelati inutili i molteplici appelli alla concordia lanciati al paese ed avendo ripreso vigore il partito carlista. Come sovrano si fecero i nomi di Ferdinando di Portogallo, del duca di Genova, di Espartero, del duca di Montpensier, del principe delle Asturie, in favore del quale aveva abdicato la madre Isabella II, del principe Leopoldo di Hohenzollern: ma essi o furono scartati o rifiutarono l'offerta; e la candidatura dell'ultimo valse soltanto a fare scoppiare la guerra tra la Francia e la Prussia. Finalmente gli sguardi si posarono su Amedeo di Savoia duca d'Aosta, nonostante l'opposizione dei repubblicani, dei legittimisti, dei carlisti e dei sostenitori del duca di Montpensier, al Prim riuscì di raccogliere sul suo nome una leggiera maggioranza nelle Cortes (16 novembre 1870); e il 4 dicembre 1870 il principe sabaudo aceettò la corona. Ma, tragico inizio di regno, il nuovo sovrano non era ancora giunto nel proprio stato, e già il Prim cadeva vittima di un attentato. Allora Amedeo I, privato del suo maggiore sostenitore, si trovò solo in un paese che tendeva a considerarlo straniero e ad essergli ostile: ché permanevano recisamente contrarî i favorevoli alle altre candidature; il partito cattolico non nascondeva i suoi sentimenti ostili contro il figlio di un re che era in lotta con il papa; la nobiltà non approvava le tendenze democratiche del monarca, in piena antitesi con il tradizionale fasto della corte. Per di più, anche nel partito che lo aveva chiamato a Madrid, e che aveva perduto con il Prim la propria guida, s'iniziarono i dissensi. Così le elezioni del 1871 diedero forza all'opposizione; questa rese impossibile la politica di pacificazione del sovrano; i partiti si moltiplicarono, talvolta espressione di rancori e di odî personali più che di idee; al governo si avvicendò una ridda di ministeri, ciascuno con un proprio programma, elaborato attraverso transazioni e intrighi. Il re affrontò la situazione con lelatà e con coraggio, del quale diede chiara prova il 18 luglio 1871, quando si attentò alla vita sua e della consorte. Ma qualche successo riportato sui carlisti avendo calmato le preoccupazioni dei liberali: questi finirono per coalizzarsi contro il sovrano e le elezioni del 1872 furono contrarie ad Amedeo. Allora, come era stata regola del suo governo, ancora una volta contrario all'uso della forza, il re preferì dimettersi; e la sua rinuncia fu accettata l'11 febbraio 1873 dalle Cortes, che non poterono non lodare la sua nobile condotta.
Nei seguenti due anni di torbido regime repubblicano (1873-1874) la rivoluzione del 1868 riprese il suo sviluppo. Altre grandi riforme si aggiunsero alle precedenti. Ma l'indirizzo comunista ebbe il sopravvento in Malaga; sostenuta da Py y Margall si delineò la tendenza federalista, patrocinatrice della piena autonomia delle regioni e dei municipî, uniti da un patto volontario e da un governo centrale incaricato soltanto degli affari di comune interesse; tornò a divenir pericoloso il movimento carlista; la rivolta cominciò a serpeggiare nelle colonie, specialmente nell'Isola di Cuba; si aggiunsero gravi agitazioni socialiste ed anarchiche. In tali condizioni vano fu il tentativo compiuto da Emilio Castelar, capo del partito repubblicano unitario, di assumere la presidenza con poteri dittatoriali (settembre 1873). Accusandolo di seguire una politica troppo conservatrice, dopo qualche mese, nella notte del 2 al 3 gennaio 1874, le Cortes gli negarono la fiducia; ed egli si ritirò dal governo, non volendo usare la forza militare offertagli dal generale Pavia. Il potere fu assunto dal Serrano; ma questi, se riuscì a fermare l'avanzata dei carlisti, giunti ad assediare Bilbao, non seppe batterli definitivamente, sì che la guerriglia continuò snervante ed estenuante; e, d'altro canto, avendo domandato l'aiuto dei conservatori, indirettamente accrebbe la forza del partito monarchico. Un nuovo pronunciamiento militare, organizzato dal generale Martinez Campos e bene accolto dallo stanco paese, fece salire sul trono il principe delle Asturie (29 dicembre 1874); ed Alfonso XII il 14 gennaio 1875 poté entrare in Madrid fra entusiastiche acclamazioni.
Parve di nuovo che la vita politica della Spagna fosse sul punto di trovare una sua regola di unitario sviluppo. I carlisti furono disfatti, ed Estella, loro cittadella, dovette capitolare (febbraio 1874). Nel 1876 lo stato ebbe la sua costituzione, destinata a restare in vigore per quarantasette anni, che temperava in senso reazionario quella liberale del 1869, ma accettava alcuni dei suoi principî. Nel 1878 fu soffocata anche la rivolta scoppiata nell'Isola di Cuba, usando la forza ed al tempo stesso concedendo ai coloni il diritto d'inviare loro deputati alle Cortes. Infine l'indirizzo reazionario prevalso nei primi tempi, che aveva portato ad abolire molte delle riforme attuate durante il periodo rivoluzionario, fu in parte rettificato quando salì al potere il partito "fusionista" diretto da Práxedes H. Sagasta e per l'opposizione repubblicana capitanata da Emilio Castelar. Ma ben presto, specialmente dopo la morte del sovrano (novembre 1885), le lotte di partito ripresero il sopravvento, facilitate dalla debole reggenza, in nome di Alfonso XIII nato postumo, della madre Maria Cristina d'Asburgo, che aveva sposato Alfonso XII per unire con un nuovo patto di famiglia le due corti più cattoliche e più reazionarie d'Europa. Il governo, dominato da preoccupazioni parlamentari e da intrighi di corte, si avvicendò nelle mani dei conservatori capitanati da Cánovas del Castillo e dei liberali rappresentati dal Sagasta: tutti, ad eccezione di Antonio Maura e di una frazione dei conservatori, che ritenevano possibile una riforma dei costumi politici con un'azione governativa (la cosiddetta "rivoluzione dall'alto al basso"), resi scettici dai precedenti caotici avvenimenti sulla possibilità di educare il paese e quindi poco disposti anche soltanto a tentare l'opera. L'Isola di Cuba di nuovo insorse; la rivolta si propagò nelle Filippine, desiderose come Cuba di liberarsi dal malgoverno spagnolo e già da tempo sostenute nei loro sforzi dagli Stati Uniti d'America; ed a nulla valsero l'uso di forze imponenti e la concessione dell'autonomia a Cuba. Per di più la Spagna ingenuamente si lasciò trascinare in una guerra con gli Stati Uniti. Pochi giorni dopo la rottura delle ostilità le sue flotte furono distrutte a Cative, nella Baia di Manila (1° maggio 1898) e a Santiago di Cuba (3 luglio 1898); Santiago capitolò il 14 luglio 1898; per ottenere la pace si dovettero cedere Cuba, Portorico e le Filippine, ottenendo in compenso soltanto ottanta milioni di dollari (10 dicembre 1898). Era la fine dell'impero coloniale della Spagna, che l'anno dopo vendette alla Germania anche le isole Caroline, Marianne e Palaos (febbraio 1899), ultimi suoi possedimenti nel Pacifico. Le finanze dello stato, già rovinate, ebbero il colpo di grazia; lo spirito pubblico si depresse; lo spettro del fallimento si delineò pauroso sull'orizzonte.
All'opera di ricostruzione si accinse Alfonso XIII, che assunse il governo nel 1902. Il suo compito parve dovesse esser facilitato dalla simpatica popolarità che egli seppe conquistarsi con il coraggio mostrato nei varî attentati alla sua vita: quello del 1906 proprio il giorno delle sue nozze. E sembrarono buoni sintomi di rinascita la reazione nazionale che tenne dietro al pessimismo del 1898 e cominciò a restituire al paese la fiducia nelle proprie forze; ed un almeno relativo incremento economico, provocato dall'investimento in patria dei capitali già impiegati nelle colonie. Così si creò una complessa legislazione operaia, che sembrò desse un primato alla Spagna nella materia; si cercarono nel Marocco nuovi sbocchi coloniali e soddisfazioni politiche e militari, ché in quella regione una larga zona d'influenza, trasformata in espansione, le assicurarono la conferenza di Algeciras (7 aprile 1906) e la convenzione di Parigi del 27 novembre 1912; si resero più numerosi i vincoli con le antiche colonie americane, l'"ispanoamericanismo" mirando "a ottenere la più stretta solidarietà in tutti i campi in cui questo sia possibile (e lasciando da parte i lati politici stricto sensu), con i popoli della sua lingua e della sua civiltà, stringendo con essi legami spirituali ed economici e lavorando in comune per mantenere e sviluppare, in tutti i sensi possibili presenti e futuri, le basi spirituali e culturali che li uniscono". Infine si aggiunsero i benefici anche economici apportati al paese dalla sua politica di pace con le altre potenze europee e specialmente dalla sua neutralità durante la guerra mondiale, alla quale si tenne estraneo non ostante le simpatie di molti per l'Intesa. Ma di pari passo non procedette l'opera di rieducazione politica della Spagna, dalla quale doveva dipendere effettivamente il suo avvenire. Anzi, ai precedenti motivi di contrasto, quali l'ingerenza dell'esercito nel governo dello stato e l'autonomismo di alcune regioni, altri se ne unirono, ché, invano ostacolate con saltuarî atti di forza e piuttosto da essi eccitate, e trovando facile terreno di diffusione nelle città, come Barcellona, dove era più numeroso il ceto operaio e dove più anche si sentirono le immediate conseguenze della crisi commerciale e industriale determinata dai tristi risultati della guerra del 1898, in breve giro di anni acquistarono imponenti proporzioni le agitazioni di elementi estremisti. Alla fine del 1913 il catalanismo ottenne la sua prima vittoria, e nell'aprile 1914 con la creazione di una sua Mancomunidad la Catalogna raggiunse una notevole autonomia. Il paese, ricaduto nel suo scetticismo, abbandonò la vita dello stato nelle mani dei politicanti, e si astenne dal sostenere le imprese marocchine, quando non le avversò. Infine, infrantasi l'unità degli antichi partiti, e divenuta ben difficile la formazione delle maggioranze parlamentari, il governo perdette ogni stabilità. Ormai il regime liberale era in piena dissoluzione; e ad affrettarne la fine giunse il disastro di Arruit nel Marocco (1921), che svelò la profonda corruzione politica. Una salutare reazione nazionale portò allora al governo il generale Miguel Primo de Rivera (13 settembre 1923), che, sospesa la costituzione del 1876, posto fine al parlamentarismo, allontanati dalla scena pubblica gli antichi partiti, si sforzò di dare un'effettiva unità alla Spagna, di risanarne la vita, di restituirle la fiducia nelle proprie energie. Ma quando, passati i primi entusiasmi, si ritornò perfino dai monarchici conservatori alle precedenti ideologie e la dittatura del De Rivera, ancor lui dominato da pregiudizî, si rivelò incapace di dominare a pieno le reazioni socialista-repubblicana e catalana, anche questo tentativo fallì (gennaio 1930). Nel caos che ne derivò, finì con essere travolta la monarchia; e in Spagna per la seconda volta s'instaurò la repubblica (aprile 1931). Gli avvenimenti di questi ultimi anni hanno mostrato che neppure il nuovo regime ha segnato per la nazione l'inizio di un'era di pace e di proficuo lavoro: la tumultuosa opera di riforma da esso tentata, distruggendo le basi secolari della vita del paese in omaggio a ideologie imposte da un'esigua minoranza, ha finito per portare al governo i partiti estremi. Tuttavia, la gravissima minaccia è valsa a distruggere il vecchio scetticismo ed a fare insorgere la parte sana del paese, che, proprio in questi giorni, attraverso una spaventosa guerra civile, seguendo nuovi ideali politici lotta per dare un sicuro avvenire alla patria.
I "nazionali", insorti nel luglio 1936, si sono infatti resi padroni della maggior parte della Spagna, mentre la parte rimanente è in balia dei comunisti e degli anarchici, senza che si possa più parlare per essa dell'esercizio di un potere governativo responsabile; e il governo nazionale, capeggiato dal generale F. Franco, è stato riconosciuto il 18 novembre 1936, dall'Italia e dalla Germania.
Bibl.: Notizie generali. - Bibliografie: N. Antonio, Bibliotheca hispana vetus, e Bibliotheca hispana nova, Madrid 1783-88; J. Rodríguez de Castro, Biblioteca española, ivi 1781-86; T. Muñoz Romero, Diccionario bibliográfico-histórico de los antiguos reinos, provincias, ciudades, villas, iglesias y santuarios de España, ivi 1858; D. Hidalgo, Diccionario general de bíbliografia española, ivi 1862-81; B. J. Gallardo, Ensayo de una biblioteca española de libros raros y curiosos, ivi 1863-89; P. Salvá Mallen, Catálogo de la biblioteca de Salvá, Valenza 1872; Visconte de Bétera, Índice de bibliografía histórica, ivi 1883; Conte de las Navas, Catálogo de la Real Biblioteca, Madrid 1910; R. Ballester Castell, Bibliografía de la historia de España Barcellona 1921; B. Sánchez Alonso, Fuentes de la historia española e hispano-americana, Madrid 1927, di fondamentale importanza. Sono inoltre da consultare: The hispanic Society of America: Bibliographie hispanique, New York 1905 segg.; la Bibliografía española, inserita nella Revista de filología española, 1914 segg.; e i periodici bollettini bibliografici pubblicati in Revue des questions historiques, Revue historique, Revue de synthèse historique, Jahresberichte der Geschichtwissenschaft. Per l'esercito e la marina cfr. M. Fernández de Navarrete, Biblioteca maritima española, Madrid s. a.; J. Almirante, Bibliografía militar de España, ivi 1876. Per gli Ebrei, cfr. M. Kayserling, Biblioteca espanola-portugueza-judaica, Strasburgo 1890; J. Jacobs, An inquiry into the sources of the history of the Jews in Spain, Londra 1894. Per i viaggi, cfr. R. Foulché-Debosc, Bibliographie des voyages en Espagne et en Portugal, in Revue hispanique, III, Madrid 1896; A. Farinelli, Viajes por España y Portugal, ivi 1920. Infine, prezioso è il Manuel de l'hispanisant di R. Foulché-Delbosc e L. Barrau-Dihigo, New York 1920 segg.
Fra le maggiori collez. di fonti cristiane sulla storia, in genere, della Spagna, ricordiamo le seguenti, per molte delle quali un indice-sommario è nel cit. Manuel de l'hispanisant: H. Flórez, España sagrada, Madrid 1748 segg., continuata da altri e con un indice redatto da A. Gonzáles Palencia, ivi 1918; J. Villanueva, Viage literario á las iglesias de España, ivi 1803 segg.; Colección de documentos inéditos para la historia de España, ivi 1842 segg. con indice di A. Paz Melia, ivi 1930-31; Biblioteca de autores españoles desde la formación del languaje, ivi 1846 segg.; Memorial histórico español, a cura della R. Academia de la Historia, ivi 1851 segg.; edizioni della "Sociedad de bibliófilos españoles", ivi 1866 segg.; Colección de documentos históricos, in Revista de archivos, bibliotecas y museos, ivi 1872 segg.; Biblioteca clásica espanola, Barcellona 1884 segg.; Nueva colección de documentos inéditos para la historia de España y de sus Indias, Madrid 1892 segg.; Nueva biblioteca de autores españoles, ivi 1905 segg. Cfr. inoltre, per le Cortes: R. Academia de la Historia, Colección de Cortes de los antiguos reinos de España catálogo, Madrid 1855; Cortes de los antiguos reinos de León y Castilla, a cura della R. Academia de la Historia, ivi 1861 segg.; Actas de las Cortes de Castilla, ivi 1862 segg.; Cortes de los antiguos reinos de Aragón y de Valencia y principado de Cataluña, ivi 1896 segg.; E. Prat de la Riba, Corts Catalanes, Barcellona 1906; R. Albert e J. Gassiot, Parlaments a les Corts Catalanes, ivi 1928. Per i fueros, cfr.: T. Muñoz Romero, Colección de fueros municipales y cartas pueblas de los reinos de Castilla, León, Corona de Aragón y Navarra, Madrid 1847; R. Academia de la Historia, Colección de fueros y cartas pueblas de España catálogo, ivi 1852; ma molti ne furono pubblicati separatamente nei tempi successivi. Per i Concilî, cfr.: J. Tejada Ramiro, Colección de cánones y de todos los concilios de la Iglesia de España y de America, Madrid 1859 segg. Per la legislazione, cfr. Las leyes españolas, ivi 1867 segg.; Biblioteca jurídica española anterior al siglo XIX, ivi 1907. Per i trattati con gli altri stati, cfr.: J. A. de Abrey Bertodano, Colección de los tratados de paz, ecc., ivi 1740 segg. e la sua continuazione: Marchese de Olivart, Colección de los tratados... desde el reinado de Isabel II, ivi 1890.
Collezioni di fonti per la storia regionale. - Biblioteca de escritores aragoneses, Saragozza 1876 segg.; E. Ibarra Rodríguez, Colección de documentos para el estudio de la historia de Aragón, ivi 1904 segg.; T. González, Colección de privilegios ecc, concedídos a varios pueblos y corporaciones de la Corona de Castilla, Madrid 1830-33; Colección de escritores castellanos, ivi 1880 segg.; Clásicos castellanos, ivi 1910 segg.; Colecció de documents històric inèdits de l'Arxiu municipal de la ciutat de Barcelona, Barcellona 1892 segg.; Biblioteca clássica catalana, ivi 1905 segg.; Exposició d'un pla de publicació de les croniques catalanes, ivi 1912; Colección diplomática de "Galicia histórica", Santiago 1901; A. Martínez Salazar, Documentos gallegos de los siglos XIII-XVI, La Coruña 1911; J. M. de Moner, Biblioteca de escritores ribagorzanos, Saragozza 1884; edizioni della "Sociedad de bibliófilos andaluces" e della "Sociedad del Archivo hispalense", Siviglia 1867 segg.; edizioni della "Sociedad valenciana de bibliófilos", Valenza 1878 segg.; T. González, Colección de cédulas, ecc., concernentes a las provincias vascongadas, Madrid 1829 segg.; Fontes rerum canarium, La Laguna 1933 segg.
Archivî e biblioteche. - Oltre al cit. Manuel de l'hispanisant, sono di fondamentale importanza: I. Carini, Gli archivi e le biblioteche di Spagna in rapporto alla storia d'Italia in generale e di Sicilia in particolare, Palermo 1884 segg.; A. Morel Fatio, Bibliothèque Nationale de Paris: catalogue des manuscrits espagnols et portugais, Parigi 1892 (con l'aggiunta del catalogo di P. Bohigas per i mss. catalani, Barcellona 1932); Guia histórica y descriptiva delos archivos, bibliotecas y museos arqueológicos de España, Madrid 1916; i numerosi Catálogos dell'"Archivio general de Simancas" e le varie pubblicazioni del "Cuerpo facultativo de archiveros, bibliotecarios y arqueólogos"; e finalmente A. Paz Meliea, Catálogo de documentos españoles existentes en el Archivo del Ministerio de negocios extranjeros de Paris, ivi 1932; id., Documentos relativos a España existentes en los Archivos Nacionales de Paris, ivi 1934; A. Carlo Millares, Algunas notas bibliográficas acerca de archivos y bibliotecas españolas, ivi 1935.
Storie generali. - F. de Ocampo, Los quatro libros primeros de la Crónica general de España, Zamora 1543 (cfr. M. Bataillon, in Bulletin hispanique, XXV, 1923); A. de Morales, La crónica general de España, Alcalá 1574 segg. (cfr. E. Revel, Cordova 1908); J. de Mariana, Historiae de rebus Hispaniae, Toledo 1592 (cfr. G. Cirot, Bordeaux 1905, e A. Ballesteros, Madrid 1925); e le opere di A. Cavanilles, ivi 1860 segg.; A.Gebhardt, Barcellona 1860 segg.; D. Aldama e M. Garcia, Madrid 1863 segg.; E. Zamora Caballero, ivi 1873 segg.; M. Morayta, ivi 1886 segg.; R. B. Girón, Barcellona 1905 segg.; J. Ortega Rubio, Madrid 1908 segg.; A. Opisso, Barcellona 1915 segg. Particolare importanza hanno l'incompleta Historia general de España a cura della R. Academia de la Historia sotto la direzione di A. Cánovas del Castillo, Madrid 1890 segg. e le opere di M. Lafuente Zamalloa, continuata da J. Valera, Barcellona 1887; R. Altamira, ivi 1900 segg.; A. Ballesteros Beretta, ivi 1918 segg. Fra i compendî, ricordiamo quelli di A. Aguado Bleye, di R. Ballester, di A. Blazquez, Barcellona 1931; L. Bertrand, Parigi 1932; M. Menéndez Pelayo, Madrid 1933; W. C. Atkinson, Londra 1934; R. Altamira, Madrid 1934; id., Storia della civiltà spagnola (nell'ediz. italiana, Milano 1935). Le maggiori riviste dedicate alla storia, in genere, della Spagna sono il Boletín de la Academia de la Historia (BAH.), la Revista de archivos, bibliotecas y museos (RABM.), la Revista de filologia española, la Revue hispanique (RHI.), il Buletin hispanique (BHI.), l'Anuario de historia del derecho español (AHDE.), Al-Andalus, rivista delle scuole di studî arabi diretta da M. y Granada.
Storie regionali. - F. Canella, Asturias, Gijón 1895 segg.; F. de Aramburo Zuloaga, Monografía de Asturias, Oviedo 1899; V. Balaguer, Historia de Cataluña y de la Corona de Aragón, Barcellona 1860 segg.; H. J. Chaytor, A history of Aragon and Catalonia, Londra 1933; A. de Bofarul, Historia de Catalunya, Barcellona 1906 segg.; F. Valls-Taberner e F. Soldevila, Historia de Catalunya, ivi 1923; F. Soldevila, Historia de Catalunya, ivi 193 segg.; F. Henríquez de Jorquera, Anales de Granada, Granata 1934; F. de Alesón, Anales del reyno de Navarra, Pamplona 1709 segg.; J. de Moret, Anales del reyno de Navarra, ivi 1766; J. de Jaurgain, La Vasconie, Pau 1898 seg.; E. Bayerri y Bertome, Historia de Tortosa y su comarca, Tolosa 1933.
Riviste storiche regionali. - Revista de Aragón; Boletín de la Comisión de monumentos de Cádiz; Revista castellana; Anuari de l'Institut d'Estudis Catalans e Bulletí de la Biblioteca de Catalunya; Revista del centro de estudios históricos de Granada y su reino; Boletín de la Comisión de monumentos de Navarra; Boletín... de Orense; Boletín... de Valladolid; Euskal-Erria, revista vascongada.
Storia delle istituzioni e della vita economica, politica, religiosa, militare. - E. de Hinojosa, Estudio sobre la historia del derecho español, Madrid 1903; J. Beneyto Pérez, Instituciones de derecho histórico español, Barcellona 1930; F. de Cárdenas, Ensayo sobre la historia de la propriedad territorial de España, Madrid 1873; J. Goury de Roslau, Essai sur l'histoire économique de l'Espagne, Corbeil 1887; G. Maura Gamazo, Ricones de la historia, apuntes para la historia social de España, Madrid 1910 segg.; A. de Capmany y de Montpalau, Mem. hist. sobre la marina, comercio y artes de la antigua ciudad de Barcelona, ivi 1779 segg.; T. Guiard y Larrauri, Hist. del consulado y casa de contración de Bilbao, Bilbao 1913; F. López Montenegro, Apuntes para la hist. de la formación social de los españ., Madrid 1922; J. Baelen, Principaux traits du développement écon. de l'Espagne, Parigi 1925; V. de Lafuente, Historia de las universidades, colegios y demás establecimientos de enseñanza de España, Madrid 1884; G. Reynier, La vie universitaire dans l'ancienne Espagne, Tolosa 1902; L. Luzuriaga, Documentos para la historia escolar de España, Madrid 1916-17; J. A. de los Rios, Historia social, politica y religiosa de los judíos en España y Portugal, ivi 1875 segg.; F. Fita, la España hebrea, ivi 1889-98; F. Baer, Die Juden im christlichen Spanien, Vienna 1929; P. B. Gams, Die Kirchengeschichte von Spanien, voll. 3, Ratisbona 1862-80; Z. García Villada, Historia eclesiástica de España, Madrid 1932 segg.; R. Brunet, Histoire militaire de l'Espagne, Parigi 1886; C. Fernández Duro, La marina de Castilla, Madrid 1893; A. Navarrete, Historia marítima militar de España, ivi 1901.
Antichità. - G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, i, Torino 1923, pagina 443 segg.; Th. Mommsen, Le provincie romane da Cesare a Diocleziano, trad. di E. De Ruggiero, Roma 1888-90; M. Rostovzeff, Storia economica e sociale dell'Impero romano, trad. ital., Firenze 1932; E. Albertini, Les divisions administratives de l'Espagne normanne, Parigi 1923; M. Marchetti, Hispania, in Diz. epigr. di ant. rom. di E. De Ruggiero, III, Roma 1915 segg.
Origini del cristianesimo. - H. Florez, Españ sagrada, continuata da M. Risco, voll. 51, Madrid 1747-1886; P. B. Gams, op. cit.; H. Leclercq, L'Espagne chrétienne, Parigi 1906; Z. García Villada, op. cit.
Dominazione visigota. - Opere d'insieme sono: F. Dahn, Die Könige der Germanen, VI e VII, Würzburg 1870-1871; J. Tailhan, Les Espagnols et les Goths, Londra 1888; E. de Hinojosa, A. Fernández Guerra e J. de la Rada Delgado, Historia de España desde la invasión de los pueblos germánicos, Madrid 1891 segg.; F. Romani Puigdengolas, Dominación goda en la Península Ibérica, Barcellona 1898; J. Ortega Rubio, Los Visigodos en España, Madrid 1903; E. Stocquart, L'Espagne politique et sociale sous les Visigoths, Bruxelles 1904; H. Bunswick, Historia da Peninsula Iberica durante o periodo visigothico, Coimbra 1907. Per i Vandali, cfr. L. Schmidt, Geschichte der Vandalen, Lipsia 1901; E.-F. Gautier, Genséric, Parigi 1933. Per gli Svevi, cfr. M. Macías, Galicia y el Reino de los Suevos, Orense 1921. Per il dominio bizantino, cfr. F. Martroye, L'Occident à l'époque byzantine, Évreux 1903; F. Goerres, Der byznatinische Besitzgenuss an den Küsten des spanischwestgotischen Reiches, in Byzantinische Zeitschrift, XVI.
Vita politica, religiosa, economica. - E. Pérez Pujol, Historia de las instituciones sociales de la España goda, Valenza 1896; R. de Urena, La legislación gótico-hispana, Madrid 1905; id., La literatura juridico-española, ivi 1906; E. de Hinojosa, El elemento germánico en el derecho español, ivi 1915; E. Besta, Fonti, in Del Giudice, Storia del diritto italiano, Milano 1923; M. Torres, El estado visigodo, in AHDE., III, 1926; H. Leclercq, op. cit.; E. Magnin, L'église wisigothique au VIe siècle, ivi 1912; J. Juster, La condition légale des Juifs sous les rois wisigoths, in Études offertes à Girardt, ivi 1913; L. Calpena Avila, Los concilios de Toledo en la constitución de la nacionalidad española, Madrid 1918; A. Blázquez, La hitación de Wamba, ivi 1907.
Dominazione araba. - Fonti. - M. Casiri, Bibliotheca arabigo-hispana escurialensis, Madrid 1760 segg.; P. de Gayangos, Obras arábigas que pueden servir para comprobar la cronología de los reyes de Asturias y de León, ivi 1847; id., Memoria sobre la autenticidad de la Crónica denominada del Moro Rasis, ivi 1852; J. Moreno Nieto, Reseña histórico-critica de los historiadores arábigo-españoles, ivi 1864; Colección de obras arábigas de historia y geografía, ivi 1867 segg.; R. Dozy, Recherches sur l'histoire et la littérature de l'Espagne pendant le moyen âge, Leida 1881; Bibliotheca arabigo-hispana, a cura di F. Codera, Madrid 1882 segg.; V. Chauvin, Bibliographie des ouvrages arabes ou relatifs aux Arabes, Liegi 1892 segg.; Colección de estudios árabes, Saragozza 1897 segg.; F. Pons Boigues, Ensayo bio-bibliográfico sobre los historiadores y geógrafos arábigo-españoles, Madrid 1898; C. F. Seybold, Arabisch, in Kritischer Jahresbericht über die Fortschritte der romanischen Philologie, IV segg.; C. Brockelmann, Geschichte der arabischen Litteratur, Weimar 1898; F. Codera, Estudios críticos de historia árabe española, Saragozza 1903 segg.; Miscelánea de estudios y rextos árabes, Madrid 1915; M. M. Antuña, Abenhayán de Córdoba y su obra histórica, in La ciudad de Dios, 1924-25; M. Asín Palacios, Aben Hazam de Córdoba, Madrid 1927 segg.; A. Gonzáles Palencia, Historia de la literatura arábigo-española, Barcellona 1928; P. Longas, Inscriptions arabes d'Espagne, Parigi 1931.
Opere d'insieme. - J. A. Conde, Historia de la dominación de los Arabes en España, Madrid 1820-21 (cfr. P. Roca, in Rabm., VIII, 1903); R. Dozy, Histoire des Musulmans d'Espagne jusqu'à la conquête de l'Andalousie par les Almohades, Leida 1861 (rist. con agigunte da E. Levi-Provençal, ivi 1932); id. e altri, Analectes sur l'hist. et la littér. des Arabes d'Espagne, ivi 1855-61; F. Guillén Robles, Málaga musulmana, Malaga 1880; A. Campaner Fuertes, Bosquejo hist. de la dominac. islamita en las Islas Baleares, Palma 1888; H. E. Watts, Spain, Londra 1893; A. Piles Ibars, Valencia árabe, Valenza 1901; S. Scott, History of the Moorish Empire in Europe, Filadelfia 1904; R. Martinez, Historia del reino de Badajoz durante la dominación musulmana, Badajoz 1905; M. Gaspar Remiro, Historia de Murcia musulmana, Saragozza 1905; Cl. Huart, Histoire des Arabes, Parigi 1913; M. M. Antuña, Sevilla y sus monumentos árabes, Escoriale 1930; A. Gonzáles Palencia, Historia de la España musulmana, Barcellona 1932; C. Sánchez Albornoz, L'Espagne et l'Islam, in Revue historique, CLXIX (1932); M. Alcover, El Islam en Mallorca y la cruzada pisano-catalana (1113-15), Palma 1934. Di fondamentale importanza sono gli Estudios críticos cit. di F. Codera Zaidin, e in genere i suoi numerosi scritti, dei quali un elenco è in Homenaje a F. Codera, Saragozza 1904.
Vita politica, economica, religiosa. - J. Ribera Tarragó, Orígenes del Justicia de Aragón, Saragozza 1897; J. Romero García, Instituciones jurídicas de los Musulmanes en España, Madrid 1900; A. Giménez Soler, El Justicia de Aragón es de origen musulmán?, in RABM., V (1901); E. Stocquart, La domination arabe en Espagne; son influence juridique et sociale, Liegi 1905; J. Sánchez Pérez, Partición de herencias entre los musulmanes del rito malequí, Madrid 1914; M. Gaudefroy-Demombynes, Les institutions musulmanes, Parigi 1923; M. M. Antuña, La jura en el Califato de Córdoba, in AHDE., VI (1929); J. López Ortiz, La recepción de la escuela malequí en España, in AHDE., VII, 1930; id., Derecho musulmán, Barcellona 1933; J. Ribera Tarragó, La enseñanza entre los musulmanes españoles, Saragozza 1893; id., Bibliófilos y bibliotecas en la España musulmana, ivi 1896; F. Codera, Tratado de numismática arábigo-española, Madrid 1879; C. M. del Rivero, La moneda arábigo-española, ivi 1933; F. Pons Boigues, Apuntes sobre las escrituras mozárabes toledanas, ivi 1897; F. Simonet, Historia de los mozárabes de España, ivi 1903; E. Saavedra, La mujer mozárabe, ivi 1904; A. Gonzáles Palencia, Los Mozárabes de Toledo en los siglos XII y XIII, ivi 1926; A. W. S. Porter, Studies in the Mozarabic office, in The Journal of theological Studies, XXXV, 1934.
La riconquista. - Storiografia. - J. P. García Pérez, Indicador de varias crónicas religiosas y militares de España, Madrid 1901; G. Cirot, Études sur l'historiographie espagnole: les histoires générales d'Espagne entre Alfonse X et Philippe II, Bordeaux 1904; R. Ballester Castell, Las fuentes narrativas de la historia de España durante la Edad media, Palma 1906; P. Miguélez, Catálogo de los códices españoles de la Biblioteca de El Escorial, Madrid 1917; R. Menéndez Pidal, La leyenda de los Infantes de Lara, ivi 1896; id., La Crónica general de Alfonso X, ivi 1916; id., Crónicas generales de España, ivi 1918; M. Gaspar Remiro, Los cronistas hispanojudíos, Granata 1920; Conte de la Viñaza, Los cronistas aragoneses, Madrid 1904; Duca de T'Serclaes, Historiadores del reino de Sevilla, ivi 1909; M. Gómez-Moreno Martínez, Anales castellanos, ivi 1917; V. Castañeda Alcover, Los cronistas valencianos, ivi 1920.
Istituzioni, vita politica, economica, religiosa. - J. Caveda, Examen crítico de la restauración de la monarquia visigoda en el siglo VIII, Madrid 1879; E. Mayer, Historia de las instituciones sociales y políticas de España y Portugal durante los siglos V-XIV, ivi 1925 segg.; F. Vera, La cultura medieval española, ivi 1933; J. Pérez de Urbel, Los monjes españoles en la Edad media, ivi 1933-34; Z. Garcia Villada, Organización y fisonomia de las Iglesias españolas, ivi 1935; J. Finot, Étude sur les relat. commerc. entre la Flandre et l'Espagne, Parigi 1899; P. Boissonnade, Les études relatives à l'hist. économique de l'Espagne, ivi 1912; S. Carreres Zacarés, Tratados entre Castilla y Aragón; su influencia en la terminación de la reconquista, Valenza 1908. - Per la monarchia di León e Castiglia, cfr. M. Colmeiro, Curso de derecho politico según la historia de León y Castilla, Madrid 1873; Conte de Torreánaz, Los consejos del rey en la Edad media, ivi 1884 segg.; E. de Hinojosa, Documentos para la historia de las instituciones de León y de Castilla, ivi 1919; Galo Sánchez, Para la historia de la redacción del antiguo derecho territorial castellano, in AHDE., VI (1929); C. Sánchez Albornoz, La potestad real y los señoreíos en Asturias, León y Castilla, in RABM., XXXI (1914); F. de Laiglesia, Cortes de los antiguos reinos de León y Castilla, Madrid 1909; A. Sacristán Martínez, Municipalidades de Castilla y León, ivi 1877; A. García Rives, Clases sociales en León y Castilla, in RABM., XLI-XLII (1920); R. Sanchez de Ocaña, Contribuciones e impuestos en León y Castilla, Madrid 1890; Conte de Cedillo, ibid., ivi 1896; L. G. de Valdeavellano, El mercado; apuntes para su estudio en León y Castilla, in AHDE., VIII (1931); F. Fernández Gonzáles, Estado social y político de los mudéjares de Castilla, Madrid 1866; F. Puyol Alonso, Las Hermandades de Castilla y León, ivi 1913; C. Sánchez Albornoz, Las behetrías, in AHDE., I (1924). - Per il regno d'Aragona, cfr., V. de Lafuente, Estudios críticos sobre la historia y el derecho de Aragón, Madrid 1884 segg.; A. Giménez Soler, La edad media en la Corona de Aragón, Barcellona 1930; M. Danvila Collado, Las libertades de Aragón, Madrid 1881; C. Miralles, Relaciones diplomáticas de Mallorca y Aragón con el Africa septentrional durante la Edad media, Barcellona 1904; J. Ribera Tarragó, Origenes del Justicia de Aragón, Saragozza 1897; E. García de Diego, Historia judicial de Aragón en los Siglos VIII-XII, in AHDE., XI (1934). - Per la Catalogna, cfr. in genere: J. Mirety Sans, La expansión y dominación catalana en los pueblos de la Galia meridional, Barcellona 1900; G. Melchior, Les établissements des Espagnols dans les Pyrénées méditerranéennes aux VIIIe et IXe siècles, Montpellier 1919; J. Coroleu Inglada e J. Pella y Forgas, Las Cortes catalanas, Barcellona 1876; id., Los Fueros de Cataluña, ivi 1878; J. Pella y Forgas, Llibertatis y antich govern de Catalunya, ivi 1905; E. de Hinojosa, El régimen senorial y la cuestión agraria en Cataluña durante la Edad media, Madrid 1905; A. E. Sayous, Les méthodes commerciales de Barcelone au XIIIe siècle, in Estudis Universitaris catalans, XVI (1931); F. Mateu Llopis, Les relacions del principat de Catalunya i els regnes de Valencia i Mallorca amb Anglaterra i el parallelisme monetari d'aquest països durant els segles XIII-XV, Castellón 1934; A. Rubió Lluch, Documents per l'historia de la cultura catalana mig-eval, Barcellona 1908-21; F. Bofarull Sans, Antigua marina catalana, ivi 1898. E cfr. anche: Ch. Boudon de Mony, Relations politiques des comtes de Foix avec la Catalogne, Parigi 1896; J. Miret Sans, Investigación sobre el vizcontado de Castellbó, Barcellona 1899; id., Los vescomtes de Cerdanya, Conflent y Bergadá, ivi 1906; F. Valls Taberner, Els origens dels comtats de Pallars y Ribagorza, ivi 1918. Per il ergno di Maiorca, cfr. in genere A. Lecoy de la Marche, Relations politiques de la France avec le royaume de Maiorque, Parigi 1892; E. Sureda, De la corte de los señores reyes de Mallorca, Madrid 1915; A. Stoermann, Studien zur Geschichte des Königreichs Mallorca, Berlino 1918; Constitucions e ordinacions del Regne de Mallorca, a cura di A. Pons, Palma 1932 segg.; J. Lladó Ferragut, El régimen municipal en los pueblos de Mallorca desde Jaime I, ivi 1933. - Per il regno di Valenza: M. Danvila Collado, Estudios críticos acerca de los orígenes y vicistudes de la legislación escrita del antiguo reino de Valencia, Madrid 1919; F. Almarche Vázquez, Historiografía valenciana, catálogo bibliográfico, Valenza 1919.
I primi stati cristiani. - Fonti. - A. Huici, Las crónicas latinas de la reconquista, Valenza 1913; G. Cirot, in BHI., 1909 segg.; R. Menéndez Pidal, in Revista de filología espanola, X (1923); J. Rubió Balaguer, in Estudis Universitaris catalans, 1912. Per lo stato asturiano, cfr. E. Saavedra, Pelayo, Madrid 1900; A. López Ferreiro, Galicia en los primeros siglos de la reconquista, Santiago 1903; L. Barrau Dihigo, in RHI., X (1903) segg.; E. Saavedra, La batalla de Calatañazor, Parigi 1909; J. Puyol, Orígenes del reino de León, Madrid 1926; C. Sánchez Albornoz, in Rev. de Occid., XXX (1931); id., in BAH., C (1932); A. Cotarello Valledor, Historia crítica de Alfonso III, Madrid 1933. Per lo stato castigliano, cfr. M. Férotin, Recueil des chartes de l'Abbaye de Silos, Parigi 1897; L. Serrano, Colección diplomática de San Salvador del Moral, Valladolid 1909-10; M. Gómez Moreno, Anales castellanos, Madrid 1917; L. Machado Saavedra, Expediçoes normandas no Occidente de Hispania, Coimbra 1930; L. Serrano, El obispado de Burgos y Castilla primitiva, Madrid 1935. Per gli stati di Navarra e d'Aragona, cfr. T. Ximénez de Embún, Ensayo histórico acerca de los orígenes de Aragón y Navarra, Saragozza 1878; J. Jaurgain, La Vasconie, Pau 1898 segg.; L. Barrau Dihigo, in RHI., 1900 e 1906; J. Miret, Los condes de Bearn, Barcellona 1901-02; M. Serrano Sanz, Noticias y documentos históricos del contado de Ribagorza, Madrid 1912; id., in BAH., LXXX (1922). Per gli stati catalani, cfr. P. de Bofarull Mascaró, Los condes de Barcelona vindicados, Barcellona 1836; J. Rubió Ors, Consideraciones histórico-criticas acerca del origen de la independencia del contado catalán, ivi 1887; J. Calmette, Les origines de la première maison comtale de Barcelonne, Roma 1890; J. Balari, Orígenes históricos de Cataluña, Barcellona 1899; J. de la Llave y Sierra, Estudio historico-militar sobre el conde de Barcelona Ramón Berenguer III, ivi 1903; F. Carreras Candi, Relaciones de los vizcondes de Barcelona con los Árabes, Saragozza 1904; J. Sala Moals, El condado de Ausona, Vich 1930; F. Valls Taberner, Carta constitucional de Ramón Berenguer I, in AHDE., VI (1929); id., La primera dinastía vescomtal de Cardona, in Estudis Universitaris catalans, XVI (1931); J. Flach, La marche d'Espagne, ibid. Cfr. inoltre P. Boissonnade, Les premières croisades françaises en Espagne (1018-32), in BHI., XXXVI (1934).
La formazione delle grandi monarchie cristiane. - A) Regno di León e Castiglia: Per Ferdinando I, cfr. E. Arjona, in Revista de España, XVI (1870). Per Sancho II, cfr. C. Fernández Duro, Romancero de Zamora, Madrid 1880. Per Alfonso VI, cfr. C. F. Seybold, in RHI., XV (1906); R. Fernández Núñez, in BAH., LV segg., 1909 segg. Per Urraca, cfr. M. Murguía, Don Diego Gelmírez, La Coruna 1898; M. Serrano y Sanz, in RABM., IV (1900); A. López Ferreiro, Historia de la Santa A. M. Iglesia de Santiago de Compostela, Santiago 1900. Per ALfonso VII, cfr. id., Alfonso VII rey de Galicia, Santiago 1900. Per Alfonso VII, cfr. id., Alfonso VII rey de Galicia, Santiago 1885. Per Alfonso VIII, cfr. marchese de Mondéjar, Memorias históricas de la vida del rey Alfonso VIII, Madrid (1783); F. Fita, in BAH., VIII (1886) e LIII (1908); G. Cirot, in BHL., XXIV (1922), e XXVIII (1926). Per Ferdinando III, cfr. A. Marcos Burriel, Memorias para la vida del santo rey Fernando III, Madrid 1800; F. Fita, in BAH., V (1884); e IX (1886); A. Cazabán, El reino de Jaén y san Fernando, Jaén 1893; N. Hergueta, in RABM., XL (1904); M. Gloning, Ferdinand III., Stoccarda 1910; A. Ballesteros Beretta, Sevilla en el siglo XIII, Madrid 1913; M. Gaspar Remiro, Fernando III en la reconquista del reino moro de Granada Saragozza 1918; J. S. Doinel, Histoire de Blanche de Castille, Tours 1909; F. Pérez Mínguez, Dona Sancha Alfonso reina de León, Valladolid 1935.
B) Stato catalano-aragonese. - Per Ramiro I, cfr. E. Ibarra Rodríguez, in Revista de Aragón, IV (1903), e VI (1905). Per ALfonso I, cfr. S. Sanpere y Miquel, La reconquista de Zaragoza, Barcellona 1904; J. Salarrullana, El reino moro de Afraga y las ultimas campañas y muerte del Batallador, Saragozza 1909; J. Miret y Sans, Alfonso I en Fraga, Barcellona 1912. Per Ramiro II, cfr. P. Longás Bartibás, Ramiro II, Santoña 1911. Per Ramón Berenguer IV, cfr. G. de Bofarull Brocá, La confederación catalano-aragonesa realizada, Barcellona 1872; J. Miret y Sans, Le roi Louis VII et le comte de Barcelone à Jaca, in Le moyen âge, 1912. Per Alfonso II, cfr. F.-E. Martin, La politique hors d'Espagne d'Alphonse II, Parigi 1902; J. Miret y Sans, Itinerario del rey Alfonso II, Barcellona 1904. Per Pietro II cfr. id., Itinerario del rey Pedro II, ivi 1908; J. Anglade, La bataille de Muret, Tolosa 1913. Per Giacomo I, cfr. Ch. de Tourtoulon, Jacme Ier roi d'Aragón, Montpellier 1863-1867; E. Röhricht, Der Kreuzzug des Königs Jakob I., Vienna 1890; F. Darwin Swift, The Life and Times of Jacob I, Oxford 1894; Boletín de la Academia de Buenas Letras de B., 1908; Anuari de l'Institut d'Estudis catalans, 1908; Congrés d'historia de la Corona d'Aragó dedicat al rey en Jaume I y a la seua época, Barcellona 1909 segg.; S. Sanpere y Miquel, Minoría de Jaime I, ivi 1910; M. Motolin, Vida de Jaime I, ivi 1914; A. Huici, Colleción diplomática de Jaime I, Valenza 1916 segg.; F. Valls Taberner, Relacions familiars i politiques entre Jacme i Anfós el Savi, in BHI., XXI (1919); J. Miret y Sans, Itinerari de Jacme I, Barcellona 1919; F. D. Gazulla, Jaime I y los estados musulmanes, ivi 1919; J. E. Martínez Ferrando, Archivo de la Corona de Aragón: catálogo de la documentación relativa al antiguo reino de Valencia, Madrid 1934; M. Ribas de Pina, La conquista de Mallorca pel rei en Jaume I, Maiorca 1934. Cfr. infine: A. Huici, Estudio sobre la campaña de las Navas de Tolosa, Valenza 1916.
Il regno di Castiglia e León dal 1252 al 1474. - Cfr. in genere: G. Daumet, Étude sur l'alliance de la France et de la Castille au XIVe et au XVe siècle, Parigi 1898. Per Alfonso X, cfr. Marchese de Mondéjar, Memorias históricas del rey Alfonso el Sabio, Madrid 1777; A. Ballesteros Beretta, Alfonso X emperador electo de Alemania, ivi 1918; id., El itinerario de Alfonso el Sabio, ivi 1935; P. Ballesteros, La teoría alfonsina de las dos espadas, ivi 1915; J. Ruiz de Obregón, in RABM., XXXII (1915); E. S. Procter, Materials for the reign of Alfonso X, in Transactions of the R. Historical Society, XIV (1931). Per Sancio IV, cfr. M. Gaibrois de Ballesteros, Tarifa y la política de Sancho IV, Madrid 1919-20; id., Reinado de Sancho IV, ivi 1922 segg. Per Ferdinando IV cfr. A. Benavides, Memorias del reinado de Fernando IV, ivi 1860; A. Giménez Soler, El sitio de Almeria en 1309, Barcellona 1904, e F. Codera, in BAH., LII (1908); F. Simón Nieto, Una página del reinado de Fernando IV, Valladolid 1912. Per Alfonso XI, cfr. E. Soldevilla, Matrimonios y amoríos de Alfonso XI, Madrid 1879; R. Amador de los Ríos, in BAH., XXI (1892); A. Giménez y Soler, in RABM., XII (1905); C. Sanz Arizmedi, Organización social de Sevilla en el reinado de Alfonso XI, Siviglia 1907; C. Daumet, in BHI., XII (1910) e XV (1913); L. Serrano, Alfonso XI y el papa Clemente VI durante el cerco de Algeciras, Madrid 1915. Per Pietro I cfr. A. Fernández Guerra, Discurso acerca del reinado de Pedro I, ivi 1868; F. J. de Salas Rodríguez, Expediciones marítimas de Pedro I, ivi 1868; J. B. Sitges, Las mujeres del rey Pedro I, ivi 1910; E. Storer, Peter the cruel, Baltimora 1910; E. Piñal de Castilla e F. Carnevali de Imaz, El rey Pedro I, Siviglia 1919; A. Huarte Echenique, in BAH., CV (1934); F. Vatin, Du Guesclin en Espagne, Saint-Lô 1934. Per Enrico III, cfr. P. Barrantes Maldonado, Crónica del rey Enrique III, Madrid 1868; A. Salvá, Las Cortes de 1302 en Burgos, Burgos 1891; P. Margry, La conquête et les conquérants des îles Canaries, Parigi 1896; R. Torres Campos, Caracter de la conquista y colonización de las islas Canarias, Madrid 1901. Per Giovanni II, cfr. J. Amador de los Ríos, in Memorias de la R. Acad. de la Historia, IX, 1879; L. de Corral, D. Alvaro de Luna, Valladolid 1915. Per Enrico IV, cfr. K. Haebler, Die kastilischen hermandades zur Zeit Heinrichs VI., in Hist. Zeitschrift, 1886; M. Menéndez Pelayo, in España moderna, LXXX, 1895; M. de Foronda, Precedentes de un glorioso reinado, Madrid 1901; J. Palanco Romero, Estudios del reinado de Enrique IV, Granata 1914; F. Pujol, Los cronistas de Enrique IV, in BAH., LXXIX (1921).
Lo stato catalano-aragonese dal 1276 al 1479. - Per Pietro III, cfr. V. de Lafuente, El privilegio general de Aragón, base de la Unión, Madrid 1881; J. Pella Forgas, in Rev. de cencias históricas, IV (1886); A. Lécoy de la Marche, in Revue des questions historiques, XLIX (1891); O. Cartellieri, Peter von Aragon, Heidelberg 1904; F. Kern, in Mitth. des Inst. für österr. Geschichtsforschung, XXX, (1909); F. Soldevila, Pere II el Gran, Barcellona 1919; H. Wieruszowski, Conjuraciones y alianzas políticas del rey Pedro de Aragón contra Carlos de Anjou antes de las Vísperas sicilianas, in BAH., CVII (1935). Per Alfonso III, cfr. C. Parpal Marqués, La conquista de Menorca en 1287, Barcellona 1901; L. Kluepfel, Die äussere Politik Alfonsos III. von Aragonien, Berlino 1911-12; J. Jordán de Urríes, in Boletín de la R. Academia de buenas letras de B., VII (1913-14); F. Carreras Candi, ibid., X (1921). Per Giacomo II, cfr. M. Amari, in Atti della R. Accad. dei Lincei, XI (1882); A. Giménez y Soler, El sitio de Almería en 1309, Barcellona 1904; H. E. Rohde, Der Kampf um Sizilien in den Jahren 1291-1302, Berlino 1913; E. Haberkern, ibid., 1302-37, ivi 1921; C. Marinesco, La Catalogne et l'Arménie, Parigi 1923; J. Vincke, Jacob II. und Alfonso IV. und die Versorgung des Infante Johann mit kirchlichen Pfründen, Roma 1934; e specialmente H. Finke, Acta aragonensia, 1908 segg. Per Alfonso IV, cfr. J. Miret y Sans, Itinerario del rey Alfonso III, Barcellona 1910. Per Pedro IV, cfr. E. Castelar, Estudios históricos, Madrid 1875; J. de Maupassant, Relations de Pierre IV avec la France, Parigi 1907; R. Avezou, in BHI., 1927; S. Duvergé, Le rôle de la papauté dans la guerre de l'Aragon contre Gênes, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, L, 1933. Per Giovanni I, cfr. F. de Bofarull Sans, in Memorias de la Academia de buenas letras de B., VI (1898). Per Martino I, cfr. M. de Bofarull Sartorio, in RHI., XII (1905); D. Girona Llagostera, Epistolari del rey en Martí, Barcellona 1910; id., Itinerari del rey en Martí, ivi 1912; id., Martí, ivi 1919; Homenatge a la memoria del rei Martí, ivi s. a. Per Ferdinando I e per il "compromiso de Caspe", cfr. C. Soler, El fallo de Caspe, ivi 1899; A. Giménez y Soler, Don Jaime de Aragón ultimo conde de Urgel, ivi 1901; L. Sancho Bonal, Historia del Compromiso de Caspe, ivi 1912; M. Luna, in RABM., XXVIII (1913); M. Sancho Izquierdo, ibid., XXX (1914); D. Montaner, La iniquitat de Casp i la fí del comtat d'Urgell, ivi 1930; M. d'Esplugues, in Estudis Franciscans, XLV (1933). Per Alfonso V, cfr. A. Giménez y Soler, Retrato histórico de Alfonso V, in Rev. Aragonesa, I (1907); id., Itinerario del rey Alfonso V, Saragozza 1909; F. Cerone, La politica orientale di Alfonso V, Napoli 1903; id., in Arch. stor. per la Sicilia orientale, IX (1912); C. Marinesco, Alphonse V, Saragozza 1909; F. Cerone, La politica orientale di Alfonso V, Napoli 1903; id., in Arch. stor. per la Sicilia orientale, IX (1912); C. Marinesco, Alphonse V et l'Albanie de Scanderbeg, Parigi 1923; e specialmente J. Ametller Vinhas, Alfonso V en Italia y la crisis religiosa del siglo XV, Gerona 1903-04. Per Giovanni II, cfr. G. Desdevises du Dezert, Don Carlos d'Aragón, Parigi 1899; J. Calmette, Louis XI, Jean II et la révolution catalane, Tolosa 1903; F. Carreras Candi, Dietari de la guerra de Cervera, Barcellona 1907; F. Llorca, Sublevación del Infante D. Jaime de Aragón (1462-77), Valenza 1932.
I Re Cattolici. - Oltre gli studî ricordati sotto ferdinando il cattolico e isabella di castiglia, cfr. i molti studî di J. Calmette; v. inoltre: G. Filippi, Il convegno in Savona tra Luigi XII e Ferdinando, Savona 1890; P. Boissonnade, Hist. de la réunion de la Navarre à la Castille, Parigi 1893; F. Ruano, Anexión del Reino de Navarra en tiempo del rey Católico, Madrid 1899; A. Rodríguez Villa, Don Francisco de Rojas, ivi 1896; J. Sala, Política internacional de los reyes católicos, ivi 1905; Duca de Berwich y de Alba, Correspondencia de Gutierre Gómez de Fuensalida, ivi 1907; E. Buceta, in AHDE., VI (1929), e in BAH., XCVII (1930); N. Cortese, in Résumés des comunications présentées au Congrès de Varsovie 1933. Cfr. inoltre: V. Balaguer, Las guerras de Granada, Madrid 1908; M. Garrido Atienza, Las capitulaciones para la entrega de Granada, Granata 1910; M. Gaspar Remiro, Granada en podere de los Reyes Católicos, ivi 1912; C. López Martínez, La santa Hermandad de los Reyes Católicos, Siviglia 1921; E. Ibarra Rodríguez, Documentos de asunto económico, Madrid 1917. Sono infine da vedere Calendar of letters, despatches, ecc., relating to the negociations between England and Spain, a cura di G. A. Bergenroth, Londra 1862 segg.; K. Haebler, Streit Ferdinand's und Philipp's um die Regierung von Castilien, Dresda 1882; A. Rodríguez Villa, La reina D. Juana la loca, Madrid 1892; id., Crónicas del Gran Capitán, ivi 1908; A. Huarte, El gran cardenal de España, ivi 1912. Per il cardinal Cisneros, cfr. Conte de Cedillo, El cardenal Cisneros, ivi 1921; F. Garcia, El cardenal Cisneros, Barcellona 1930; R. Merton, Cardinal Ximenes and the making of Spain, Londra 1934.
L'espansione catalano-aragonese in Italia e nel Mediterraneo orientale. - Ricchissima è la bibliografia sulla dominazione catalano-aragonese nelle isole e nel Mezzogiorno d'Italia. Per la Sicilia oltre alla classica opera dell'Amari sul Vespro, cfr. I. La Lumia, Studi di st. sicil., Palermo 1875; Ricordi e docum. del Vespro Siciliano, a cura d. Soc. sic. st. patria, ivi 1882; G. La Mantia, Codice diplom. dei re aragonesi di Sicilia, I, ivi 1917. Per la Sardegna, cfr. le opere del Besta (ivi 1908-09) e del Solmi (Cagliari 1917). Per Alfonso V, cfr. F. Nunziante, I primi anni di Ferdinando d'Aragona, Napoli 1898; L. Arezio, La Sardegna e Alfonso, Cagliari 1907; N. F. Faraglia, St. d. lotta tra Alfonso V e Renato d'Angiò, Lanciano 1908; P. Gentile, La politica interna di Alfonso V nel regno di Napoli, Montecassino 1909; G. B. Bognetti, in Arch. stor. lombardo, LIV (1927). Cfr. inoltre, P. Silva, Giacomo II d'Aragona e la Toscana, Firenze 1913. Per l'espansione nel Mediterraneo orientale, cfr. i numerosi studî di Rubio Lluch e L. Nicolau d'Olwer, Lexpansió de Catalunya en la Mediterrània oriental, Barcellona 1926.
La dominazione austriaca. - Cfr., in genere: A. Cánovas del Castillo, De la casa de Austria en España, Madrid 1869; L. Ranke, L'Espagne sous Charles V. Philippe II et Philippe III, trad. franc., Abbeville 1873; K. Haebler, Geschichte Spaniens unter den Habsburgern, Gotha 1907 segg.; M. A. S. Hume, Spain, its greatness and decay, a cura di E. Armstrong, Cambridge 1931; H. Hauser, La prépondérance espagnole, Parigi 1933; e, come raccolte di documenti, G. A. Bergenroth, P. de Gayangos, R. Tiler, Calendar of letters, despatches and state papers relating to the negociations between England and Spain, Londra 1862 segg.; L'Espagne au XVIe et XVIIe siècle. Documents histor... a cura di A. Morel Fatio, Heilbronn 1878. Cfr. inoltre: G. J. Geers e J. Brouwer, De Renaissance in Spanje, Zuthpen 1922; C. A. Wilkens, Geschichte des span. Protestant..., Gütersloh 1888. H. C. Lea, A History of the Inquisition of Spain, New York 1906-08; F. C. Bouvaert, Jansénius en Espagne, Bruxelles 1931; B. Llorca, Die spanische Inquistion u. die "Alumbrados" (1509-1667), Berlino 1934; A. Zimmermann, Die Kolonial-politik Portugals u. Spaniens, ivi 1896; K. Simon, Spanien u. Portugal als Seeu. Kolonialmächte, Amburgo 1913; J. Brouwer, Kron. van Spaansche soldaten uit het begin van der tachtigjarigen oorlog, Zutphen 1934; J. Klein, The Mesta, Cambridge 1920; K. Haebler, Prosperidad y decadencia económica de España en el siglo XVI, Madrid 1899. Cfr. infine: R. B. Merriman, The rise of the Spanish empire in the old world and in the new, New York 1918 segg.
A) Carlo V. - Cronisti e biografi. - A. Morel Fatio, Historiographie de Charles-Quint, Parigi 1913; e per la sua corrispondenza le raccolte curate da K. Lanz (Lipsia 1844-46; Stoccarda 1845; Vienna 1853), da W. Bradford (Londra 1850) e dal Gachard (Bruxelles 1859). Opere complessive sono quelle di G. de Leva, Storia documentata di Carlo V in correlazione con l'Italia, Venezia 1863 segg.; H. Baumgarten, Geschichte Karls V., Stoccarda 1885 segg.; A. J. Namèche, L'empereur Charles-Quint, Lovanio 1889; W. H. Prescott, The history of Charles V, Londra 1897; E. Armstrong, The emperor Charles V, ivi 1902; A. Rodríguez Villa, El emperador Carlos V y su Corte, Madrid 1903 segg.; E. Gossart, Charles-Quint, Bruxelles 1910; D. B. Wyndham Lewis, Emperor of the West, Londra 1932. Cfr., inoltre, F. de Laiglesia, Estudios históricos, Madrid 1908 segg.; M. de Foronda Aguilera, Estancias y viajes de Carlos V, ivi 1904; P. Rassow, Die Kaiser-Idee Karls V., Berlino 1932; J. R. Mayr, K. Brandi, A. Hasenclever e F. Walser, in Nachrichten der Gesellschaft der Wissenschaften z. Göttingen, 1930 segg. Per la politica interna, v.: M. Droin, Histoire de la Réformation en Espagne, Parigi 1880; M. Danvila Collado, La Germania de Valencia, Madrid 1884; id., Historia crítica y documentada de las Comunidades de Castilla, ivi 1897 segg.; F. de Laiglesia, La política de Carlos V, ivi 1909; E. Díaz-Jiménez Malleda, Historia de los comuneros de León, ivi 1916; F. Chabod, Lo stato di Milano nell'impero di Carlo V, Roma 1934.
Politica estera. - W. Maurenbrecher, Karl V. und die deutschen Protestanten, Düsseldorf 1865; F. M.-A. Mignet, Rivalité de Francois Ier et de Charles-Quint, Parigi 1875; A. von Druffel, Kaiser Karl V. und die römische Curie, Monaco 1881; R. Haepke, Die Regierung Karl V. und der europäische Norden, Lubecca 1914; L. Cardauns, Von Nizza bis Crépy, Roma 1923; K. Brandi, Die deutsche Reformation, Lipsia 1927; F. Braudel, Les Espagnols et l'Afrique du Nord de 1492 à 1577, in Revue africaine, 1928; W. Friedensburg, Kaiser Karl V. und Papst Paul III., ivi 1932; C. Capasso, Barbarossa e Carlo V, in Riv. stor. italiana, 1932; Gh. de Boom, Correspondance de Marguerite d'Autriche, ecc., concernant l'exécution du traité de Cambrai, Bruxelles 1935.
B) Filippo II. - Il suo regno è, forse, il periodo più studiato della storia della Spagna. Di notevole interesse sono le molte opere del Gachard; e raccolte di documenti di grande importanza sono: Papiers d'État du cardinal de Granvelle, Parigi 1841-52; Correspondance du cardinal de Granvelle, Bruxelles 1877-96; Correspondencia diplomática entre España y la Santa Sede durante el pontificado de S. Pio V, Madrid 19145. Opere di carattere generale sono quelle di W. Prescott, History of the reign of Philip the second, Boston 1855-59; H. Forneron, Histoire de Philippe II, Parigi 1881-82; R. de Hinojosa, Estudios sobre Felipe II (raccolta di saggi di varî autori), Madrid 1887; M. Hume, Philippe II of Spain, Londra 1897; C. Bratli, Filip II of Spanien, Copenaghen 1909 (con un'ampia bibliografia e da vedere nella traduz. spagnola, Madrid 1927); R. Schneider, Philip der zweite, Lipsia 1931; D. Loth, Philip of Spain, New York 1932; P. J. Marchese de Pidal, Hist. de las alteraciones de Aragón en el reinado de Felipe II, Madrid 1862-63; A. Giménez y Soler, Las alteraciones de Aragón en tiempo de Felipe II, Saragozza 1916; M. Danvila Collado, La expulsión de los moriscos españoles, Madrid 1889; H. Ch. Lea, The moriscos of Spain, Filadelfia 1901; P. Longas, Vida religiosa de los moriscos, Madrid 1916; C. Fernández Duro, La armada invencible, ivi 1884-85; id., Estudios históricos del reinado de Felipe II, ivi 1890; A. J. Namèche, Le règne de Philippe II et la lutte religieuse dans les Pays-Bas au XVIe siècle, Parigi 1885 segg.; E. Gossart, L'établissement du régime espagnol dans les Pays-Bas et l'insurrection, Bruxelles 1905; F. Bardo Font, D. Luis de Requesens y la política española en los Países Bajos, Madrid 1906; L. van der Essen, Alexandre Farnèse, Bruxelles 1933 segg.; L. Febure, Philippe II et la Franche-Comté, Parigi 1911; L. Serrano, La liga de Lepanto, Madrid 1918-1919; id., España en Lepanto, ivi 1935; M. Yeo, Don John of Austria, Londra 1934; C. Riba García, El Consejo supremo de Aragón en el reinado de Felipe II, Madrid 1914.
C) Filippo III, Filippo IV, Carlo II. - M. Philippson, Henrich IV. und Philipp III., Berlino 1870 segg.; C. Fernández Duro, El gran Duque de Osuna, Madrid 1885; A. Rodríguez Villa, A. Spinola, marqués de los Balbases, ivi 1893; A. Marchese de Rafal, El conde de Lemos, ivi 1911; A. Cánovas del Castillo, Estudios del reinado de Felipe IV, ivi 1888-89; M. Hume, The court of Phlip IV, Londra 1907; A. Rodríguez Villa, La Corte y monarquía de España en los anos de 1636 y 37, Madrid 1886; C. Pujol Camps, Melo y la revolución de Cataluña en 1640, ivi 1886; A. Ezquerra Abadía, La conspiración del duque de Hijar, ivi 1934; A. Waddington, La république des Provinces-Unies, la France et les Pays-Bas espagnols de 1640 à 1650, Parigi 1895-97; E. Hubert, Les Pays-Bas espagnols et la république des Provinces-Unies (1648-1713), Bruxelles 1907; H. Lonchay, J. Cuvelier e J. Lefèvre, Correspondance de la Cour d'Espagne sur les affaires des Pays-Bas au XVIIe siècle, ivi 1930 segg.; G. Maura Gamazo, Carlos II y su Corte, Madrid 1911; J. Juderías Loyot, España en tiempo de Carlos II, ivi 1912 Principe A. de Baviera e G. Maura Gamazo, Documentos relativos a las postrimerías de la Casa de Austria en España, in BAH., 1925 segg.; C. Fernández Duro, La marina en el reinado de Carlos II, Madrid 1881; A. Sánchez Rivero e A. Mariutti, Viaje de Cosme de Médicis por España y Portugal, ivi 1933.
La prima dominazione borbonica. - Cfr., in genere, W. Coxe, Memoirs of the Kings of Spain of the House of Bourbon, Londra 1813; G. Desdevises du Dezert, L'Espagne de l'ancien régime, Parigi 1897 segg.; A. Salcedo Ruiz, La época de Goya, Santander 1924; L. Bertrand e C. Petrie, The history of Spain, 1711-1931, Londra 1934; C. Alcázar, El despotismo ilustrado en España, in Bulletin of the International Committee of the Historical Sciences, V, 3 (1933); E. Rouard de Card, les relations de l'Espagne et du Maroc pendant le XVIIIe et le XIXe siècle, Parigi 1905; J. Bécker Gonzáles, España e Inglaterra; sus relaciones desde las paces de Utrecht, Madrid 1906; A. Girard, La rivalité commerciale et maritime entre Séville et Cadix jusqu'à la fin du XVIIIe siècle, Parigi 1932.
Filippo V, Guerra di successione, Luigi I, Ferdinando VI. - J. Maldonado Macanaz, Historia del reinado de Felipe V, Madrid s. a.; A. Baudrillart, Philippe V et la Cour de France, Parigi 1890 segg.; F. M. Mignet, Négotiations relatives à la succession d'Espagne sous Louis XIV, ivi 1835-42; A. Parnell, The Spanish war of Succession, Londra 1892; S. Sanpere y Miquel, Fin de la nación catalana, Barcellona 1905; Th. Macaulay, War of the succession in Spain, Oxford 1913; D. Perez, A diplomacia portuguesa a sucessão de Espanha, Barcellona 1931; L. P. Gachard, La Belgique sous Philippe V, Bruxelles 1867; F. van Kalken, La fin du régime espagnol aux Pays-Bas, ivi 1907; M. Landau, Geschichte Kaiser Karls VI. als König von Spanien, Stoccarda 1889; L. Perey, Marie-Louise Gabrielle de Savoie reine d'Espagne, Parigi 1905; E. Armstrong, Elisabeth Farnese, Londra 1892; M. Danvila Collado, Luisa de Orleans y Luis I, Madrid 1902; A. Danvila, Fernando VI y Dona Bárbara de Braganza, in 1917; G. Syveton, Une cour et un aventurier au XVIIIe siècle: le baron de Ripperda, Parigi 1896; A. Rodríguez Villa, Patino y Campillo, Madrid 1882; A. Rodriguez Villa, Don Cenón de Somodevilla, marqués de la Ensenada, ivi 1878; Duca de Saint-Simon, Cuadro de la Corte de España en 1722, in BAH., CI-CII (1932-33). Cfr. inoltre la bibliografia a alberoni, giulio.
Carlo III e Carlo IV. - A. Ferrer del Río, Historia de Carlos III en España, Madrid 1856; M. Danvila Collado, Historia de Carlos III, ivi 1891; Conte de Fernán-Nuñez, Vida de Carlos III, ivi 1898; J. Addison, Charles III of Spain, Oxford 1900; J. Rousseau, Règne de Charles III d'Espagne, Parigi 1907; A. Bourget, Le duc de Choiseul et l'alliance espagnole, ivi 1906; L. Blart, Les rapports de la France et de l'Espagne après le pacte de famille, ivi 1915; J. Gómez de Arteche, Reinado de Carlos IV, Madrid 1894; A. Muriel, Historia de Carlos IV, ivi 1893 segg.; J. Perez de Guzman Gallo, Las relaciones políticas de l'España con las demás potencias de Europa al caer el conde de Florida Blanca, ivi 1906; A. Baquero, Florida Blanca, Murcia 1909; J. Desdevises du Dezert, D. Manuel Godoy, ivi 1911; E. B. d'Auvergne, Godoy, Boston 1913; H. R. Madol, Godoy, Berlino 1932; C. Pereyra, Cartas confidenciales de la reina María Luisa y D. Manuel Godoy, Madrid 1935.
La rivoluzione francese e l'impero napoleonico. - Cfr., in genere, M. Hume, Modern Spain, Londra 1906; V. Blaco Ibáñez, Historia de la revolución española, Madrid 1930; F. Pi Margall e F. Pi Arsuaga, Las grandes commociones políticas del siglo XIX en España, Barcellona 1931; B. Mirkine Guetzevitch e E. Reale, L'Espagne, Parigi 1933; J. B. Trend, The origins of modern Spain, Londra 1934; M. Calvo Marcos, Régimen parlamentario de España en el siglo XIX, Madrid 1883; A. Borrego, Historia de las Cortes de España durante el siglo XIX, ivi 1885; J. Bécker y González, Historia de las relaciones exteriores de España durante el siglo XIX, ivi 1924 segg.; e A. Mousset, La política exterior de España (1873-1918), ivi 1918; H. Gmelin, Studien zur spanischen Verfassungsgeschichte des neunzehnten Jahrhunderts, Stoccarda 1905; C. Vinas Mey, La reforma agraria en España en el siglo XIX, Santiago 1932.
Dal 1789 al 1808. - Oltre alle opere indicate sul regno di Carlo IV, cfr.: H. Baumgarten, Geschichte Spaniens zur Zeit der französischen Revolution, Lipsia 1861; Ch. Geoffroy de Grandmaison, L'ambassade française en Espagne, Parigi 1892; id., Correspondance du comte de La Forest, ambassadeur de France en Espagne, ivi 1905 segg.; J. Pérez de Guzmán, Embajada del conde de Feránd-Núñez a París en los comenzos de la Revolución francesa, Madrid 1907 e 1910; id., El Dos de mayo de 1808 en Madrid, ivi 1908; J. Contrasty, Le clergé français exilé en Espagne, Tolosa 1910; Marchese de Lema, Antecedentes políticos y diplomáticos de los sucesos de 1808, Madrid 1911 segg.; A. Ossorio Gallardo, Historia del pensamiento político catalán (1795-96), ivi 1913; M. S. Oliver, Los españoles en la Revolución francesa, ivi 1914; Marchese de Villaurrutia, La reina de Etruria, ivi 1923; id., Fernán Núñez el embajador, ivi 1931; F. Hernández Sanz, Episódios de la guerra de los anglo-espanoles contra Francia, 1793-95, in Revista de Menorca, 1932-33; J. M. de Queiroz Velloso, Como perdemos Olivença, Lisbona 1933; Marchese de Lema, La política exterior española a principios del siglo XIX, Madrid 1935.
Guerra d'indipendenza. - M. Gómez Imaz, Bibliorafía de la guerra de la Independencia, Siviglia 1888; J. Ibánez Marín, Bibliografía de la guerra de la Independencia, Madrid 1908; Cardozo de Bethencourt, Catálogo das obras referentes à guerra da Peninsula, Lisbona 1910; C. Ayres de Magalhães Sepúlveda, Diccionário bibliográfico da guerra peninsular, Coimbra 1924 segg.; e per la meravigliosa resistenza di Saragozza la bibliografia di C. Riba García, Saragozza 1911. Opere particolari sono: Conte de Toreno, Historia del levantamiento, guerra y revolución de España, Madrid 1835 segg.; J. Gómez de Arteche, Guerra de la Independencia, ivi 1868 segg.; Ch. Oman, A history of the peninsular war, Oxford 1902 segg.; Commandant Balagny, Campagne de l'Empereur Napoléon en Espagne, Parigi 1902 segg.; Ch. Geoffroy de Grandmaison, L'Espagne et Napoléon, ivi 1908 segg.; Marchese de Villaurrutia, Relaciones entre España et Inglaterra durante la guerra de la Independencia, Madrid 1911 segg.; A. Grasset, La guerre d'Espagne, Parigi 1914 segg.; F. Camp, Itinerari general de la invasió napoleónica, Barcellona 1930; P. Conard, Napoléon et la Catalogne, Parigi 1931; F. Ahumada, Gerona la inmortal, Toledo 1935.
La Spagna dal 1815 ad oggi. - In genere, oltre alle opere ricordate nel precedente paragrafo, cfr.: H. Butler Clarke, Modern Spain, 1815-18, Cambridge 1906; S. Madariaga, Spagna, Bari 1932. Opere particolari: Marchese de Villaurrutia, Fernando VII rey constitucional, Madrid 1923; id., España en el Congreso de Viena, ivi 1907; K. Haebler, Maria Josefa Amalia, Dresda 1892; C. Pitolet, in RABM., 1914-15; Marchese de Villaurrutia, Las mujeres de Fernand VII, Madrid 1916; Marchese de Lema, Calomarde, ivi 1916; E. Astur, Riego, Oviedo 1933; J. Puyol, La conspiracion de Espoz y Mina, Madrid 1932; C. Cambronero, La reina gobernadora, in La España moderna, CCCV segg.; Marchese de Villaurrutia, La reina gobernadora, ivi 1925; M. de la Cámara Cumella, Las relaciones exteriores del gobierno carlista, Siviglia 1933; J. Navarro Cabanes, Apuntes bibliog. de la prensa carlista, Valenza 1917; C. Cambronero, Crónicas del tiempo de Isabel II, in La España moderna, CCXC segg.; id., Isabel II, Barcellona 1908; P. de Luz, Isabelle II reine d'Espagne, Parigi 1934; F. Fernández de Córdova, La revolución de Roma y la expedición española a Italia en 1849, Madrid 1882; F. Martín Arrúe, Guerra hispano-marroquí, 1859-60, ivi 1915; Ch. de Mazade, Les révolutions de l'Espagne contemporaine, Parigi 1868; E. M. del Portillo e C. Primelles, Historia política de la primera República española, Segovia 1932; A. Pirala, España y la Regencia, Madrid 1904 segg.; J. Ortega Rubio, Historia de la Regencia de María Cristina Habsbourg-Lorena, ivi 1905-06; G. Maura Gamazo, Historia crítica del reinado de D. Alfonso XIII durante su minoridad, Barcellona 1919; J. Wheeler, The Santiago campaign 1898, Boston 1898; H. Howland Sargent, The campaign of Santiago de Cuba, Londra 1907; Ch. Benoist, Cánovas del Castillo: la restauration renovatrice, Parigi 1930; S. Erskine, The reign of king Alfonso XIII, Londra 1931; M. Fernández Almagro, Historia del reinado de Alfonso XIII, Barcellona 1933; J. Maurin, La revolución espanola, Madrid 1932.
Lingua e dialetti.
Lingua spagnola. - Le lingue parlate attualmente nella Penisola Iberica si dividono in due gruppi di origine diversa e di estensione molto disuguale; l'uno è formato dal basco (v. baschi: Lingua), avanzo di una delle lingue primitive della Spagna, l'altro composto di varie lingue affini: gallego-portoghese a O., catalano-valenzano a E., e, al centro, varî dialetti molto simili fra loro, designati col nome di castigliano, se vengono opposti ad altri della penisola, o di spagnolo, se si parla di questo idioma in relazione con le lingue straniere. Questo secondo gruppo deriva tutto dal latino. Del basco, parlato nella Spagna in una parte delle Provincie Basche e della Navarra, è facile stabilire i limiti, perché tra esso e le lingue latine che lo circondano vi è una separazione brusca senza gradi intermedî di transizione. Non è così per le altre lingue della parte settentrionale della penisola: la comunanza d'origine e la loro formazione in una moltitudine di centri vicini fanno sì che la serie dei tratti che le costituiscono non abbia un limite comune e unico. Tuttavia tra i molti tratti caratteristici dei diversi dialetti neolatini della Spagna ve n'è uno specialmente differenziale, ed è che il dittongamento di ĕ ed ŏ latine accentate, comune alla generalità delle lingue romanze, manca e nel gallego-portoghese e, salvo condizioni speciali, nel catalano. Sotto questo riguardo possiamo dire che i limiti che separano il castigliano, o, per parlare con maggior precisione, il leonese, ch'è uno dei suoi dialetti, dal gallego-portoghese non coincidono coi limiti delle provincie galleghe, ma vanno più a oriente.
Proseguendo più a S. osserviamo il contrario, per quanto riguarda il leonese. Nemmeno i limiti tra il castigliano o l'aragonese, suo dialetto, e il catalano-valenzano coincidono con quelli delle provincie rispettive: il catalano penetra nelle tre provincie aragonesi, mentre nel regno di Valenza accade il contrario: l'aragonese e il castigliano penetrano molto verso oriente.
Il castigliano parlato nella regione centrale della Spagna divenne la lingua letteraria e si estese notevolmente con la riconquista dei territorî invasi dagli Arabi e con la colonizzazione dell'America; infatti tra le lingue derivate dal latino è quella che raggiunse la maggior diffusione ed è una delle più propagate nel mondo.
Origine e sviluppo. - La lingua spagnola nacque nell'antica contea di Castiglia (Castiglia Vecchia), e già incomincia a mostrarsi in scritto nei secoli X e XI. Il suo primo monumento letterario che si conservi è del sec. XII, il Cantar dell mio Cid (verso il 1140), ma senza dubbio la poesia epica, alla quale appartiene quest'opera, era fiorita assai prima nella Castiglia. Nel sec. XIII Alfonso el Sabio volle che si esprimessero in castigliano le principali scienze e arti dei Latini e degli Orientali. Nel sec. XIV questa lingua ebbe due grandi stilisti: l'infante Don Juan Manuel e l'Arciprete de Hita. Nel 1492 Antonio de Nebrija pubblicava la prima delle grammatiche moderne, la Gramatica de la lengua castellana. Alla fine dello stesso secolo XV si pubblicava in spagnolo La Celestina, opera magistrale che presto si diffondeva per tutta l'Europa, e nella prima metà del sec. XVI diversi scrittori, tra i quali Antonio de Guevara, influirono col loro stile su quello di altre lingue straniere. Nel 1536 Carlo V adottò solennemente lo spagnolo come lingua universale della politica in un'assemblea tenuta alla presenza del pontefice Paolo III. Da allora la diffusione del castigliano andò aumentando progressivamente e giunse ad esercitare in Europa l'egemonia letteraria tra i secoli XVI e XVII tanto che, specialmente in Italia e in Francia, era la lingua di moda tra le persone colte ed eleganti. In questo tempo lo spagnolo si arricchì del Don Quijote, che è una delle opere culminanti della letteratura mondiale. La decadenza, incominciata già nel sec. XVII, si accentuava nel XVIII con l'invasione del gallicismo. A questa influenza francese si deve tuttavia anche la fondazione dell'Accademia spagnola (1714) che col suo dizionario e la sua grammatica contribuì molto a fissare la lingua.
Pronuncia e ortografia. - La pronunzia delle vocali spagnole suol essere di ampiezza media, che non arriva, p. es., né al grado d'apertura della è francese in première, né a quello di chiusura della é in chanté; vi sono bensì nello spagnolo e e o aperte e chiuse, ma tra esse corre minor differenza della suaccennata, e una tal gradazione non giunge fino a dar significati diversi a gruppi di suoni identici nel resto, anzi chi parla non ha coscienza della differenza di queste vocali e nemmeno la percepisce. Benché la scrittura non indichi, come fa nel portoghese, le vocali nasali, pure queste esistono nel castigliano, specialmente tra due consonanti nasali e prima di una consonante nasale aggruppata.
Nella pronunzia delle consonanti vi sono alcune varietà che l'alfabeto latino è insufficiente a esprimere.
Indichiamo le principali:
a) Occlusive: due bilabiali p e b, due dentali t e d, e due velari k e g. Nella scrittura si usano i due segni b e v secondo l'etimologia delle parole, ma rappresentano esattamente lo stesso suono; per k e g si usano, secondo la vocale che segue, ca e que, ga e gue. È da notare che le sonore b, d, g si pronunziano occlusive solo dopo una consonante nasale e in posizione iniziale assoluta (la d dopo l è pure occlusiva); altrimenti queste tre consonanti si articolano fricative e la floscezza dell'articolazione giunge fino alla perdita completa del suono consonantico nella desinenza -ado, che si pronunzia correntemente -ao in Castiglia, anche nella conversazione delle persone colte.
b) Fricative: come abbiam detto, sono b, v, d, ga, gue tra vocali o aggruppate con r o l. Le altre fricative sono: la f labiodentale, la z interdentale, la y palatale, la j velare, ossia la fricativa corrispondente all'occlusiva k.
c) Occlusivo-fricative o affricate sono la ch palatale e la y dopo l o n.
d) Nasali: la m con occlusione labiale, la n dentale e la ñ palatale; vi sono però altre varietà che non sono espresse dall'alfabeto come la velare in angulo, la palatale in ancho, la labiodentale in inferior e la labiale in envidia.
e) Laterali: la l alveolare e la ll palatale.
f) Vibranti: due alveolari, la r con vibrazione semplice della punta della lingua e la rr o r- iniziale con vibrazione raddoppiata. Quando la r è finale, predomina una varietà fricativa al posto della vibrante. Inoltre nella scrittura si adopera la h che oggi non ha nessun valore nella pronunzia. Si usa altresì la x col valore latino di cs quando sta tra vocali e di s dinnanzi a consonante. Un'eccellente descrizione dei suoni spagnoli è stata fatta da T. Navarro (Manual de pronunciación española).
Elemento latino. - La Spagna fu romanizzata prima degli altri paesi romanzi, eccetto l'Italia. I due grandi centri di romanizzazione della penisola furono Cartago Nova per la Spagna Citeriore e Corduba per l'Ulteriore. Quando scrivevano Lucano, Marziale e Seneca, nessun'altra regione dell'impero poteva dar tanto alla cultura latina quanto la Spagna. Esponiamo qui appresso i cambiamenti più significativi che subì il latino nella Spagna per giungere allo spagnolo ora parlato.
a) Vocali accentate. La e e la o aperte del latino volgare, ossia ě ae e ŏ del latino classico, si dittongarono in ié e ué: terra, tierra; bonum, bueno. Il dittongo ié si riduce a i specialmente in vicinanza di un suono palatale, e ué si riduce a é sotto l'influenza di un suono labiale vicino: saeculu, anticamente sieglo, ora siglo; -ĕllu: castiello, ora castillo; silla (sella), ecc. Anche dinnanzi a s + cons. e in iato: nispero, mio, ecc.; frontem, anticamente fuente, ora frente; fleco, culebra. La e e la o chiuse del latino volgare, ossia ē, ĭ, oe e ü, ŭ del classico, restano e e o: alienum, ajeno; pilu, pelo; foedu, feo; nomine, nombre. Una palatale yod seguente (una i o una e in iato con altra vocale) obbliga la e e la o a chiudersi in i e u: cereu, cirio; cuneu, cuño; tiña; e lo stesso effetto risulta dalla yod nata dalla vocalizzazione d'una consonante aggruppata con t che produce ch: multu, mucho; auscultat, escucha. La a, la i e la u rimangono: matrem, madre; scriptum, escrito; acutum, agudo. La a seguita da yod si chiude in e: laicum, lego; basium, beso; lacte, leche. Nello stesso modo la a seguita da w si chiude in o: causa, cosa; taurum, toro.
Notisi che la w può provenire dalla vocalizzazione di una l aggruppata: alterum, otro; calce, coz.
b) Vocali non accentate. - La a, ī, ū e la ę e ǫ evolvono generalmente come quando sono accentate, risultando a, i, u e e, o, ma la ę e la ǫ non producono mai ie e ue come quando sono accentate, bensì e e o. Inoltre v'è un'altra gran differenza tra le vocali accentate e le non accentate, ed è che queste spesso scompaiono.
c) Vocali iniziali. - Sono le più resistenti e generalmente so conservano dopo di aver subito le modificazioni suddette. Esempî: di a: capistrum, cabestro; altarium, otero; di ẹ e ę: piscare, pescar; seniorem, señor; di ọ ed ǫ: nominare, nombrar; superbia, soberbia; corticea, corteza, ecc. Ma non mancano mutamenti di altro genere: navaja (novacula), redondo, hermoso, ecc.
d) Vocali protoniche interne. - La a rimane (paradisu, paraiso), ma le altre per regola generale spariscono: collocare, colgar: misculare, mezclar. In moltissimi casi la protonica si conserva per molte cause diverse, specialmente per influenza della lingua colta.
e) Vocali postoniche interne. - Evolvono come le protoniche, ossia la a rimane e le altre scompaiono di regola: orphanu, huérfano; comite, conde; littera, letra.
f) Vocali finali. - Delle cinque vocali tone appaiono generalmente solo tre, a, e, o, perché la i e la u diventano pure e ed o: veni, vine, illis, lès, come patrem, padre; fructus, frutos, come tempus, tiempos.
g) Consonanti. - Nello sviluppo delle consonanti si deve osservare che in generale le iniziali rimangono inalterate: digitu, dedo; gallicu, galgo. Le fricative soffrono diverse alterazioni e talvolta giungono fino al dileguo; così la f- è oggi sostituita da h muta: fabulare, hablar; factum, hecho; si conserva invece dinnanzi al dittongo ue (forte, fuerte) e in alcune parole soggette a influenze diverse: fondo, firme, fiel, ecc. Pare che la scomparsa di f- che passa attraverso l'aspirata, sia dovuta a ragioni etniche (iberiche). La j o ge si perde pure innanzi a vocale palatale (e, i) non accentata: germanu, hermano; januariu, enero; gingiva, encia; inoltre jungere, uncir; ma negli altri casi si conserva col suono y o j: generu, yerno; jocu, juego. Anche le consonanti iniziali aggruppate generalmente si conservano, meno, soprattutto, nel nesso consonante sorda con l che si risolve in ll-: planu, llano; clamare, llamar.
Le consonanti occlusive sorde latine quando si trovavano in posizione intervocalica, si lasciarono influenzare dalla sonorità delle vocali immediate e si sonorizzarono: vita, vida; securu, seguro. Anche le fricative sorde divennero sonore, e così la f si cambiò nella sonora corrispondente v o b: profectu, provecho; Stephanos, Esteban.
Le occlusive sonore intervocaliche tendono a scomparire: laudat, loa (ma la d si conserva in altre parole, come in vadu, vado; nidu, nido); ligare, liar; legale, leal (però negare, negar; plaga, llaga). Lo stesso avviene delle fricative sonore: magistru, maestro; sigillu, sello; aestivu, estio (ma lavare, lavar; nova, nueva; bibere, beber).
Quando la consonante è lunga, la sua articolazione è più resistente, e non sopravviene la sonorizzazione (né la scomparsa). Le consonanti lunghe si semplificano, ma senza soffrire poi i cambiamenti delle semplici; così le sorde non si sonorizzano: cippu, cepo; gutta, gota; bucca, boca; la ll e la nn diventano palatali: caballu, caballo; canna, caña.
Molto più complicato è lo sviluppo dei gruppi di consonanti diverse. Alcune volte le consonanti non subiscono nessuna alterazione, per es.: serpente, serpiente; ulmu, olmo; ma nella maggior parte dei casi avvengono varî cambiamenti: ora l'assimilazione di una consonante all'altra, e così rs e ns divengono s: ursu, oso; sensu, seso; mb diventa m: lumbu, lom0; palumbu, palomo; ora la vocalizzazione d'una delle consonanti: ct diviene yt e poi ch: factu, feyto, hecho; lectu, lecho; ult dà uch: cultellu, cuchillo; mentre alt dà ot: saltu, soto; alteru, otro. In hecho, mucho, ecc. vediamo che la yod risultante dalla vocalizzazione di una consonante rende palatale la t immediatamente seguente; gli esempî d'una tale palatalizzazione causata da yod sono molti: basti citare il caso di ly divenuta j palatale nella lingua antica e convertita in velare nella moderna: muliere, mujer; filiu, hijo; il caso di ny divenuta ñ: Hispania, Españq: seniore, señor; quello di dy divenuto y: radiu, rayo; ecc.
La perdita della vocale protonica e postonica interna, di cui abbiamo fatto menzione, diede origine a molti gruppi nuovi di consonanti: legalitate, lealtad; eleemos(y)na, limosna; recup(e)rare, recobrar. Talvolta, come negli esempî citati, i nuovi gruppi non presentano difficoltà speciale; solamente è da notare che le consonanti dei nuovi nessi consonantici avevano già subito un'evoluzione come intervocaliche prima della perdita della vocale: così dominicu, domin(i)gu, Domingo. Ma inoltre, siccome molte volte la perdita della vocale aveva messo a contatto suoni consonantici che non si accoppiavano mai nel latino classico, i nuovi gruppi dovettero essere semplificati o adattati in modi molto diversi dalla fonetica romanza; con l'assimilazione: sem(i)ta, semda, senda; con la vocalizzazione: civ(i)tate, cibdad, ciudad; inoltre con la metatesi: capit(u)la, cabildo; e spesso tra i due suoni consonantici si sviluppa un terzo per facilitare la transizione: hum(e)ru, hombro.
Nelle consonanti finali la -m si era dileguata nel latino arcaico e nel popolare; tutte le altre si dileguarono nel romanzo (caput, cabo; sunt, con), salvo la -s (minus, menos; multos, muchos); la -l e la -r si conservano nei monosillabi e diventano interne nei polisillabi, ricevendo la consonante finale una vocale d'appoggio. Altre consonanti latine vennero a trovarsi come finali per la perdita della vocale -e finale avvenuta dopo d, n, l, r, s e z: virtut(e), virtud; pan(e), pan; mar(e), mar.
Lo spagnolo è parimenti una continuazione del latino volgare in ciò che riguarda le forme grammaticali. La tendenza analitica si mantiene e continua nell'uso del nome e del verbo. La preposizione come elemento più espressivo e più preciso della desinenza dei casi eliminò questa quasi completamente.
Nella formazione dei nomi la tendenza analitica a cui alludiamo si manifesta nell'adozione di suffissi accentati invece di altri non accentati: l'accento, facendo spiccare maggiormente il suffisso, gli comunica maggiore forza espressiva. Alla stessa tendenza è dovuto il fatto che i derivati da participî anomali si ricomposero, come se procedessero da un participio regolare, onde rendere più visibile la loro relazione col verbo da cui derivano ed alla cui azione si riferiscono. Così invece di factore da factus si disse facitore, hacedor; invece di dictore, decidor, ecc.
In quanto ai numerali il romanzo conservò molte forme sintetiche classiche come undecim, once; tredecim, trece; ma scompose sedecim nella lorma analitica diez y seis, e così in altri casi.
La forma analitica del comparativo usata dal latino volgare è quella usata dal romanzo: invece di grandiores si disse más grandes. Lo stesso per il superlativo: grandissimus si scompose in muy grandes.
Della forma passiva del latino classico si salvò solo il participio (amatus, amado) col quale, unito al verbo ausiliare ser, si venne a esprimere perifrasticamente il senso passivo soy amado. Il futuro cantabo fu sostituito dall'infinito con l'ausiliare haber: cantar he, cantaré. Il perfetto cantaverim e l'infinito passato cantavisse furono rimpiazzati da haya cantado, haber cantado; e pure con una perifrasi furono create nuove sfumature che non esistevano in latino, come hubiese cantado, he cantado e cantaría, habría cantado.
Si deve anche notare che il romanzo conservò alcuni perfetti forti latini, quelli cioè che avevano l'accento sul tema (díxi) e non sulla desinenza (cantavi): dixi, dije; feci, hice; habui, hube; ma in generale indebolì i perfetti forti sul modello usuale accentato sulla desinenza: tímui, temí; valui, valí; arsi, ardí, ecc.
In simil modo i participî forti dictu, dicho; factu, hecho; ruptu, roto, ecc. si conservarono, ma più frequentemente furono rifatti sul tipo comune debole: defensu, defendido; tensu, tendido; ecc.
Il vocabolario spagnolo, come quello delle altre lingue romanze, proviene per la maggior parte dal latino volgare. Così le parole comer (comedere), vinagre, alzar, cazar, caballo, ecc. Richiamano particolarmente l'attenzione quei vocaboli che sembrano proprî del latino della Penisola Iberica (alcuni dei quali hanno la testimonianza di Sant'Isidoro nel sec. VI); p. es.: la stessa parola comer, che si trova in portoghese come nello spagnolo, manca nelle altre lingue romanze, che usano un derivato di manducare; invece di frater, conservato nelle altre lingue romanze letterarie, troviamo in tutta la penisola il derivato da germanus.
Gli elementi del latino volgare, dopo aver subito un'evoluzione secondo le norme ora accennate e secondo altre che non è il caso di esporre qui, formano, come abbiam detto, il fondo primitivo della lingua; gli altri elementi che stiamo per enumerare agirono in epoche assai diverse su questo elemento primitivo o gli si aggiunsero, alcuni con singolare persistenza attraverso tutta la storia della lingua, altri in modo più transitorio.
Influenza del latino letterario. - Fino dal periodo delle origini della lingua spagnola si nota una forte influenza del latino letterario, ch'era la lingua ufficiale usata in ogni manifestazione della vita pubblica. È evidente che la Chiesa e l'amministrazione statale dovettero introdurre molte parole latine nel parlare volgare (ánima, espíritu), che non si adattano a nessuna delle leggi indicate o solo alle più stabili; inoltre l'influenza del parlare colto può essere solo parziale, impedendo la completa evoluzione di una parola che in parte si era adattata alle leggi fonetiche delle voci popolari: saeculu divenne sieglo e siglo, ma non subì un'evoluzione completa che avrebbe condotto -cl- a j.
L'introduzione di vocaboli dalla latinità nel romanzo crebbe in alcune epoche, favorita dall'intensificazione dello studio di autori latini. Si deve segnalare in primo luogo l'epoca di Alfonso el Sabio, quando furono tradotte in volgare tante opere scientifiche e letterarie scritte in latino, iniziandosi allora una corrente di adattamento di voci latine, che molte volte va più in là di dove giunge la lingua moderna. Tra le composizioni d'indole letteraria dei secoli XII e XIII l'abbondanza di latinismi è maggiore in quelle opere che alla condizione di letterato del loro autore uniscono il carattere religioso o morale della materia, mentre sono più rare le parole colte nelle opere di autori letterati, in cui il soggetto, come nelle narrazioni epiche, s'ispira alla tradizione popolare, rarissime poi saranno nelle produzioni orali per le moltitudini nei racconti dei trovatori e dei giullari. Questa sproporzione si scorge manifestamente se si confronta il Cantar de mío Cid o il Poema di Fernán González con le opere religiose del Berceo. Il sec. XIV non è, come nella storia del latinismo francese, quello della formazione del vocabolario dotto, quantunque gli acquisti fatti precedentemente si conservino e la lingua si arricchisca di nuovi elementi.
Molto più accentuata si presenta la tendenza alle parole colte nel sec. XV col primo Rinascimento del tempo di Giovanni II. Qualche rappresentante più illustre di questo movimento non sapeva nemmeno il latino, come il marchese di Santillana, che si lamentava sempre di questa deficienza nella sua cultura, ma leggeva molti autori italiani, e in questi già da secoli dominava il latinismo nei vocaboli e nella costruzione.
Nel sec. XVI tutti gli autori subiscono più o meno l'influenza dei classici, ma bisogna arrivare fino al sec. XVII per trovare una nuova recrudescenza del parlar colto simile a quello del sec. XV. Il "culteranismo" faceva consistere gran parte del lustro pittoresco e musicale che pretendeva di dare al linguaggio nell'uso di vocaboli e di costruzioni più o meno latine, e con tale prodigalità da rifuggire per sistema dall'espressione comune e usuale. Il promotore principale di questa riforma fu Gongora, criticato da Quevedo, Tirso de Molina e molti altri autori del sec. XVII, che si stupivano di voci accettate poi definitivamente dalla lingua (joven, presentir, acción, ecc.).
L'introduzione di "cultismi" ebbe un'altra recrudescenza nel sec. XVIII, esagerata anche questa volta dal cattivo gusto letterario, soprattutto dei predicatori; allora si cercarono principalmente vocaboli astratti, molti dei quali sono frequenti anche oggi.
Finalmente una gran parte del rinnovamento del vocabolario che si propone la letteratura più moderna si fonda sul cultismo.
Elementi non latini. - La romanizzazione della Spagna non spense le lingue indigene; ma siccome queste sono quasi interamente sconosciute, la critica degli elementi da esse derivati nel castigliano in un'epoca primitiva riesce molto difficile. Sono discutibili persino i vocaboli che gli autori latini indicano come spagnoli. Invece potrebbero indicarsi molti casi dell'influenza del basco e delle lingue iberiche affini sul castigliano. Siccome questi linguaggi mancano quasi generalmente del suono f, ad alcuno di essi va forse attribuita la perdita della f latina nello spagnolo.
I vocaboli di origine greca provengono da epoche molto diverse di contatto della lingua latina e delle romanze con la popolazione greca; inoltre in ogni tempo il greco letterario diede una moltitudine di vocaboli al linguaggio degli eruditi e al tecnicismo delle scienze. L'accento di questi ellenismi vacilla a seconda che si segue l'accento originario o quello riformato dal latino; così avviene per le parole terminate in -ia, ma quelle in -grama hanno tutte l'accento grave.
Delle voci di origine germanica usate nello spagnolo alcune erano state già incorporate dal latino prima che i Visigoti venissero nella Spagna; di più, l'intensa romanizzazione di quel popolo fece sì che la sua lingua influisse poco sulla spagnola, se si eccettua l'onomastica (Alfonso, Fernando, Rodrigo, ecc.). Altre voci penetrarono tardivamente attraverso il francese (p. es., jardín).
L'influenza araba sullo spagnolo è notevolissima. E ciò si spiega con gli otto secoli di convivenza più o meno intima delle due lingue e soprattutto con il fatto che la cultura araba fu in molti casi superiore alla cristiana. Così mentre Ruggero Bacone e Raimondo Lullo vantavano lo studio dell'arabo come potente rimedio contro l'ignoranza occidentale, in Cordova, ch'era il centro più intenso della cultura arabo-spagnola, il romanzo spagnolo era conosciuto e usato non solo dai cristiani là residenti, ma anche dai musulmani. Così la lingua araba diede al vocabolario scientifico vocaboli come álgebra, guarismo, cifra, cero, auge, alquimia, elixir, alcohol, azoque, ecc.; al vocabolario militare: alcázar, alcaide, alférez, atalaya, algarada, alfange, alarde; a quello della vita municipale: aldea, arrabal, alcalde; a quello di altre istituzioni: albacea, alcabala, alquiler, alguacil; a quello del commercio e dei luoghi di contrattazione: almacén, zoco, bazar, almoneda, aduana, arancel, fardo, barato, tarifa, arroba, quintal, fanega e altri nomi di pesi e di misure che oggi vanno cadendo in disuso. Nelle industrie, soprattutto in quella delle tele e dell'adornamento, abbiamo: algodón, alfombra, aljófar, alpargata, e nell'industria costruttiva: albañil, zaguán, azotea, alcoba, azulejo, alcantarilla, andamio, rincón, mazmorra. Il grande progresso dei Mori nell'agricoltura impose molti nomi di piante: arroz, azafrán, adelfa, azahar, jazmín, ecc., e soprattutto vocaboli relativi al sistema d'irrigazione ch'era molto perfezionato: acequia, aljibe, noria. Sono molti i termini arabi adoperati per utensili, materiali, oggetti preziosi e di uso personale o domestico, uffici, giuochi, e nella musica, nella medicina, nella cucina, nell'amministrazione, nelle istituzioni, ecc.
Le relazioni della Spagna con la Francia sono state continue; molto intense dal Medioevo (matrimonî reali, pellegrinaggi a Santiago di Compostella, commercio, monaci francesi, ecc.), hanno lasciato un buon numero di parole relative alla vita dei cortigiani, alle arti, alle industrie, ecc. Durante i secoli XVI e XVII la gran robustezza della letteratura spagnola fece diminuire l'introduzione di gallicismi; ma dal regno di Carlo II, e soprattutto con l'avvento della dinastia borbonica nel sec. XVIII, l'influenza francese nella Spagna, come del resto in tutta l'Europa, divenne preponderante. Molto meno importante è la quantità di anglicismi esistenti nello spagnolo, la maggior parte dei quali, essendo penetrati per mezzo del francese, sono in realtà gallicismi. Il presente sviluppo delle industrie e dello sport ha causato l'adozione di una gran quantità di anglicismi; ma si conservano nella loro forma esotica, perché la lingua non ha reagito per assimilarseli.
Dopo il gallicismo, l'elemento straniero più importante è l'italiano. Una quantità di fatti spiegano ciò: il papato, i doppî pellegrinaggi a Roma e a Santiago, il fiorire delle università italiane, il collegio spagnolo di Bologna fondato dal cardinale Gil de Albornoz nel 1364, dove fu educato Nebrija, il commercio e la banca, (così attivi che la parola genoves dal sec. XIII significò banchiere) il dominio spagnolo in Italia soprattutto in Sicilia e a Napoli da Pietro III d'Aragona (1282) fino al Borbone Carlo III (1759).
Il Gran Capitano diceva: "La Spagna le armi, e l'Italia la penna", e questa frase ci mostra i due principali mezzi d'introduzione degli italianismi: i soldati spagnoli che venivano in Italia e la letteratura. Abbonda nelle commedie e nelle novelle dei secoli XVI e XVII il tipo del soldato tornato di fresco dall'Italia, traboccante di vocaboli nuovi: infantería, escopeta, alerta, trinchera, ecc.
Molto scarsi sono i casi di elementi introdotti nello spagnolo da altre lingue, che assai spesso vi sono entrati per mezzo del francese o dell'italiano. Una speciale menzione meritano però le lingue americane. La scoperta dell'America diffuse nella Spagna e nell'Europa una gran quantità di prodotti, animali, utensili e usi del Nuovo Mondo, e con essi i rispettivi nomi indigeni. Sono voci caraibe: batata (nome del tubero dolce che per confusione diede il nome di patata a quello insipido), huracán, maíz, cacique, tabaco, tiburón, ecc.; dagli Aztechi vennero: hule, tiza, chocolate, tomate, petaca, e dagl'Incas: loro, pampa, vicuña.
Quello che il castigliano tolse dalle lingue affini parlate nella penisola, come è facile immaginare, è molto. Il gallego-portoghese tra il 1200 e il 1350 fu il linguaggio usato nella poesia lirìca di quasi tutta la Spagna. Il prestigio di qualche autore di lingua catalana, come Ausias March (sec. XV), si estende fino al sec. XVI, in cui lo imitano Garcilaso e Herrera. Nell'eti moderna questa comunione letteraria non fece che crescere, soprattutto dopo il rinascimento della letteratura catalana, perché i suoi scrittori, specialmente i drammatici, sono letti e tradotti nella Castiglia.
Dialetti. - Dalle osservazioni precedenti risulta che i parlari della Penisola Iberica sono costituiti o da lingue derivate direttamente dal latino o da dialetti più moderni, che debbono la loro esistenza a trasformazioni del castigliano. Naturalmente, la lingua basca non entra in questo novero.
Andando da occidente ad oriente troviamo anzitutto il gallego, che si parla ora nelle quattro provincie a NO: La Coruña, Lugo, Orense e Pontevedra, e chc, come abbiamo detto, si estende un poco al di là dei limiti amministrativi attuali penetrando in una parte delle Asturie, di León e di Zamora. Questo dialetto si può definire dicendo che riflette la forma arcaica dei dialetti che poi diedero origine al portoghese letterario e furono paralizzati nel loro sviluppo quasi fino dal sec. XIII e sottoposti a forti influenze dal castigliano letterario e volgare. Lo studio del gallego concerne dunque specialmente il Portogallo; tuttavia questa favella, presenta per la linguistica e per la letteratura spagnola un interesse molteplice, perché quella regione è congiunta indissolubilmente con la Spagna, essendo stata una parte dell'antico regno di León e avendo inoltre esercitato un'influenza considerevole sulla storia della civilizzazione spagnola.
Per l'importanza che ebbero i pellegrinaggi a Santiago di Compostella, la Galizia acquistò un significato internazionale con la sua arte e la sua letteratura; vi fu un momento in cui la sua lingua si parlò in alcune parti delle provincie di Zamora e di Salamanca, ossia molto più oltre i suoi limiti naturali. D'altra parte la lingua gallega fu usata come mezzo di espressione lirica da molti poeti castigliani fino alla fine del sec. XIV. Nell'età moderna si è prodotto un risveglio nella Galizia a favore dell'uso letterario del dialetto tradizionale, e il parlare gallego è tornato a primeggiare ai giorni nostri con caratteri simili a quelli che gli erano proprî nel Medioevo, vale a dire con un lirismo melanconico e una fine percezione della natura.
Per il catalano, lingua d'intensa cultura letteraria, v. catalogna: Lingua e dialetti.
Vi sono due dialetti, il leonese e l'aragonese, che è difficile caratterizzare brevemente. Il leonese nel Medioevo abbracciava una vasta zona che comprendeva, da N. a S., le attuali provincie delle Asturie, León, Zamora, Salamanca, Cáceres e una parte di quella di Badajoz. Questo dialetto non giunse mai a fotmare un'unità di cultura riflessa in opere artistiche, e ora continua a esser parlato dal popolo nelle Asturie, dove è designato col nome di bable, ma a misura che avanza verso il S. si va perdendo, fino a essere assorbito completamente dal castigliano. I tratti di questo dialetto sono oggi in sostanza i medesimi che s'incontrano nei documenti leonesi dei secoli XII e XIII. Esso è molto più vicino al castigliano che il gallego o il catalano, e si può dire che Leonesi e Castigliani usando i loro parlari rispettivi non hanno mai cessato di comprendersi. E questa grande somiglianza ha precisamente fatto sì che il leonese non potesse resistere alla supremazia politica e culturale rappresentata dal castigliano: i più antichi testi leonesi sono fortemente impregnati di castiglianismo, benché sarebbe più esatto dire che questo castiglianismo rappresenta spesso l'elemento comune ai due idiomi. La particolarità più curiosa nella fonetica è il dittongamento della o latina seguita da yod in casi in cui il castigliano non dittonga: leonese nueche, cast. noche, lat. nocte; leonese, fuella, cast. hoja, lat. folia.
Osservazioni analoghe vanno fatte sull'aragonese, i cui avanzi oggi sussistono ancora in alcuni villaggi dei Pirenei (provincia di Huesca). Nemmeno esso ha avuto un carattere definito e una fisionomia letteraria. Il fatto che i tratti costitutivi della fonetica aragonese siano essenzialmente gli stessi del leonese dà luogo a un curioso problema linguistico: questi due parlari, oggi assolutamente separati dal castigliano, hanno formato una zona ininterrotta nell'epoca preistorica del romanzo nella penisola. Il castigliano incominciò a formarsi nella regione del N. di Burgos e di là discese fino al centro della penisola, scindendo in due parti e spingendo ai due lati il dialetto primitivo, che nella regione coincideva col fondo comune oggi indicato dal leonese e dall'aragonese.
Un breve cenno merita anche il parlare andaluso. Esso rappresenta un'evoluzione moderna del castigliano, che nell'Andalusia ha subito una trasformazione, simile a quella che poco appresso doveva subire nell'America spagnola. L'andaluso si distingue per la riduzione di alcuni suoni castigliani, specialmente la s finale di sillaba, e perché conserva un vocabolario alquanto arcaico in confronto della lingua presentemente parlata in Castiglia.
La lingua spagnola fuori della Spagna. - Lo spagnolo d'America. - Conviene qui tenere ben presente la differenza tra la lingua scritta o letteraria e la lingua parlata, volgare. Nella prima gli Americani non si diversificano in modo sensibile dagli abitanti della penisola; le particolarità che si potrebbero osservare in essa provengono soprattutto dalle diverse condizioni di vita locale, allo stesso modo che nella Spagna i periodici andalusi si differenziano da quelli della Galizia o della Catalogna. Gli scrittori ispano-americani più colti, anche in paesi cosmopoliti come l'Argentina, si sforzano sempre più di mantenersi nella cerchia della lingua letteraria generale, comune alle nazioni dell'una e dell'altra parte dell'Atlantico.
A tale riguardo, a parte il linguaggio dei giornali di Buenos Aires e di Montevideo, si può citare l'opera di scrittori come Lugones, Rojas, Gálvez, Ibarburu, Larreta, Borges, oltre a molti altri. Nelle altre nazioni americane la minor pressione degli elementi non americani si può dire che mantenga nella sua rigida purezza la lingua letteraria. Ma quanto alla lingua parlata la situazione è alquanto diversa.
Le particolarità fonetiche e lessicali non presentano in America limiti precisi, ma si trovano sconvolte e confuse in mezzo agl'idiomi delle diverse regioni.
Le caratteristiche più generali dello spagnolo volgare d'America sono nella fonetica: il cosiddetto seseo e cioè la pronunzia di ϑ (nella grafia spagnola c, z) come s, per es., ka???besa "cabeza" (il seseo è generale di tutta l'America spagnola; in una zona più ristretta si ha anche, a formula iniziale e in determinate posizioni nell'interno della parola, il passaggio s > h che non è sconosciuto neppure ad alcuni dialetti della Spagna; per es., nel Nuovo Messico nohotroh "nosotros"); il passaggio di l′ (= ll) > y, per es., ca???bayo "caballo", sporadicamente invece di y si ha ž, per es., ka???bažo (il passaggio di l′ [ll] > y si trova anche nel giudeo-spagnolo e nel portoghese del Brasile); e atono in iato > i, per es., linia "linea" e per converso i nelle stesse condizioni > e, per es., copear "copiar"; il passaggio di i e o protonici rispettivamente in e e u, per es., henojo "hinojo"; il passaggio di ct a it, per es., aspeito "aspecto". Nella morfologia un fenomeno molto appariscente, ma che ha le sue radici nello spagnolo preclassico, è il cosiddetto voseo e cioè l'uso del pronome vos in sostituzione di tu (che in alcune regioni, nella parlata volgare, è completamente sparito). Il vos si usa generalmente con la seconda persona plurale, ma accompagnato dal personale atono te (di 2ª pers. sing.) e dal possessivo tu, per es., vos tenés tu libro; no te vayais, ecc. Notevole la presenza di parecchie forme verbali dello spagnolo antico, come trujo, quijo, ecc. e le 2e persone plur. del presente indicativo e congiuntivo in -és, -ĭs, -ás, -ós (tenés, tengás, sos).
Nel lessico si nota la presenza di numerosi elementi tratti dalle lingue indigene americane, particolarmente numerosi per designare la flora e la fauna americana. La presenza di altre popolazioni europee negli stati sudamericani ha contribuito anche a fare accogliere elementi stranieri; sono, per es., abbastanza numerosi gli elementi italiani nello spagnolo della Repubblica Argentina.
Un'evoluzione completamente diversa ha avuto lo spagnolo nelle Isole Filippine, e a Curaçao dove ha formato la base di dialetti creoli; per questi v. creole, lingue, XI, 833-35 e curaçao, XII, 154.
Lo spagnolo è inoltre parlato anche da alcune migliaia di ebrei sefarditi nell'Oriente europeo (Costantinopoli, Salonicco, ecc.). La data della cacciata degli Ebrei dalla Spagna (1492) coincide con quella della scoperta dell'America. Sia lo spagnolo d'America sia il giudeo-spagnolo hanno per punto di partenza lo spagnolo preclassico del sec. XV-XVI. Mentre però il giudeo-spagnolo non ebbe più che contatti accidentali con la lingua della Castiglia e si svolse in modo del tutto indipendente, assimilando, è vero, elementi allogeni, ma conservando preziosi fenomeni arcaici; lo spagnolo d'America rimase sempre in contatto con la lingua della madrepatria anche quando cessò la dipendenza politica. Le principali caratteristiche del giudeo-spagnolo sono: 1. mantenimento di f dello spagnolo antico in parecchi casi in cui lo spagnolo moderno ha h, per es., ferir "herir"; 2. mantenimento della distinzione fra s sorda (= ss) e s sonora (= z) e fra c (sorda) e z (sonora), come nello spagnolo antico per es., difísil, ma ermozo; 3. mantenimento della distinzione fra le due fricative prepalatali: x (sorda = è) e j, g (sonora = ž) e assoluta mancanza del passaggio alla fricativa velare ξ, generale dello spagnolo moderno di Spagna e d'America, per es., baèo "bajo", contro mužer "mujer". Nel lessico notiamo: arri???bar, sp. mod. llegar; k0č0, sp. antico cocho, sp. mod. cocido, ecc.
Bibl.: Per la bibliografia completa di queste questioni v. nella Revista de filologia española, Madrid, Centro de estudios históricos: v. inoltre W. Meyer-Lübke, Grammatik der romanischen Sprachen, Lipsia 1890-94; id., Introducción a la lingüística romance, trad. di A. Castro, 3ª ed., Madrid 1927; R. Menéndez Pidal, Orígenes del español, ivi 1926; Hanssen, Gramática histórica de la lengua castellana, Halle 1913; R. Menéndez Pidal, Manual de gramática histórica de la lengua castellana, Halle 1913; R. Menéndez Pidal, Manual de gramática histórica española, 5ª ed., Madrid 1925; Gramática e Diccionario della Reale Accademia Spagnola; Bello-Cuervo, Gramática de la lengua castellana, Parigi 1925; T. Navarro Tomas, Manual de pronunciación española, 3ª ed., Madrid 1926; L. Eguilaz y Yanguas, Glosario etimológico de las palabras españolas de origen oriental, Granata 1886; J. Mir, Prontuario de hispanismo y barbarismo, Madrid 1908; B. Croce, La lingua spagnuola in Italia, Roma 1895.
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Per lo spagnuolo fuori di Spagna v.: R. Lenz, Beiträge zur Kenntnis des Amerikanospanischen, in Zeitschr. f. rom. Phil., XVII (1893); Diccionario etimolójico de las voces chilenas derivadas de lenguas indijenas americanas, Santiago de Chile, 1904; R. J. Cuervo, Apuntaciones críticas sobre el lenguaje bogotano, 6ª ed., Parigi 1914; M. L. Wagner, Amerikanisch-spanisch und Vulgärlaiten, in Zeitschr. f. rom. Phil., XL (1920); A. Alonso, Problemas de dialectología hispano-americana, Buenos Aires 1930; A. M. Espinosa, Estudios sobre el español de Nuevo Méjico, trad. a cura di Amado Alonso y Angel Rosenblat, Buenos Aires 1930; E. F. Tiscornia, La lengua de Martin Fierro, Buenos Aires 1930; A. Rosenblat, La lengua y la cultura de Hispanoamérica, Tendencias lingüistico-culturales, Jena e Lipsia, 1933; Miguel de Toro, L'évolution de la langue espagnole en Argentine, Parigi 1932 (lavoro debole); J. M. Dihigo, Léxico cubano, Avana 1928; F. Ortiz, Glosario de afronegrismos, Avana 1924; T. Manuel Orenjuela, Linguistique équatorienne, Quito 1935; H. Grossmann, Das ausländische Sprachgut im Spanischen des Rio de la Plata, Amburgo 1926; R. Dong de Halperin, Contribución al estudio del italianismo en la República Argentina, in Fac. de fil. y letras de Buenos Aires, I, p. 183 segg.
Per il giudeo spagnolo tutta la bibl. fino al 1907 è analizzata da M. L. Wagner, Los Judíos de Levante. Kritischer Rückblick bis 1907, in Revue de dialectologie romane, I (1909); id., Beiträge zur Kenntnis des Judenspanischen von Konstantinopel, Vienna 1914; id., Carácteres generales de judeo-español de oriente, Madrid 1930; C. M. Crews, Recherches sur le judéo-espagnol dans les pays balkaniques, Parigi 1935.
Letteratura.
Periodo castigliano (sec. XI-XV) - Le origini (secoli XI-XIII). Il fatto fondamentale, che caratterizza nel sec. XI il movimento rinascente della cultura spagnola e, nell'Europa cristiana, la fa tramite di diffusione della scienza musulmana ed ebraica, è il deciso orientamento della politica di Alfonso VI (1072-1109) verso la Chiesa di Roma. La propagazione in Spagna e l'eccezionale importanza che vi assumono gli ordini monastici di Cluny, e più tardi di Cîteaux, ne sono la conseguenza. La politica spagnola comincia a respirare nell'atmosfera universale della Chiesa di Roma; ne accoglie il rito, abbandonando quello mozarabico; e, attraverso al diritto ecclesiastico che dà luce allo stesso diritto visigotico, si abbevera indirettamente alle fonti del diritto giustinianeo. Durante il regno di Alfonso VII (1126-57), per impulso dell'arcivescovo Raimondo (1130-50) e per opera di Domenico Gondisalvi e di Giovanni di Siviglia (Johannes Hispanensis), seguiti da altri traduttori francesi, italiani (Gherardo di Cremona) e inglesi, Toledo diventa il centro di irradiazione della scienza e della filosofia araba. Ciò che prima avveniva nelle scuole del califfato di Cordova ora avviene entro un'atmosfera cristiana. La scuola dei traduttori toledani diffonde, nel suo latino ecclesiastico, non solo le dottrine di Alfarabi, Avicenna, Ibn Gabirol, Algazali, Averroè, ma anche i commentarî arabi che platonizzavano Aristotele e i testi della fisica aristotelica interpretati oppure commentati con spiriti neoplatonici. L'opera di questi traduttori, che sono piuttosto interpreti e compilatori ingegnosi, condiziona lo svolgimento della speculazione filosofica nell'Europa cristiana. Essi mettono in circolazione un aristotelismo profondamente venato di neoplatonismo, tale che susciterà ben presto la diffidenza e la critica. Mentre la Spagna era mediatrice di sapere per l'Europa, riceveva, per così dire, dall'Europa gli spiriti universali della Reconquista; che non fu soltanto ripresa del territorio nazionale occupato dai musulmani, ma ripresa e inveramento, entro una nuova esperienza, della sua tradizione latina e cattolica. Con la sua opera di ripopolazione dei territorî liberati, la Riconquista rompe il sistema chiuso degli ordinamenti feudali, costituisce municipî e le Cortes, unifica gli spiriti e crea il legame spirituale di una patria comune. Accanto alla tradizione culturale musulmana ed ebraica si vengono a porre influenze francesi, italiane e fiamminghe. Propagatori ne furono i monaci di Cluny, ai quali forse si deve la prima produzione teatrale in volgare (El misterio de los Reyes Magos), i monaci di Cîteaux, i benedettini, i pellegrini di Santiago, gli avventurieri e i commercianti, i giullari e i trovatori di Francia, gl'insegnanti venuti da università straniere, gli studenti spagnoli in Francia e in Italia. La vita sociale dei regni cristiani si amplifica e si intensifica e, accanto al crescente movimento scientifico, letterario e artistico, si svolgono e si affermano i nuovi idiomi regionali. Nel sec. XII la letteratura spagnola, come riflesso della nuova civiltà che si è venuta costruendo lentamente, ha le sue manifestazioni storicamente documentate. Quello che c'era o ci poteva essere prima d'allora in lingua volgare, e che si fa sospettare per documenti diretti o indiretti, può solo interessare come svolgimento di una cultura che s'individuava, acquistava coscienza di sé e tentava di esprimersi in una propria lingua. Mentre la filosofia spagnola, musulmana ed ebraica dànno i loro maggiori luminari (Averroè e Maimonide), la letteratura volgare spagnola si dispiega apertamente nella varietà dei suoi generi letterarî e attraverso una variopinta differenziazione linguistica. Sono tre lingue comuni che sorgono: catalano, castigliano e gallego-portoghese; e ciascuna s'incentra in una grande unità politica: Catalogna e Aragona, León e Castiglia, e regno del Portogallo. La situazione geografica di queste nuove formazioni, la loro varia costituzione sociale e gli spiriti predominanti che le informavano, spiegano le divergenti e convergenti modalità regionali di una stessa cultura comune. Nella Catalogna, legata per interessi dinastici alla Francia meridionale mediterranea, la nuova letteratura si riplasma su quella di Provenza e ne accetta la lingua, per abbandonarla più tardi non appena riesce a raggiungere, nella propria, un'espressione artistica adeguata ai suoi bisogni (v. catalogna: Letteratura). Nel Portogallo, dove la monarchia serbava legami con la Borgogna e la Lorena, la nuova letteratura in gallego s'impronta, su un fondo di motivi lirici popolari, alle tradizioni aristocratiche di Francia (v. portogallo: Letteratura). Nella Castiglia, la cui attività politica si orienta decisamente verso la Riconquista, affermandosi in brillanti operazioni militari al centro della penisola, la letteratura sorgente si volge alle narrazioni epiche. Dentro di esse rivive lo spirito guerriero di un popolo che si conquista una sua individualità, dominando le condizioni imposte dalla realtà storica, ed è essenzialmente attivo e pratico, con gl'ideali concreti della famiglia, della patria e di Dio. La prima voce individuale e collettiva della letteratura castigliana è il Cantar de mío Cid. Poco importa il problema delle origini lontane dell'epica castigliana, ricondotte a semplici e astratti motivi che si possono riscontrare nell'epica germanica o in narrazioni epiche musulmane. E neanche bisogna dedurre eccessivamente dal fatto che nel Cantar de mío Cid si notino influenze della Chanson de Roland. Esse documentano soltanto la diffusione della letteratura in lingua d'oïl di là dai Pirenei, effettuatasi lungo le vie di pellegrinaggio a Santiago di Galizia e mediante l'opera della nobiltà di Francia corsa in aiuto della Spagna nella sua santa crociata. Quello che importa è l'adesione dell'animo del poeta agl'ideali spirituali del suo tempo; è la concretezza storica di cui materia il suo canto; è il predominio della realtà giornaliera sul sogno fantastico e l'urgenza di questa realtà nell'animo di chi opera e combatte. L'epica spagnola si stringe alla storia, non nel fatto particolare empirico e tanto meno nel suo valore documentario positivo, ma interpretandola in funzione di una giustizia immanente che la governa. In tal senso, come è del resto la Chanson de Roland, essa è tipicamente cristiana, pur essendo medievale nella concezione di una rigida e violenta applicazione della legge; ed è ancora universale, per l'arte di cogliere drammaticamente sentimenti umani e passioni elementari e istintive. Così è la Gesta de los Infantes de Lara, un cantare certamente posteriore a quello del Cid, dove il sentimento paterno, dolorosamente colpito nei figli trucidati a tradimento, trova la sua giusta vendetta. Questa religiosità, realistica nelle forme e storica nel suo contenuto passionale che è quello del tempo, è l'anima animante dei due poemi. Intorno a essi s'aggruppano gli altri (Gesta de Sancho II; Gesta del abad don Juan de Montemayor), che la critica filologica ha ricostituito nel loro intreccio schematico, ricavandoli dalle cronache dove erano stati risolti prosasticamente come storia documentaria. Certo sono più letteratura che vita, sono più fantastica rielaborazione di modelli francesi o provenzali o greco-bizantini che creazioni originali altri poemi (Roncesvalles; Vida de Santa María Egipcíaca; Libro de Apolonio), che segnano il passaggio da forme d'arte ancora troppo legate al particolarismo della vita storica attuale a forme superiori di un'arte meno interessata. È un progresso di spiritualità che sottrae la letteratura ai fini individualistici delle classi nobiliari, portandola nella serena e chiara atmosfera delle virtù temperate della vita sociale, a sentimenti ingenui di devozione e a spiriti di carità e d'amore. L'anonimia cede alla personalità del poeta, che sopra il giullare vagabondo (mester de juglaría) si eleva con un contenuto suo proprio di esperienza e di dottrina (mester de clerecía). Questa nuova arte, tecnicamente più elaborata e il cui metro è la quartina monorima a versi di doppio settenario, la inaugura Gonzalo de Berceo; il quale, in alcune vite di Santi, in poemi alla Vergine e in altri di argomento sacro, si serve della poesia come mezzo di propaganda morale. È la vita sentita nel suo fine ultraterreno, dove Dio è infinitamente più amabile dell'arte; e l'arte è amata nella linea di una moralità che si presenta in forme dilettevoli e oneste. Il sentimento si stringe al contenuto, si amplia e spazia didascalicamente nelle varie sfere dell'attività pratica dell'individuo; e viene così incontro alle esigenze spirituali di una vita sociale, che si nobilita nella sempre più vasta e più complessa unità politica e territoriale. Nel poema El libro de Alexandre, le imprese dell'eroe sono seguite come propagazione di civiltà nei paesi delle meraviglie; e l'animo del poeta, che rivive ingenuamente i ricordi classici e medievali, si sbizzarrisce in brillanti e pittoresche immaginazioni, mirando al presente. Su per giù come nel Poema de Fernán González, dove la storia di Spagna, in funzione delle progressive vittorie della Riconquista, costituisce l'elemento personale e passionale del poeta, stretto ancora alle forme della vecchia juglaría. In questo momento della letteratura castigliana, che ha accettato, assimilato e trasformato le varie influenze artistiche venute dai paesi vicini, s'inserisce l'opera di Alfonso il Savio (1252-84). Se questo re fu sfortunatissimo nelle sue grandi aspirazioni politiche e più ancora nelle vicende familiari, la magnanimità del suo animo si rivela compiutamente nel campo dell'attività culturale. In lui s'incentrano i caratteri dell'umanesimo medievale spagnolo, improntato a quel realismo cristiano che s'affisa nell'universalità del pensiero e con generosa larghezza s'apre a tutte le verità, rifiutandosi di sacrificare qualsiasi valore spirituale e umano. Alfonso il Savio storicizza l'universalità astratta della scienza e della filosofia, le riconduce alla vita concreta della sua nazione, e dà loro una patria in quella lingua comune che, irradiandosi da Toledo, si era formata attraverso la fusione sociale e politica e i saldi vincoli territoriali e amministrativi. Per impulso del re il sapere scientifico di fonti musulmane o ebraiche (Del saber de Astronomía; Taulas Alfonsíes), la tradizione giuridica medievale con elementi del diritto giustinianeo (Las Partidas), la tradizione storica o leggendaria nelle sue fonti classiche, medievali e arabe (Crónica general), i libri sacri, musulmani e cristiani, si castiglianizzano ed entrano nel circolo vivente della cultura comune. La prosa castigliana nasce e sostituisce il latino negli atti pubblici; si adegua alla nuova vita storica e si fa espressione di quello spirito essenzialmente assimilatore che la caratterizza. Se nelle Cantigas, liriche e narrative, re Alfonso usa il linguaggio gallego, è perché su di lui agisce una tradizione letteraria che aveva risollevato a motivi d'arte la lirica popolare corale. Ma tuttavia egli accetta, nonostante la lingua poetica d'uso, le forme castigliane di una poesia popolare narrativa, le cui origini si sprofondano nella più lontana tradizione romanza, anche se affiorano cronologicamente prima nella poesia arabo-andalusa dei secoli XI e XII. Sotto Alfonso il Savio, la Spagna si fa di nuovo mediatrice, in volgare, tra la cultura orientale e la cultura europea. Come già nel latino di Pietro Alfonso (Disciplina clericalis) s'erano diffusi in Europa i racconti venuti dall'Oriente ebraico e musulmano; così ora, in prosa castigliana, si propagano le raccolte capitali della novellistica indiana e persiana (Calila e Dimna, Libro de los engaños, che è il Sindibar, Barlaam y Josafat), che daranno motivo in Spagna e nel resto d'Europa a nuove e originali elaborazioni d'arte. Questo sforzo di volgarizzazione della cultura, nel suo significato universale, penetrato nella storiografia, che aveva abbandonato il latino ecclesiastico di Lucas de Túy e quello elegante e sostenuto di Rodrigo Jiménez de Rada (Historia Gothica; Historia Arabum), è proseguito dal figlio di Alfonso il Savio. Per impulso di Sancio IV (1284-96) si redige La Gran Conquista de Ultramar. Quivi, nel quadro delle crociate d'Oriente sin allora compiute, si alternano storia e leggenda, favole poetiche e particolari didascalici, entro un'atmosfera avventurosa di romanzo. Nel tessuto dell'opera accanto alle imprese dei grandi ordini militari (Templari e Ospedalieri) s'inseriscono, risolti in prosa, frammenti di poemi relativi alle crociate d'Egitto, di Tripoli e di Tunisi, rimaneggiamenti e adattamenti dell'antica epica e del romanzo cavalleresco francese.
Secolo XIV. - Il periodo culminante della letteratura medievale declina ormai insieme con lo spirito e lo slancio della Riconquista. Le campagne militari contro la potenza musulmana si risolvono in episodî. Il principio unificatore della monarchia urta contro le tendenze disgregatrici della nobiltà, e le varie classi sociali si combattono tra loro. Una nuova società è in formazione. Il sentimento cavalleresco, sciogliendosi dai vincoli imposti dalla realtà, procede verso affermazioni astratte e ideali. El caballero Cifar, il più antico romanzo di cavalleria, di autore sconosciuto, è una miscellanea di elementi cavallereschi e didascalici, dove una materia episodica viene svariata, senza unità costruttiva, sui lontani schemi del romanzo bizantino. Sorge il tipo del cavaliere avventuroso e sognante, accanto al quale si colloca lo scudiero pigro e astuto, birbo e leale. Ma è pura letteratura che si fa ricamando sopra altra letteratura. Il sustrato di tali divagazioni immaginose, che non hanno alcun fondamento storico, né erano affatto credute storiche, bisogna cercarlo nella diffusione e nelle tarde degenerazioni del romanzo cavalleresco francese. La Spagna lo fa suo e lo viene rielaborando, apportandovi nuovi elementi didattici desunti dal diffuso materiale delle favole esopiane e dei racconti orientali. Questa cavalleria romanzesca, che perde ogni serietà di contenuto, s'introduce nella leggenda del Cid, dove l'eroe vanitoso e superbo si adegua alle bizzarrie dell'immaginazione popolare (Cantar de Rodrigo o Mocedades de Rodrigo). Individualismo astratto, che nel Poema de Alfonso Onceno, il cui verso è quello della poesia popolare narrativa, è più che manifesto, segnando il transito dallo spirito dei Cantares de gesta a quello dei romances storici o di frontiera. Entro questa nuova atmosfera, la letteratura castigliana del sec. XIV continua quella del secolo precedente, ma si libera a poco a poco da quell'universalità che si cercava quasi esclusivamente nel contenuto scientifico, morale e religioso. È un processo di affinamento e di affermazione della personalità; una maggiore elaborazione artistica, accompagnata da un certo sforzo di costruzione intellettuale; una più attenta osservazione della realtà fuori dai consueti moduli fantastici. Mentre il "mester de clerecía" si strema (Vida de San Ildefonso; Proverbios en rima del sabio Salomón) o tenta di rinnovarsi nel migliore dei testi aljamiadi (Poema de Yuçuf), opera anonima di un morisco aragonese, ecco presentarsi la prima e forte personalità di poeta nel Libro de buen amor di Juan Ruiz, arciprete di Hita. È un poema complesso, senz'altra linea costruttiva che quella di rappresentare episodicamente, attraverso un'esperienza personale poetica, le manifestazioni poliedriche dell'amore come forza naturale e istintiva, che si affanna continuamente e s'illude cercando il proprio bene. L'ispirazione, nel suo fondamento teorico, è perfettamente agostiniana ed è dentro alla tradizione del Medioevo cristiano; ed a ragione Juan Ruiz vi si richiama nel prologo alla sua opera con serietà di intenzioni. Ma la spiritualità del poeta è più che altro volta, con grande varietà, a tratteggiare tipi e figure, atteggiamenti e pensieri, astuzie e inganni che rientrano nell'amore istintivo e sono fuori della razionalità immanente nell'amore. Siamo, su per giù, al contenuto del Decamerone; ma l'arte, meno incisiva e profonda, è spesso influenzata dalla varia letteratura amorosa del Medioevo, latino e romanzo, da forme liriche e narrative dotte e popolari; ed è talvolta rifranta attraverso un didascalismo voluto e astratto, desunto da fonti cristiane, arabe e giudaiche, comuni alla cultura spagnola contemporanea. Accanto a questa rilevante personalità di poeta, la letteratura castigliana presenta, con altra ispirazione e altro tono, ma sempre nel quadro di un'arte ancora didattica, quelle di Juan Manuel e di Pero López de Ayala. L'arte del primo, nel congegnare entro un'astratta cornice (Libro del Conde Lucanor de Patronio) una serie di favole, di apologhi, di racconti e di parabole, attinti alla tradizione classica e orientale, alla letteratura universale di popolo o alla storia particolare di Castiglia, è quella di una sapiente ironia, che coglie la vita nelle sue interne contraddizioni, nei suoi impulsi irrazionali e nella sua saggezza pratica. Vi si sente l'esperienza viva di un principe colto, che negli ammaestramenti di Patronio risolve, in concretezza di rappresentazione, il contenuto degl'insegnamenti morali esposti nel Libro de castigos, in Las maneras de amor, nel Libro de los estados e nel Tratado sobre las armas. È un raggentilirsi esteriore e formale della vita di corte, contemplata come ispirazione di motivi d'arte. Con altri intenti e con altro temperamento di scrittore Per López de Ayala, animo rigido e fiero, riprende la stessa materia e vi porta spiriti di amarezza e di disgusto. Il suo Rimado de Palacio risente di quel prosaismo pedagogico, realistico e positivo, che asservisce inconsapevolmente l'arte a fini estrinseci e la fa, in certo senso, un documento storico. Di qui la maggiore importanza che hanno le sue Crónicas, dove la storia si fa dramma; e dentro di esso, con acutezza e penetrazione, l'Ayala delinea personalità vigorose come quella di re Pietro I e motiva psicologicamente i principali avvenimenti di un'epoca. Ma fuori di questi tre scrittori, la letteratura si svolge monotona, esaurendo a poco a poco le vecchie forme. Queste si schematizzano nel contenuto, si chiudono in esperienze anguste e perdono il contatto con la realtà oggettiva. La poesia diventa raccolta di sentenze e di massime morali nei Consejos y documentos del rabbino Sem Tob. La storia passa a cronaca stretta empiricamente ai fatti particolari con Fernán Sánchez de Valladolid e Juan Fernández de Heredia; il quale nella Gran Crónica de España sfronda e impoverisce la Crónica general di Alfonso il Savio. La prosa narrativa perde ogni impeto e vigore fantastico; o s'attiene all'enciclopedia del sapere scientifico (Libro del Caballero e del Escudero), o riflette come in uno specchio le classi e condizioni sociali contemporanee (Libro de los Estados), oppure cede a un particolarismo didascalico, frammentario e ristretto (Casteos e documentos; Libro de Montería di Alfonso XI). E tuttavia un interesse sempre più accentuato verso la storia, come affermazione della personalità umana entro un ordine provvidenziale, determina una scelta di testi classici e medievali. Pero López de Ayala, avvezzo a contemplare uomini e cose attraverso un'atmosfera morale e religiosa, ritraduce Livio dal testo francese di Pierre Bercheur; volgarizza la Crónica troyana di Guido delle Colonne, e forse Valerio Massimo; inizia gli adattamenti della Caída de Príncipes cioè il De casibus virorum illustrium del Boccaccio. Fernández de Heredia fa volgere in aragonese Plutarco, Orosio e un ristretto francese del libro di Marco Polo. Il nuovo umanesimo spagnolo che si orienta verso il mondo classico, greco e romano, già comincia ad affermarsi insieme con la conoscenza del movimento letterario italiano. In quel periodo di sconvolgimenti dinastici, di tristi vicende politiche e di disgregazione sociale, che caratterizza con Enrico II (1369-79) l'avvento al trono della casa dei Trastamara, la letteratura sembra slacciarsi dai vincoli della storia e chiudersi nei vecchi motivi della lirica provenzale e francese. La semplicità psicologica della vita concreta si perde, e la poesia, ricondotta all'artificio della forma, non fa che rielaborare pochi e monotoni temi. Le consuetudini di un ambiente cavalleresco sono artisticamente rivissute con un sentimento formalmente dignitoso della vita. La lingua poetica, lontana dal tono popolare, perde di concretezza e acquista di musicalità, contenendosi in un breve cerchio di formule concettuali, che si svuotano di sentimento e tendono alla frase di convenzione. Tutto ciò mentre la cultura intellettualmente si affina e la poesia cerca di sostanziarsi di elementi dottrinali. È questa la lirica adunata nel Cancionero che compilò (1445 circa) Juan Alfonso di Baena, tardo ammiratore dei poeti di corte, da Enrico II ai primi anni del regno di Giovanni II (1406-54). Essa poesia documenta nel suo maggiore rappresentante, Alonso Alvarez de Villasandino, lo stremarsi della tradizione gallego-portoghese in un lirismo melodioso e cantante, concettoso e sonoro. Accanto, e in contrasto di innovazioni, si pone Francisco Imperial, il cui dantismo è di ricalco più che di ricreazione: inelegante intarsio di endecasillabi interi tolti alla Divina Commedia, e uso dell'allegoria. L'arte di Dante e del Petrarca, che è giunta nella penisola attraverso relazioni commerciali, si deforma e si rifrange in quell'astratto allegorismo che continua la vecchia tradizione medievale fissata da Teodolfo, e che è affermazione di un pensiero recondito fuori della forma concreta.
Secolo XV. - Il nuovo svolgimento della letteratura castigliana che, poggiando su un contenuto di dottrina, ondeggia fra il tono popolare e l'intellettualismo della poesia cortigiana, si osserva già nell'opera di Íñigo López de Mendoza, marchese di Santillana (1398-1458). La sua Carta a don Pedro de Portugal è la nuova poetica fondata sull'esperienza tecnica dei trattati provenzali e catalani, sullo studio dei poeti francesi del Quattrocento, sulla conoscenza della grande triade toscana. Si persegue l'ideale della poesia come scienza o verità intelligibile realizzata in forma di bellezza. Siamo nella tradizione platonico-agostiniana e scolastica; salvo che l'arte, per mancanza di veri poeti, diventa da ora innanzi lo strumento di una grave erudizione. Il Santillana s'attiene all'allegorismo astratto, che era il modo consueto di imitare Dante (Comedieta de Ponza; Infierno de los enamorados); segue i moduli fantastici di stampo francese (Triumphete de Amor); scende al didascalismo moraleggiante e prosaico (Bias contra Fortuna; Proverbios) o alla satira amara (Doctrinal de privados). Il tecnicismo dei sonetti "hechos al itálico modo" s'inserisce nel formalismo aristocratico delle "canciones" e dei "decires" e delle "serranillas" su tono popolare. Si forma così un ideale poetico che aspira a dar grazia espressiva al mondo dottrinale, morale e religioso dell'artista colto, che si eleva sul volgo e si conquista la gloria. Questo ideale, impersonato nel Santillana, costituisce il motivo poetico del Calamicleos di Juan de Mena, che lo tratta però con notazioni aride e prolisse. Il de Mena nel Laberinto de Fortuna, macchinoso poema allegorico denominato anche Las Trescientas, riprende il tema della Fortuna provvidenziale di Boezio e lo svolge, imitando Virgilio, Lucano e Dante, con la documentazione delle vicende dei principali personaggi del suo tempo. Per tutto il secolo più che poesia, c'è ricerca di poesia. Il lirismo aristocratico, sostenuto da acutezze concettuali sull'amore galante e da quell'esaltazione della donna, che non tanto è nel libro De las virtuosas y claras mujeres di Álvaro de Luna quanto nel Triunfo de las donas di Juan Rodríguez del Padrón, si perde nell'allegorismo e nella profusione di ornamenti mitologici, di nozioni di astrologia, di fisica e di erudizione polverosa. Ne è tipo la Visión delectable de la filosofía y artes liberales di Alfonso de la Torre. Tra la moltitudine di impersonali versificatori (Fernán Pérez de Guzmán, Alvarez Gato, Hernán Mexía) emergono tuttavia Gómez Manrique, nel cui canzoniere affiorano con varietà d'intonazione tutti i temi del suo tempo, e Jorge Manrique, soprattutto per le Coplas a la muerte de su padre, che è l'eterno tema della vanità delle cose: la poesia dell'Ecclesiaste, riportata all'intimità di un'esperienza e diventata, in forma musicalmente sentenziosa, la voce diretta di un cuore. Ma questa è la voce solitaria di una fede vissuta personalmente in un periodo di anarchia e di voluttà egoistiche; sulle quali s'innalza e si materializza l'idea della morte che pareggia con ferocia egualitaria chi trionfa e chi soffre (Danza de la Muerte). Sorge la poesia satirica anonima (Coplas del Provincial; Coplas del Mingo revulgo; ¡Ay Panadera!), la poesia beffarda, triviale e realistica di Antón de Montoro. Tuttavia nella realtà della vita sociale, fuori dagl'intrighi dei politicanti, e nella sfera delle attività civili, si vengono confermando l'ansia di un rinnovamento morale (Libro de Vita beata, di Juan Lucena), lo sdegno per le volgarità materiali (Coplas del Contempto del mundo e Tragedia de la reina Isabel di don Pedro, condestable de Portugal; Reprobación del amor mundano di Alfonso Martínez de Toledo) e l'esaltazione del valore individuale (Cadira del honor, di Juan Rodríguez del Padrón). Più che arte è moralità e letteratura legata all'esperienza individuale; poiché dovunque è l'individuo che si afferma solitario. Anche nella storiografia, che si risolve in biografia, l'interesse si volge all'uomo nel suo aspetto fisico e morale (Generaciones y semblanzas di Fernán Pérez de Guzmán) e ai maggiori rappresentanti delle virtù patrie o della potenza dominatrice ed eroica (Crónica de Don Álvaro de Luna; Libro del Paso honroso). Il realismo spagnolo, dal quale non si può prescindere per cogliere le note fondamentali di uno spirito che è sempre uguale in ogni sua manifestazione sia in arte sia in politica, sia nella scienza sia nella letteratura, è precisamente questa cura del concreto, questa affermazione costante dell'individuale, questo volontarismo moralistico che si oppongono a ogni astratto intellettualismo. La ricerca del particolare, lo studio della novità caratteristica e l'ansia di conoscere l'ignoto per affermare la propria personalità, compaiono appena nella sbrigliata Historia del gran Tamerlán di Ruy González de Clavijo; ma si manifestano ora apertamente nella vivace esposizione: Andanzas y viajes di Pero Tafur, per diverse parti del mondo. L'atmosfera letteraria comincia ormai a farsi più commossa. Dilatandosi sotto cieli diversi, presenta toni di più intensa vita estetica. Nel Cancionero di Lope de Stúñiga, raccolto alla corte di Napoli, dopo la morte di Alfonso V (1458), si rompe, soprattutto col Carvajal o Carvajales, il cerchio della lirica cortigiana e si accolgono composizioni popolari o popolareggianti, di breve respiro e d'intonazione leggiadra: serranillas graziose e i primi romances. Quest'ultimo genere di poesia epico-lirica scaturisce da quelle zone oscure della letteratura spagnola, dove non possono penetrare gli sguardi della filologia, che, in cerca di origini, mira solamente al contenuto astratto. I romances attestano già ai primordî del sec. XV un genere di poesia che drammatizza, in modi semplici e schematici, un motivo lirico, con riferimento a personaggi storici o leggendarî, del ciclo carolingio o del ciclo bretone, o rievocando vicende campali tra mori e cristiani (romances fronterizos) o chiudendosi nel puro lirismo. Composizioni frammentarie d'intonazione popolare, esse sono opera di poeti che possedevano una conoscenza della letteratura tradizionale, rivivendola con libertà di immaginazione nei motivi lirici culminanti e in note universalmente umane. È un filone letterario che da ora in poi scorrerà più o meno visibile nelle zone profonde della letteratura spagnola.
Periodo nazionale (1474-1560). - Medievalismo. - Sotto i Re cattolici (1474-1504), la cui opera conchiude il movimento politico e culturale iniziatosi con la Riconquista, la letteratura castigliana si fa veramente spagnola. L'unità monarchica coincide con l'egemonia del castigliano sui varî idiomi regionali, che passano allo stato dialettale. Tale unità è corroborata da una progressiva unificazione delle leggi, che s'ispirano, attraverso i commenti di Bartolo, ai precetti del diritto romano e del diritto canonico. L'universalità della legge, sostenuta dai letterati e legisti che sciamarono dalle università favorite dai Re cattolici, si oppone all'anarchia nobiliare e alle forme di autonomia municipale. Il nuovo ordine trasse alla luce della storia la classe borghese, disposta al livellamento e al rafforzamento dell'autorità cesarea; diede al "letterato" una funzione di disciplina e onori; favorì la diffusione della cultura diventata strumento di azione. La vita universitaria s'intensificò e si trasformò con maestri e professori chiamati dall'estero (Pietro Martire d'Anghiari e Lucio Marineo di Sicilia), i quali vi portarono metodi e idee, che costituirono il sustrato culturale del Rinascimento. È un fermento di vita, le cui notazioni sintetiche si possono riscontrare nella Crónica de los Reyes Católicos di Hernando del Pulgar. Uomini e cose, ma specialmente quando si affisa nei personaggi più significativi (Claros varones de Castilla), egli li ritrae entro una luce provvidenziale di cui gli avvenimenti sono l'espressione tangibile. Fra tante e molteplici influenze alle quali ha soggiaciuto la letteratura castigliana, fra tante varietà di temperamenti d'ingegni che via via le hanno dato il colore del tempo, ciò che ne costituisce sinora il carattere fondamentale è una certa decorosa serietà passionale, che giunge talvolta a cupezza d'immaginazione e che non le permette quasi mai il sorriso. L'arte spagnola, dominata da un soggettivismo assorbente, rimane alle linee essenziali di una ideazione o costruzione logica o si schematizza lasciandoci il desiderio della realtà oggettivamente colta e di un'esperienza umana più larga, più viva e profonda. La letteratura spagnola è quella, tra le letterature europee, che ha mantenuto più a lungo caratteri e tendenze, spiriti e forme della tradizione medievale, tenendone in vita elementi e motivi che altrimenti sarebbero andati perduti. Tuttavia essa li impronta della sua anima, per ridonarli, specialmente nel romanzo, ai loro paesi di origine. Nel suo fondo, l'Amadís de Gaula non è che l'amplificazione episodica di un romanzo francese che si svolgeva su motivi del Lancelot du Lac: l'innamoramento di Lancillotto e Ginevra si rispecchia nell'innamoramento di Amadigi e Oriana. Ma riportato nell'ambiente cortigiano spagnolo del sec. XV, il romanzo viene rimaneggiato e rifoggiato da Gálvez de Montalvo, che lo volge, sulla fine, elaborando il quarto libro, verso gl'ideali della monarchia assoluta. Pedro del Corral con la Crónica sarracina romantizza la vecchia Crónica del Moro Rasis e le dà una coloritura idealmente cavalleresca. I romanzi acutamente sentimentali di Rodríguez del Padrón (Estoria de los dos amadores), di Diego de San Pedro (Cárcel de Amor) e di Juan de Flores (Grimalte y Gradissa; Grisel y Mirabella) esasperano motivi amorosi medievali, francesi e boccacceschi, a tinte cupe, a violente contrapposizioni di passioni, con un intellettualismo che quasi sempre annulla ogni positiva determinazione psicologica. Nella stessa Arte de trobar di Juan del Encina, che pure risente gl'influssi del Rinascimento, è la tarda poetica trovadorica che domina, con le sue astratte norme retoriche e la finalità didascalica dell'arte. Tale si mantiene l'indirizzo dei maggiori poeti del tempo dei Re cattolici, sia nell'allegorismo col quale Juan de Padilla intende di farsi imitatore di Dante (Triunfos de los doze Apóstoles), sia nella grazia ingegnosa e canora con cui Ambrosio de Morales e Garcí Sánchez de Badajoz si adeguano alla poesia popolare di breve respiro. Il teatro medievale si chiude con la Celestina di Fernando de Rojas: una "acción en prosa", la tragedia di due innamorati; o meglio, poiché tutti gli attori precipitano a rovina, la tragedia dell'amore come impulso naturale che anela alla bellezza che lo diletta ed erra nei mezzi e crea sotto di sé l'abisso. Siamo sulla stessa linea dottrinale dall'arciprete de Hita; ed è un errore di prospettiva storica e scarsa conoscenza del Medioevo affermare che qui siamo a una nuova concezione della vita e dell'amore e a un preannunzio di un rinascimento pagano. L'opera è stata interpretata romanticamente come crisi della passione impetuosa e travolgente e languido abbandono agli allettamenti del senso. Al contrario; essa è imperniata sulla stessa concezione agostiniana dell'amore "pondus" della volontà, che immette nel reale, concezione che viene oggettivata in creature concretamente determinate e, con compiacimento estetico, messe in azione in un'atmosfera di realtà disincantata e triste. "Libro en mi opinión divino si encubriera más lo humano".
Umanesimo. - Gli aspetti medievali, che caratterizzano in arte la letteratura spagnola, non sono che la forma del suo umanesimo. Dal regno di Alfonso VII, coi traduttori toledani, da Alfonso il Savio, con i suoi molteplici volgarizzamenti in castigliano, l'umanesimo spagnolo è stato aperto a tutte le verità e a tutte le bellezze che può rivelare la scienza umana, da qualunque parte venga, da qualunque fede, purché ordinate e messe nella loro giusta luce entro la verità cristiana. Nel sec. XIV, attraverso la Catalogna in relazione diretta con la corte papale di Avignone, l'umanesimo spagnolo s'era aperto all'apprezzamento di autori come Livio, Seneca e Plutarco. Col marchese di Santillana la poesia è collocata al culmine del sapere, e questo sapere è ricercato, "più nella sostanza che nella forma", negli autori classici e negli scritti eruditi del Petrarca e del Boccaccio. I contatti di Juan II con gli umanisti italiani (Guiniforte Barsizza, Poggio Bracciolini, Pier Candido Decembrio) furono scarsi e indiretti. La corte napoletana di Alfonso V d'Aragona non fu un vivo centro di irradiazione classico-umanistica per la Spagna. Sotto i Re cattolici l'umanesimo, come studio delle lettere classiche, si propaga con un sentimento che è, più che entusiasmo estetico della forma verbale, ansia di comunione spirituale con i grandi spiriti dell'antichità e forma essa stessa di vita vissuta. Con ardore di propaganda, secondo il metodo del Valla, Antonio de Nebrija considera la filologia come somma di teologia, archeologia, pedagogia, storia e retorica (Introductiones latinae, 1481). Lo studio dell'espressione linguistica è riconosciuto fondamentale per la comprensione letteraria, ma si rigetta la servile imitazione dei ciceroniani; e la conoscenza dell'arte antica è considerata uno strumento di profonda conoscenza della natura, della storia e della vita contemporanea. Queste idee di Juan Luis Vives (De causis corruptarum artium e De arte dicendi) e di Sebastián Fox Morcillo (De imitatione, 1554), e in genere di tutti gli erasmisti spagnoli, caratterizzano lo spirito umanistico spagnolo nella prima metà del sec. XVI. Esso si preoccupò soprattutto, in vista del personalismo cristiano che essenzialmente lo informa, di mantenere stretto il contatto tra l'educazione letteraria e la realtà della vita sociale. Se si vuole pensare a qualcosa di affine alle tendenze predominanti nell'umanesimo spagnolo, bisogna ricorrere ai motivi di quel realismo cristiano che informa il rinascimento fiorentino del periodo di Lorenzo il Magnifico. Fu allora, singolarmente per opera del Ficino, un risorgere di spiriti platonico-agostiniani condizionati dal nuovo sentimento della bella forma classica. Antonio de Guevara, con una esemplificazione storica che è un cosciente adattamento allo spirito contemporaneo, additava nel Libro aureo de Marco Aurelio l'uomo che sa portare nella vita sociale l'equilibrio della ragione, dopo di averlo attuato nella sua vita interiore. Egli riconosceva nell'uomo la naturale capacità di una volontà indirizzata spontaneamente al bene (Menosprecio de corte y alabanza de la aldea). Fernán Pérez de Oliva esaltava l'uomo nella sua forza di creare e padroneggiare il proprio destino (De la dignidad del hombre). Questo umanesimo si volge con interesse ai proverbî, alle massime comuni e alla poesia popolare; la quale penetra nel Cancionero di Fernández de Constantina e nel Cancionero general di Hernando del Castillo (1511). Esso anima la Filosofía vulgar di Juan de Mal Lara e il Diálogo de la Lengua di Juan de Valdés. Il primo cerca nei refranes la saggezza pratica come spontaneità naturale; l'altro vi cerca la lingua storicamente condizionata e più aderente all'anima, e perciò da porsi a fondamento basilare della lingua comune. L'umanesimo spagnolo guarda con ammirazione alla vita di Roma e di Atene come a un'esistenza ideale; ma vuole ancora che sia rispettata nell'uomo la spontaneità di una natura nel suo principio divino animatore. Gli umanisti spagnoli, seguaci di Erasmo o imbevuti delle sue dottrine, attesero a un'energica affermazione del cristianesimo secondo lo spirito dei testi sacri, assicurandone anche filologicamente la lettera. La Políglota complutense (1507-20), che fissò il testo della Bibbia nelle redazioni greca, latina, ebraica, e caldea, fu promossa dal cardinal Cisneros, e parve allora un "milagro del mundo". Da questo particolare umanesimo uscì rinnovata anche la storiografia. Essa si appuntò sulla civiltà spagnola, nel quadro della civiltà di Roma, con Florián de Ocampo, Ambrosio de Morales e Juan Vaseo. Essa nobilitò, nell'universalità del latino, la realtà contemporanea, con Pietro Martire e Juan Ginés de Sepúlveda. Ma s'attenne al volgare coi cronisti cesarei; i quali inneggiano alle imprese di Carlo V (Alonso de Santa Cruz, Prudencio de Sandoval, Pedro Mejía), ne tratteggiano le guerre contro le Cumunidades e rievocano le sue spedizioni in Germania e nelle Fiandre (Luis de Ávila y Zúñiga). Modellandosi su Sallustio e Tacito, Diego Hurtado de Mendoza narra la ribellione dei moriscos di Granada contro Filippo II (Guerra de Granada). Ma la parte più viva e più animata di questa storiografia è la cronaca delle spedizioni dei condottieri in America: le Cartas di Hernán Cortés e le storie generali di González Fernández de Oviedo, di Francisco López de Gómara e di Bartolomé de las Casas. Di costui è la famosa e mal interpretata Brevísima relación de la destruyción de las Indias (1542); dove traspare con evidenza l'ideologia dell'umanesimo, che fa violenza ai fatti storici, per esaltare nei selvaggi d'America la vita spontanea di una natura dotata di qualità buone. In questo stesso periodo sono caratteristiche le sorti del teatro. Vi si trasforma, senza snaturarlo, il dramma religioso medievale dei misterios, dei juegos de escarnio e delle moralidades. Juan del Encina, che come poeta e teorico di poesia sta fra l'antico e il moderno, fra il dotto e il popolare, secolarizza il teatro con le sue egloghe drammatiche: un misto di comico realistico e di patetico infantile, avviandolo contemporaneamente verso il sacro e il profano. La trama distinta in atti (jornadas), il numero, i tipi e il decoro dei personaggi sono fissati dopo di lui da Bartolomé de Torres Naharro, con le comedias a noticias (fatti veri) e comedias a fantasía (immaginarie), sceneggiate su spunti drammatici elementari e senza intreccio. Maggior pregio lirico, in quadri di costume dialogati e in frammenti di storia sacra, si riscontra negli autos del portoghese Gil Vicente. Sorgono e si diffondono allora i cosiddetti autos viejos, tutti artisticamente mediocri, con un'umanità semplice, con un senso istintivo della vita, con l'anacronismo dei costumi in temi biblici e con passionalità rigida e a tipi fissi. Le traduzioni e gli adattamenti del teatro classico (l'Anfitrione di Plauto, tradotto dal Villalobos, l'Ecuba di Euripide e l'Elettra di Sofocle, rimaneggiate da Pérez de Oliva) non sfiorano neppure la vita di un teatro che si mantiene sul piano e sul tono popolare, e cerca il contenuto novellesco e la sorpresa, senza alcun tentativo di costruzione complessa. Lope de Rueda, che risente l'influsso dei novellieri italiani, perfeziona, più che la commedia, gl'intermezzi (pasos), e li materia di fresco e sano realismo di comicità dialogica, a briosi e vivaci contrasti popolari.
Italianismo (1525-60). - Il grande sforzo per innalzare a forme d'arte complessa la poesia lirica, che si era stremata in vacue sonorità e in aristocratiche combinazioni intellettuali, fu compiuto da Juan Boscán e da Garcilaso de la Vega. L'endecasillabo italiano, sia sciolto sia allacciato in varie combinazioni metriche e strofiche, entra risolutamente col Boscán nella letteratura spagnola. Garcilaso ne assicura il trionfo. Nelle forme del sonetto, della canzone e dell'egloga amorosa, con felice adattamento di atteggiamenti lirici oraziani (La flor de Gnido), Garcilaso fa del verso italiano l'espressione lucida e calzante di un animo fervido, malinconico e nostalgico, in un'ansia di cose amate e perdute. Il Boscán, traducendo (1534) con elegante fedeltà il Cortegiano del Castiglione, scoperse ai suoi connazionali l'ideale della vita aristocratica italiana e diede loro, insieme con le teorie dell'amore platonico e della bellezza ideale, il sentimento di un'umanità superiore, che nella sua saggezza e compostezza si ispirava agli antichi. L'endecasillabo italiano, che chiudeva in sé la luce di un pensiero e di un'arte adusati alle grazie dell'espressione formale, rese facile il trapasso di concetti dall'una all'altra lingua e fu il veicolo più efficace dell'italianismo sostanziale in Spagna. I motivi tradizionali della lirica amorosa furono così rinnovati ed elaborati con un senso più attento di ordine e di proporzione, di misura e di armonia. Gutierre de Cetina, Hernando de Acuña, Francisco de Figueroa, poeti di spiriti aristocratici e sognanti, rivissero nella nuova metrica i loro ricordi classici, che parvero acquistare maggiore limpidezza e grazia. Qualcuno ondeggiò tra il vecchio e il nuovo. Diego de Mendoza abbandonò la facile armonia del "verso corto" nelle epistole satiriche, dove rilucono pensieri e sentimenti di Orazio e Tibullo. Altri invece, come Cristóbal de Castillejo, Antonio de Villegas e anche, in parte, Gregorio Silvestre, si strinsero ai vieti moduli ritmici e ai bei nomi del passato, o per intento polemico o per insufficienza di preparazione. Fuori della lirica, una maggiore raffinatezza aristocratica nella concezione dell'arte e della vita, e un senso più pungente delle esigenze attuali della realtà contemporanea fecero abbandonare i libri di cavalleria, risorti con l'Amadís de Gaula e lasciati a narratori di mestiere. Questi perseguirono le imprese dei fantastici discendenti di Amadigi, crearono nuovi cicli (Palmerín de Oliva, 1511; Primaleón); approfondirono episodicamente il motivo fondamentale dell'amore eroico o lo stremarono, con Feliciano de Silva, in acutezze e concettosità verbali. Nel Palmerín de Inglaterra (1547-48) entrò anche la nota d'amore malinconica e sognante e si affacciò, tra gli sbandamenti dell'immaginazione, un senso più vivo della bellezza ideale e della realtà storica e geografica. Ma nel complesso i libri di cavalleria piacquero solo al volgo e ne furono un'amena lettura. Essi non trovarono mai buona accoglienza presso i maggiori umanisti. Juan Luis Vives, Juan de Valdés, Arias Montano li avversarono in nome dell'arte vera, che è bellezza essenzialmente dilettevole. L'idea di una Spagna che nel momento della sua più intensa vita politica è solo intenta a scrivere sognanti libri di cavalleria, risale all'illuminismo francese e alla visione unilaterale, negativa e settaria che gli uomini dell'Enciclopedia si fecero della letteratura spagnola. In verità i libri di cavalleria col loro astratto individualismo furono sentiti come arte di sogno, fuori , dalle correnti vitali del pensiero e svincolati da quella realtà dove l'individuo esercita la sua iniziativa, assimilando e rielaborando i valori umani che gli sono offerti dal mondo della cultura e della storia. Fu allora che per opera di un autore ignoto si contrappose all'astratto ideale cavalleresco l'astratto ideale empirico di un povero affamato. Il Lazarillo de Tormes (1554) non è una satira sociale. Tale può sembrare alla critica filologica o storicista, che fa della poesia un documento di storia e mira più che all'individualità dell'opera ai caratteri generici del posteriore romanzo picaresco. Nel Lazarillo abbiamo la visione individualisticamente soggettiva e unilaterale del mondo, quando sia contemplato attraverso la fame e i bisogni naturali e istintivi del protagonista. Questi si affida al caso, come ogni cavaliere errante, e passa dall'uno all'altro padrone, affamato quanto lui e non meno di lui. Il realismo formale o espressivo del romanzo è contenuto nei limiti di una compostezza verbale, in cui traluce lo spirito dell'autore. Egli svela un mondo oscuro di egoismi inconsapevoli; ma li sente proprî della natura umana e ne sorride, riconoscendoli ancora di là dal bene e dal male.
Rinascimento (1560-1616). - Meno artista dello spirito italiano, che vivendo dalle sorgenti della propria storia era giunto alla pienezza del Rinascimento, lo spirito spagnolo, con le sue tendenze pratiche e individualistiche, accolse, adattò, trasformò ogni elemento del Rinascimento italiano e ne trasse accrescimento di vigore spontaneo e alimento di perfezione. La conquista del sentimento artistico fu inverata entro una tradizione storica e in un clima storico, che ne condizionarono l'esistenza. Essi permisero allo spirito spagnolo di svolgere la propria originalità letteraria, e lo preservarono dalla materiale imitazione. L'estetica che dominò nella Spagna del Rinascimento sino al Cervantes, e ancora dopo di lui, e che le assicurò, di fronte alle altre letterature europee, uno svolgimento autonomo di pensiero e d'arte, fu quella della tradizione platonico-agostiniana e scolastica, rinverdita ma non deformata dal trionfante platonismo. La poesia conservò quel carattere essenzialmente ontologico che le aveva riconosciuto il Medioevo. Nei mistici essa diventò impetuoso amore della bellezza suprema (Luis de Granada, Juan de los Ángeles, Alonso de Orozco, Malón de Chaide); nei grandi lirici (Luis de León), si fece spirituale gioia della divina armonia cosmica e si realizzò in forme classiche di trasparente bellezza espressiva. La Spagna rifuggì da ogni astratto precettismo che limitasse la spontaneità di natura, la realtà stessa dell'amore sentito come parola del Dio vivente e potenziamento della personalità umana (De imitatione, 1554, di Sebastián Fox Morcillo; Rhetorica, 1569, di Arias Montano). Così essa non si sentì straniata dal suo umanesimo medievale cristiano e dalla sua tradizione storica. Anzi vi si appoggiò per riconoscersi, la continuò, la studiò filologicamente (Ambrosio de Morales, Jerónimo Zurita); la rivisse e la proiettò sotto nuova luce nel teatro di Lope de Vega e Calderón. Quel carattere medievale e cavalleresco che il romanticismo tedesco scoperse e accentuò nella letteratura spagnola, non è che un aspetto particolare del suo umanesimo cristiano e del suo rinascimento.
Dal suo umanesimo, con originalità di concezione, la Spagna trasse il romanzo pastorale. Jorge di Montemayor, ispirandosi formalmente all'Arcadia del Sannazaro, ma nel contenuto filosofico attenendosi al lirismo di Auzías March e ai Diálogos de amor (1568) di Leone Ebreo, collocò in seno a una natura idillica il dramma dell'amore come spontaneo desiderio della bellezza che diletta, e lo trasformò in soave tenerezza che piange (Los siete libros de la Diana, 1559). L'opera ebbe risonanze europee e varie continuazioni in patria. Tra esse emerge la Diana enamorada di Gaspar Gil Polo, il cui intreccio episodico si modella sui romanzi bizantini e il cui motivo poetico, espresso musicalmente in versi di liquida sonorità, poggia su una ragione sovrana consolatrice, che giustifica l'irrazionalità dell'amore e lo placa in sé stesso. Il motivo sarà ripreso e svolto nella Galatea (1585) del Cervantes. Il platonismo aristocratico e galante, senza alcun valore speculativo, diventato col Cortegiano e gli Asolanos (1551) un tratto di società, informa il Pastor de Fílida (1582) di Luis Gálvez de Montalvo e prepara il romanzo pastorale dell'epoca d'oro. Quello che importa notare è che i moduli fantastici del romanzo bizantino sono già penetrati, come forma costruttiva e lineare, in un'arte narrativa che si era tenuta ancora con Juan de Segura alle Cartas de amores (1548) e ai modelli novellistici medievali. Si tenta insomma, già con Alonso Núñez de Reinoso (Amores de Clareo y Florisea, 1552), la costruzione del romanzo a fondamento psicologico come organismo che trovi in sé la sua giustificazione e il suo fine, e il cui principio costitutivo sia l'ispirazione e la forza potente e dominatrice dell'amore come principio essenziale di una natura creata da Dio e ordinata al bene.
Questo principio i grandi mistici l'avevano scoperto in sé, come creatori della propria vita. La poetica di S. Teresa de Jesús e di S. Juan de la Cruz non è che l'ardore stesso dell'amore, che muove la virtù dell'arte come uno strumento. Il misticismo attivo della santa e il volontarismo ascetico della sua esperienza sono fermati energicamente nella Vida, nel Castillo interior e nel Camino de Perfección e testimoniano la costituzione progressiva e il perfezionamento instancabile di una personalità, la quale opera nel mondo sentendo la sua vita proiettata nell'eterno. La prosa di S. Teresa, schietta e scarna, a movimenti di idee e a scatti di volontà, è quella di una creatura che s'interna nella propria anima, e opera in una sfera d'azione dove le relazioni con gli uomini e con le cose sono vissute nell'amore di Dio. È la santa dell'azione e la sua volontà è solo di conquista. Di ardore puramente contemplativo, che risolve la dottrina in fulgore di immagini balenanti, è invece il lirismo di Juan de la Cruz, tutto rapimenti, estasi e miracoli. Le sue Canciones spirituales, dove l'ardore illuminante si sprofonda nella notte oscura dell'anima, salgono ad altezze spirituali che trascendono il linguaggio dell'esperienza comune. Gli atteggiamenti biblici, assunti dal Cantico dei Cantici, diventano la lirica di un'anima, della quale è necessario penetrare la vita intima, per ascoltarne con commozione la musica interiore e il canto. La trascendenza della "saggezza segreta" e sacra della contemplazione infusa, costituisce l'elemento dottrinale del suo misticismo. Questo si snoda in forme immaginifiche e rutilanti e si raccoglie sul congiungimento di due estremi (todo y nada): l'annichilimento umano come condizione della sovrabbondanza divina e la morte del senso come condizione della vita suprema (Subida del Carmelo). Attraverso alla notte passiva dello spirito, nell'atmosfera del sovrumano, una luce divinamente pura traversa l'anima e l'assorbe nella sua oscurità assoluta. È l'amore che la trasforma, facendola atta a penetrare tutte le cose e perfino le profondità di Dio (Noche escura del alma). Nella lirica d'arte il Rinascimento spagnolo ha i suoi tipici rappresentanti in Luis de León e in Fernando de Herrera. Agostiniano il primo, crea il tipo della prosa poetica, modellandolo sui dialoghi di Platone, che Luis Vives considerava pura poesia. Il contenuto de Los nombres de Cristo è platonico-agostiniano e verte sulla vera felicità che può conseguire ogni anima devota al bene. L'opera, che non è stata ancora intesa nel suo vero significato ontologico, va ricondotta alle forme della conoscenza metafisica. I nomi di Cristo sono similitudini: e si riferiscono allo stesso costitutivo dell'essenza divina che si comunica come partecipazione all'intelletto creato; il quale la comprende, non in sé stessa, ma in virtù della propria essenza, creata, senza nulla detrarre a ciò che ancora la trascende. Prosa poetica sono ancora La perfecta casada, che si collega con il De institutione feminae christianae del Vives, e la Exposición del libro de Job; ma altissime poesie sono quelle poche liriche originali che Luis de León ha lasciate, come perfezione di un'arte che si è assimilata la forma classica di Orazio e di Virgilio. Dentro vi palpita un amore che contempla il mondo con spirito di carità e lo riconosce armonizzato da un ordine supremo (A Salinas, La noche serena, A Felipe Ruiz, ecc.), il cui ritmo è dal poeta sentito vibrante nel proprio cuore. È un'arte che assimila ogni contenuto morale, venga esso da Orazio o dal Petrarca o dalla Bibbia. Nella trasparenza di una forma perfetta quest'arte è in Francisco de la Torre la conquista di un poeta che supera il petrarchismo e s'adegua all'espressione classica con un contenuto personale di sensibilità e di grazia. Tale equilibrio di contenuto e di forma comincia già a mancare nell'Herrera. Su un impeto di ispirazione venata di malinconia, e il cui aspetto religioso è il desiderio di una bellezza che in sé sussista, sormontano nella sua lirica gli elementi dottrinali e decorativi. A torto si vuol fare dell'Herrera un platonico che tenta in estetica una conciliazione con le teorie aristoteliche. Senza dubbio il suo linguaggio caldo e immaginoso si presta male a cavarne note di chiaro valore speculativo; ma la bellezza alla quale egli pensa non è affatto un tipo ideale e immutabile che l'uomo scopre per visione delle idee. Per lui la bellezza è lo splendore profondo di un'anima che trasparisce in un corpo leggiadro: di un'anima che è principio di vita e di forza animatrice. E questa è la "forma" che resta impressa nella memoria e accende il desiderio e trasforma l'amato nell'amante. Il petrarchismo dell'Herrera è del tutto esteriore e accidentale. Esso non tocca l'entusiasmo estetico di un poeta, che sa talvolta riassorbire in sé elementi classici oraziani ed elementi biblici in una forma di eloquenza grandiosa e sonora (A Juan de Austria). L'Herrera fissa un linguaggio poetico nobile e passionale, lontano dalla prosa, sotteso in costruzioni logiche e ricco di elementi intellettuali, per "procurar con el entendimiento modos nuevos y llenos de hermosura". La sua poetica è nelle Anotaciones a las obras de Garcilaso, e lì già si intravedono gli svolgimenti della lirica del secolo d'oro. Attorno a questi tipici rappresentanti del Rinascimento spagnolo s'aduna la schiera dei lirici, che rielaborano motivi platonico-agostiniani in forme oraziane di metrica e d'arte (Francisco de Figueroa, Francisco de Medrano, Baltasar del Alcázar), ora con immediata felicità espressiva di agili strofe a quinarî e a settenarî (Jerónimo Bermúdez), ora con sottile lavoro di incisione e di ricerca formale (Juan de Arguijo, Pablo de Céspedes, Francisco Pacheco).
RANDE LETT-S 32esimo 58
Fuori del lirismo, che fu ansia d'interiorità, e dove la Spagna ebbe poeti di valore universale, l'arte si rivela impacciata e incapace di sostenersi secondo una norma intrinseca che si armonizzi con una salda quadratura intellettuale costruttiva. L'italianismo, che nella poesia narrativa fu l'abbandono dell'ottava di "arte mayor", non diede che pallidi fiori. Las lágrimas de Angélica de Luis Barahona de Soto si disperdono in motivi episodici di carattere lirico e decorativo. Nel poema epico l'interesse della storia attuale era così vivo, che di rado esso riuscì a risolversi in materia di poesia e a comporsi organicamente in un lucido ordine. Luis Zapata nel Carlo famoso non fa che cronaca rimata, dove gli elementi fantastici s'intrudono di contrabbando, in contrasto con la serietà intenzionale del poema. Juan Rufo nell'Austriada fonda su motivazioni romanzesche, con l'intervento del meraviglioso diabolico, l'esaltazione di Giovanni d'Austria, il vincitore di Lepanto. Alonso de Ercilla ne La Araucana espone cronisticamente la ribellione dei Chileni e la vittoria degli Spagnoli. Il motivo artistico che avrebbe dovuto dare unità di tono e di ispirazione al poema, è il sentimento della potenza spagnola, il cui destino è quello di portare la civiltà nel Nuovo Mondo. Il poeta però si smarrisce in visioni episodiche retrospettive, che s'inseriscono nel tema violentemente. A motivi religiosi leggendarî s'ispira Cristóbal de Virués nel poema El Monserrate; ma li trae a notazioni autobiografiche di carattere pratico e prosaico. Dovunque, in quest'arte spagnola che tenta le costruzioni complesse, si avverte il difetto che costituì il problema estetico fondamentale del Cervantes: il bisogno di un'ordinata composizione e di un'armonica proporzione di parti entro la luce di una bellezza in sé dilettevole, tale da essere lo splendore sensibile di un'idea. Non è il classicismo di una regolamentazione astratta quello che preoccupa i poeti spagnoli; ma l'effusione spontanea del sentimento, espressione storicamente condizionata di una determinata individualità di poeta. È la teoria che, singolarmente per il teatro (Ejemplar poético, 1606), espone Juan de la Cueva. Non ci si lasci ingannare dalla terminologia che sembra quella della Poetica di Aristotele o dell'Epistola ai Pisoni di Orazio. Il verosimile al quale si mira nell'arte non è l'universale astratto, quello dei concetti geometricamente definiti, ma lo splendore di una forma nel suo significato metafisico: la trasparenza di un principio intelligibile in una materia proporzionata armonicamente. È l'unità nell'individuale. Tuttavia la produzione teatrale di Juan de la Cueva ondeggia tra l'intreccio avventuroso novellesco, a note schematiche, e la frammentaria successione di temi o d'argomento classico o d'argomento epico nazionale, senza mai trovare un'unità ideale. A loro volta Cristóbal de Virués e Lupercio Leonardo de Argensola mirano esclusivamente al sentimento e cercano gli effetti moltiplicando le morti sulla scena. Nella prosa narrativa, fuori dai moduli del romanzo pastorale, si ha la novella a colorito storico (El Abencerraje y la hermosa Jarifa) e il romanzo a successione episodica, le Guerras civiles de Granada di Ginés Pérez de Hita, che sono un misto di fantasia e di poesia popolare. Il racconto di tipo italiano, più a sorpresa di casi e di facezie che a precisa determinazione di caratteri, s'affaccia largamente nelle raccolte novellistiche di Juan de Timoneda.
L'opposizione di natura e arte, come l'intendevano le estetiche del tempo (tra la poesia, che è sentimento chiuso nella sua soggettività, e l'arte, che è l'ideazione spirituale e l'attuazione pratica, fantastica), si acuirà nel secolo d'oro. Da una parte, nel teatro, si affermeranno i diritti del sentimento e della passione; dall'altra, nella lirica e nell'oratoria, si andrà verso l'artificio della forma culta e le acutezze dell'intelletto. Questa opposizione s'inserisce come motivo d'arte nell'opera di Miguel Cervantes de Saavedra (1547-1616). Per la sua vita, per la sua educazione letteraria e per il suo ideale d'arte, il Cervantes chiude il Rinascimento. La sua produzione che si moltiplica e si assomma negli anni ultimi della sua vita, è già in ritardo rispetto agli svolgimenti critici dell'arte contemporanea. La sua estetica, quando ormai trionfavano i commenti alla Poetica di Aristotele, s'informa a quella tradizionale, platonico-agostiniana e scolastica, di cui sono tracce evidentissime nella Filosofía antigua poética (1596) di Alonso López Pinciano. Ma egli l'ha rivissuta, meditata e disciplinata, personalmente, dandocene una esposizione sintetica in forma figurativa nel Viage del Parnaso (1614). Contro l'universale astratto degli aristotelici il Cervantes oppose l'universale immanente in ogni cuore. La poesia è natura, sentimento che aspira alla bellezza che essenzialmènte diletta; bellezza che l'artista realizza fantasticamente, subordinando al fine particolare dell'opera da farsi la pienezza di un amore che si sente infinito. Nell'immanente razionalità dell'amore l'artista crea, attingendo al tesoro delle immagini sensibili dell'universo, che è tutto impregnato d'intelligibile e perciò un vestigio della bellezza suprema. La Galatea (1585), che è il primo romanzo del Cervantes, è nella linea della pastorale di Gil Polo. Ma accanto alla rappresentazione poetica dell'amore, impulso di natura, il Cervantes pone, in antitesi tra loro, in discussioni che si svolgono tra pastori, l'amore platonico, che è aspirazione alla bellezza ideale, e l'amore concreto cristiano, che cerca la bellezza come proprio bene e, realizzandosi, si riconosce nella sua essenza infinita. L'opera è scritta per esaltare la lingua nazionale. Inserirsi nell'attualità della vita reale contemporanea fu lo sforzo costante del Cervantes. Autore di teatro, trattò temi che esaltassero il sentimento patrio (Numancia) e l'ardore della fede (El trato de Argel, Los baños de Argel) con una esemplificazione dei tormenti sofferti dai cristiani prigionieri in Algeri, tale da suscitare il desiderio di una santa crociata contro i musulmani. Il suo teatro (Ocho comedias) doveva essere la rappresentazione di un mondo umano razionale, fuori dalle passioni istintive, armonizzato in sé e dominato da un'idea che fosse lo splendore sensibile del vero. I suoi Entremeses sono il comico dell'irrazionale, che è frammentario, istintivo, legato alla piccola personalità empirica. Ma dinnanzi ai trionfi di Lope de Vega, il Cervantes si ritrasse dal teatro e meditò il romanzo. Il Quijote è una poetica dell'arte e una poetica della vita. Nella prima parte è "il poema dell'universo", dove operano, senza conoscersi tra loro, l'amore irrazionale del bene onesto (don Chisciotte), l'amore irrazionale del bene utile (Sancio) e l'amore del bene dilettevole (le coppie innamorate). Ogni amore insegue la bellezza che lo diletta, e si chiude nel proprio sogno, cioè nella propria intima poesia, che è dolce e cara illusione. Don Chisciotte è un'anima che si storicizza nelle forme sentimentali del romanzo cavalleresco. Sancio è un'altra anima che si storicizza nelle forme istintive del romanzo naturalistico o picaresco. Nella seconda parte si presenta la gloria che don Chisciotte ha raggiunto operando nell'universalità reale della storia, cioè il ridicolo che avvolge le sue imprese cavalleresche. Nessuno riesce a comprendere quale è l'anima animante dei suoi sogni. Con tutta la poesia che ferveva nel suo cuore, dove pur vibrano le aspirazioni poetiche del Rinascimento (ritorno all'età dell'oro e alla giustizia primitiva), don Chisciotte fallisce alla sua vita profonda, perché per realizzarla si è attenuto all'arte sbrigliata del sogno, quella dei libri di cavalleria, e l'ha voluta far propria arte. Così egli non è riuscito a obiettivare il proprio sentimento in quella composta e coerente armonia dell'onesto, che nel mondo della realtà umana, che è il mondo dell'arte, è intelligibile unità, cioè verità e bellezza. Sancio fallisce senza dolore. Egli ha dato forma spontanea al realismo istintivo della sua anima: lo stesso realismo che informa comicamente il Lazarillo de Tormes. Ma quello che importa è che tutti coloro che ridono di don Chisciotte e di Sancio non s'accorgono di ridere di sé stessi, perché ridono di quell'irrazionale che ha trovato il suo momento di oblioso abbandono nella poesia dei romanzi cavallereschi e nella poesia del romanzo picaresco. Essi ridono dell'irrazionale, che pure sta a fondamento essenziale del loro essere e del mondo della realtà universa. Essi non conoscono sé stessi, e non possono conoscere né Sancio né don Chisciotte. Su un motivo di discussione estetica, che interessava tutta l'arte contemporanea, il Cervantes crea un'opera di significato universale per il sorriso indulgente che la illumina in ogni parte. È il sorriso di un amore che crea e ama le sue creature: il sorriso di una ragione che in carità contempla, operanti nella realtà del mondo, l'ideale sentimentale del cavaliere e l'ideale empirico del suo scudiero. Le Novelas ejemplares non sono che mirabili frammenti del capolavoro, dove ancora risorge il tema dell'illusione sentimentale (Celoso extremeño) e dell'illusione empirica (Rinconete y Cortadillo). L'ultimo sforzo del Cervantes fu il poema dell'amore cristiano, Pérsiles y Sigismunda; ma la costruzione del romanzo poggia sui moduli del romanzo bizantino e non scaturisce, come nel Quijote, dalla ferma volontà dei protagonisti. La bellezza morale che il Cervantes voleva realizzare nella sua ultima opera, s'intravede indirettamente attraverso l'avventura perigliosa dei suoi eroi e le loro lunghe peregrinazioni in regioni barbare tra selvaggi e su mari glaciali.
Epoca d'oro (sec. XVII). - Lo sforzo del Rinascimento spagnolo di vivere nel reale l'ideale, nel riflesso lo spontaneo, e di realizzare in arte lo splendore di una forma, intesa nel suo significato metafisico, cessa totalmente nel Seicento. L'intellettualismo virtuoso si straniò dalle esigenze della storia attuale e lavorò spesso su forme vuote. L'eredità dell'Herrera si franse nello studio di atteggiamenti formali e si perse o nell'erudizione puntuale (cultismo o culteranesimo), o nell'astrazione e nelle lambiccature di concetti (concettismo), oppure nel lucente frammentarismo di un'espressione musicale e sensuale (gongorismo). La parte piú viva e più originale della letteratura spagnola fu allora il teatro di Lope de Vega, di Tirso e di Calderón. L'indifferenza rispetto al contenuto è già nelle imitazioni o amplificazioni o deformazioni del Lazarillo de Tormes: il costituirsi del romanzo picaresco come genere letterario. Uno spirito nuovo, ugualitario, negatore di gerarchie, si generalizza entro una società che si disgrega materialmente sotto l'ordine apparente di uno stato e di una chiesa fortemente stabiliti, intimamente legati, ma lontani l'una e l'altra dai bisogni urgenti della vita individuale e della realtà quotidiana. La sostanza etica del Lazarillo si perde in astratte digressioni morali nel Guzmán de Alfarache (1599, 1605) di Mateo Alemán. La compostezza lineare della narrazione svanisce nella serie delle avventure burlesche, su per giù come il contenuto serio e meditativo del Quijote si è risolto nelle trivialità volgari della continuazione dell'Avellaneda. Al pícaro si aggiunge, con lusso ingegnoso d'immaginazione, La pícara Justina (1605) di Francisco López de Úbeda. Il romanzo autobiografico si frange in relazioni romanzesche di letteratura bizantina nel Marcos de Obregón (1618) di Vicente Espinel; acquista intenti di realismo satirico e amaro nel Buscón (1626) di Quevedo; ma degenera nell'interesse documentario ne La desordenada codicia de los bienes (1619) di Carlos García, e nell'artificio di una confessione redentrice nel chiostro, in El Donado hablador (1624-26) di Jerónimo de Alcalá. Solo nell'adespoto Estebanillo González (1646) il picaresco delle strade errabonde riaffiora come comico frammentario e monotono, senza il sostegno invisibile di una concezione erma e riflessa della vita.
Cultismo e concettismo. - Il cultismo fu l'aspetto formale dell'erudizione d'ogni singolo poeta; aspetto più o meno stridente nel complesso della sua opera, secondo l'innata potenza di assimilazione fantastica o il pigro adattamento alle esigenze dottrinali del tempo. Las flores de poetas ilustres de España (1605), che adunò Pedro de Espinosa, documentano il cultismo già in embrione nei poeti herreriani. L'estetica dell'Herrera poneva a fondamento della poesia "todo lo que cae en sentimiento humano", e la poesia la voleva "abundantisima y exuberante, y rica en todo, libre de su derecho o iurisdicción, sola, sin sujeción alguna". L'amore è perciò l'universale immanente che s'individua a mano a mano che si svolge e si approfondisce la personalità del poeta, al quale l'universo sensibile si fa sempre più trasparente nelle sue forme o idee di bellezza. La lingua che aderisce alla sua anima è in progresso continuo in quanto è conoscenza realizzata. I continuatori dell'Herrera si fermarono alla conoscenza astratta e puramente intellettuale. Arricchire la lingua castigliana con un contenuto di dottrina, riplasmarla sul latino, nobilitarla con forme classicheggianti sono idee correnti (Del origen y principio de la lengua castellanau di Bernardo Alderete, 1606); ma le rese attuali il preziosismo ambizioso, entrato nella società come forma di discrezione o distinzione forbita. Luis de Góngora y Argote (1561-1627) è più che altro l'artista del cultismo; perché nel cultismo trova espressione il frammentarismo estetico di un'anima poetica amante di colori e di toni sensuali, vaga di musicalità e costretta a sostenere la propria ispirazione con ingegnose combinazioni intellettuali. Con qualunque estetica si voglia giudicare l'arte del Góngora, non esclusa l'estetica del preziosismo parnassiano che l'ha riscoperta e valorizzata, quello che la caratterizza è un intellettualismo puntuale e lucente, il quale subentra là dove il sentimento vien meno, appigliandosi alla parola e riducendola a puro suono. Il latinismo violento, che sottrae la parola alla concretezza dell'uso comune, è un aspetto appariscente di questo cerebralismo estetico che l'arte moderna non ignora. Abile nell'elevare a motivi di grazia, maliziosa e festosa, romances e letrillas, eloquente e canoro nell'impeto iniziale dei sonetti, caldo e abbandonato nelle opulenze descrittive del Polifemo, il Góngora è involuto, sintatticamente teso e fondamentalmente disgregato nella costruzione delle Soledades. Tuttavia nessuno dei numerosi poeti che lo imitarono (il Villamediana, Francisco de Trillo y Figueroa) riuscì a pareggiarlo. Il cultismo, che pure era dell'epoca, fu avversato in Góngora, teoricamente, come esteriore norma d'arte, da Juan Martínez de Jáuregui (Discurso poético, 1623), il felice traduttore dell'Aminta. E le sue notazioni sono un modello di quella critica che però egli non sapeva realizzare nell'attualità viva dell'arte. Il cultismo fu ancora avversato dall'ellenista Pedro de Valencia educato alla scuola del grande umanista Benito Arias Montano; ma tuttavia fu riconosciuto come necessità d'arte, cioè di elaborazione intellettuale, da Diego de Saavedra Fajardo nella sua Repitblica literaria, opera disordinata ma ricca di motivi critici felici. Il Saavedra Fajardo è l'uomo dell'equilibrio, che in tutte le questioni di estetica assume un atteggiamento temperato e un eclettismo elegante. Egli può passeggiare serenamente nella sua città letteraria fornita di torri e di baluardi, penetrare nella Dogana dei libri o assistere alle ribellioni dei poeti contro lo Scaligero. Egli si sente fuori della lotta e, con un certo spirito scettico, nota vizî e virtù, giungendo però talvolta al sofisma e all'obiezione puerile. L'arte come virtù intellettuale che prescinde dal sentimento, è un po' la mania del secolo che ha intellettualizzato la scolastica, come ha intellettualizzato la concretezza morale del cristianesimo. Il cultismo fu naturalmente esaltato da eruditi come José Pellicer; ma se ne salvarono i lirici che possedevano un contenuto personale di serietà e di moralità e che in modi oraziani, quali le satire e le epistole dei fratelli Argensola, o con la grazia anacreontea che brilla nelle odicine di Manuel de Villegas, espressero un sentimento religioso della vita o il dolore della bellezza caduca o la dolente poesia delle rovine. Sono i continuatori della buona poesia del Rinascimento, Rodrigo Caro, Francisco de Rioja, il principe de Esquilache e l'anonimo autore dell'Epístola moral a Fabio.
L'uomo che dà la misura del suo secolo, nella vita torbida, agitata e formalistica della corte, è Francisco de Quevedo y Villegas (1580-1645). A volte concettista, disprezzando il concettismo, a volte cultista, negando l'erudizione polverosa, facile a passare dal grazioso al sentenzioso, dall'ideale al reale, con ricchezza di contrasti e con una fantasia cinicamente pessimista, Quevedo è sempre uguale a sé stesso nella forza demolitrice della satira, nell'uso dell'ironia, della parodia e del sarcasmo. La sua cultura è vasta più in estensione che in profondità, e va dalle lingue classiche alle semitiche e alle lingue moderne. "Magnum decus Hispanorum" lo chiama Giusto Lipsio, col quale egli è in corrispondenza. Il suo temperato stoicismo, che ha qualcosa di letterario e di dilettantesco (La cuna y la sepultura; El Bruto), s'intreccia con motivi epicurei e gli permette di studiarsi e di osservare il mondo contemporaneo e la politica del suo tempo con critica acuta e amara (La política de Dios, gobierno de Cristo y tiranía de Satanás). Il Quevedo indulge alle forme paradossali che infrangono le idee fatte e le posizioni sistematiche, in cui si fortificava l'inguantato cinismo del suo tempo; di qui, nella sua produzione sparsa e slegata, l'osservazione del particolare e la riflessione momentanea dei fatti singoli, lumeggiati nei limiti di una massima concettosa. Non è fondamentalmente uno scettico; non continua la tradizione del Quod nihil scitur (1581) di Francisco Sánchez. Quevedo è uno spirito dinamico che non rinunzia all'azione e sa resistere dignitosamente alle avversità. È critico sulla linea lucianesca dei primi erasmisti spagnoli, Juan de Valdés e Cristóbal de Villalón; ma con maggiore vivacità e asprezza distruttiva. In un tempa in cui l'acutezza dell'ingegno è norma d'arte e i veri scrittori sono rari, egli possiede eccezionali virtù stilistiche, sicurezza nervosa di incisione, robustezza di costruzione, rapidità di scorci, entro il barbaglio di una fantasia estrosa e travolgente. Nella finzione satirica dei Sueños l'intento morale è più negativo che costruttivo: irrisione gioiosa di tutte le vuote forme sociali di vita e di costume, di tratti cortigiani e di affettazione culturale, con quella malizia mordace che ha la sua più compiuta espressione nel Buscón. Il Quevedo non ama lo scandalo e vuole la repressione del vizio; ma più che rappresentare concretamente tipi e figure e sulla loro meschinità morale riversare l'impeto di una risata fragorosa, egli preferisce attenersi alle forme dell'ironia che punge e tormenta e non uccide. Egli mostra la prontezza e la duttilità dell'intelligenza umana che aderisce inconsapevolmente a tutte le tendenze irrazionali e le giustifica tutte (El sueño de las calaveras; El mundo por de dentro); ma egli stesso le giustifica come necessità di natura sulle quali vede fondata la società contemporanea (La hora de todos y la Fortuna con seso). In fondo è un osservatore scettico. Sotto la penna del Quevedo il romanzo picaresco si trasforma. Il Quevedo non s'arretra dinnanzi alle realtà più ripugnanti. Egli rappresenta vivacemente i tipi più grotteschi, soprattutto quelli che di là da ogní moralità assumono a norma di vita la legge dell'istinto e ignorano ogni pudore umano. Nel Buscón l'arte ha precisione tecnica di realismo verbale; è stringente nei particolari; incide a nere chiazze d'acquaforte; ma non ha costruzione autonoma e si riduce a quadri entro lo schema narrativo del romanzo picaresco. Nelle sue poesie il Quevedo, che fu fecondo compositore, non supera, pur nella varietà di toni e di metri, le tendenze particolari del suo spirito. Egli giunge all'eloquenza, all'indignazione e al sarcasmo, ma s'appoggia a schemi lirici di imitazione classica, italiana o francese o agli schemi popolari dei romances. Il preziosismo concettuale non è che un aspetto dell'intellettualismo entrato nella filosofia, o nella morale e nelle estetiche dominanti di Juan Díaz Rengifo (1592), di Luis Alfonso de Carvallo (1602), dell'aristotelico Francisco Cascales (1617), di Antonio González de Salas (1633). È tutto un lavorio di sistemazione formale. Esso si limita allo studio superficiale ed empirico dei fatti letterarî, che sono disciplinati secondo norme esterne, con un precettismo astratto caratterizzato dall'assenza totale di un serio pensiero filosofico. Il teorico del concettismo fu Baltasar Gracián (1601-1658). Nel suo famoso Oráculo manual y arte de prudencia abbiamo l'uomo che si confessa nelle confessioni del tempo, e che trova le massime sotto il controllo dell'esperienza sua e del mondo che lo attornia. El heroe (1637) è l'ideale del principe, ma anche dell'uomo superiore: un ingenio, una natura intellettuale e volitiva, cosciente e attiva; egli è il saggio (El discreto, 1646) che si guida secondo norme lucidamente fissate. Esse generalizzano ogni esperienza empirica, svuotandola del suo contenuto sentimentale. Nelle sue massime il Gracián è acuto e incisivo; elimina tutto ciò che è fantasia d'artista e alone di sentimento; critica tutto ciò che ha forme e parvenze d'irrazionalità; contrappone l'istinto alla ragione conoscitiva, ma per negare l'istinto (El criticón); fissa tipi e leggi con sottile esame di concetti (Agudeza y arte de ingenio, 1648). Qui troviamo veramente il codice dell'intellettualismo poetico; poiché l'acutezza concettuale è per il Gracián l'unica fonte del godimento estetico, in quanto che essa risolve in sé tutte le. perfezioni e le bellezze dello stile. Che cosa realmente sia, egli non sa definirla se non come una corruscazione dell'intelligenza che intravvede, come in un lampo, opposizioni e corrispondenze di idee, somiglianze e dissomiglianze, paradossi ed esagerazioni, tutte le sottigliezze di un pensiero che si cela e si rivela pronto, rapido, folgorante. Questo formalismo precettista si stremò, nella letteratura religiosa da pulpito, in "conceptos predicables" e portò alla degenerazione di un'arte fuori della poesia, ossia fuori dal sentimento che la sostiene. La poesia narrativa, per il suo assunto epico legato ai fatti, o per il suo contenuto religioso stretto alle cose, non ne fu tocca; ma si tenne nell'aurea mediocrità, con Las lagrimas de San Pedre di Rodríguez Fernández de Ribera, con La Cristiada di Diego de Hojeda, con La Creación di Alonso de Acevedo, con La Restauración de España di Luis de Ulloa. Né molto s'innalzano La Mosquea di José de Villaviciosa e il prolisso poema ariostesco di Bernardo de Valbuena, El Bernardo.
Il teatro del Seicento. - Contro l'intellettualismo nell'arte (cultismo e concettismo), che è negazione dell'arte e imposizione di forme estrinseche all'attività creatrice, sta la produzione teatrale. Qui la letteratura spagnola giunge al massimo della sua originalità, fuori dagli schemi classicheggianti. Il materiale fantastico (le combinazioni inventive, le associazioni di casi e di avventure, il patetico delle situazioni tragiche) si era enormemente arricchito durante il Rinascimento. Allora si erano divulgati il Decamierone, le novelle del Bandello (1589), del Giraldi (1590), dello Straparola (1583) e i rimaneggiamenti francesi (Histoires tragiques) del Boystuau, Belleforest e Tesserant (1586). Su questi elementi fittizî si tenta di assurgere a una generalità più vasta, con la pittura fantastica di costumi, nelle opere di Ginés Pérez de Hita, di Alonso Jerónimo de Salas Barbadillo e di Alonso de Castillo y Solórzano. Tutti questi elementi, trasformati da una fantasia potente, confluiscono nel teatro di Félix Lope de Vega Carpio (1562-1635). Con l'impeto del suo lirismo, che il Cervantes e, dopo di lui, Diego de Saavedra Fajardo definirono scolasticamente naturaleza o pure poesia immediatamente passionale e istintiva e non ancora diritta determinazione delle opere da farsi (recta ratio factibilium), Lope fece vibrare sulla scena, in tutte le forme poetiche, tutte le corde della passione umana. Egli fuse il religioso e il profano, l'antico e il moderno, il popolare e l'erudito, il reale e il fantastico, lo storico e il novellesco. Tutti gli elementi storici e ideali della tradizione nazionale spagnola, che il Mariana nelle sue Historiae de rebus Hispaniae rivive e drammatizza sullo stile di Livio o di Tacito, passano nel teatro di Lope come in quello di Calderón. La luce che illumina questa produzione drammatica è quella dell'ideologia del tempo. Essa poggia sul concetto di una giustizia immanente, legge universale di natura, superiore alle singole volontà umane e inscritta in ogni cuore; ideologia che si era potenziata nel Rinascimento ed era stata elaborata da teologi e giuristi, quali il Suárez (1548-1617), il Vitoria e i suoi discepoli. Il Lope è artisticamente fuori dello spirito che animò il Rinascimento; anche se apprezza i grandi maestri del passato, Garcilaso, Luis de León, Herrera; anche se conosce direttamente il Petrarca, l'Ariosto e il Tasso; anche se legge Plauto e Terenzio e non ignora la Poetica di Aristotele nei commenti italiani (Arte nuevo de hacer comedias). Nel teatro la posizione estetica di Lope è perfettamente identica a quella di tutti gli altri suoi contemporanei che teorizzavano di arte. Come il Cervantes egli è ribelle a tutti gl'imperativi di convenzione imposti dal difuori alla libera attività creatrice. Egli accetta le regole sol quando siano allo stato vitale e spirituale, cioè virtù o abito spontaneo di espressione. Egli crede di dover utilizzare le condizioni di una tradizione teatrale già storicamente formata e farsene scala per dar vita alle proprie creazioni originali. Lope non si vergognava di apparire un "barbaro" e di "lasciarsi trascinare dalla corrente popolare là dove lo chiamavano ignorante e l'Italia e la Francia". Solo che la bellezza dell'opera d'arte non si identificava più, come per il Cervantes, con la bellezza morale. Il segreto della sua ispirazione il Lope non lo ripete più da Dio. È sforzo individuale dell'artista. Il suo clima storico e la visuale con la quale contempla il Medioevo, sono quelli dell'assolutismo monarchico: autorità regia assoluta, ma non tirannica, come il Mariana chiariva con eccessiva evidenza nel De rege. Lope non ha l'entusiasmo morale ed estetico del Cervantes. Nell'Arcadia (1598) egli continua da letterato il sentimentalismo della tarda pastorale, svariandolo di erudizione ingombrante. Nel Peregrino en su patria (1604) crea motivi lirici e acuisce i contrasti sentimentali con gli artifici del romanzo bizantino. Nei Pastores de Belén (1612) introduce un didascalismo teologico che snatura l'ambiente, ma che lascia trasparire episodicamente una sensibilità tenera e semplice, intonata a forme popolari (villancicos e seguidillas) e adeguata metricamente a particolari stati emotivi. Lope ha l'intuito delle situazioni drammatiche; e anche quando espone il contenuto passionale delle sue esperienze d'amore, nelle egloghe a Claudio, ad Amarilli, a Filli o nei romances e letrillas, lo contempla obiettivato in contrasti. Nella poesia narrativa il genio di Lope si prodiga e si sperpera con voluttuosa fecondità ovidiana; ma non si raccoglie mai su un centro vitale. Il suo interesse è volto ora all'intrigo (La hermosura de Angélica), ora al contenuto storico e leggendario nazionale (La Jerusalem conquistada); oppure è asservito a intenti polemici (La Dragontea) o a fini religiosi (Corona trágica). Vi troviamo frammenti lirici o descrittivi, vivacità d'immaginazione plastica, ma, più che altro, un pieghevole abbandono alla dispersione episodica. L'interesse biografico e l'abilità nel dialogare l'azione si rivelano nella Dorotea (1632), che rispecchia una vita intera nei momenti nostalgici del ricordo lontano e della sorridente ironia. In contatto diretto col pubblico, di cui illumina gl'ideali morali e religiosi, sulle scene di un teatro un po' primitivo, ma stabile, il Lope dà forma compiuta e assicura il trionfo della comedia spagnola. Egli armonizza gli elementi tradizionali ancora cozzanti tra loro, e ne fa un organismo spontaneo, pieno di vita e in una forma che è determinata tutta dall'interno. Nei suoi drammi l'azione è tutto, secondo l'estetica del Cinquecento. È un dinamismo di volontà opposte e vibranti, dominate dalla passione. È vita che in una contemporaneità di comico e di tragico (il cosiddetto "orbe de la comedia"), esige l'azione e impegna nell'azione. La psicologia dei personaggi si riconoscc in atto, quasi all'improvviso, senza didascalie, senza sfumature, ferma nelle linee e decisa nelle intenzioni. Il lirismo di questo atteggiamento, teso nelle sue risoluzioni, è assecondato formalmente dall'alterna vicenda del ritmo e dei metri, e poggia su motivi passionali, semplici ed elementari. La ragione profonda di questi motivi è sempre l'ideale di una giustizia immanente in cui s'illuminano tutti i sentimenti particolari e individuali, dell'amore e dell'onore, della gloria e della potenza. Lope proietta nella storia medievale spagnola l'ideale contemporaneo dell'autorità cesarea. Egli romantizza le vecchie cronache con un equilibrato contemperamento di realisrno barbaro e di eroismo cavalleresco (El mejor alcalde, el Re y Peribáñez y el Comendador de Ocañia, Fuente Ovejuna; El alcalde de Zalamea). Il sentimento cavalleresco della dirittura morale, nel suo aspetto individuale e soggettivo, colora ogni espressione dell'amore e dell'avventura. Tenero senza mai morbidezze sentimentali, esso è principio di generosità e di gentilezza (El halcón de Federico; El castigo sin venganza; Porfiar hasta morir; El caballero Olmedo). Questo sentimento umanamente affettuoso e fidente Lope lo effonde anche nel dramma sacro. Esso trepida con risentita tenerezza nel più ingenuo realismo, perché il poeta lo domina intellettualmente, con sicura conoscenza del dogma e con profonda reverenza dinnanzi ai misteri della fede. Lope crea la caratteristica atmosfera passionale del teatro spagnolo. Dentro vi passano come ombre Francisco Tárrega, Gaspar Aguilar e anche Guillén de Castro. Questi si tenne sul tono popolare e con stile immaginoso, derivando dal Romancero, cercò piuttosto le notazioni passionali estreme e l'intrigo (Las mocedades del Cid; El conde Alarcos). Nettamente determinata si profila la figura di Tirso de Molina (1583-1648). Anch'egli prodigioso compositore come Lope, fu però, più di Lope, un creatore di caratteri a risonanze sentimentali profonde. Anch'egli romantizza la storia illuminandola con le idealità del presente (La prudencia en la mujer; Don Alvaro de Luna y Ruy López Dávalos); ma nel dramma della giustizia umana inserisce l'altro dramma della giustizia divina misericorde. La libertà del volere, per cui l'uomo con l'aiuto di Dio si crea il proprio glorioso destino, costituisce il sustrato dottrinale di ciò che è concreta realizzazione artistica nelle due commedie: El condenado por desconfiado e El burlador de Sevilla. Poeticamente valgono tutt'e due come chiara, positiva e coerente determinazione artistica di due caratteri che cedono alla spontaneità della loro natura, o fiacca (l'eremita Paolo) o egoista (don Juan). I critici delle fonti astratte si sono perduti alla ricerca delle origini letterarie di questi due mirabili drammi teologici, nei quali Tirso, con un sentimento personale della vita e del mondo, prende posto nelle polemiche che si erano dibattute tra domenicani e gesuiti intorno al problema della libertà umana. Tirso ci dà un bell'esempio di quell'arte "esemplare" la quale, secondo l'estetica del Cinquecento, doveva risolvere in immagine intelligibile ogni elemento dottrinale e presentare soltanto un'azione. In altre composizioni Tirso perseguì con sorriso bonario le bizzarrie, le deviazioni e le debolezze dell'amore (El celoso prudente; Don Gil de las calzas verdes, ecc.), e creò un delizioso tipo di commedia umana che ondeggia tra le fantasie di Shakespeare e la piacevolezza maliziosa di Marivaux. Fuori dell'arte di Lope e di Tirso i soggetti grandiosi e tragici, entro un'atmosfera di storia e di leggenda, si impoveriscono sulla scena. Predomina l'intenzione didascalica in vista di un tipo corrente di dignità umana, semplice, elementare e buona. È il teatro che è venuto attuando Juan Ruiz de Alarcón (1581-1639), e che, quantunque ristretto a un numero limitato di temi, possiede geniale fattura e compostezza di stile, finezza ironica e sensibilità discreta. L'ideale del poeta, che nel tono drammatico fallisce, è l'onestà illuminata e serena. Questa si realizza, fuori dalla sua formulazione astratta, in rappresentazioni e notazioni di caratteri che la negano o la calpestano inconsciamente (La verdad sospechosa; Las paredes oyen; Mudarse por mejorarse; No hay mal que por bien no venga). È un tipo di teatro che non dà norme, ma rappresenta, che non critica, ma indulge, che non sale a concezioni elevate di pensiero, ma solo caratterizza. I suoi migliori rappresentanti sono Antonio Mira de Amescua e Luis Vélez de Guevara. Il romanzo picaresco, El diablo cojuelo (1641), che questi scrisse, è una satira sorridente del mondo contemporaneo entro una narrazione popolarmente fantastica. Esso dà anche il tono della sua arte. La drammatica spagnola, la cui produzione durante un cinquantennio è stata eccezionale, si stringe a poco a poco ai temi messi in voga con vigorosa originalità da Lope. Con aristocratica levatura essa elabora i caratteri umani e li oggettiva con più acuto studio del particolare concreto. Tuttavia scende alla mediocrità con Alonso Jerónimo de Salas Barbadillo, Alonso de Castillo y Solórzano, Diego Jiménez del Enciso, Luis Belmonte Bermúdez. Nei quadri di vita popolare, burleschi e festosi, con elementarità di tecnica frammentaria, Luis Quiñones de Benavente (morto nel 1652) trasforma in realismo pittoresco il realismo psicologico dei grandi classici, tra i quali va posto anche il Cervantes. Le sue composizioni non hanno mai una larga tessitura di eventi, e per lo più si risolvono in scene piccanti intorno a tipi di passione (Los cuatro galanes; El Borracho; El guardainfante, ecc.). Egli è l'ultimo artista della tradizione degli entremeses.
Il passaggio da Lope a Calderón, nel senso di una maggiore o minore accentuazione di motivi ideali e di concettose forme stilistiche diffuse nell'atmosfera del Seicento, si può notare in Juan Pérez de Montalban (1602-1638) e in Francisco de Rojas Zorrilla (1607-48). Nel primo, il comico festoso di situazione tende a farsi un motivo intellettuale, mentre la passione amorosa volge verso il melodramma e assume atteggiamenti tragici (Los amantes de Teruel; La puerta Macarena). Nel secondo, il comico acquista una propria autonomia e si fa grottesco (Donde hay agravios no hay celos; Entre bobos anda el juego). La concezione dell'assolutismo rigidamente legale si contrappone all'ideologia giuridica della tradizione più illuminata (Del rey abajo, ninguno). Abbiamo così uno stilizzarsi di motivi che, su fondo divenuto convenzionale, restano i presupposti dell'azione tragica. Questa s'irrigidisce, guadagnando in interiorità quello che perde di più commossa e vivace simpatia umana. In tale nuova atmosfera sboccia il teatro di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Trionfando dopo la morte di Lope de Vega, esso regnò incontrastato sulla scena fino al neoclassicismo del secolo seguente. Il mondo poetico di Calderón gravita sopra un'interpretazione metafisica della vita e del mondo. La realtà è considerata nel suo divenire (El gran teatro del mundo; El gran mercado del mundo) e i fatti umani, di là dalle loro apparenze contingenti, vengono costantemente ricondotti alla potenza di Dio, che traspare in essi e ne è principio e fine. I suoi Autos sacramentales, nelle forme intellettuali dell'allegoria e nelle numerose personificazioni simboliche che drammatizzano un contenuto astratto, non sono che la storia progressiva dell'umanità, a centro della quale sta la redenzione operata da Cristo (El veneno y la triaca; La devoción de la Misa; La vida es sueño, e gli autos de la Virgen). Di là dagli avvenimenti che si succedono apparentemente disordinati, il poeta scopre delle anime col mistero ontologico che si agita in esse; e dentro le anime, scopre la volontà di Dio come bontà e infinita giustizia. Calderón solleva l'auto medievale, in cui s'erano distinti Valdivielso, Lope, Tirso e Mira de Amescua, a una forma d'arte religiosa che esige, come nei misteri della liturgia, l'iniziazione spirituale contemplativa. Sorpassato il momento dell'alterità, il critico s'accorge che ciò che pareva effusione lirica, è invece movimento, azione e dramma: il dramma della volontà umana, dell'individuo o della società, entro la logica provvidenziale della storia. Calderón è stato romantizzato, quando della sua arte, su frasi isolate, si è fatto un documento storico dell'anima mistica spagnola, senza vedere quanto di attivo e di concreto c'è nello spirito che la informa. Calderón sente dovunque, sotto aspetti tragici, l'urgenza dell'azione. Egli considera frenetici sogni le piccole passioni umane, che dimenticano la rapida corsa del tempo e s'arrestano solo dinnanzi alla "notte fredda della morte" (La vida es sueño; La devoción de la Cruz; El mágico prodigioso; El príncipe constante). In Calderón il tema dell'onore si risolve nell'affermazione energica della giustizia, che non è sentimento individuale chiuso in sé stesso, ma naturale partecipazione dell'anima a un attributo di Dio. Lo stesso tema di Lope, El alcalde de Zalamea, snellito e accentuato nei contrasti, si interiorizza. Il vendicatore del proprio nome è il giustiziere a cui la stessa autorità del re s'inchina (Amar después de la muerte; El médico de su honra). È stato comodo a una critica empirica, incapace di rivivere il contenuto spirituale di un'arte religiosa, affermare che Calderón non sa tratteggiare caratteri, come se non fosse carattere la forza di una volontà autonoma, che diventa consapevole del fine a cui è naturalmente indirizzata e si conquista la sua libertà nella coscienza del dover essere del proprio essere. Tali sono infatti alcuni dei suoi personaggi più noti: il principe Sigismondo, Justina, Don Pedro Crespo, ecc. Il Calderón mirò nell'arte più al fine dell'uomo, che alla bellezza formale dell'opera d'arte; più alle trasparenze ideali, che alla concreta realizzazione del sentimento. Fu il lirico dell'azione interiore, dei grandi soliloquî dell'anima, di tutte le grandi aspirazioni che si sentono e che si esprimono tormentosamente, e che spesso si risolvono in una pulviscolare frammentarietà di concetti. Il suo concettismo è connaturato al suo lirismo. Egli sa trovare accenti di umanità profonda, là dove la lotta è condizione della vita morale, e l'inquietudine di tutti gli istinti è opposizione al naturale egoismo e desiderio naturale dell'eterno. Il Calderón non scrisse commedie di pura passione istintiva. Ripugnò dal volgare e dal prosaico; e non indulse mai al torbido realismo passionale. Nelle commedie di cappa e spada (La dama duende; No siempre lo peor es cierto), in quelle cavalleresche e mitologiche, fu un accademico, che accettava moduli fantastici e dava al pubblico non più che letteratura. È un po' il caso di Augustin Moreto (1618-1669). Egli poco vale quando riprende argomenti dal Lope (El valiente justiciero y ricohombre de Alcalá; Los jueces de Castilla), ma è artista che sa dispiegare la propria originalità e la compostezza del suo estro ironico, quando tratta caratteri e incide sapientemente situazioni comiche (El desdén con el desdén; Trampa adelante). La schiera dei commediografi ormai si assottiglia con gli affaticati rielaboratori dei vecchi temi (Matos Fragoso, Juan Bautista Diamante, Juan de la Hoz y Mota, ecc.) e coi tardi manierati imitatori del Calderón.
Eloquenza ed erudizione. - L'eloquenza sacra del Seicento spagnolo è copiosa, ragionativa, solidamente ferma nel dogma e nella serietà della sua propria dottrina. Non sdegna gli allettamenti mondani e letterarî, perfino nei Sermones di Pedro de Valderrama; ma si fa capricciosa e barocca, abbondante di figurazioni e di allegorie, nelle prediche da pulpito, e tende intellettualmente verso il concettoso, il dissueto e lo strampalato. Ne sono esempio le Oraciones evangélicas o discursos panegíricos di Hortensio Félix Paravicino, che fu detto il predicatore dei re e il re dei predicatori. Nell'ascetica e nella mistica, che hanno perduto i loro spiriti creatori, è l'erudizione che trionfa, frammentaria e generalizzatrice, senza un saldo cemento di esperienza originale. Juan Eusebio Nieremberg nel Tratado de la Hermosura de Dios (1641) riassume le dottrine di Platone e dei neoplatonici, di Sant'Agostino e degli scolastici circa il problema della bellezza, dando così il riepilogo di ciò che fu per due secoli il nutrimento vitale e spirituale del pensiero estetico e del sentimento religioso spagnolo. Di risonanza mondiale fu invece la Guía espiritual (1675) di Miguel de Molinos; il quale, con una prosa chiara e con espressione calzante, svolge in lucidissimo ordine la teoria del quietismo e l'immersione dell'anima nel nulla. La storiografia fu abbondantissima di storie particolari, tra le quali poche emergono per intrinseco valore, quale La conquista de México (1684) di Antonio de Solís y Rivadeneira. Ogni ordine religioso ebbe il suo storico: Orden de San Jerónimo (1600) di José de Sigüenza; Orden de la Merced (1639) di Gabriel Téllez. Ogni santo ebbe il suo biografo e ogni città il proprio erudito. Sono da citarsi per larghezza di documentazione e paziente lavoro di coordinazione e di analisi gli Anales eclesiásticos y seculares de Sevilla (1677) di Diego Ortiz de Zúñiga. Ma dovunque si osserva quella cura eccessiva del fatto minimo che cede, per tendenze apologetiche, alle suggestioni dell'apocrifo e perde di vista la notazione sintetica. Con ricchezza e precisione di erudizione minuta, ordinata e metodica, Nicolás Antonio (1617-84) compilò la Bibliotheca Hispana Vetus e la Bibliotheca Hispana Nova, indice bibliografico degli scrittori spagnoli, l'una da Augusto al 1500, e l'altra dal 1500 al 1670.
Il secolo XVIII. - Venuti meno i grandi spiriti inventivi e i grandi poeti, esauriti i moduli fantastici tradizionali, stilizzato e schematizzato il contenuto del dramma e della commedia, staccata la lirica dalla vena popolare a cui si era continuamente attinto da Lope a Góngora, da Quevedo a Manuel de Villegas, la letteratura decadde nell'imitazione passiva, poi nei riecheggiamenti prosastici e nelle elaborazioni impersonali. Fu un po' il culto del passato, il sentimento di una tradizione gloriosa di cui la decadenza politica e militare della Spagna coloriva nostalgicamente la grandezza. La storiografia erudita del Seicento si continua nel Settecento, ma con maggior cautela critica, con esigenze documentarie e con nuovi mezzi d'indagine. Essa è rivolta a chiarire e a sistemare il passato, preparando inconsapevolmente l'avvenire. Blas Antonio Nasarre pubblica (1738) la Bibliotheca Universal de la Polygraphía española di Cristóbal Rodríguez. Enrique Flórez inizia (1749) la monumentale España Sagrada. I fratelli Rafael e Pedro Rodríguez Mohedano, sull'esempio della Histoire littéraire de France, compilano la Historia literaria de España. Appaiono intanto le Antigüedades de España (1719-21) di Berganza; mentre Gregorio Mayans y Siscar, editore di Juan de Valdés e di Luis Vives e primo biografo del Cervantes, aggiorna e perfeziona la bibliografia di Nicolás Antonio. Martin Sarmiento ordina le Memorias para la historia de la poesía española (1775); e il Casiri illustra la Bibliotheca arabico-hispana Escurialensis (1760-70), che sarà poi la fonte dell'arabismo di Juan Andrés. Con l'avvento al trono di Filippo V, della casa di Borbone, l'autorità regia s'avvia verso un illuminato dispotismo che piega, anche per vicende politiche, verso l'ideologia di Francia. Ne sono riflessi l'istituzione della Biblioteca Nacional (1712), della Academia Española (1713) e della Academia de la Historia (1735). Ardore dì novità e maggiore apertura di spirito critico si manifestano nel Diario de los literatos de España (1737-42) e nella Poética (1737) di Ignazio Luzán, fondata sulla precettistica del Muratori, del Gravina e del Boileau. È un'opera che ha un valore storico di reazione al gusto dominante, con un richiamo al semplice e al naturale contro l'ampolloso e l'artificioso. Il Luzán identifica il fine della poesia con quello della filosofia morale, vuole un'arte didattica che attenda all'utile e al dilettevole, esige l'imitazione della natura tanto nell'universale quanto nel particolare (arte idea e arte copia), ed è partigiano delle unità drammatiche sull'esempio dei poeti delle altre nazioni. Si diffondono il Teatro crítico universal (1726-39) e le Cartas eruditas di Jerónimo Feijóo y Montenegro. L'enciclopedismo di questo benedettino è di una latitudine spregiudicata. Col suo stile semplice e nervoso, chiaro e gallicizzante, egli combatte pregiudizî, superstizioni e viete consuetudini. Nella scienza, si mostra incline verso il metodo sperimentale; nella critica agiografica, sull'esempio dei Bollandisti, esige l'esame delle fonti storiche; nell'estetica, cerca il non so che del sentimento; in politica, detesta il chiuso nazionalismo e, senza negare la patria, accetta ciò che in ogni nazione vi è di universalmente umano. Con le affettate esagerazioni e le sarcastiche ironie alla Quevedo, nella sua Vida di pícaro intellettuale (1743), Diego de Torres y Villaroel esprime quell'ansia di rinnovamento che pervadeva la cultura spagnola, rimasta nella scienza a indagare le essenze o le forme sostanziali. L'oratoria sacra, scaduta a forme stereotipe di concettismo, i metodi scolastici del tempo divenuti vuoti e formalistici, trovano la loro canzonatura caricaturale, portata talvolta al realismo grottesco, nel Fray Gerundio (1758) di José Francisco de Isla, felicissimo traduttore del Gil Blas de Santillana del Lesage. Il movimento critico di questa prima metà del Settecento è più negativo che costruttivo, più informato a principî razionalistici che a principî estetici, generico e in balia a predilezioni personali; incapace perciò di valutare se non a frammenti la tradizione nazionale. La critica che s'impernia soprattutto sul teatro calderoniano è povera cosa; sia nella satira di Gerardo de Hervás sia nella paradossale prefazione del Nasarre alle Comedias del Cervantes, sia nei Desengaños del teatro español di Nicolás Fernández de Moratín, sia negli scritti del Clavijo y Faxardo. L'opera di Louis José Velázquez de Velasco, Origen de la Poesía castellana (Málaga 1754), che fece testo presso i primi romantici tedeschi, è una compilazione informe senza criterî direttivi.
Il rinnovamento letterario, che si effettuò nella seconda metà del secolo, poggia su una ripresa di contatto con la migliore tradizione lirica spagnola del Rinascimento e dell'epoca aurea. Si ha così un aristocratico e formale rifiorire di spiriti oraziani e di lirica popolare musicale. S'inizia con Nicolás Fernández de Moratín, le cui odas pindáricas e canciones, alcune a liras e altre nella strofa di Francisco de la Torre, presentano movenze e atteggiamenti di gusto classico, in contrasto, nel suo canzoniere, con l'intonazione popolareggiante delle quintiglie della Fiesta de toros en Madrid e dei romances. Questo eclettismo, che è pure comune alla lirica del Cadalso, e che poggia sulla tradizione della poesia melica continuata dal Seicento ai margini della pura letteratura, caratterizza anche l'arcadia agostiniana di Salamanca. Essa pretese di rinnovare la lirica di Luis de León, ma la riecheggiò formalmente, senza assimilarsene lo spirito. Si portò piuttosto verso forme idillico-elegiache, con perplessità sentimentali di grazia stremata e leziosa. Diego González, Juan Fernández de Rojas, José Iglesias de la Casa, adunando fiori trascelti nelle aiuole della lirica del sec. XVI, furono i fautori di una poesia tenera e morbida, che è una fuga dalla realtà nel mondo dell'isolamento immaginoso e musicale. L'arte di Juan Meléndez Valdés (1754-1817) fiorisce in questo ambiente, nel quale giungono echi di Saint-Lambert, di Gessner, di Thompson e di Young. Nella staticità convenzionale di sottili svolgimenti psicologici, egli riuscì a far sentire la vita del Settecento aristocratico con le sue malinconiche confidenze ai boschi, ai ruscelli e agli echi lamentosi di una natura stilizzata. Il filosofismo umanitario del secolo (Al fanatismo; La despedida del anciano), l'astratta religiosità (Al ser incomprensible de Dios) e l'estetismo neoumanistico (Las glorias de las artes), penetrano tuttavia nella sua lirica posteriore. Sono questi precisamente gli spiriti di rinnovamento che permeano la produzione poetica di Gaspar Melchor de Jovellanos. Uomo di stato, anima di riformatore, innamorato del bello in ogni sua manifestazione, il Jovellanos riporta la lirica alla realtà storica e umana, in epistole morali di puro stile oraziano dirette a suoi amici di Salamanca e di Siviglia. C'è in lui un sentimento estetico che è ancora un po' legato al fine pedagogico, ma che tuffato nella più vasta coscienza nazionale riesce a toccare l'eloquenza del patriottismo. Se nel Meléndez Valdés, probabilmente sotto l'influsso delle teorie del Winckelmann, assistiamo a un' esaltazione dell'attività estetica come espressione della vita e della natura umana nella sua essenza profonda, osserviamo nel Jovellanos un vivace accentuarsi dell'amore per la storia, soprattutto medievale, come espressione del processo formativo della patria nel suo passato. Questi due motivi che si possono cogliere nell'uno e nell'altro scrittore accennano già al passaggio dal razionalismo al non lontano romanticismo. La malinconia triste e il velato epicureismo anacreonteo stanno a fondamento non solo dell'esiguo canzoniere di José Cadalso, che pure fu critico sorridente del mondo contemporaneo (Los eruditos a la violeta; Cartas marruecas), ma anche del maggior canzoniere di Nicasio Auvarez de Cienfuegos. Vi affiorano cioè motivi letterarî preromantici, dovuti alla poesia inglese, sepolcrale e notturna. Essi attestano la sempre più viva esigenza di un lirismo intimo e profondo nella sua pura soggettività.
Lo sforzo maggiore del Settecento fu quello di ravvivare la tragedia entro il sistema neoclassico delle tre unità, promovendo una abbondante esemplificazione di modelli francesi con traduzioni e adattamenti di Corneille, di Racine e, più tardi, di Voltaire. Ci si arresta piuttosto a generalizzare e a ragionare caratteri e passioni su temi assunti anche dal teatro nazionale (Guzmán el Bueno, di N. Fernández de Moratín; Mudarra González, del conte di Noroña, Sancho García, di Cadalso; Munuza, di Jovellanos; Pelayo, di Quintana, ecc.), oppure su temi del teatro classico (Lucrecia, di N. Fernández de Moratín; Agamenón, di García de la Huerta, ecc.). In genere vi si nota analisi psicologica insufficiente, fondata su indicazioni sommarie, e piattezza di realizzazioni fantastiche. Si cercarono allora motivi più forti, a contrasti violenti, a svolgimenti tragici, in forme di eloquenza enfatica e sonora. Si ebbe così La Raquel (1778) di Vicente García de la Huerta, la cui reazione al teatro francese si espresse ripubblicando commedie del Calderón, di Solís e d'altri, nel suo Theatro español (1785-86). La conoscenza di Shakespeare, riadattato neoclassicamente o tradotto secondo il gusto dell'epoca (Amleto, da Leandro Fernández de Moratín; Otello, da Teodoro de la Calle), le versioni dal Metastasio e dall'Alfieri, in ciò che presentano di eroismo idillico o di patetico decoroso, documentano le divergenti esitazioni estetiche e il crescere di una sensibilità che dall'eccesso dell'astrazione (sul tipo della Virginia e dell'Ataulfo di Augustín de Montiano) scende al piacere delle vibrazioni del sentimento colte con delicatezza e tenerezza lagrimosa (El delincuente honrado, 1774, del Jovellanos; El Duque de Viseo, del Quintana). Per quanto tormentato dai preconcetti dell'estetica neoclassica, il teatro spagnolo, soprattutto quello della commedia, non fu antistorico. Esso tenne presente la realtà nazionale e vagheggiò un'umanità concreta nella spontaneità del suo agire individuale. Ideali sociali nei loro contrasti di libertà e istinto, di dovere e inclinazione si affermano nelle commedie di Leandro Fernández de Moratín. Lirico di pura dizione e di stile chiaro, con un sapore di freddo classicismo, drammaturgo la cui arte, entro una precisa personalità di scrittore, sembra riflettere quella del Molière e del Goldoni, il Moratín satireggia vieti usi e irrazionali costumi con felice rappresentazione di caratteri e con la garbata ironia di chi, sorridendo e indulgendo, colpisce tardi o senili atteggiamenti passionali (El viejo y la niña; La comedia nueva o el café; El sí de las niñas). Quando invece s'attenne al tipico e al caratteristico (El Barón; La mogigata), si perse in motivi e note caricaturali. Con maggiore aderenza alla realtà storica, rispecchiando costumi contemporanei e soprattutto la vita di Madrid (El Prado por la noche; La plaza mayor por Navidad, ecc.), eccelse, nella chiusa e lineare fermezza del sainete, Ramón de la Cruz, artista felicissimo nelle parodie letterarie a controluce (Manolo; Inesilla la de Pinto, ecc.). È l'arte del buon gusto, che non si abbandona a una piena ricreazione estetica, ed è quindi facile a cadere negli eccessi dell'astratto razionalismo. Dionisio Solís più che poeta originale fu il traduttore e il rimaneggiatore delle commedie di Lope, di Tirso e di Calderón. Egli ne popolarizzò il contenuto e le adattò al gusto pseudostorico e preromantico del tempo.
Nel complesso il Settecento spagnolo, passato il periodo di quell'astratto criticismo che giunse a far proibire (1765) gli Autos sacramentales di Calderón, fu riformatore e conservatore a un tempo. Accolse e divulgò idee della filosofia antispiritualista del Locke, accettò le tendenze critiche e negative del Montesquieu, l'ironia del Voltaire e l'umanitarismo del Rousseau. Tuttavia nel suo fondo rimase attaccato alla tradizione indigena, e fu sensibile contro gli assalti che le erano fatti da ogni parte d'Europa. La Spagna cattolica veniva allora identificata, soprattutto in Francia, col mostro polemico dell'Inquisizione. Juan Pablo Forner, che seppe ben distinguere i valori della tradizione letteraria (Exequias de la lengua castellana; República literaria) e fu per una vera storia di Spagna contro gli antiquarî e gli eruditi, pose con chiarezza il problema letterario, fuori dagli schemi anticattolici dell'astratto razionalismo dell'Enciclopedia (Oración apologética por la España y su mérito literario). I gesuiti, ma specialmente quelli che cacciati di patria trovarono rifugio in Italia (Esteban Arteaga, Juan Francisco Masdeu, Javier Lampillas), furono i più fervidi assertori del patrimonio spirituale della cultura spagnola. Essi la inserirono nel quadro generale della civiltà europea secondo quella linea di svolgimento e di progresso che era consona all'ideologia del tempo; ma tutti, qual più e qual meno, e in modo particolare Juan Andrés (Dell'origine, progresso e stato attuale d'ogni letteratura, Parma 1782-98), confusero arte e scienza, poesia e pensiero, e fecero più che altro una storia della cultura con intenti apologetici nazionali. Comunque essi seppero mettere in rilievo la funzione mediatrice tra Occidente e Oriente esercitata dalla Spagna durante il Medioevo. Gli stessi gesuiti che parteciparono col Rousseau alla fede ottimistica nella natura umana, collocarono l'ideale etico nella partecipazione attiva dell'individuo a un ordinamento razionale che unifica e armonizza le volontà singole (Eusebio, Mirtilo, Eudoxia, di Pedro Montengón); che è poi, in ultima analisi, senza però che ne fosse chiara la coscienza critica, un ritorno all'ideale etico che fu del Cervantes e del più puro Rinascimento. Le finalità pedagogiche di un'arte, nella quale è urgente il senso della realtà, conferiscono un valore concreto anche alla scarsa poesia che riluce nei sermoni oraziani e nelle Fábulas literarias di Tomás de Iriarte e nelle Fábulas morales di Félix María Samaniego. È l'arte delle verità universali di evidenza, che non ha dietro di sé né travaglio di pensiero né alte finalità estetiche e che sta paga del suo sorriso indulgente e ammonitore. Poeta di tutte queste tendenze, che furono di innovazione e di rivalutazione, di soggettive aspirazioni universali e di realizzazioni concrete in armonia con la necessità dello spirito nazionale, è Manuel José Quintana (1772-1857). In lui sono l'ultimo Settecento preromantico e didattico, l'idealismo estetico e l'umanitarismo progressista, il razionalismo e il neoclassicismo. Il Quintana delle Vidas de españoles célebres e delle eccellenti antologie della lingua e dell'epica castigliana, è sulla stessa linea di Antonio de Capmany, indagatore e ricostruttore del passato storico della sua Catalogna entro l'amore della patria comune, esaltatore della tradizione come forza di azione politica (Vidas de varones ilustres de España) e documento di eloquenza nelle forme storiche nazionali (Teatro histórico-crítico de la elocuencia castellana, 1786-94). Ma il Quintana, formatosi nella scuola salmantina e presto liberatosi dal morbido idealismo d'Arcadia, è più ancora il poeta della patria in armi (A España, 1808). Egli sente la tradizione storica come espressione dell'anima perenne della nazione (A Guzmán el Bueno; A Juan Padilla), e la religiosità come centro della vita interiore e sintesi potenziatrice di tutte le energie spirituali. Le Diez cartas a Lord Holland, che costituiscono il suo credo politico, ci pongono di fronte a una nobile figura di uomo. La sua lirica si svolge su schemi logici che la disciplinano e le dànno l'impeto degli svolgimenti corali dove la passione parla aggrappandosi ai ricordi. Qualche volta, nei suoi procedimenti discorsivi, essa può parere retorica, se non vi si sentisse la dignitosa elevatezza di un'anima eloquente che vuole l'azione e anela all'azione.
Il secolo XIX. - Neoclassicismo e romanticismo (1800-1860). - Nei tre primi decennî dell'Ottocento, durante le guerre d'indipendenza e le lotte contro il dispotismo assoluto, la letteratura continua, nelle sue tendenze generali, quella del secolo precedente. Tuttavia è ormai crollato il mondo dell'intelligenza scettica e del razionalismo volterriano (José Marchena), del filantropismo astratto e antistorico (Cienfuegos) e dell'entusiasmo individualista (José María Blanco). Il neoclassicismo era stato nella lirica, entro schemi oraziani, un ritorno formale a Luis de León, a Rioja e agli Argensola e, in taluni cultori, anche un contatto con l'Herrera. Ora si protrae nel nuovo secolo; ma in politica sta in funzione del liberalismo, e attende a instaurare il divino senza sequestrarlo dalla storia e a instaurare la tradizione senza porla in antitesi col progresso. Manuel María de Arjona, Juan Nicasio Gallego, Alberto Lista e José Samoza rappresentano, nell'equilibrio formale di un'arte alquanto artificiosa e accademica ma dignitosa moralmente, questo movimento neoclassico; il quale nei Preludios de mi lira (1832) di Manuel de Cabanyes ha gli accenti e gli accoramenti di una giovinezza vibrante di sogni e d'entusiasmi. Gli atteggiamenti lirici di Orazio, che il Settecento aveva rinnovato con eccessivo trasferimento nello stile, acquistano in lui un vigore nuovo di passione, che è già ansia romantica di bellezza. Il romanticismo, nella molteplicità delle sue tendenze, aveva messo piede nella Spagna e s'era propagato. Nelle riviste erano state affermate teoriche predilezioni ossianiche e influenze schilleriane (1803-05); s'erano tradotte le lezioni dello Schlegel sul teatro spagnolo (1805-08); si era iniziata da Böhl de Faber la polemica sul teatro di Calderón, propugnando un ritorno al teatro nazionale (1814-18) e promovendone delle refundiciones (1820-22). Il romanticimo era diventato un orientamento nuovo di idee letterarie e di spiriti liberali (El Europeo, 1821); mentre si divulgavano le traduzioni dell'Atala (1803), di Paul et Virginie (1815), del René (1832), dei romanzi di Walter Scott (1831-32) e del Manzoni. Il romanzo storico di argomento nazionale, entro le consuete fantasie scottiane, sorge con le opere frettolose di Telésforo de Trueba y Cossio e di Ramón López Soler. È una ventata d'entusiasmo, che scopre angoli morti della storia spagnola e vi diffonde una luce di romantica poesia. L'interesse passa dai fattti ai costumi e cerca le lontananze ideali della passione e del sogno. La storia vi entra solo come elemento di coesione esterna. Sul limitare dell'arte si affacciano i romanzi di Patricio de la Escosura. Con tinte melodrammatiche e intenzioni sentimentali, dove il lirismo s'affranca dalla realtà e diventa quasi una biografia ideale, Larra scrive El doncel de Don Enrique el Doliente (1834) e José de Espronceda il Sancho Saldaña (1834). Con più positiva obiettivazione di individualità e freschezza di originali impressioni, Enrique Gil y Carrasco colora un mondo di virtù semplici entro una cornice storica a sfondi ideali in El Señor de Bembibre (1844). Ma in genere, quando non sussidiato da conoscenze sicure che permettano di ritrarre efficacemente il colore del tempo, come ne La campana de Huesca (1854) di Antonio Cánovas del Castillo, il romanzo storico non fu che un pretesto per rannodare intrecci avventurosi, e presto discese, col fecondissimo Manuel Fernández y González, a letteratura popolare. In relazione col romanticismo, che fu liberalismo nella sua opera fervida di diffusione della cultura, sorge il romanzo di costumi come ritraimento della realtà giornaliera in zone più modeste di vita. Ramón de Mesonero Romanos (1803-82) incentra la sua arte, semplice e modesta, spesso snervata e diffusa e troppo uguale, nei ricordi della nativa Madrid, rivivendone episodicamente la storia tumultuosa e commossa, le scene più pittoresche e commoventi, presentando tipi e caratteri di larga simpatia umana (Panorama matritense, 1832-35; Escenas matritenses, 1836-41; Tipos y caracteres, 1843-62). La vita degli umili e dei diseredati, in una rappresentazione piena di colore locale, con un'umanità tenera nei suoi affetti e senza abbandoni, è nelle Escenas andaluzas (1847) di Serafín Estébanez Calderón. Problemi di educazione o di morale, con accenti femminili, schietti e vibranti, con un realismo incisivo ma sano e sereno, si presentano nei romanzi di Cecilia Böhl de Faber (Fernán Caballero). Essi valgono più per il loro generale afflato di sincerità che per lo svolgimento e l'approfondimento di particolari bellezze.
Nel teatro il romanticismo esasperò tendenze connaturate con lo spirito spagnolo, realista e particolarista, abile a svolgere con logica rigorosa i motivi passionali e a ritrarre più che il carattere la personalità concreta. Nonostante le numerose traduzioni del teatro francese del Settecento, l'ispirazione alfieriana si fece sentire nelle refundiciones di Lope, di Alarcón e di Calderón tentate da Manuel Bretón de los Herreros (1796-1873). Egli meglio si distinse nella commedia moratiana, a tipi leggieri e brillanti, comici e caricaturali (Muérete y verás, 1837; La escuela del matrimonio, 1852). Le tragedie, che Francisco Martínez de la Rosa scrisse prima che lo prendesse il dramma romantico a vertigini byroniane (La conjuración de Venecia, 1834), sono alfieriane per schemi passionali a monologhi e per atteggiamenti statuarî (La viuda de Padilla, 1814; El Edipo). Il dramma veramente romantico irrompe sulla scena spagnola con Don Alvaro o la fuerza del sino (1835) di Angel de Saavedra, duca di Rivas. Anche questo è preparato dagli schemi drammatici delle precedenti tragedie: El duque de Aquitania sul tipo dell'Oreste dell'Alfieri. Il romanticismo dell'autore, che su modelli scottiani e con mediocrità psicologica si è venuto dispiegando in leggende nazionali (Florinda), o attinte al Romancero o ai vecchi drammi spagnoli (El Moro Expósito), rompe nel Don Álvaro le unità drammatiche, mescola i varî generi letterarî, svaria le forme metriche, alterna promiscuamente verso e prosa, secondo l'estetica del romanticismo francese realizzata da Victor Hugo. Il dramma riesce l'evocazione tragica e irruente di un passato a grandi passioni, dove domina un fato che è il vago presupposto di un'azione tumultuosa. Il duca di Rivas, che come lirico è un mediocre imitatore del Quintana e del Gallego, apre il cammino, con audacia d'innovatore, alla serie dei drammi romantici: alcuni grandiosi, come El Trovador di Antonio García Gutierrez e Los amantes de Teruel (1836) di Juan Eugenio Hartzenbusch. I vecchi temi tradizionali si rinnovano a poco a poco su una sentimentalità elementare d'impulsi e di emozioni, e con un convenzionalismo arcaicizzante, che solo il lirismo canoro, svariandoli su motivi di dolore e di speranza, poté rendere accetti come eterna realtà di sogni. José Zorrilla y Moral, con El zapatero y el Rey (1841) e Don Juan Tenorio (1844), diffuse nel teatro la sua sensibilità di poeta improvvisatore che crea con la sua fantasia lirica un'atmosfera sognante, entro cui ogni entusiasmo etico s'impoverisce e dilegua. Lo Zorrilla è il poeta dei sogni deliziosi, delle inquietudini indecise, delle ingenuità sentimentali. Il suo canto si sostiene su allacciamenti canori e su risonanze che ne trascendono il contenuto concreto. La lingua che il romanticismo ha sottratto alla concisione e alla precisione classica, suona in lui qualche volta a vuoto. L'elemento sensibile e pittoresco vi è svolto all'eccesso; l'elemento intellettuale è quasi svanito; le immagini tumultuano imprecise e traducono fremiti, impeti ed esitazioni sentimentali. Questo processo di trasformazione era stato preparato dal maggior lirico del cosiddetto romanticismo soggettivo, José Espronceda y Delgado (1808-42). Sull'esempio della Musa francese, egli fu il poeta degli amori perduti, o disincantati o stanchi, e dei desiderî nostalgici, con quell'umanitarismo che cerca le anime doloranti (A Jarifa), o quelle che vivono ai margini della società (El Pirata), o gli abbandonati (Al mendigo). Nell'Espronceda il dolore è l'unica realtà, il piacere è l'eterna illusione e la morte il riposo. Le sue composizioni più vaste (El estudiante de Salamanca e El Diablo mundo) mancano di organicità e si risolvono in liriche separate, in nostalgie di ricordi, in elegie d'amore, in effusioni di malinconia. Lo Zorrilla lirico dei Cantos del Trovador, dei Recuerdos y Fantasías, della Leyenda del Cid, è più oggettivo, ma meno profondo. La sua forma è più pittoresca, ma poggia sulla ricchezza esuberante dell'espressione verbale. I suoi motivi sentimentali che si snodano su ritmi agili, assicurarono alle sue composizioni la popolarità di cui godono ancora. Il movimento romantico rinnovò con Bohl de Faber lo studio del teatro nazionale classico e del Romancero, la cui prima collezione (1828) è quella di Augustín Durán; ricostruì poeticamente, in un misto di archeologia e di storia vivificata dall'entusiasmo, gli aspetti sentimentali della patria con Recuerdos y Bellezas de España (1839) di Pablo Piferrer e (1848) José María Quadrado; scoperse il volto variopinto della Spagna medievale nelle sue letterature regionali col Milá y Fontanals e José Amador de los Ríos; illuminò il documento come base di ogni ricostruzione critica col Bofarull y Mascaró; favorì le sintesi a particolari vedute sistematiche con Alcalá Galiano e con Modesto Lafuente. Ma nel complesso si deve osservare che la tradizione storica spagnola, investita in pieno dalle interpretazioni del primo romanticismo tedesco e dalle rapide generalizzazioni del posteriore romanticismo europeo, ne uscì profondamente travisata e trasformata, con la conseguente visione di una Spagna passionale, sentimentale e sognante, dalla fede irrazionale, dal solitario misticismo contemplativo e dall'astratto onore cavalleresco. Il concreto realismo morale, che dal Medioevo al Seicento costituisce l'essenza della sua letteratura e della sua arte, passò in sott'ordine. La critica dello storicismo positivista o dell'entusiasmo soggettivo continuò a romantizzare scrittori come il Cervantes, Lope, Tirso e Calderón; i quali attesero alla realtà umana e la sentirono storicamente condizionata e vollero la loro arte espressione concreta dello spirito nazionale e non arte del sogno. Comunque, per opera del romanticismo, gli schemi della critica neoclassica di Alberto Lista o del rigido classicismo di José Gómez Hermosilla furono sovvertiti, e subentrò un sentimento più vivo, più spontaneo e più fecondo della poesia e dell'arte. Con la sincerità di un animo inquieto e di una intelligenza dischiusa a tutte le forme del pensiero, Mariano José de Larra (Fígaro) portò la critica giornalistica su campi dove convergevano interessi politici e letterarî, spiriti di rinnovamento e vivace satira del costume. Dopo di lui, in altra sfera, fuori del sensualismo materialista e dell'individualismo romantico, José María Quadrado svolse la sua originale attività giornalistica; la quale coincide col rinnovamento del liberalismo in senso tradizionalista cattolico, sotto l'influsso di De Maistre, Lamennais e De Bonald. Fu un adattamento entro la tradizione culturale spagnola e, senza negare i prodotti della civiltà e della storia, s'ebbero El criterio (1845) e la Filosofía elemental (1846) di Jaime Balmes e, in forma di polemica oratoria qualche volta impetuosa e acre, l'Ensayo sobre el catolicismo (1851) di Juan Donoso Cortés.
Dal romanticismo all'obiettivismo realistico (1860-1900). - Il romanticismo, come vita individuale che si ripiega esclusivamente sulla propria sensibilità, finisce con Gustavo Adolfo Bécquer (1836-70). Siamo a una sensibilità che sa riconoscersi teoricamente ed esprimersi con vergine immediatezza. Le sue Leyendas in prosa si svolgono su un'aristocratica tessitura di morbide delicatezze sentimentali e di fantasie incantate. Esse fanno presagire la prima prosa poetica di Rubén Darío, l'iniziatore del modernismo nella lirica. Ma la fama del Bécquer poggia sulle Rimas, tutte composizioni di breve giro e di semplice intonazione, sui motivi eterni del sogno poetico, della solitudine desolata dei morti e delle parole misteriose della musica. Nell'opera esile e frammentaria di questo poeta, la febbre romantica si acquieta in eleganti forme di fantasie e, con sobrietà e precisione di modi, si frange in brevi note malinconiche e ironiche, scandite su una volubile varietà di ritmi. Con Ramón de Campoamor penetrano e dominano nella lirica le intenzioni allegoriche e metafisiche, che si sovrappongono all'ispirazione (Colón, 1853; El drama universal, 1869). Esse tentano di cogliere l'idea oltre la particolarità dell'esperienza intima, sublimandola in note frammentarie e in composizioni brevi (Doloras; Humoradas). La Poética (1883) del Campoamor si può ridurre alla ricerca di un'immagine nella quale si riveli sensibilmente un'idea; ma in verità la sua arte si risolve spesso in contrapposizione di concetti, si ferma alla logica irrazionale della passione vissuta (Pequeños poemas) e s'arresta all'umorismo materiale che cede all'astratto simbolismo (El drama universal). Un crescendo di obiettività nel sentimento lirico e il prevalere di interessi morali si ebbe in Gaspar Núñez de Arce, che piegò, con calore e laboriosa raffinatezza stilistica, verso le forme piene dell'espressione oratoria (Gritos de combate, 1875). La sua poesia si organizza intellettualmente intorno a un centro di commozione etica e si fa meditativa nella lirica e nel teatro (El haz de la leña, 1872). Con l'abbandono progressivo della tragedia classica e del dramma storico a formule fisse di impeti lirici e di invenzioni sentimentali (ultimi rappresentanti sono Tomás Rodríguez Rubí e Luis de Eguílaz y Eguílaz), si afferma anche nel teatro la realtà giornaliera in ciò che ha di universale e umano. La zarzuela, come studio e rappresentazione di costumi, risorse nel vivace impressionismo a quadretti e a sintesi di Adelardo López de Ayala e di Manuel Tamayo y Baus. Commedie a tesi, in situazioni rigide, la cui soluzione è dedotta con logica premente attraverso un'azione ingegnosa e un dialogo preciso e drammatico, furono quelle di José Echegaray (1832-1916). Egli spagnolizzò, con un romanzesco violento, forme del teatro scandinavo e tedesco. I suoi personaggi vivono casi di coscienza tormentosi e complessi e conflitti morali (O locura o santidad; El gran galeoto); e nonostante tutte le loro determinazioni concrete essi sembrano talvolta svuotarsi di realtà e aspirare al puro simbolo (El loco Dios; El hijode Don Juan). Il romanzo dominò la produzione letteraria dopo il lirismo romantico. Dapprima assunse tesi di argomento sociale e presentò problemi spirituali relativi all'educazione, in forma passionale e con analisi sicura. Juan Valera provò l'abilità della sua penna accademica, riecheggiando dilettantescamente e sensualmente motivi mistici (Pepita Jiménez; Doña Luz); Pedro Antonio de Alarcón, con più viva ricerca d'interiorità, adunò un mondo di figure sobriamente analizzate intorno a soggetti nei quali si affrontano concretamente e drammaticamente problemi di profondo realismo cristiano (el escandalo; El niño de la bola). Il naturalismo, che si risolse in un temperato realismo, si acclimatò in Spagna perdendo ogni presupposto scientifico. Poggiò lontanamente su tesi astratte; non si propose né l'impersonalità né l'obiettività assoluta della rappresentazione. Il naturalismo accenna fugacemente con Emilia Pardo Bazán (Pascual López; La madre naturaleza; Moriña) a pretensioni scientifiche e affaccia spunti di determinismo. Nel complesso volle ritrarre con sentimento e simpatia, con intuizione psicologica ed esperienza intima, con fermo dominio della sensibilità, creature semplici e modeste, la piccola vita borghese e l'umile vita popolare, lumeggiate entro il mondo costumistico della provincia o sullo sfondo di tipici personaggi regionali. José María de Pereda con Sotileza (1884) e Peñas arriba (1893), Armando Palacio Valdés con Marta y María (1883) e La hermana San Sulpicio (1889) dànno la misura di un'arte sana ed equilibrata, che non manca d'ironia quando s'affaccia alla vita dell'alta società e ne incide le velleità e le debolezze (La Montálvez del Pereda, La espuma di Palacio Valdés e Pequeñeces di Luis Coloma). Su tutti primeggia Benito Pérez Galdós (1843-90) per la complessità della sua opera, per la molteplicità dei tipi umani che la popolano, per l'atmosfera storica e la psicologia romanzesca che ne costituiscono l'anima e che si combinano, non senza inquietudini intellettuali, con la simpatica osservazione della vita nazionale in un periodo di lotte civili (Episodios nacionales). Galdós è artista che lavora sempre en simpatía; coglie l'individuale e non il caratteristico; sceglie personalità determinate e le contempla attraverso un umanitarismo vago, che le accetta tutte, quali aspirazioni profonde del mondo spagnolo nell'atmosfera un po' soffocante della realtà storica contemporanea. Il pessimismo senza asprezza del Galdós non è che lo spirito intimo dell'età esitante e indecisa che egli ha vissuto (Nazarín y Halma); e non sono più che lampi gli spunti di anticlericalismo (Doña Perfecta, 1876; Gloria, 1877) e di realismo naturalistico (Lo prohibido, 1884; Tormento, 1906). Il suo teatro parte dal romanzo e ne è spesso la trasformazione posteriore; ma lo stile drammatico della prosa si scarnifica e il motivo ideale, che si volge in tesi (Electra), tende a prevalere sulla concretezza della rappresentazione. A dare gli sfondi all'opera di questo molteplice artista, a colorire le tormentose incertezze che agitavano la Spagna durante gli ultimi decennî del secolo, nei rapidi trapassi dall'una all'altra ideologia, si pone l'eclettismo moralistico di Leopoldo Alas (Clarín), passato dal naturalismo de La Regenta (1884) alla revisione un po' aspra e mordace di tutti i valori tradizionali. Il suo atteggiamento è la forma negativa della sua scontentezza del presente. Vero è che in lui, come in tutti gli scrittori dell'ultimo Ottocento che si preoccupano del problema nazionale, la tradizione è sentita intellettualisticamente come un peso di cose morte, perché manca una visione esatta e l'impeto sentimentale di ciò che bisogna costruire. I ciechi smarrimenti di una politica che perde di vista la realtà effettuale delle cose, si riflettono nell'ambizioso sogno delle ideologie negative a colori d'ironia. Più analitico e dialettico che sintetico e sistematico è il pessimismo di Ángel Ganivet García nell'Idearium español (1897). Procede dalla sua ironia la creazione del personaggio Pio Cid, il pertinace costruttore e distruttore dei proprî sogni di eroismo (Conquista del reino de Maya, 1897; Los trabalos del infatigable creador Pio Cid, 1898). La crisi del krausismo, che fu pure la dottrina di Castelar e di Salmerón, coincide sulla fine del secolo con un ondeggiante positivismo agnostico; il quale fu, in politica, la rinunzia a ideali troppo vasti ed elevati, per tener conto delle esigenze concrete della patria nella sua ultima fase storica e nella realtà della sua vita spirituale. Questo movimento, dal quale sbocca la nuova letteratura, è parallelo allo sforzo generoso e vibrante di coscienza etica, compiuto dalla critica erudita per ritrovare il patrimonio spirituale della Spagna e illuminarlo in ciò che presenta di caratteristico e di significativo. Il grande maestro, rinnovatore della critica spagnola, "il cittadino libero della repubblica delle lettere", fu Marcelino Menéndez I Pelayo (1856-1912). Erudito, bibliografo e umanista, la sua opera è un monumento di analisi scientifica e di notazioni estetiche, tutta indirizzata a determinare il contributo particolare portato dalla Spagna alla cultura europea, nella scienza e nella letteratura, nella filosofia, nelle teorie estetiche e nell'arte.
Letteratura contemporanea. - Il movimento ideologico che prepara la nuova letteratura ponendosi nella maggiore concretezza il problema nazionale è caratterizzato dall'opera di Miguel de Unamuno. Nei suoi Ensayos, che sono per lo più spunti di letture occasionali e dove la coerenza di un pensiero costruttore lascia troppo a desiderare, egli si rivela uno spirito inquieto, in perenne analisi di se stesso e in continua opposizione con sé e col suo popolo. Facile a cedere alla suggestione delle idee, per rigettarle in nome del sentimento, l'Unamuno è commentatore perpetuo di ogni atto e di ogni fatto, sempre in cerca del punto bilico tra "casticismo" o pura tradizione e innovazione, tra l'illogicità del sentimento e la logica vivente dell'ideale morale. Egli ha creduto di trovare in Sören Kierkegaard il sistema adatto alla propria personalità di moralista appassionato, e l'ha accettato senza il vivo interesse speculativo che vi sta alla base. La verità della soggettività, che è una nozione esistenziale di relazione tra l'esistenza e la semplice essenza, diventa nell'Unamuno la verbosa Vida de Don Quiote y Sancho con l'idea contraddittoria di creare sull'individualismo assoluto "la nuova Bibbia del popolo "spagnolo". E poiché la verità alla quale egli mira, esaltandola contro il Cervantes nella figura di don Chisciotte, è la reiterazione e l'attualizzazione di un contenuto soggettivo, e quindi una dolorosa ricerca, egli ne fa scaturire El sentimiento trágico de la vida. La sua personalità vigorosa che poggia su un volontarismo astratto, ostinatamente ribelle all'impero dell'intelligenza, è in questa ricerca; la quale spesso si drammatizza in una smania d'interiorità e si fa paradossale e contraddittoria, assumendo toni didascalici perfino nella poesia. Più artista, in un mondo semplice e senza eccessive pretese, José Martínez Ruiz (Azorín), esita tra l'antico e il moderno, ama le cose semplici e tradizionali (Alma castellana; Castilla), scopre le bellezze del Barocco e le acutezze del Gracián (Clásicos y modernos; Al margen de los clásicos, ecc.), cerca l'anima di Castiglia e la ritrova nel paesaggio lungo i cammini di don Chisciotte. L'Unamuno e l'Azorín sono campioni del saggio, della polemica giornalistica, dell'impressionismo ideologico sull'ultima lettura fatta e del paradosso sentimentale. Vi eccellono anche José Ortega y Gasset e Ramiro de Maeztu. Il primo vive a margine di contrastanti sistemi a fondo idealistico soggettivo, con tentativi d'interpretazione della storia spagnola (España invertebrada) o con desideri filosofici che trascendono le forme concrete dell'arte (Meditaciones del Quijote). L'altro cerca nell'arte, fuori dal suo contenuto concreto, il mito come riflesso della varia ideologia spagnola (Don Quijote; Don Juan y la Celestina). Il saggio come forma chiusa in divagazioni di filosofia e in analisi che mirano alla realtà sociale, caratterizza la letteratura moderna (Eugenio Ors, Salvador de Madariaga, José María Salaverría), rivelando quella duttilità dell'ingegno spagnolo che non dimentica mai sé stesso e sta fermo sul proprio io con una vigile coscienza della critica altrui, pur piegando alle circostanze. La lirica contemporanea, sotto l'impressione parnassiana o decadente di Rubén Darío, si rinnovò attraverso a distinte personalità di poeti (Enrique Díez Canedo, Emilio Carrere y Alonso). Ciascuno di essi ha ritrovato il suo accento. Antonio Machado, iniziatosi come poeta della malinconia (Soledades, 1903), è giunto a schematizzare la sua lirica su motivi nudi e disincantati, su istantanee paesistiche, su brevi visioni, dove la parola sobria è musica di un'anima rassegnata. Juan Ramón Jiménez, abbandonando il primo simbolismo melodico alla Darío, ha ritrovato una sua nota di tenerezza aristocratica, a spunti lirici sapientemente infranti in immaginazioni sensuali (Almas de violeta; Poemas mágicos, ecc.). Certo in quest'ultimo movimento poetico, nel quale domina una nota sottile d'intellettualità, è possibile scorgere generali tendenze europee e uno studio assiduo delle poetiche straniere moderne. Se il futurismo con la sua ansia di forme analogiche concettuali non ha lasciato che pallide tracce, il surrealismo prende vigore col suo stile di decadenza e con l'anarchia atomica della sensibilità pura. L'influenza della lirica contemporanea francese, alla quale si devono la rivalutazione di Góngora e il culto delle preziosità puntuali e luminose, si fa sentire negli ultimi poeti che cercano, in forme semplici e lineari, il frammento della nota intima (García Lorca, Rafael Alberti, Pedro Salinas, Gerardo Diego, ecc.). Vero è che si avverte il bisogno di sottrarre la lirica della poesia pura al giogo angusto delle emozioni e delle sensazioni per ricondurla, con un più vasto amore della vita nazionale, alla sostanza perenne della tradizione spagnola. Il teatro in versi, storico, eroico e romantico, in opposizione agli amori prosaici e ai soggetti a tesi, ripreso da Eduardo Marquina e da Francisco Villaespesa, è stato più sopravvivenza di un'arte anteriore, formalmente perfezionata, che svolgimento nuovo. Motivi tradizionali sono riaffiorati con Jacinto Grau; un tentativo di dramma simbolico fu quello di Ramón Goy de Silva; ma il teatro moderno è volto soprattutto alla realtà, rappresentata con verità psicologica e osservazione. Restano pura letteratura le vaghe sentimentalità di Gregorio Martínez Sierra e i tentativi intellettuali dell'Unamuno e del Valle Inclán. Hanno avuto largo eco anche fuori di Spagna i drammi di Jacinto Benavente, cronista aristocratico (Señora Ama; La malquerida; Los intereses creados, ecc.), abile a contrapporre, con precisa psicologia, distinte figure delle varie classi sociali, a scene nettamente squadrate, con dialogo schietto e vivace. Nel sainete trionfano i fratelli Serafín e Joaquín Álvarez Quintero, presentando sulla scena caratteristici tipi della loro Andalusia, con atteggiamenti leggermente caricaturali e con pittorica vivacità di linguaggio. Nel romanzo la fama conseguita da Vicente Blasco Ibáñez è più legata alle vicende della sua vita avventurosa che al valore intrinseco della sua arte. Il suo naturalismo tumultuoso e soleggiato e il suo realismo caldo e descrittivo (Catedral; Sangre y arena, ecc.) si congiungono con un impressionismo impulsivo nel quale s'inserisce l'ideologia anticlericale e rivoluzionaria (El intruso; La bodega; La tierra de todos, ecc.); ma sono note che risentono del voluto e dell'insincero, e sono in contrasto, per la troppa letteratura di cui s'impregnano (Los cuatro jinetes del Apocalipsis), con la più genuina arte spagnola contemporanea. Il moralismo sentimentale sussidiato da un senso religioso della vita si sostiene nella prosa elegante di Ricardo León, specialmente in Casta de hidalgos e in El amor de los amores, e il realismo generico in quella di Concha Espina de la Serna. Trascurando i tentativi di romanzo cerebrale (Niebla di Unamuno), i maggiori scrittori moderni sono quelli che si sono innalzati nella sfera dell'arte partendo da un'esperienza personale della vita e conquistandosi un contenuto di pensiero individuale e originale. Pio Baroja è il romanziere del puro volontarismo come forma unica dell'attività umana; ma un volontarismo ancora legato alla naturalità istintiva e tale che passa dall'una all'altra illusione. È il creatore di tipi che s'individuano fugacemente e si disperdono sul ricco sfondo ambientale. I romanzi che egli ha adunato sotto il titolo generico di memorias de un hombre de acción, interessano per la loro prosa a scatti e a rilievi, con intonazioni a volte sarcasticne e caricaturali (Los caminos del mundo; La ruta del aventurero; El sabor de la venganza, ecc.). Più costruttivo si mostra il Baroja nei romanzi psicologici, dove tutto rientra in un'atmosfera di umorismo sfumato che s'avviva delle esperienze intime dell'autore (Inventos, aventuras y mistificaciones de Silvestre Paradox; Paradox, Rey). Cesellatore finissimo di periodi armoniosi è Ramón del Valle Inclán (1869-1936). Egli conosce i lenti indugi della sensualità sognante e le carezze morbide dell'espressione voluttuosa e musicale. Le avventure del marchese di Bradomín sono ricami di una psicologia sottile che si studia per trarne più saporito godimento al proprio inconsapevole egoismo (Sonata de Otoño, de Estío, de Primavera, de Invierno). Alcuni motivi sono tratti direttamente dal D'Annunzio e dalle Memorie del Casanova; ma lo svolgimento è originale, appoggiandosi su quel naturalismo cerebrale che si rivela in altri romanzi (Corte de amor, ecc.). Ramón Pérez de Ayala ha l'abilità di svariare signorilmente i temi del disincanto e dell'illusione. La sua conoscenza della natura spagnola si realizza artisticamente nella creazione di tipi istintivi, pittorescamente determinati nel gesto e nella frase, espressione umoristica della mezza scienza e della mezza cultura (Belarmino y Apolonio, 1919; La pata de la raposa, ecc.). Ramón Gómez de la Serna è l'ideatore della "greguería", delle fantasmagorie di immagini rutilanti, del balenio dei concetti che si afferrano come nel sogno (El muestrario; El doctor inverosímil; El incongruente, ecc.), del frammentarismo poetico che si rigira in sé stesso (Senos, ecc.). Si direbbe uno scettico elegante, se talvolta non sapesse sfaccettare la sua ironia su una base di buon senso e di buon gusto. La vita provinciale e clericale spagnola si riaffaccia come espressione di un'osservazione pacata e diretta e attenta nei romanzi di Gabriel Miró (El Padre San Daniel; El obispo leproso). Nella sua prosa fluente e spontanea trascorre un senso di umanità semplice e tranquilla. Tra i giovani, per i quali il problema dell'arte è diventato un problema di vita, e di vita politica, cioè di arte storicamente condizionata entro il complesso vivente della patria, è Giménez Caballero (Arte y Estado, 1935), che ha diretto la battagliera Gazeta Literaria (1927-32), e che si pone problemi e ravviva discussioni per un ritorno a un "casticismo" integrale. La critica universitaria ha buoni cultori nel campo dell'arabismo, che continua una nobile tradizione spagnola (Julián Ribera, Miguel Asín Palacios), negli studî sul Cervantes (Francisco Rodríguez Marin, Américo Castro), e nella filologia romanza. Il maestro, diretto o indiretto, di tutti gli studiosi (A. Castro, Federico de Onís, Antonio García Solalinde, Narciso Alonso Cortés) che per contributi notevoli si distinguono in questa disciplina, è Ramón Menéndez Pidal, illustratore coscienzioso e severo della letteratura spagnola nelle sue leggende medievali eroiche, nella sua poesia di popolo e nella sua evoluzione linguistica.
Testi Biblioteca de autores españoles, Madrid 1846-80; Nueva Biblioteca de autores españoles, Madrid 1905 segg.; Bibliotheca hispánica, ed. Foulché-Delbosc, Barcellona e Madrid 1900 segg.; Clásicos castellanos, Madrid 1910 segg.
Bibl.: Opere generali di orientamento: Per il periodo ispano-arabico e ispano-ebraico: A. F. von Schack, Poesie und Kunst der Araber in Spanien und Sicilien, Stoccarda 1877 (trad. sp. di J. Valera, Siviglia 1881); E. Renan, Averroès et l'averroïsme, Parigi 1882; A. González Palencia, Historia de la España musulmana, Barcellona 1925; A. Bonilla y San Martín, Historia de la filosofía española, Judíos, Madrid 1911. Fondamentali per la letteratura spagnola del Medioevo: M. Menéndez y Pelayo, Historia de la poesía castellana en la edad media, in Obras completas, IV, Madrid 1911-13; id., Tratado histórico sobre la primitiva novela española, in Nueva Bibl. Aut. Esp., I, ivi 1905; R. Menéndez Pidal, La España del Cid, ivi 1929; id., Poesía juglaresca y juglares, ivi 1924; id., L'épopée castellane à travers la littérature espagnole, Parigi 1910. Per gli svolgimenti generali dell'estetica in relazione con l'arte spagnola: M. Menéndez y Pelayo, Historia de las ideas estéticas en España, Madrid 1883-91; id., Estudios de critica literaria, ivi 1893-1927; id., Horacio en España, ivi 1885. Per la poesia dei romances: M. Menéndez y Pelayo, Antología de poetas líricos castellanos, Madrid 1890-1908, VII-X. Rinascimento: M. Menéndez y Pelayo, Historia de los heterodoxos españoles, in Obras completas, I, Madrid 1911. Teatro: A. Schack, Geschichte der dram. Literatur und Kunst in Spanien, Berlino 1945-46 (trad. spagn. di E. Mier, Madrid 1885-1887); M. Cañete, Teatro español del siglo XVI, ivi 1885; M. Menéndez y Pelayo, Estudios sobre el teatro de Lope de Vega, in Obras completas, ivi 1919; id., Calderón y su teatro, ivi 1884; L. A. De Cueto, Historia crítica de la poesía castellana en el siglo XVIII, ivi 1893; F. Blanco García, La literatura española en el siglo XIX, ivi 1899; J. Cassou, Litterature espagnole (panorama), Parigi 1930. Basti ricordare per le storie letterarie di carattere generale quelle di J. Amador de los Ríos (ivi 1861-65), di J. Cejador (ivi 1915-21); e i manuali di P. Merimée, di J. Fitzmaurice Kelly, di K. Pfandl (periodo aureo), di Alonso Cortés e la compendiosa, schematica e bibliograficamente ricca Historia de la literatura española di J. Hurtado y J. De la Serna e A. González Palencia, nuova ediz., Madrid 1933.
Arte.
Antichità. - Una viva e originale fioritura artistica la Spagna ebbe in età preistorica (v. iberica, penisola: Preistoria). Più tardi, sotto l'influenza fenicia e greca, le regioni meridionali e orientali di essa diedero vita a un'arte caratteristica, nella quale le derivazioni esterne appaiono fuse e rielaborate dallo spirito delle popolazioni indigene iberiche (v. iberi). Le manifestazioni artistiche del periodo romano invece, se se ne tolgano alcune poche di carattere privato, e cioè soprattutto alcuni monumenti di natura e destinazione funeraria, si può dire non presentino alcuna o quasi alcuna impronta loro propria, che le distingua da quelle delle altre regioni dove la civiltà romana gettò le sue radici. Si può notare se mai che la profonda romanizzazione del paese fece sì che queste manifestazioni artistiche assumessero qui un carattere di più perfetta romanità che non altrove, sì che se un confronto a loro si può trovare, ciò è soltanto con i monumenti dell'Italia, o, in via subordinata, con quelli dell'Africa, con la quale la Spagna ha avuto sotto varî aspetti molteplici punti di contatto.
Non è da meravigliare tuttavia, data la continuità di vita che la penisola ha avuto nei secoli, se i monumenti romani di Spagna siano assai meno numerosi di quelli dell'Africa, e che intere città, per quanto molto più modeste di quelle africane, non si siano conservate in Spagna che a Emporion e Numanzia.
Del periodo ancora delle guerre di conquista la Spagna ci ha conservato in maggior numero e migliori condizioni che altrove resti di accampamenti romani, nei quali troviamo il più fedele commento del testo polibiano, e di opere di assedio: particolarmente studiati sono quelli di Fulvio Nobiliore e di Scipione Emiliano intorno a Numanzia.
Nel periodo imperiale le città furono in generale circondate di mura; quasi interamente superstite è la cerchia di Lugo; elementi si conservano di quelle di Tarragona, delle porte di Barcellona, di Carmona, Coria (Caurium), ecc.
Costruzioni di pubblica utilità sono i ponti (di cui la Spagna conserva in quello celeberrimo di Alcántara, opera probabilmente di un architetto spagnolo, C. Giulio Lacer, e in quelli di Mérida, di Martorell, ecc., ottimi esempî) e gli acquedotti, fra cui particolarmente grandiosi quelli di Segovia, di Tarragona, di Mérida, di Hispalis. Fra tali costruzioni si può ricordare altresì il faro (ricostruito) di La Coruña, di cui anche conosciamo l'architetto, C. Servio Lupo. Un piccolo tempio molto ben conservato è a Vich, l'antica Ausa; elementi di altri edifici sacri abbiamo a Barcellona, a Mérida e in altre città, oltre al piccolo sacello presso il ponte di Alcántara.
Fra i teatri meritano particolare menzione quelli di Mérida, restaurato nella scena, di Sagunto e di Clunia; fra gli anfiteatri quello grandioso di Italica e quello di Mérida; fra i circhi quelli di Mérida, Cadice, Toledo, ecc.
In contrasto con la frequenza che se ne ha nell'Africa, pochi archi onorarî possono ricordarsi nella Spagna: quello erroneamente detto di Traiano a Mérida, forse una porta della città, quello di Bará presso Tarragona, eretto in memoria di L. Licinio Sura, generale di Traiano, quello di Medinaceli (antica Oscilis) a tre fornici, e uno piccolo a quattro fronti dell'antica Capera, presso Cáceres.
I non molti mausolei di carattere monumentale, tra cui quello detto degli Scipioni lungo la strada da Barcellona a Tarragona, si accostano al tipo ad alto basamento e piani sovrapposti frequente nell'Africa, o più raramente a quello in forma di tempietto. Forma del tutto originale presenta il sepolcro degli Atilii a Sadaba (Saragozza) con una ricca fronte a nicchie e frontoni triangolari di gusto baroccheggiante. È nei monumenti sepolcrali più modesti che si riscontra la persistenza di tipi fenici o iberici, come, per ciò che riguarda gli edifici privati, nelle case di Numanzia; la vasta necropoli di Carmona ha camere scavate sotterra con pozzo d'accesso e nicchie nelle pareti talvolta decorate di pitture; nella regione celt. berica sono frequenti, ad ornamento delle tombe, figure di tori, nelle quali ritornano forme d'arte già fiorite nella penisola in periodo preromano. All'infuori di queste, le opere di sculture non presentano alcuna caratteristica particolare, e così pure i musaici, tra cui noti il piccolo emblema di Emporie con la scena del sacrifizio di Ifigenia, e il grande pavimento di Barcellona con le corse del circo, non meno che gli scarsi avanzi di pitture, ritrovati soprattutto nelle camere sepolcrali.
Medioevo. - Il Medioevo non fu per la Spagna un'era di calma, ma piuttosto di feconda effervescenza nel campo dell'arte. Stili diversi vi esistettero contemporaneamente, o si succedettero, alcuni senza giungere al pieno sviluppo. Nella penisola, che per otto secoli fu campo di contatto fra l'Oriente e l'Occidente, il dualismo cristiano-musulmano diede l'impronta all'arte medievale spagnola, in un contatto lungo, che non fu un urto.
Arte paleocristiana. - Per il periodo paleocristiano vi sono indizî, non ancora studiati bene, della contaminazione che l'arte romana subì nella Spagna per l'influenza di tecniche e di motivi ornamentali iberici, nonché di elementi orientali, come in tutta la periferia dell'Impero. Il segno più manifesto di questa contaminazione è la comparsa degli archi a ferro di cavallo in stele funerarie del sec. II, e l'esempio più decisivo e più antico è la costruzione scoperta pochi anni or sono in Santa Eulalia di Bóveda (Lugo, Galizia), probabilmente un ninfeo, con vòlta a botte, con archi leggermente a ferro di cavallo, con pitture parietali dì forte realismo, monumento certamente del sec. IV. Gli altri monumenti di cui ci restano avanzi (Centcelles [Catalogna] col suo superbo musaico, deteriorato; l'episcopio di Mérida, identificato da un testo di Paolo Diacono, con le sue pitture raffiguranti vescovi e martiri, ecc.) non presentano novità nell'universale arte romana. In alcuni casi (battistero sotterraneo di Gabia la Grande [Granata], esedre della chiesa di S. Pietro d'Alcántara [Málaga], ecc.) si notano influenze dell'architettura paleocristiana dell'Africa settentrionale. I rapporti del cristianesimo spagnolo con quello africano sono provati anche dalla storia e dalla letteratura ecclesiastiche.
Per la scultura di questo periodo non è stata fatta una distinzione precisa tra i sarcofagi importati e quelli che dovettero essere scolpiti nella Spagna. Per la pittura è memorabile il canone XXXVI del concilio d'Iliberri (Granata) celebiato verso l'anno 300, che ne sconsigliava l'uso nelle chiese e sembra provare che se ne abusasse ma sembra che avesse poco effetto e alla fine del secolo IV o al principio del V Prudenzio nel suo Dittochaeon dà una raccolta di epigrafi per scene dell'Antico Testamento rappresentate sulle pareti d'una chiesa.
Arte visigota (secoli V-VIII). - Nei primi anni del sec. V incomincia l'irruzione dei barbari. Nel 409 irrompono Svevi, Vandali e Alani: i primi dominano nella Galizia, gli altri - ch'erano più forti - nell'Andalusia. Nel 416 giungono i Visigoti, più civilizzati perché avevano avuto maggior contatto con Roma, e come ausiliarî dell'impero sterminano i Vandali nella Betica (417). Dopo un secolo e mezzo, Leovigildo è il primo re visigoto che batte moneta; il suo successore Recaredo abbandona l'arianesimo e col suo popolo si converte al cattolicismo nel 589. Un altro fatto storico che conviene tener presente per comprendere lo svolgimento dell'arte è la cessione d'una zona costiera nel levante e nel mezzogiorno a Giustiniano (554), territorio che tornò in mano dei Goti nel 624.
L'arte visigota ebbe un'evoluzione assai complessa, senza nessuna uniformità in molte delle sue manifestazioni.
Troppo forte era l'organizzazione romana dell'architettura, perché i Visigoti potessero innovarne i fondamenti: su di questi essi innestarono forme popolari, abbellendo l'insieme d'una profusione di ornati e di policromia, traendo profitto dagl'insegnamenti ricevuti da Bisanzio allora all'apogeo del suo splendore. Quantunque i dati non abbondino pure ci è nota una serie di monumenti della seconda metà del sec. VI e di tutto il VII che, per valerci del giudizio del Torres Balbás, è "senza analogie, quanto al numero, all'originalità e alla ricchezza di soluzioni, coi monumenti contemporanei dell'Europa occidentale". Non ci rimangono, è vero, gli esemplari più scelti e suntuosi, quali sarebbero quelli edificati nella corte o nelle grandi città; ma quelli che ancora si conservano in località umili e fuori mano, rivelano una grande varietà di risorse artistiche.
La chiesa di S. Giovanni di Baños (Palencia) fu consacrata nel 661: è basilicale, a tetto con finestre a sguincio e arcate a ferro di cavallo. Dello stesso tipo è anche la chiesa di S. Pietro di Balsemão (Lamego, Portogallo).
Di tipo diverso è un gruppo di edifici, tra i quali i più notevoli sono Santa Comba di Bande (Orense, Galizia) e S. Pietro de la Nave (Zamora), ambedue di pianta cruciforme, con vòlta sui pilastri del mezzo, conservatasi soltanto in S. Comba. La chiesa di S. Pietro, a bracci un po' disuguali, è singolare per la decorazione scultorea con figure nel fregio e nelle basi, nonché nei capitelli delle quattro colonne della crociera, in due dei quali si vedono scene bibliche, decorazione che richiama quella di S. Maria di Quintanilla di Las Viñas (Burgos). Se della data delle chiese visigote di Baños, Bande, ecc., nessuno dubita, vi sono invece per quelle di Nave e di Quitanilla accaniti contraddittori che per arretrarla sono giunti a violentare i testi e ad apportare argomentazioni capziose; ma sembra, anche al Torres Balbás, difficile classificare in un'altra evoluzione artistica questi due edifici, che forse rappresentano un'ultima fase dell'architettura visigota.
Per la scultura dell'età visigota sono di massima importanza le ricordate decorazioni di S. Pietro di La Nave e di Quintanilla, che mostrano una forte influenza dell'arte bizantina, ma con elementi tipicamente visigoti, così nel repertorio ornamentale come nel taglio obliquo della pietra. L'iconografia delle sculture della chiesa di La Nave è ricca e di origine incerta, quella di Quintanilla è di provenienza bizantina: figure del Sole e della Luna sorrette da angeli, quasi divinizzate, Cristo con la croce in atto di benedire, la Vergine, due profeti o apostoli. Si aggiungano a questi monumenti principali le tombe di Ecija (sec. V), Cadice e Alcaudete oltre alle molte tombe rozze di Poza de la Sal, Briviesca e Cameno nella regione di Burgos, e si avrà quasi completo il quadro della scultura visigota.
Non è necessario rettificare la frequente tradizione devota delle immagini della Vergine anteriori all'invasione musulmana, venerate in molti santuarî.
Che nelle chiese vi fossero decorazioni di pittura consta dalle opere di S. Isidoro di Siviglia; ma non ne sono rimaste. È ritenuto dell'Africa settentrionale o del sud della Spagna il celebre codice del Pentateuco Ashburnham (Biblioteca nazionale di Parigi), scritto verso il 600 e proveniente da S. Graziano di Tours.
Maggiore originalità ebbero i Visigoti nei lavori d'oreficeria; essi si compiacevano così della varietà dei colori come della ricchezza dei materiali, e non solamente negli oggetti destinati ai tesori reali e negli utensili liturgici - per es. le celebri croci e corone votive trovate a Guarrazar (Toledo) e conservate nel museo di Cluny (Parigi) - ma anche nei gioielli usuali: anelli, fibbie, impugnature, ecc., che si trovano in gran numero negli scavi dei cimiteri. Espediente tecnico caratteristico dell'oreficeria barbara è l'uso di pietre e paste vitree incastonate in laminette metalliche in forma di alveoli.
Si trovano anche esemplari di bronzi visigoti. Nelle arti del metallo come nella scultura decorativa si nota la sopravvivenza di motivi e di procedimenti preromani.
Arte asturiana (secoli VIII-IX). - Alla fine tragica della monarchia visigota (711) e alla rapida invasione trionfale della moresca segue dappresso al nord, nelle Asturie, la formazione di un nucleo di resistenza cristiana (718).
L'arte asturiana ci si presenta con due manifestazioni diverse: da un lato una serie di chiese (S. Giovanni di Pravia, del 780, conservata in parte; Santullano di Oviedo e la "Camera Santa" della stessa città, distrutta nel 1934, ambedue edificate sotto Alfonso II il Casto [791-842]) che sono in tutto fedeli alla tradizione classica degenerata e imparentate con l'arte carolingia, non derivando dall'arte visigota nemmeno l'arco a ferro di cavallo; dall'altro lato le costruzioni di Ramiro I (842-850), opere geniali di un'architettura formatasi su modelli orientali. Nelle prime sono novità per la Spagna la navata di transetto, gli speroni, i contrafforti e le serie d'archi che decorano la cappella maggiore di Santullano. Caratteristica comune ai due gruppi è la camera sopra la cappella maggiore, adibita a luogo di rifugio o di custodia, di difficile accesso e in cui si entra solo da una finestra alta. I monumenti di Ramiro sono: S. Maria di Naranco, nelle vicinanze di Oviedo, di pianta rettangolare sopra una cripta, con gallerie aperte e decorata con rozzi medaglioni di figure in rilievo; la chiesa di S. Michele di Lillo (o Lino), vicina alla precedente, e quella di S. Cristina a Lena. Sono edifici molto elevati, con vòlte semicilindriche su archi a fascioni, rinforzati da contrafforti esterni, mentre all'interno le pareti sono alleggerite da serie di archi ciechi sostenuti da colonne. Ma l'architetto di sì robusta personalità non ebbe imitatori: l'arte asturiana in Galizia segue piuttosto il tipo dei monumenti di Alfonso II, e nelle Asturie solo il portico laterale di S. Salvador de Valdediós (893) ricorda il tipo ramirense, già mescolato a influenze meridionali. L'organismo delle chiese asturiane preannunzia i templi romanici, ma la poca tranquillità di quell'epoca non consentì lo sviluppo di quelle forme architettoniche.
La scultura asturiana è povera e rozza; nei rilievi non viene usato il taglio a sghembo proprio dei Visigoti. Nelle chiese di tipo ramirense la decorazione è più delicata e risponde a modelli scelti, forse, da lavori d'oreficeria o da avorî. I rilievi della porta di S. Michele di Lillo riproducono senza dubbio un dittico consolare.
Arte del califfato di Cordova (secoli IX-XI). - Debolezza della dominazione gota, indifferenza della massa popolare, aiuto efficace degli ebrei: con l'aiuto di questi tre fattori i musulmani s'imposero facilmente. Essi dapprima non abusarono del loro trionfo: nel 718 vengono a patti con i cristiani: questi ultimi tornano alle loro chiese (la cattedrale di Cordova è divisa a metà fra le due confessioni); giudici e conti restano nelle loro città. Ma l'islamizzazione si avanza: l'organizzazione musulmana semplice e vantaggiosa guadagna nuovi adepti; la conversione, semplicissima nella forma, redime dalla schiavitù; il numero dei mozarabi (cristiani sottomessi) diminuisce mentre cresce quello dei muwalladūn (cristiani convertiti).
Nel 756 ‛Abd ar-Raḥmān, della famiglia degli Omayyadi, salvatosi dal massacro della sua famiglia e rifugiatosi nella Spagna, si proclama emiro indipendente dal califfo di Baghdād. Negli ultimi anni del suo governo, che va fino al 788, compra dai mozarabi la metà dell'antica cattedrale visigota e nel 786 erige la nuova moschea di undici navate e un cortile. La brevità del tempo della sua costruzione - un anno - e la quantità di elementi visigoti che vi si conservarono, hanno fatto pensare che si utilizzasse in gran parte quanto esisteva della chiesa cristiana. Gli archi a ferro di cavallo sono di tipo visigoto e le colonne usate erano romane e gote. Per ottenere maggior leggerezza senza pericolo per la stabilità dell'edificio gli archi furono sovrapposti gli uni agli altri in modo che quelli inferiori servissero da sostegno. In essi l'alternarsi di cunei di pietra con quelli di mattoni produce un effetto pittoresco; ma anche questa non era una novità nell'arte spagnola, perché archi doppî e con cunei così alternati sono anche quelli dell'acquedotto romano detto dei Miracoli a Mérida. La moschea di Cordova (v.) servì di modello all'arte araba seguente. Al tempo di Hishām I (788-796) fu costruita la torre e sotto ‛Abd ar-Rahmān II (822-848) l'edificio fu ampliato senza discostarsi dalle norme antiche, però si lavorarono alcuni capitelli e vennero fissate le proporzioni dell'arco arabo a ferro di cavallo prolungandosene la curva fino a metà del raggio. Nel 912 ereditò l'emirato ‛Abd ar-Rahmān III che dal gennaio 929 s'intitolò califfo. Tre anni appresso il suo potere non trovava degno rivale nella Spagna, e fuori di questa egli non aveva altro competitore che l'imperatore di Bisanzio. Nel 936 incominciava la costruzione della meravigliosa città di Medina az-Zahra (Medīnat az-Zahr'ā), contigua a Cordova, che gli scavi stanno riportando alla luce. Nel 961 al-Hakam II ordinava l'ampliamento della moschea. Ciò che allora fu fatto è facilmente riconoscibile, perché non vengono più adoperate le colonne, i capitelli corinzî si alternano con quelli composti di tipo califfale e si mette in opera l'arco lobato, che in Oriente era solamente decorativo. Per dar luce all'edificio divenuto già immenso, s'inventò l'incrociatura degli archi, che lascia una specie di cupola stellata, artificio non men bello che fecondo, perché basato sullo stesso principio a cui dovevano informarsi le vòlte a nervature. Ci condurrebbe troppo lontano l'analisi del lusso del miḥrab, coperto da una vòlta a forma di conchiglia, con musaici, marmi, ecc. Almanzor (al Mansūr) fece nuovamente ingrandire la moschea senza introdurvi altra innovazione che l'uso dell'arco a ferro di cavallo con la punta.
Dopo la morte di Almanzor (1002) Cordova decade, e l'arte rigermoglia in altri centri, Málaga, Toledo, Saragozza, ecc.
L'arte mozarabica (secoli X-XI). - È una delle più interessanti manifestazioni artistiche spagnole. In pochi decennî si consolidò uno stile di soluzioni geniali e di gran bellezza; ma esso finì mentre era in pieno rigoglio; forse non aveva radici profonde perché era un'arte scelta, un'arte per le minoranze.
Quando il Medioevo spagnolo si dipingeva come una lotta senza tregua tra l'islamismo e il cristianesimo, non si poteva comprendere un'arte, qual'è la mozarabica, che vanta relazioni strette tra le due civiltà, non esclusa la convivenza. Essa fiorisce meglio in terre cristiane: fuori di queste ci rimangono due soli esempî, Barbastro e Melque. Raggiunge il suo maggior splendore nella regione leonese con penetrazione nella Galizia, nelle Asturie, in Santander, in Castiglia, in Aragona e in Catalogna. La venuta dei mozarabi cordovani ai cenobî e monasteri situati a nord del fiume Duero spiega la differenza degli elementi artistici califfali, che dovettero unirsi a tradizioni asturiane e visigote.
L'arco adoperato è quello a ferro di cavallo di tipo cordovano; gli edifici sono coperti con vòlte, talvolta con costoloni, secondo il sistema d'archi incrociati che si vede a Cordova nella moschea; le gronde su modiglioni, anch'esse di tipo califfale, sono quelle che dovevano esser introdotte più tardi nello stile romanico; i capitelli sono corinzî di fattura bizantina; alle finestre, transenne di pietra. Nella decorazione, fine e delicata, manca la figura umana; le dimensioni son piccole, la snellezza è elegante. "La composizione degli edifici rifugge dalla semplicità basilicale e dagli ambienti luminosi, e cerca qualcosa di misterioso, le sculture complicate, le prospettive corte, in cui predomina l'altezza e che suscitano a ogni passo novità inattese", riassume il Gómez Moreno.
Le chiese mozarabiche più notevoli fra quelle conservate sono: Melque (Toledo), anteriore al 930; S. Michele di Escalada (León), consacrata nel 913, forse capolavoro di questo stile e la più riccamente decorata; S. Michele di Celanova (Orense), costruita verso il 940, piccolissima, che è il più delicato edificio mozarabico; S. Maria di Lebeña (Santander), e San Baudel di Casillas de Berlanga (Soria), già del principio del sec. XI.
Non ci fu propriamente una scultura mozarabica monumentale, ma fiorì l'intaglio in avorio, talora magistrale, perché seguì la scuola cordovana; citiamo, ad es., la croce del Louvre, l'altra di San Millán de la Cogolla (oggi nel Museo archeologico nazionale di Madrid), la tavoletta con un angelo del Victoria and Albert Museum a Londra, ecc.
Splendida è la serie dei codici mozarabici. Ricordiamo la Biblia Hispalensis, scritta alla metà del sec. X, con bellissime stilizzazioni di uccelli e di pesci e vigorose figure di profeti; la serie dei codici dei Commentarî all'Apocalisse di Beato de Liévana, sì trascendente per l'iconografia; il Codice alceldense (976), l'emilianense 1993), ecc.
Arte romanica (secoli XI e XII). - Tra gli ultimi edifici mozarabici e i primi romanici corre l'intervallo di mezzo secolo, che è poco noto. Nel romanico spagnolo dovrebbe farsi la distinzione tra gli elementi della nuova arte, che già esistevano da tempo nella penisola, e di cui già si è fatto cenno, e l'introduzione di nuove forme già ridotte a sistema. In quanto all'introduzione dello stile romanico non è da misconoscere l'intervento personale del gran re di Navarra Sancho il Maggiore, che per le sue vittorie e in conseguenza del suo matrimonio dominò su tutta la Spagna cristiana. Dal 1025 egli incomincia a introdurre la riforma cluniacense nei monasteri, i quali sebbene non esercitassero un'azione artistica omogenea, a giudizio di Gómez Moreno, pure furono i fattori del nuovo stile, come furono causa dei pellegrinaggi a Compostella e dei cambiamenti in senso europeo che dovevano attuarsi durante il regno di Alfonso VI (1072-1109), quali la sostituzione dei caratteri mozarabici coi francesi, del rito isidoriano col romano, ecc.
A parte bisogna considerare la Catalogna. V'è incertezza sulla cosiddetta prima arte romanica con le vòlte attribuite ai secoli IX e X, e nemmeno può dimenticarsi la sua relazione con l'arte carolingia e la lombarda. La grande figura dell'abate Oliva de Ripoll, che nel 1032 consacrava la chiesa da lui riedificata, domina il rinascimento romanico catalano. Lo studio dell'architettura romanica catalana deve incominciare da quello delle chiese di Caserres (1006), Tabernoles, Cardona (1040), ecc.
Nel 1034 fu ampliata la cripta visigota della cattedrale di Palencia e fu dedicata l'anno seguente: ha una navata larga sette metri con abside che non raggiunge la metà del cerchio; la sua struttura e i particolari rivelano caratteri romanici, con arcaismi che fanno pensare a un maestro che conosceva l'architettura asturiana. Singolare è il sistema delle vòlte, comune nella Spagna a differenza della Francia, Italia e Germania. In questi primi passi del romanico tutto ci parla della sua relazione con l'architettura asturiana, che, secondo l'opinione del Gómez Moreno, è il protoromanico meglio documentato che possa riconoscersi in Occidente.
Due figli di Sancho il Maggiore, Fernando e Ramiro, edificano rispettivamente il portico detto Pantheon reale in S. Isidoro a León e la cattedrale di Jaca, quello finito tra il 1066 e il 1073, questa dedicata nel 1063. Nel portico troviamo frammiste influenze lombarde, bizantine e normanne, una meravigliosa decorazione dei capitelli, in quattordici dei quali predominano figure la cui spiccata originalità e vivacità congiunte con gran sentimento ci turberebbero per la mancanza di precedenti, se non coincidessero nella data con una serie di prodigiosi lavori in avorio e di oreficeria dovuti alla munificenza dello stesso re Fernando I (per es., lo stipo con lamine d'avorio che i re donarono alla chiesa di S. Isidoro nel 1059, il crocifisso, pure d'avorio, che si conserva nel Museo archeologico nazionale, del 1063, e l'insigne cassa d'argento che servì nel 1063 a custodire le reliquie di S. Isidoro trasportate da Siviglia a León).
La cattedrale di Jaca è un edificio grandioso e perfettamente romanico (1054?-1063): ha tre navate con un transetto allo stesso livello, alla maniera lombarda seguita poi anche nella Spagna, un complesso di vòlte perfetto, soprattutto nella cupola, e una ricchissima decorazione scultorea più classica che bizantina.
Altre opere tipiche nella Castiglia sono: S. Martino di Frómista (Palencia); Silos, con un chiostro sulla cui data v'è grande controversia, benché tutti siano concordi sul valore e sulla bellezza dei capitelli in cui si scorge l'influenza di avorî bizantini e califfali; la chiesa di S. Isidoro di León (tra il 1072 e il 11oi), e finalmente il monumento principale dello stile romanico spagnolo, ossia la cattedrale di Santiago de Compostela (v.), incominciata nel 1075 e consacrata nel 1105, tra i maggiori monumenti dell'età romanica sia per l'architettura sia per le sculture della "Puerta de las Platerías" e del "Pórtico de la Gloria".
Lasciando questi monumenti che già annunziano il gotico, è necessario citare alcuni esempî di valore cospicuo, quali gli avorî pieni d'espressione della cassa di San Millán (ora nel Museo archeologico nazionale di Madrid), che debbono datare dal 1067, la magna arca santa della Camera Santa di Oviedo, d'argento dorato con rilievi del 1075. Si ha così ancora una prova che lo stile spagnolo è frutto dell'unione feconda dello stile cristiano con quello musulmano. Bisogna ricordare i codici miniati romanici, specialmente quelli dei citati Commentarî all'Apocalisse di Beato. Sotto Fernando I cominciano a sentirsi influenze dell'arte nuova, come nel codice scritto per il re nel 1047. Le pitture di San Baudel di Casillas de Berlanga, con curiose scene bibliche e di caccia, e quelle di Maderuelo, ambedue in Castiglia, e soprattutto la serie degli affreschi catalani formano un complesso imponente nella storia della pittura medievale. Le pitture catalane più antiche sono quelle della chiesa mozarabica di Pedret che ha raffronti con modelli romani. Verso la metà del secolo XII, all'influenza italiana s'aggiunge quella della scultura monumentale del sud della Francia, evidente nelle pitture di S. Michele della cattedrale di Urgel e in quelle magnifiche di S. Clemente di Tahull, di data alquanto dubbia.
Alla fine del sec. XIII incominciano a giungere le forme del gotico, ma si tratta più d'una penetrazione esitante che di un'invasione; in luoghi remoti e in regioni rurali perdura il romanico anche nel corso del sec. XIII.
Conviene qui ricordare una manifestazione artistica, tipica del medioevo spagnolo, cioè il mudéjar (v.), o "moresco", arte mista di elementi cristiani e musulmani che i muratori mori diffusero in Castiglia, nel León e in Aragona. Forse la sede principale ne è Toledo; belle costruzioni moresche sono ad Arévalo (Ávila) e a Cuellar (Segovia), bcllissime sono le torri di questo stile (Sahagun, lllescas, Toledo, ecc.); contengono più elementi gotici quelle superbe di Teruel, graziose e policromate.
Arte gotica (secoli XIII-XV). - Vi sono alcune opere di transizione al nuovo stile: non propriamente le strane cupole della cattedrale di Zamora, della cattedrale vecchia di Salamanca e della collegiata di Toro, che forse si avvicinano più allo stile musulmano che all'orientale; ma certamente alcuni edifici, come il Pórtico de la Gloria nella cattedrale di Santiago de Compostela, una delle prime costruzioni spagnole con archi ogivali, opera di maestro Mateo (tra il 1168 e il 1188).
Contemporanei, e forse dello stesso Mateo, sono gli edifici di Carboeiro (Pontevedra, presso Compostela) e probabilmente la navata della cattedrale di Zamora (1174) e quella di Ávila. Il nuovo sistema di vòlte sopraggiungeva quando già era cominciata la costruzione in romanico di molte chiese, donde la mescolanza strana dei due stili. I monaci cisterciensi ebbero nella diffusione del gotico la stessa parte che i cluniacensi avevano avuto in quella del romanico. Lungo sarebbe enumerare i grandi monasteri di quell'ordine che da Alcobaza nel Portogallo fino a Poblet e a Santas Creus in Catalogna diedero un impulso intensissimo alla costruzione nello stile gotico primitivo o di transizione. Moreruela a Zamora è per il Gómez Moreno il più antico esempio cisterciense nella Spagna, anteriore al 1168; il Lambert lo reputa invece della fine del secolo. Poblet è più importante, la sua influenza nella Catalogna fu decisiva; così a Tarragona la cattedrale fu innalzata nello stile gotico di transizione (la sua inaugurazione ebbe luogo nel 1220, quando non era ancora terminata). Nella Castiglia si osserva pure un'influenza parallela, quella del monastero di Huerta sulla cattedrale di Sigüenza, a cui si collegano la cattedrale di Cuenca e le Huelgas di Burgos, persino per l'intervento dello stesso maestro, secondo il Lambert. La cattedrale di Ávila, col suo duplice ambulacro e il suo aspetto guerresco (perché la parte superiore è incorporata nel muro di cinta), è forse opera di un maestro Fruchel, straniero, morto già nel 1192, che conosceva l'arte borgognona e Saint-Denis. L'aspetto militare è pure caratteristico nella cattedrale di Tuy (Galizia), in cui si scorge l'influenza di quella di Santiago.
La grande architettura gotica costituitasi a sistema penetra nella Spagna durante il regno di Fernando III il Santo, cugino di san Luigi re di Francia. Le due grandi cattedrali di Burgos e di Toledo sono contemporanee in tutto; di quella di León, un po' più tardiva nell'esecuzione, si può forse dire che è un monumento in certo modo estraneo all'arte spagnola e che non fece scuola.
La cattedrale di Burgos (v.), cominciata nel 1221 o 1222, e consacrata nel 1260, aveva nella semplicità primitiva, ora nascosta sotto il profuso rivestimento del sec. XV, evidenti somiglianze con le cattedrali francesi di Coutances e di Bourges, ma con tratti originali. Questi predominano invece nella più notevole fra le grandi chiese gotiche della penisola, la cattedrale di Toledo (v.), di cui fu posta la prima pietra nel 1226 o 1227 (ma i lavori erano già incominciati prima), costruzione robusta con lievi note di origine moresca. La cattedrale di León è una costruzione tutta francese in cui, come nella cattedrale di Beauvais, si vuol giungere a leggerezza inverosimile.
Il pieno stile gotico fu diffuso e reso popolare dagli ordini monastici, francescani e domenicani. Domenicano fu il primo tempio gotico autentico della Catalogna, S. Caterina a Barcellona (1223).
Anche il solo elenco delle cattedrali e chiese gotiche spagnole sarebbe interminabile: è una continua serie per tre secoli. Nel sec. XV si edifica la cattedrale di Siviglia; nel 1416 si lancia l'immensa vòlta di quella di Gerona; nel XVI si costruiscono le cattedrali di Salamanca e di Segovia con tal padronanza di tecnica e con tal perfezione, che ciò che manca nello sforzo per ottenere l'originalità è compensato dal vittorioso complesso dei problemi costruttivi risolti felicemente.
Il gotico, come il romanico, ebbe nella Spagna anche uno sviluppo popolare con materiali umili (mattoni, gesso, muri in forme) che i moreschi sapevano maneggiare con molta perizia. L'opera principale in questo stile è il chiostro di Guadalupe (Cáceres), e, nel tipo militare, il castello di Coca (v.). Quest'arte, di forme gotiche ma di tecnica e di capricci moreschi, lasciò innumerevoli monumenti in Castiglia e in Aragona. Così presero radice alcuni elementi, per es. i soffitti in legno, che continuarono a esser costruiti in tempi avanzati del Rinascimento e anche in pieno Barocco.
Delle sculture nelle numerose facciate gotiche della Spagna non è qui possibile far l'enumerazione: citiamo solo quelle, grandiose nel loro insieme, di León e di Burgos, soprattutto le prime, vicine e paragonabili alle più belle della Francia. A Burgos inoltre sono ammirabili i gruppi di statue del chiostro, a Toledo le sculture della cappella maggiore.
La scultura del sec. XIV non è paragonabile a quella del XIII; è più profusa che ispirata e vigorosa. Nel Trecento arrivano lavori dall'Italia, come il sepolcro di S. Eulalia nella cattedrale di Barcellona (1339).
Il sec. XV fu di meravigliosa fioritura per la scultura spagnola. Al principio di esso lavora a Valenza lo scultore Giuliano Fiorentino che aveva subito l'influenza del Ghiberti; Juan de la Huerta è aiutante di Claus Sluter a Digione; a Pamplona scolpisce Janin de Lome borgognone (1416). L'arrivo di artisti francesi, fiamminghi e tedeschi, che si nazionalizzano immediatamente, a Burgos (i Colonia, i Siloe), a Toledo (Giovanni Alemanno, l'Egas, Giovanni Guas), a Guadalupe (Egas), a Siviglia (Mercadante di Bretagna), produce un movimento straordinario, aiutato pure dalla diffusione di due forme d'arte che, se non nacquero in Spagna, raggiunsero però in Spagna il loro massimo sviluppo: i grandi altari scolpiti e gli stalli corali.
Si ricordino tra i primi gli altari di Tarragona, di S. Nicola di Burgos, della certosa di Miraflores, fino a quello colossale della cattedrale di Siviglia, e a quello di Toledo, dei primi anni del sec. XVI. Degli stalli corali conviene citare quelli complicati in stile gotico fiorito in S. Tommaso di Ávila, nella certosa di Miraflores, in Celanova (Galizia), ecc., e quelli scolpiti a figure in León, Ciudad Rodrigo, Plasencia, oltre alla parte inferiore di quello di Toledo, lavoro del maestro Rodrigo Alemanno.
Nel sec. XIII continuò a fiorire la miniatura. Nella corte di Alfonso X il Sapiente, la scuola dei miniatori fu in certo modo la filiale della scuola francese della corte di S. Luigi. La pittura seguì gli arcaismi romanici e diminuì d'importanza col diminuire degli spazî murali nell'architettura gotica.
Antonio Sanchez di Segovia firma nel 1262 le pitture della cappella di S. Martino nella cattedrale vecchia di Salamanca ed è nella Castiglia il primo pittore di cui si conosca un'opera. I paliotti romanico-catalani acquistano maggior dimensione e cominciano a mutarsi in altari scolpiti. L'influenza della miniatura, soprattutto francese, è manifesta nelle opere castigliane.
La pittura italiana penetra nella Spagna già nella prima metà del sec. XIV, e poi continuamente fino al sec. XVI.
Ferrer Bassa (1285 o 1290-1348) è l'autore delle pitture murali di Pedralms (Barcellona) eseguite nel 1345 o 1346 e in cui si trovano tratti fiorentini e senesi; poi lavorano nei paesi di Aragona Jaime e Pedro Serra, nei cui altari si accentua l'influenza di Siena.
Negli ultimi anni del sec. XIV si reca nella Catalogna e a Valenza e lavora a Toledo il pittore fiorentino Gherardo di Iacopo Starnina; e se non è sicuro che siano di sua mano le pitture della cappella di S. Biagio nella cattedrale di Toledo, vi si può supporre la sua influenza.
Il sec. XV s'inaugura con l'italianissimo altare della certosa di Porta Coeli (ora nel museo di Valenza), sia esso opera di un italiano ovvero di uno spagnolo, p. es. di Lorenzo Zaragoza. Gl'insegnamenti di Firenze e di Siena, e, senza dubbio, anche quelli di Avignone, dovevano penetrare maggiormente nell'Aragona e nella Navarra che nel centro e nell'occidente della Spagna; tuttavia i modi italo-gotici dominano fortemente nella stessa Castiglia. Nel 1434 era terminato il lavoro dell'altare della cattedrale di León, opera immensa del maestro Nicolas Francese, nella quale sono frammiste le influenze senesi con quelle delle miniature d'oltre Pirenei. Prima del 1446 venne dipinto l'altare, ancora conservato nella sua integrità, della cattedrale di Salamanca dall'italiano Dello di Nicola, detto Nicola Fiorentino.
Ma già sul principio del secolo XV vi erano stati indizî di un nuovo stile nella pittura, che doveva acclimarsi nella Spagna quasi con lo stesso vigore che aveva nella sua terra d'origine. Nel 1429 era stato nel Portogallo, a Granata e a Compostella Jan Van Eyck; nel 1431 Lluís Dalmau (v.) va come pensionato in Fiandra e nel 1443 dipinge la Vergine coi ritratti dei Consiglieri di Barcellona (ora nel museo di questa città) seguendo una composizione del Van Eyck e persino ricopiandone gli angeli, sebbene a tempera; un artista, chiamato Giorgio Inglese, di tecnica fiamminga, è pittore del marchese di Santillana verso il 1450, e Jaime Baço Jacomart, pittore del gran re Alfonso V, annunzia i nuovi destini dell'arte della pittura spagnola con la fusione delle influenze italiane con la tecnica fiamminga.
Già prima della metà del sec. XV erano numerosissime nella Spagna le tavole fiamminghe; da nessun paese, compresa la Fiandra, ne sono uscite tante, e forse all'infuori della Fiandra nessun paese ne conserva ancora in sì gran numero. Il loro insegnamento doveva dare vastissimi risultati.
Arte musulmana negli ultimi secoli del Medioevo. - L'aumento della potenza cristiana coincide con la divisione del califfato di Cordova in regni di taifa. Ci vorrebbe troppo spazio per indicare anche solo le caratteristiche dei varî centri artistici che sorgono: Saragozza con la sua Aljaferia, Málaga con la sua Alcazaba, Siviglia che vede innalzarsi graziosissima la torre della Giralda, ecc. Nel sec. XIV l'arte musulmana, in decadenza quanto a vigore e originalità, fu più robusta che mai in splendore decorativo, e le meraviglie di Granata (Alhambra e Generalife) e l'Alcázar di Siviglia sono ancor oggi esempî senza pari dell'immaginazione e del raffinamento dei mori della Spagna. L'influenza di quest'arte decadente e bellissima non si limitò all'Andalusia già cristiana, come Siviglia, Cadice e Jaen, ma penetrò anche nella Castiglia, specialmente nella costruzione dei palazzi per la nobiltà (Toledo, Tordesillas, Salamanca, ecc.).
Età moderna. - L'arte prima dell'introduzione del Rinascimento italiano (1473-1491). - Se si volesse indicare una data per fissare il principio dell'evo moderno nella Spagna, non si potrebbe segnare altra che quella dell'anno 1472, in cui furono proclamati i re cattolici Fernando d'Aragona e Isabella di Castiglia. Durante il loro regno si compì l'unità nazionale, si raggiunse l'unità della penisola iberica - che risultò effimera -, si conseguì la scomparsa della dominazione musulmana e fu scoperta l'America; nell'arte incominciarono a penetrare le forme italiane, che dovevano poi diffondersi sempre più.
Prima dell'introduzione piena del Rinascimento italiano l'architettura seguì uno stile che partecipa del gotico fiorito (che prima della metà del sec. XV a Burgos e a Pamplona, a Valenza e a Palma aveva lasciato esempî ricchissimi) e di motivi e tecniche del moresco. È lo stile "Isabella", come lo battezzò il Bertaux, in cui furono costruiti S. Giovanni de los Reyes a Toledo, il palazzo dell'Infantado a Guadalajara, il castello del Real de Manzanares (Madrid), il collegio di S. Gregorio a Valladolid, ecc., con questa particolarità, che tra i maestri di questo stile si trovano anche alcuni stranieri, come Jean Guas di Lione.
Nella pittura l'influenza fiamminga diviene poco meno che esclusiva sotto i re cattolici. Quando essi incominciavano a governare, Fernando Gallego, che dipingeva a Zamora fin da prima del 1467 era l'artista che rappresentava con maggior successo questa tendenza nella Castiglia. Isabella era portata alle pitture fiamminghe (suo padre Giovanni II e suo fratello Enrico IV ne avevano già acquistate alcune) e giunse a possederne in gran quantità; di esse ne rimangono ancora più di 50 a Granata e a Madrid. Dei quattro pittori che risultano essere stati al suo servizio, due erano fiamminghi: Giovanni di Fiandra e Michele Sitium, autori del Polittico della Regina (di cui quindici tavole si conservano nel palazzo di Madrid), e il primo di essi, inoltre, autore dell'altare della cattedrale di Palencia, ecc. Al contrario, non ebbero cariche di palazzo artisti italiani, e nemmeno sembra che avessero fortuna i loro dipinti sebbene nel tesoro della cappella reale di Granata vi sia proprio una tavoletta di S. Botticelli.
Bisogna spingersi innanzi nel regno dei grandi monarchi per ritrovare dominante l'influenza italiana.
Quattro grandi pittori, contemporanei fra loro, impersonarono questo momento, fondendo variamente elementi fiamminghi e italiani: Rodrigo di Osona, che dipinge a Valenza nel 1476, Bartolomé Bermejo, cordovano, che dipinge in Aragona (1474) e in Catalogna, Alejo Fernández, che lavora principalmente a Siviglia, e Pedro Berruguete (v.), castigliano, il quale certamente intervenne con Giusto di Gand nell'esecuzione della serie di ritratti di dotti e delle allegorie delle arti liberali per lo studiolo del palazzo di Urbino, e poi, tornato in Spagna, dipinse a Toledo, Ávila, ecc. Riguardo al primo, la cui opera conosciuta è scarsa, non si è ancora accertata la parte che poterono avere nel suo italianismo Paolo di San Leocadio e Francesco Pagano che lavoravano a Valenza dal 1472. Il secondo, che è il più vigoroso dei primitivi spagnoli, accoppia all'abilità fiamminga l'aspro realismo spagnolo e un gusto alquanto arcaizzante per gli ori lavorati. Nel terzo le note d'italianismo sono più chiare, e unite a maggior dolcezza e soavità, a un sentimento più moderno del colore. Finalmente Pedro Berruguete è il più geniale e completo nelle sue composizioni, nella sua forte personalità, nel suo colorito robusto, che in alcuni quadri egli ottiene con l'impiego di fondi d'argento. A questi quattro, e forse come loro pari, dovrebbe aggiungersi il misterioso maestro Alfonso, autore della mirabile tavola del Martirio di San Medin, proveniente da San Cugat del Vallés e ora conservato nel museo di Barcellona, ma di una personalità sì forte si conosce solo quest'opera.
La pittura catalana negli ultimi decennî del sec. XV conta maestri come Jaime Huguet (v.) e come i Vergós, artista, il primo, di squisita sensibilità, artisti, i secondi, d'energia alquanto forzata, che non seppero accogliere le nuove norme progressive, aderirono al gusto per gli ori abbondanti e per i rilievi di gesso che dànno ai quadri più sontuosità che bellezza, e contribuirono con il loro arcaismo, forse decisamente, a far sì che la pittura catalana dei secoli seguenti non raggiungesse il livello a cui era arrivata fin dal sec. XII.
Per la sua celebrità ingiustificata, dobbiamo menzionare il pittore Rincón in cui i trattatisti dei secoli XVIII e XIX sintetizzavano tutto il mutamento della pittura spagnola nel Rinascimento iniziale: si chiamava Fernando e non Antonio, come si credeva, e le sue opere lo rivelano artista mediocre.
Il Rinascimento italiano nella Spagna. - Sulla fine del sec. XV, e sempre più intensamente nel XVI, l'arte italiana si affermò con l'opera dei suoi artisti, con le sue influenze, così nell'architettura come nella scultura e nella pittura.
Se si prescinde da particolarità più curiose che importanti, si può dire che il primo edificio direttamente soggetto alle nuove correnti architettoniche sia il collegio di S. Croce a Valladolid, nel cui vestibolo si legge la data MCCCCXCI, mentre nello stemma reale della facciata manca la granata, emblema parlante del regno moro conquistato nel 1492. Al cardinale don Pedro González de Mendoza che lo fondò, e a suo fratello conte di Tendilla, si deve in gran parte l'introduzione del Rinascimento italiano nella Castiglia. Altri personaggi della stessa famiglia intervennero come mecenati nella stessa impresa; il marchese del Cenete, figlio naturale del cardinale, portò dall'Italia i marmi del cortile e della scala per la sua fortezza della Calahorra (Granata), tanto austera all'esterno quanto graziosa nell'interno.
Opera probabilmente importata, o lavorata in Spagna da mano italiana, dev'essere la magnifica tomba dello stesso cardinale (morto nel 1493) nella cattedrale di Toledo.
La prima chiesa edificata nella Spagna in stile Rinascimento è quella del convento francescano di S. Antonio di Mondejar (Guadalajara), oggi in rovina, fondazione del conte di Tendilla. In queste costruzioni dei Mendoza alla fine del sec. XV e al principio del XVI interviene un architetto, sconosciuto fino a poco tempo fa, chiamato Lorenzo Vázquez, che certamente fu in Italia al seguito di Tendilla ambasciatore dei re cattolici presso il papa (1487).
Forse il successo della tomba del Mendoza influì a dar l'incarico di quelle del principe don Juan in S. Tommaso di Ávila, dei re nella cappella reale di Granata e del cardinale Cisneros in Alcalà allo scultore fiorentino Domenico di Alessandro Fancelli, che teneva nel suo laboratorio lo spagnolo Bartolomé Ordóñez (v.), il quale finì alcune opere che il maestro dovette lasciare incompiute. Ci vorrebbe troppo spazio solamente per enumerare le opere d'arte italiana di scultura e di decorazione, entrate in Spagna, e anche per trattare degli artisti che vi si recarono, tra i quali due hanno speciale importanza, Pietro Torrigiano, che lavorò e morì (1528) a Siviglia, e Iacopo l'Indaco, che fu pure pittore e architetto.
Non bisogna neanche dimenticare che nello stesso tempo artisti spagnoli andavano a studiare in Italia. Quello che con maggior purezza apprese le forme classiche fu Pedro Machuca (v.), architetto del palazzo di Carlo V nell'Alhambra di Granata.
Nella pittura, forse perché persisteva la predilezione per le tavole e gli arazzi di Fiandra, l'introduzione di opere italiane nella Spagna fu meno intensa, ma molti Spagnoli vennero a studiare in Italia e molti Italiani e altri artisti italianeggianti si recarono in Spagna. Quattro pittori spagnoli dovettero formarsi in Italia: Fernán Yáñez de la Almedina e Fernán Llanos, che furono a fianco di Leonardo e che a Cuenca e a Valenza lasciarono saggi di arte squisita; Alonso Berruguete (1486-1560), figlio del grande pittore, avendo studiato con Michelangelo, conseguì maggior gloria con la scultura; Pedro Machuca, già citato come architetto, che nei documenti si dice pittore (un suo quadro, firmato e datato nel 1517, denota una formazione schiettamente italiana, dovuta alla conoscenza a fondo delle pitture di Michelangelo e del Correggio). Di altri pittori, come Juan Vicente Macip a Valenza (padre di Juan de Juanes, più famoso di lui, ma meno valente), il Perea, che dipinse a Sigüenza, ecc., è evidente l'italianismo, ma non è documentata la permanenza in Italia.
I pittori italiani che lavorarono in Spagna sono di scarsa importanza: il misterioso Santa Cruz che lavora in Ávila; Giulio de Aquilis, figlio di Antoniazzo Romano, che dipinse nell'Alhambra (verso il 1530) e nella regione di Jaen; Alessandro Mayner, collaboratore di Giulio a Granata; un Andrea Fiorentino che lavora a Toledo, ecc.: e nessuno di loro era paragonabile in valore coi pittori Santo Leocadio e Pagano che alcuni anni innanzi avevano operato a Valenza. Anche Giovanni di Borgogna a Toledo e Pedro de Campaña (il brussellese Campeneer) nonostante le loro origini dipinsero italianamente.
Già abbastanza innanzi nel sec. XVI, a Siviglia, Luis de Vargas (morto nel 1568) ricorda il Correggio; a Valenza, Juan de Juanes (morto nel 1579) è il più fedele dei pittori spagnoli raffaelleschi, redimendosi dal manierato nei ritratti. In margine al movimento dell'epoca Luis de Morales (chiamato "il Divino" per aver trattato esclusivamente soggetti religiosi) conserva alcuni arcaismi e coltiva il gusto per la divozione in composizioni tenere e semplici.
Stile plateresco. - Per notevole reazione del genio nazionale contro l'introduzione di stili stranieri, e in momenti di enorme vitalità quali furono quelli del regno di Carlo V, doveva sorgere un'arte originale.
Già fin da quando incominciano ad arrivare le forme architettoniche del Rinascimento si va formando uno stile (che il Bertaux chiamò "style Ximénez" dal gran cardinale Jiménez de Cisneros) in cui sopra un fondo gotico appaiono elementi italiani, il tutto trattato con tecnica e con reminiscenze moresche (sala capitolare della cattedrale di Toledo, cappella dell'Annunziata nella cattedrale di Sigüenza, sala "dei Grandi" nell'università di Alcalà, ecc.).
Ma, seguitando la penetrazione del Rinascimento italiano, esso prese carattere spagnolo nello stile chiamato plateresco (v.), che nell'architettura con l'abbondanza di ornati, la minuziosità e l'eleganza, con soffocare alquanto la purezza delle linee, ecc., vien quasi a toccar da presso l'arte degli orafi (plateros).
Come abbiamo evocato il cardinale Mendoza e la sua famiglia quali introduttori decisivi del Rinascimento italiano nella Spagna, così dobbiamo riconoscere la parte che l'arcivescovo di Santiago e di Toledo don Alonso de Fonseca (morto nel 1534) ebbe nel proteggere il plateresco, facendo costrurre la casa della Salina a Salamanca, il collegio arcivescovile della stessa città, il cortile del palazzo e la facciata dell'università di Alcalá, ecc.
I maggiori artisti di questo tempo tra gli architetti sono: Alonso de Covarrubias, che lavorava principalmente a Toledo, Pedro Gumiel ad Alcalá e Diego de Siloe a Granata. Più oltre nel secolo, Andrés de Vandelvira nella regione di Jaen depura il plateresco dall'eccessivo fogliame decorativo, ma la reazione classica frustrò la sua tendenza moderata portando agli estremi l'aridità con la pura geometria di un Juan de Herrera (v.).
Nella scultura quattro nomi s'impongono: Filippo di Borgogna (morto nel 1543), che, ancora gotico quando giunse a Burgos sulla fine del sec. XV, aderì all'arte del primo trentennio del sec. XVI collaborandovi attivamente; Alonso de Berruguete (v.), il più forte e originale degli scultori spagnoli, compie grandi opere (altare di S. Benedetto nel museo di Valladolid, metà degli stalli del coro superiore nella cattedrale di Toledo, ecc.), che spiccano per il loro dinamismo e per la forte emozione drammatica; Vasco de Zarza in Ávila e Toledo, decoratore meraviglioso, ma più delicato che robusto; Damiano Forment (morto nel 1540), che fu grande scultore d'altari in Catalogna (Poblet), Aragona (Saragozza e Huesca), alla Rioja (Santo Domingo de la Calzada), ecc. Anche Siloe fu scultore squisito. Juan de Juni, francese, portò a eccessi barocchi l'ampiezza delle vesti, il movimento, la violenza degli atteggiamenti e l'espressione dei sentimenti: le sue sculture a Valladolid, Medina de Rioseco, Segovia, se non fosse certissimo che vanno attribuite a lui, non si direbbero opere d'un artista che morì molto vecchio nel 1577.
L'arte sotto Filippo II. - Dalla metà del sec. XVI le vicende dell'arte spagnola sono più conosciute, le individualità degli artisti, alcuni dei quali grandissimi, sono ben note; perciò qui se ne dà un riassunto, rinviando per i particolari alle singole voci.
Il regno di Filippo II apportò nello svolgimento dell'arte una reazione classica: basta evocare il monumento massimo del suo tempo, l'Escoriale (1563-1584), di cui fu costruttore Juan de Herrera; monumento in cui la critica moderna ha saputo trovare bellezza e pregi artistici là dove prima si censurava la freddezza e l'aridità geometrica.
Nell'Escoriale (v.) non v'è la minima decorazione scultorea, quasi non vi sono sculture: un S. Lorenzo, i sei re di Giuda, i quattro Evangelisti (opere del toletano Juan Bautista Monegro), gli Apostoli e il Calvario dell'altare, bronzi meravigliosi al pari dei maestosi mausolei, lavori di Leone Leoni e di suo figlio Pompeo.
All'opposto, la decorazione pittorica dell'Escoriale fu cura personale dello stesso re Filippo II. Si è già detto che dal sec. XV i re di Castiglia furono molto amanti di pitture e di arazzi, ma tutti li superò Filippo II che fin dalla giovinezza mostrò gusto e conoscenza dell'arte. Egli ereditò da suo padre l'amicizia e la protezione verso il Tiziano, ebbe al suo servizio il Moro e acquistò centinaia di quadri fiamminghi e veneziani, sue predilezioni artistiche. Volle far venire all'Escoriale il Veronese e il Tintoretto, e quando, con poca fortuna, un ambasciatore gli mandò Federico Zuccari, non dissimulò il suo sdegno. Non sappiamo fino a qual segno lo contentarono Luca Cambiaso e Pellegrino Tibaldi, ma è noto con quanto entusiasmo incoraggiasse lo spagnolo Juan Navarrete il Muto (morto nel 1570), che tuttavia non ebbe successo. Una mancanza del gusto artistico del re, non ancora ben spiegata e che attende schiarimenti, è il cosiddetto "insuccesso escorialense del Greco" il cui meraviglioso San Maurizio non occupò il posto destinatogli in una cappella, essendo stato dato lo stesso incarico a R. Cincinnato. Prima che s'incominciasse a dipingere all'Escoriale, morì nel 1570 un pittore e scultore che studiò in Italia, donde era ritornato con gusto manierato, G. Becerra. Però già aveva dipinto nell'enorme monastero Alonso Sánchez Coello (1532-1588); discepolo del Moro nel ritratto, nel quale fu eccellente; egli fu seguace degl'Italiani nelle composizioni religiose. Filippo II non solo riunì pitture insigni nell'Escoriale, ma anche nel Prado e nell'Alcázar di Madrid raccolse splendide collezioni, alle quali, accresciute da Filippo III e Filippo IV, deve attribuirsi in gran parte lo splendore delle grandi scuole della pittura spagnola nel sec. XVII.
Alla morte di Filippo II, che coincide con la fine del secolo (1598), esistevano nella Spagna varî centri artistici importanti: la corte e Toledo, Siviglia e Valenza, e, per la scultura, Valladolid e Granata.
Nella corte (Madrid, edifici reali ed Escoriale) dominavano due tendenze: decoratori (italiani e italianeggianti) e ritrattisti (seguaci di Sánchez Coello e, attraverso questo, del Tiziano e del Moro). A Toledo si affermava la grande figura del Greco, che secondo l'espressione di un poeta del tempo "aveva là trovato i suoi pennelli", meno incompreso e meno isolato di quanto si è supposto, dimenticando l'abbondanza d'incarichi affidatigli, gli elogi dei contemporanei e il gran numero dei suoi imitatori e persino dei suoi falsificatori. A Valenza nasceva una nuova maniera di pittura, di cui era cultore Francisco Ribalta e che non si può chiamare tenebrosa perché differisce dal caravaggismo, ma che doveva condurre alla stessa meta. A Siviglia v'erano nella stessa generazione un naturalista violento e di valore, Francisco de Herrera il Vecchio, un pittore dotto e buon maestro, Francisco Pacheco, e un artista che mostrava di conoscere gli ultimi veneziani, Juan de Roelas. Tutti gli elementi necessarî per far sorgere una generazione di grandi artisti erano in azione: dal 1591 al 1618, da Ribera a Murillo nascono tutti i grandi pittori spagnoli.
Nella scultura, a Valladolid con lo studio di Leoni, classico ed elegante, coesistevano germogli manierati di un'arte che aveva perduto lo spirito del Berruguete e il brio del Juni (nell'ambito delle ampollosità e del manierismo michelangiolesco visto da lontano), quando la venuta del gallego Gregorio Fernández, formatosi, sembra, a Granata con Pablo de Rojas, iniziava la grande scuola della statuaria realistica castigliana. A Siviglia rappresenta una parte simile Juan Martínez Montañes discepolo di Rojas.
L'arte sotto Filippo III (1598-1621). - Per l'arte è questa un'epoca di transizione: continuano a essere in voga le forme architettoniche escorialensi, mantenute da Gómez de Mora e da altri mentre sono in incubazione quelle libertà barocche che dovevano sbocciare durante il regno successivo.
Se lo Schubert apre la storia del barocco spagnolo con l'Escoriale, altri trattatisti ne vedono l'inizio nella Cancelleria di Granata (I580), ma già nell'ottagono della cappella della Madonna del Sagrario della cattedrale di Toledo (1592 e segg.) sono patenti le trasgressioni contro lo stile classico.
Nella pittura, all'infuori del Greco che continuava a produrre a Toledo le sue esaltazioni meravigliose, si mantenevano i centri artistici su mentovati, ma la produzione pittorica nella corte era di qualità così scadente, che il Rubens, quando fu in Spagna per la prima volta nel 1603, formulò su di essa un aspro giudizio.
Nella scultura è il gran momento del realismo. Gregorio Fernández (morto nel 1636) lavorava a Madrid, a Plasencia e soprattutto a Valladolid, dedicando la propria attività principalmente alla scultura di gruppi in legno di due o più figure (pasos) per le processioni. La residenza della corte a Valladolid aveva destato in quella città castigliana una bramosia di ostentare la fede, sostenuta dalle confraternite di penitenti che ordinavano gruppi scolpiti rappresentanti scene della passione di Cristo. Gregorio Fernández fu quello che meglio comprese il gusto popolare; le sue statue sono impregnate di sentimento patetico, realistico, squisito solo quando modella il nudo. Nell'Andalusia grandeggia Martínez Montañes (1568-1649), fecondo scultore d'altari, le cui figure essendo più classiche di quelle di Fernández, hanno maggior nobiltà e dolcezza. Tra i suoi scolari primeggia Juan de Mesa, al quale i documenti hanno restituito alcune delle opere più famose che si credevano del maestro.
L'arte sotto Filippo IV (1621-1665). - È difficile riassumere il quadro magnifico dell'arte durante il regno di Filippo IV, del monarca che, tra altro, ebbe la fortuna di regnare al tempo del Velázquez, che protesse dal suo arrivo a Madrid fino alla sua morte (1623-1660). Anche il conte-duca Olivares, ministro generale e favorito di Filippo, protesse il Velázquez e con i lavori del palazzo del Buen Retiro (Madrid) diede incremento alle arti. Inoltre il re fu un compratore entusiasta di quadri ed ebbe al suo servizio il Rubens, a cui affidò molti incarichi e che, tornato per la seconda volta in Spagna nel 1628-1629, ebbe sui pittori spagnoli opinione meno avversa.
Tra i pittori è sovrano in questa epoca il Velázquez; grandeggiano nella scuola di Valenza F. Ribalta, il Ribera; nella scuola di Siviglia, Alonso Cano, lo Zurbarán: maestri la cui poderosa individualità è definita alle singole voci.
Qui noteremo soltanto alcune particolarità. Già accennammo all'influenza che ebbero sullo sviluppo della pittura spagnola le ricchissime collezioni reali, in cui predominavano i quadri della scuola veneziana e della produzione personale di Rubens, pur essendovi copiosamente e brillantemente rappresentate altre tendenze; e appunto queste collezioni reali furono quelle che diedero una più forte impronta alla scuola di Madrid dominata dal Velázquez. Questi ebbe scolari e imitatori, ma i pittori suoi contemporanei e altri immediatamente succeduti a lui negli incarichi di corte (l'Antolínez, Cerezo, Carreño, Claudio Coello, ecc.), invece di approfittare interamente e senza riserve dei geniali risultati tecnici di lui, cercano di ricostruire in certo modo il suo procedimento e studiano intensamente il Tiziano, Rubens, Van Dyck.
Tra i più stretti seguaci del Velázquez basterà ricordare Antonio Puga, Juan de Pareja, il Mazo (morto nel 1667), che sposò una figlia del maestro e giunse a esser pittore di palazzo. Anche minore fu l'influenza diretta dello Zurbarán: i suoi scolari Francisco Reina, i Polancos, ecc., conservano appena qualche buon tratto del loro maestro.
In compenso, influenze indirette, conoscenza di precedenti, legami misteriosi e fecondi contribuirono allo splendore meraviglioso della pittura spagnola in questo tempo. Il Velázquez studia il Greco, conosce la scuola dei ritrattisti di corte che fa capo al Moro e a Sánchez Coello, non ignora il Ribalta, è condiscepolo dello Zurbarán e amico del Cano, visita il Ribera a Napoli, custodisce e mette in ordine le ricchezze artistiche reali, compra per il suo re in Italia opere d'arte.
In questo periodo di tempo si scrivono i migliori trattati: quello di Vincenzo Carducci, fiorentino (formatosi nuovamente in Spagna, dove era andato col fratello Bartolomeo Carducci pittore nell'Escoriale), che ha per titolo Diálogos de la pintura (Madrid 1636), e l'Arte de la pintura (1649) di Francisco Pacheco, dotto e prudente maestro del Velázquez, dello Zurbarán e di Alonso Cano. Altri trattati rimasero inediti, come quelli del pittore aragonese Jusepe Martínez, di Díaz del Valle, panegirista deluso di Velázquez, ecc.
Il più illustre scultore di questo tempo, escluso il Montañes già ricordato, fu Alonso Cano (v.), che fu anche pittore, architetto e disegnatore meraviglioso. La sua influenza fu grande, anche su Velázquez, e fu decisiva nella tendenza della scultura che più tardi è personificata in Pedro de Mena (1628-88) e in José de Mora (1642-1724). Un artista nato in Portogallo, Manuel Pereyra (1574-1667), continuò la tradizione realistica nella Madrid di Filippo IV.
Nell'architettura si sviluppò vigorosamente il barocchismo. Il Pantheon dell'Escoriale, di cui fu costruttore principale l'italiano Giovanni Battista Crescenzio, la cappella di S. Isidro a Madrid (1642-1609), ecc., ne annunziano l'invasione che non si fece aspettare e che durante lo stesso regno si mostrò nel "Sagrario" della cattedrale di Siviglia, nella Carità della stessa città, nella navata della certosa di Granata, ecc. I nomi di Sebastián Herrera Barnuevo, di Pedro de la Torre. di Francisco Herrera il Giovane, primeggiano tra quelli degli architetti di questa fase del Barocco.
L'arte nella seconda metà del sec. XVII. - A Filippo IV successe il figlio Carlo II, che difese le collezioni reali, opponendosi all'invio di quadri palatini all'imperatore che li chiedeva con insistenza.
Il Carreño, ritrattista meraviglioso detto "il Van Dyck spagnolo", Francisco Ricci, pittore facile, Francisco de Herrera il Giovane, decoratore valente e colorista, e Claudio Coello sono i migliori pittori della corte. Sono barocchi, affezionati a maniere che ricordano sia l'Italia sia le Fiandre, ma con un brio eminentemente spagnolo, e quando si trovano dinnanzi al naturale si sentono realisti, poco meno nettamente di quelli della generazione precedente.
Fuori della corte il centro di Valenza trascinava una vita languida nelle mani dei seguaci di Ribera e di Espinosa; Siviglia, invece, conservava il suo splendore: i nomi di Murillo e di Valdes Leal meritano somma considerazione. Il barocchismo della pittura sivigliana discende in linea retta dal venezianismo di Roelas, dalla vigoria burrascosa di Herrera il Vecchio; a questo si aggiungevano gl'insegnamenti raccolti dal Murillo quando visitò a Madrid le raccolte reali e l'abbondanza di quadri fiamminghi che entravano nell'Andalusia.
Carlo II nel 1692 chiamò il napoletano Luca Giordano all'Escoriale, a Madrid, ecc. Quando il Giordano partì dalla Spagna nel 1702, la pittura spagnola giaceva nella massima prostrazione.
La scultura, specialmente nell'Andalusia, seguiva a Granata la scuola di Alonso Cano, raggiungendo il colmo delle note espressive ed emotive nelle opere di Pedro de Mena e di José de Mora; a Siviglia Pedro Roldan nel suo grande altare della Carità porta al massimo il valore pittorico della scultura barocca.
L'architettura procede per la rotta barocca, e a Siviglia, a Granata, a Santiago de Compostela, a Salamanca, a Valenza, a Saragozza e a Madrid si formano dei nuclei tipici che non possono chiamarsi propriamente scuole. Il nome di Churriguera che portarono varî artisti, dei quali il principale fu José, è divenuto l'appellativo dell'architettura della fine del sec. XVII e del principio del seguente. Non si è insistito sufficientemente sull'importanza che nella formazione dello stile ciurrigheresco, pieno di esuberanza e di valore decorativo, ebbero le sculture dei grandi altari barocchi di Madrid e dell'Andalusia al tempo di Filippo IV.
L'arte spagnola nel sec. XVIII. - La morte dello sfortunato Carlo II avvenuta senza successione (1700) portò in Spagna Filippo V, un Borbone nipote di Luigi XIV. Il cambiamento di dinastia, che coincideva con l'eclissarsi della potenza e vitalità della nazione, ebbe conseguenze manifeste nell'arte spagnola. Filippo V portava al suo servizio pittori francesi: Michel-Ange Houasse, Jean Ranc, Louis-Michel Van Loo, ritrattisti che importavano uno stile ben diverso nella corte castigliana. Altrettanto si dica degli architetti e degli scultori per gli edifici reali, come la Granja di S. Ildefonso, Riofrío, ecc.
Perdute le Fiandre, che in passato avevano avuto il privilegio di fornire di arazzi la corona, Filippo V fonda con elementi stranieri la Real fabbrica di Madrid. Nella notte di Natale del 1734 un incendio distruggeva il Palazzo reale. La costruzione del nuovo palazzo segnò un rinnovamento artistico.
L' architettura churrigueresca continuava a dominare nelle costruzioni, e Pedro de Ribera a Madrid, Hurtado Izquierdo a Granata, Casas Novoa a Compostela, ecc., erano artisti di vigorosa personalità. La scultura tradizionale germogliava nuovamente con le debolezze e la piacevolezza delle epoche di decadenza nelle terrecotte della Roldana e soprattutto nelle statue del murciano Salcillo (1703-1748). La pittura con l'opera più erudita che ispirata del Palomino riempiva soffitti e vòlte o prolungava inutilmente l'agonia della maniera del Murillo nell'Andalusia.
La venuta dell'architetto Filippo Juvara per tracciare i piani del nuovo palazzo - che Giovanni Battista Sacchetti e Ventura Rodríguez dovevano costruire riducendone le grandiose dimensioni ideate dallo Juvara - segna il principio della nuova fase artistica.
Fernando VI, durante il suo regno di eccellente amministrazione e di benessere economico, continuò i lavori del palazzo; sua moglie, donna Barbara di Braganza, costruì gli edifici delle Salesas reali di Madrid con grandi spese e per mezzo di artisti stranieri. Giacomo Amigoni e Corrado Giaquinto furono chiamati dall'Italia a servizio del re. Ma più sotto il regno di Carlo III (1759-88) le arti acquistarono nuovo splendore e furono apportati nuovi elementi, i quali dovevano contribuire al rinascimento della pittura rappresentato da Goya.
Carlo III chiamò in Spagna Giambattista Tiepolo e Antonio Raffaele Mengs a dipingere i soffitti del palazzo che si stava costruendo, e ambedue (il Tiepolo già vecchio fu aiutato dai figli Lorenzo e Gian Domenico) lasciarono opere magistrali; né si limitarono solo all'affresco, ma il Tiepolo dipinse quadri di soggetto religioso e il Mengs magnifici ritratti. Gl'insegnamenti dell'uno e dell'altro non riuscirono inutili. Il Mengs portò in gran parte il peso della direzione artistica, rispettato da tutti o per lo meno non discusso; per incarico del re si occupò pure dei disegni per gli arazzi da eseguirsi nella fabbrica reale di Madrid, e là trovò un pittore aragonese, chiamato Francisco Bayeu, che fu concittadino, maestro e cognato di Francisco Goya.
Il neoclassicismo accademico ebbe nella Spagna tre grandi architetti: Ventura Rodríguez, già menzionato, di tendenze ancora baroccheggianti, (palazzo di Liria a Madrid, cappella del Pilar, 1753, a Saragozza, chiesa di S. Vittoria a Cordova, ecc.), Francisco Sabatini (Porta di Alcalá a Madrid, ecc.) e, superiore a tutti, Juan de Villanueva, al quale si deve fra l'altro il museo del Prado.
La scultura risente della freddezza che era male generale dell'arte del tempo: vi si distinsero Manuel Álvarez, chiamato "il greco" (Fontana d'Apollo a Madrid) e Felipe de Castro. Tracce della tradizione degli statuarî religiosi si osservano nelle opere di Luis Salvador Carmona e del gallego Ferreiro.
La pittura prende due diverse direzioni secondo i lavori e le ordinazioni per i luoghi reali: la decorativa, con le opere del Tiepolo e di Mengs, e la pittura di costume con l'adattamento all'epoca di scene sul genere di "stile Teniers e Wouwerman" da cui prese l'ispirazione nel primo periodo d'attività della Fabbrica di arazzi di Madrid. Desta un po' di sorpresa il fatto che di questa traslazione all'attualità prendesse l'iniziativa il Mengs. Per quella fabbrica incominciarono a dipingere scene popolari di Madrid varî artisti, tra i quali si distinse genialmente il Goya.
Il Goya, che studiò il Velázquez con l'attenzione rivelata dalle sue riproduzioni in incisione, che conosceva le collezioni reali, che subì l'influenza del Tiepolo e di Mengs, che fu in Italia, ecc., congiunge alla tradizione artistica l'arte nuova. (Per la sua lunga vita, per la sua produzione multiforme, per le sue divinazioni tecniche, per il contenuto inesauribile dell'influenza emanata da lui, v. particolarmente la voce Goya).
Le arti industriali nella Spagna avevano seguito i loro tipi e i procedimenti nazionali: così era avvenuto nella ceramica a Talavera, a Siviglia, a Valenza, ecc. L'impulso di tipo straniero, o se si vuole, europeo, induce il conte de Aranda a istituire la fabbrica di Alcora su modelli di Moustier, e Carlo III a fondare la fabbrica di porcellane del Buen Retiro (Madrid); ambedue le istituzioni, che raggiunsero un vero splendore, furono effimere ed ebbero breve influenza sulle altre manifatture.
L'arte spagnola nei secoli XIX-XX. - L'architettura continua nello stile neoclassico durante la prima metà del secolo, poi riesce ad aprirsi una via, esitando, dietro le mode francesi. Nella seconda metà del sec. XIX ottiene qualche successo un preteso nazionalismo che si manifesta nell'impiego, non sempre fortunato, delle mattonelle a colori nelle rivestiture esterne.
Altrettanto si dica della scultura. Piquer, Vallmitjana, Bellver, Mogrovejo e altri conservano gusti classici; Querol, Suñol, Susillo si lasciano vincere dal monumentalismo, talvolta ampolloso e non mai fecondo.
La pittura supera in sviluppo le altre arti nel sec. XIX. Goya riempie quasi tutto il primo trentennio: nessuno ereditò il suo genio, ma abbondarono gl'imitatori e persino i falsificatori delle sue opere; meritano speciale menzione tra i primi Leonardo Alenza tra i secondi Eugenio Lucas. Gran ritrattista, di fattura talora eccessivamente accurata, fu Vicente López (1772-1850). Nella seconda metà del secolo, l'elegante Federico Madrazo (1815-1894) gli succede come ritrattista ufficiale. Nel movimento postromantico due grandi artisti di temperamento vigoroso può presentare la Spagna: Eduardo Rosales (1836-1873) e Maríano Fortuny (1838-1874); il primo seppe trattare soggetti storici e il ritratto, ricordando, senza imitarla, la tradizione pura; il secondo coltivò con predilezione la pittura di costumi del sec. XVIII; egli fu il "Meissonnier spagnolo", ma più gentile del francese, nelle opere in cui si liberò dal genere troppo convenzionale, e mostrò doti di sommo artista che l'imposizione della moda e la morte prematura resero vane.
Chiude la pittura spagnola del secolo XIX la forte personalità di Joaquín Sorolla, il pittore della luce levantina, grande artista del costume e vigoroso ritrattista (1863-1923).
La pittura spagnola del secolo XX ci appare sotto due aspetti non solo diversi, ma opposti, che forse un giorno potranno vedersi fusi insieme, ma che ora sembrano quasi irreducibili.
L'aspetto, che chiameremo tradizionale, presenta, soprattutto nella pittura, gran ricchezza e varietà di gradazioni. Un indirizzo che, sotto certi riguardi, si apparenta con l'arte del Goya per l'ardente desiderio di esaltare gli elementi emotivi popolari - religione, superstizione, paesaggi tragici, combattimenti di tori, ecc. - ha il rappresentante più glorioso in Ignacio Zuloaga, artista di straordinario talento e vigore. Senza una diretta relazione con lui, ma nella stessa direzione, Gutiérrez Solana è il gran continuatore di un indirizzo secolare nell'arte spagnola, che può riconoscere come maestri Goya e Ribera.
Un'altra corrente, tradizionale anch'essa, che forse possiamo dir nata dal Museo del Prado - Velázquez, i veneziani, i fiamminghi, ecc. - può scorgersi personificata in varî pittori, come il sivigliano Gonzalo Bilbao, il gallego Sotomayor (ritrattista, pittore di costumi e cultore, meno assiduo di quanto dovrebbe, di soggetti mitologici) e il valenzano Manuel Benedito, ritrattista elegantissimo e signorile per il genere decorativo. Il madrileno Chicharro, che al principio del secolo fu compagno a Roma di questi due ultimi artisti, si è lungamente occupato di studî tecnici e ha trattato con maestria i generi più disparati. Un po' più giovane di costoro López Mezquita, con piena padronanza di pennello e con forza d'osservazione, segue la corrente naturalista, sempre forte nella Spagna. Julio Romero de Torres (morto nel 1930) coltivò con fortuna la nota andalusa, anzi cordovana, impregnata di malinconia. Anselmo Miguel Nieto è un artista squisito.
Una menzione speciale meritano due grandi decoratori, uno dei quali ha fama mondiale; Sert, che attraverso il Goya si rannoda al Tiepolo, e Nestor, delle Canarie, disegnatore preciso e pieno di fantasia nei suoi lavori.
L'indirizzo del costume nazionale ha per rappresentanti più fedeli i fratelli Zubiaurre nella Guascogna, Viladrich nell'Aragona, Castelao e Juan Luis nella Galizia, Pinazo a Valenza, Morcillo a Granata, Hermoso nell'Estremadura, con qualità artistiche molto diverse. L'esaltazione lirica e coloristica dà un'impronta speciale al costumismo di Anglada Camarasa.
Per la pittura di paesaggio conviene citare, al principio del secolo, Beruete, Marlín Rico, Rusiñol, Mir e, forse più notevole di tutti questi, Dario de Regoyos.
Quanto precede può ridursi più o meno a schemi tradizionali. Il passaggio al moderno è indicato da artisti, come i catalani Nonelle Sunyer, i baschi Echevarria, Iturrino e Arteta, ma tra tutti spicca Vázquez Díaz, lottatore instancabile per il trionfo dei valori esclusivamente artistici della pittura e del disegno.
Tuttavia questi artisti, che non sono i soli in cui convergono le tendenze moderne, non possono venir citati come esempî della fusione del tradizionale con l'attuale o per intenderci meglio, col cubismo o postcubismo.
Abbiamo nominato l'aspetto opposto al tradizionale, il cubismo, invenzione d'uno spagnolo, Pablo Picasso (v.), nato a Málaga ma formatosi a la Coruña, a Barcellona e a Parigi. Tra i suoi seguaci spagnoli ricordiamo solo il madrileno Juan Gris. In questi indirizzi modernissimi - cubismo, surrealismo, ecc. - vi sono artisti di spiccata personalità e fama, come Pruna, Miró, Salvador Dali, Gali, Junyer, Palencia, Bores, González Bernal, ecc. Né va dimenticata la pittrice Maria Blanchard, che visse e morì a Parigi.
Altri artisti, molti dei quali giovanissimi, come quelli or ora citati, rivelano tali aspetti e doti caratteristiche da far sperare che, forse, potrà in essi plasmarsi la fusione armonica del classico col nuovo: Valverde, Balbuena, Gregorio Prieto, Hidalgo de Caviedes, Souto.
La scultura spagnola del secolo XX è rappresentata dai maestri fedeli, come Benlliure e Blay, alle norme del secolo precedente; ma presto, con le opere dei compianti Mateo Inurria e Julio Antonio, acquista valori che, affermati nei lavori di José Clará, José Capuz, Mateo Hernández, Victorio Maeho, E. Barral, Comendado e altri, portano la plastica spagnola a un livello ch'essa non aveva raggiunto più dopo il secolo XVII.
La scultura policroma risorge e si rinnova, grazie agli sforzi di Quimín de Torre, di Asorey, di Bonome, ecc. Accanto a Picasso trionfa a Parigi l'originalissimo Pau Gargallo. Angel Ferrant e Alberto Manolo sono quelli che rappresentano le tendenze più moderne della scultura spagnola.
Nell'architettura, la liquidazione del secolo XIX ha luogo innanzi all'invasione del "modernismo" - esposizione di Parigi del 1900 - che solo nella Catalogna e per merito della personalità vigorosa di Gaudi lasciò esempî notevoli e in certo modo indipendenti. Entrando nel secolo, si divulga e si diffonde un'insincera corrente tradizionalista, per cui gli edifici s'ispirano al plateresco, e si crea uno "stile spagnolo" artificiale che ha influito molto sulla decorazione d'interni e sul mobilio. Nel dopoguerra arrivano nella Spagna le correnti moderne dell'"architettura funzionale", ecc., e nelle grandi città vengono costruiti grattacieli ed edifici alla tedesca, all'olandese, ecc. A Madrid s'inizia una resurrezione del barocco, che produce esempî fortunati. I nomi più illustri tra gli architetti spagnoli del tempo presente sono quelli di Juan Moya, Modesto López Otero, Antonio Palacios, Antonio Flórez, Pedro Muguruza, S. Zuazo, ecc. Le intraprese di maggior entità sono la città universitaria di Madrid, con i piani d'insieme di López Otero, e i ministeri di S. Zuazo. A una generazione più giovane appartengono, tra gli altri, Mercadal, Arniches, L. Moya, Sánchez Arcas, Bergamín, Aizpurua. Nel restauro di monumenti, di somma importanza per un paese come la Spagna, si sono specializzati: Torres Balbás, Emilio Moya, Alejandro Ferrant, Franciseo Iñiguez, ecc.
Bibl.: Della copiosissima bibl. citiamo soltanto i libri principali e più utili, rimandando per i singoli artisti principali (Velázquez, Murillo, ecc.) alla bibl. delle diverse voci.
Opere generali. - Per gli scrittori antichi sull'arte spagnola cfr.: G. Schlosser, Letteratura artistica, Firenze 1935; Ceán Bermúdez, Diccionario de los ilustres profesores de las Bellas Artes en España, Madrid 1800. Inoltre: Fuentes literaria: para la historia del arte español (Madrid 1923, 1933, 1934 e 1936), pubblicate da Sánchez Cantón.
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Musica.
Monodia latina nel Medioevo fino al sec. XIII. - I documenti più antichi della storia musicale spagnola si riferiscono ai tempi preistorici, e precisamente alle pitture rupestri del periodo quaternario, alle colonie greche (600 a. C.), al popolo iberico (sec. IV a. C.) e finalmente all'epoca romana. Per parlare di repertorio ancora oggi conservato dobbiamo rimontare al sec. VI d. C. Durante i secoli VI e VII fiorirono specialmente tre centri musicali: da una parte Siviglia con S. Leandro (morto nel 599) compositore, e S. Isidoro (morto nel 636), il trattatista musicale enciclopedico del suo periodo. Nel centro, la scuola di Toledo con S. Eugenio (morto nel 657), S. Ildefonso (morto nel 667), S. Giuliano (morto nel 690) e col vescovo Conancio di Palencia (morto nel 639). Nell'altro estremo la scuola di Saragozza fondata da Giovanni (morto nel 631) e proseguita dal suo fratello e successore Braulio (morto nel 651). Il canto visigoto, magnifica creazione della Spagna cristiana dei secoli VI e VII, canto conosciuto, dal sec. VIII in poi, anche col nome di "mozarabico", fu praticato in Spagna fino al sec. XI. Il suo repertorio si conserva in un gran numero di codici neumatici copiati durante i secoli X e XI, la cui notazione non si è potuta ancora decifrare. La Lex romana (canto e liturgia) s'introdusse in Catalogna già nei tempi carolingi; in Aragona e in Castiglia invece non sottentrò alla Lex toletana prima del 1071. Fu per questo che, mentre la Catalogna aveva inventato una notazione neumatica sua speciale, che usò insieme con la notazione aquitana già dal sec. IX, in Castiglia fu adottata semplicemente la notazione aquitana fino dalla seconda metà del sec. XI.
Con l'avvento degli Arabi in Spagna sul principio del sec. VIII, il palazzo degli Omayyadi cordovensi subito si mutò in fedele riflesso dell'arte musicale di Damasco. Così al tempo della Spagna musulmana si diffuse nella penisola la musica araba e soprattutto al tempo di Almanzor (al-Manṣūr: secolo X). Conosciamo il nome di vari compositori di musica profana dei secoli X e XI; occorre però dire che nessuno ci ha tramandato nemmeno un fascicolo di musica araba di quei secoli, tale da poterci permettere di giudicare della musica degli Arabi di Spagna. Ciò non di meno è notizia ben provata che molti strumenti di musica derivati dall'Oriente s'introdussero in Europa grazie alla pratica musicale degli Arabi spagnoli. La lirica musicale latina di genere profano conservata in Spagna rimonta al sec. VII. Questo patrimonio rimane notato con notazione visigotica, indecifrabile, nel codice ms. 10029 (sec. IX-X) della Biblioteca nazionale di Madrid. La pratica della lirica musicale religiosa degli inni, tropi, uffici, sequenze e drammi liturgici, non conosciuta, tranne gli inni, nella liturgia mozarabica, fu praticata in Catalogna già dai secoli IX-X. Grazie alla relazione stretta che i grandi monasteri di S. Maria di Ripoll e di S. Miquel de Cuixá mantennero con la cultura liturgico-musicale di Moissac e Saint-Marziale di Limoges e con altri monasteri del mezzogiorno di Francia, tale repertorio, in parte francese e italiano, in parte indigeno, fu seguito dai monasteri di S. Juan de la Peña in Aragona e S. Millán de la Cogolla nella Rioja, nel sec. XI.
Lirica musicale in lingua volgare nel Medioevo. - Durante i secoli XII e XIII i trovatori provenzali e catalani invasero le città e le corti dei re dei varî paesi spagnoli. Per limitarsi ai trovatori di cui abbiamo conservato alcune melodie, bisogna citare Marcabru, Peire Vidal, Peire Ramon di Tolosa il Vecchio, Peire d'Alvergne, Arnaut Daniel, Raimbaut de Vaqueiras, il monaco di Montaudon, Arnaut de Mareuil, Giraut de Borneil, Folchetto di Marsiglia, Bertran de Born, Raimon de Miraval, e Giraut Riquier.
Alfonso I, Pietro I, Giacomo I e Pietro II in Catalogna-Aragona, e Alfonso VIII, Ferdinando III e Alfonso il Saggio re di Castiglia, sono i re che più si distinsero in favore dell'arte e della musica trovadorica. Il più importante monumento della lirica musicale spagnola del sec. XIII è dato dai tre codici delle Cantiche di S. Maria del re Alfonso il Saggio, re di Castiglia e León (1282-1284). Con quel nome intendiamo le cantiche religiose del re Alfonso dedicate generalmente alla Vergine. Questo re fu, oltre che poeta, anche compositore eccellente. Le cantiche che oggi conserviamo nella notazione musicale misurata del sec. XIII, la quale mostra il ritmo modale misto, sono circa 420. La loro costruzione musicale (non il loro ritmo) mantiene una relazione molto stretta con quella delle laudi italiane dei codici di Cortona e di Firenze. Di cantiche profane con testo gallegoportoghese si conoscono solamente 6 cantigas da amigo, del trovatore gallego Martín Codax o Codaz, nativo di Vigo.
Polifonia dell'"Ars antiqua". - Non sappiamo su che cosa si fondi la verità dell'affermazione di Virgilius Cordubensis, là dove egli nella sua Philosophia narra che nel sec. XI all'università araba di Cordova aveva due maestri di musica de ista Arte quae dicitur organum. Certamente nel monastero di Ripoll egli conobbe bene gli usi polifonici già nel secolo XI, che a Santiago di Compostella furono praticati invece nella prima metà del sec. XII. Il codice Callistino di Compostella del 1137 conserva 21 esempî di organum che seguono lo stile del repertorio praticato già a S. Marziale di Limoges. Circa la cattedrale di Tarragona conosciamo il nome di un Lucas Magnus organista (m. 1164).
Nel sec. XIII si sa che esistevano varî centri di musica vocale: la cattedrale di Toledo, il monastero delle religiose del Cister de las Huelgas (Burgos), Ripoll, Tortosa, ecc.
La musica dell'"Ars nova". - Da quanto si è detto appare chiaro che, quanto alla polifonia antica, la Spagna è degna di essere collocata dopo la Francia e l'Inghilterra, le nazioni europee più ricche sotto questo riguardo. Invece, quanto alla polifonia dell'ars nova (posteriore al 1320), il repertorio castigliano ci appare molto scarso; non così il catalano, i cui archivî ci offrono immenso materiale di documentazione storica circa la musica del sec. XIV; documenti che dimostrano come i conti-re di Catalogna-Aragona furono sempre attorniati da musici e strumentisti provenienti dalle corti delle Fiandre, di Francia, Germania, Italia e Inghilterra; quali per servire al divertimento della corte, quali invece destinati esclusivamente al servizio liturgico-musicale delle loro cappelle. Come cantori esperti vengono citati musici venuti dalla corte papale di Avignone e altri venuti dalla Germania, dalle Fiandre o dalla stessa penisola. Nella corte catalana furono molto stimate al loro tempo le opere di Guillaume de Machault. Ivi anche fu il celebre Jacob de Senlèches conosciuto sotto il nome di Jacomi, e anche incontriamo Graziano Reynau, nativo di Tours, che servì nel palazzo reale di Barcellona durante gli anni 1390-1429. Codici musicali conservati in Francia, Italia e Catalogna offrono una piccola parte del repertorio religioso e profano praticata nelle corti e nelle chiese di Catalogna e Aragona. Così come questo repertorio ci ricorda quello di Francia, quello del monastero di Montserrat contenuto nel Llibre Vermell ricorda in parte l'italiano con le sue cacce e ballate.
La polifonia del sec. XV e del primo sec. XVI. - Tra i centri più rinomati di questo tempo vanno ricordate la corte di Alfonso IV di Catalogna-Aragona (I di Napoli), conosciuto sotto il nome di Alfonso il Magnanimo, e la corte dei re cattolici Ferdinando e Isabella di Castiglia-Aragona. La corte del Magnanimo, poco studiata sotto questo aspetto, ci può dare la chiave per chiarire non pochi punti oscuri della storia musicale spagnola e italiana del sec. XV. Fino ai nostri giorni si era data scarsa importanza alle polifonie italiane del sec. XV; tranne la musica del teorico Johannes Tinctoris finora si è studiata solamente quella delle frottole e di recente la polifonia delle Laudi del tardo sec. XV e del primo XVI. La corte del Magnanimo in Napoli (in relazioni così continue con le corti degli Estensi, degli Sforza e di altri), il cui repertorio musicale si conserva in parte, potrà dirci fin dove arrivò l'influenza dei Fiamminghi e della musica italiana nelle Fiandre. Per quello che concerne la Spagna, possiamo affermare che il repertorio musicale amoroso conservato alle corti dei Re Cattolici, con i suoi villancicos, romances ed estrambotes, ecc., della seconda metà del sec. XV e dell'inizio del XVI, trovò la sua prima origine nella corte del Magnanimo in Napoli. Non è quindi straordinario che incontriamo in quella corte alcune analogie con il repertorio della musica italiana di quei tempi. Durante il sec. XV si praticarono in Spagna la canzone profana del Lied accompagnato e la polifonia religiosa dell'epoca Dufay-Binchois e più tardi dell'epoca Ockeghem-Obrecht-Josquin; ma non è meno certo che i musici spagnoli, conoscendo e praticando la musica dei Franco-Fiamminghi e degli Italiani, seppero crearne un'altra molto caratteristica e profondamente lirica. La cappella della regina Isabella (morta nel 1504) contava più di 40 musici salariati senza tener conto di suonatori di organo, clavicordo e liuto per la sua camera e per la cappella. Fra i maestri più eminenti di quest'epoca ricordiamo Johannes de Anchieta, Francisco de la Torre, Pedro Tordesillas, Johannes Escobar, Francisco de Peñalosa e Juan del Encina, il fondatore del teatro lirico in Spagna. Studiando la polifonia religiosa nelle scuole spagnole ci si rende conto come i polifonisti spagnoli, con una sorprendente semplicità di tecnica e con forme musicali di tipo apparentemente arcaico, seppero creare un genere di musica mistica raramente superato.
Nel campo profano i villancicos, canciones, romances, ecc., della musica amorosa e mondana della seconda metà del sec. XV e del primo XVI, fanno contrasto con il repertorio profano della musica franco-fiamminga della corte di Borgogna per la loro commovente semplicità e per il substrato popolare che i loro compositori riprendono. Non ha alcun fondamento storico ciò che un tempo si diceva, e cioè che la Spagna non abbia praticato la polifonia prima dell'arrivo dei Fiamminghi che accompagnarono Filippo il Bello nel 1501-1502. Fra i teorici del sec. XV possiamo citare Fernando Estevan, Fernando del Castillo, Bartolomé Ramis (Ramos) de Pareja, maestro dell'università di Salamanca, professore nel 1482 a Bologna, il quale introdusse una rivoluzione nella teoria musicale italiana e spagnola, Guillermo de Podio (Depuig), Domingo Marcos Durán, ecc.
La polifonia dei secoli XVI-XVII. - La polifonia spagnola del sec. XVI (se facciamo eccezione per i lavori di musici che passarono in Italia, Fiandra, Austria, ecc., come cantori e maestri di cappella) arrivò di rado alle stampe. Questa è la causa principale dell'irreparabile perdita di gran parte della musica classica spagnola. I musicisti spagnoli passarono specialmente in Italia, grazie all'esistenza in Roma della cappella pontificia, il quale centro - fino da Callisto III - fu spesso visitato da quei maestri e dalla cappella del viceré di Napoli. La cappella fiamminga di Carlo V attirò in Spagna maestri eminenti, con i quali si poterono alternare i maestri spagnoli durante i regni di Filippo II e Filippo III. Anche la corte d'Austria fu frequentata da musicisti spagnoli, grazie alle relazioni famigliari che univano le due corti.
Le scuole principali del sec. XVI furono l'andalusa, la castigliana e la catalana. Nell'andalusa fiorirono Juan Navarro, Juan Vázques, Fernán de las Infantas, Francisco Guerrero; nella castigliana Juan Escribano, Bartolomé Escobedo e Francisco Soto de Langa, alcuni dei quali furono cantori in Roma; Diego Ortiz, maestro in Napoli, Sebastián Raval, maestro in Palermo, Alfonso Lobo e Bernardino de Ribera. I più celebri furono Antonio de Cabezón e Tomás Luis de Victoria. Dei catalani menzioniamo i due Mateu Flecha, Pere Albert Vila, Pere Cubels, Pau Villalonga e Joan Brudieu. La musica religiosa di questo tempo si distingue per il suo misticismo religioso-drammatico e profondamente lirico; raramente i maestri di questo secolo scrissero composizioni religiose servendosi di temi profani. Come compositori di madrigali ricordiamo Pedro Valenzuela, oltre i già citati Flecha, Vila e Raval; villancicos, villanescas, sonetos e canciones scrissero Rodrigo Ceballos, Navarro, Juan Vázquez e Guerrero. Questo secolo XVI è importante sopra tutto, in Spagna, per le composizioni strumentali: vihuela, organo e chitarra.
Tra i compositori per vihuela occorre citare Luis Milán, Luis de Narbáez, Enrique de Valderrábano, Alfonso Mudarra, Diego Pisador e Miguel de Fuenllana; il lom merito principale consiste nel fatto che tra di loro si annoverano i predecessori della monodia accompagnata; ma non meno celebri sono gli organisti Venegas di Henestrosa, Juan Bermudo, Antonio de Cabezón, Pere A. Vila, Diego del Castillo, Bernardo Clavijo del Castillo e Fra Tomás de Santa Maria; i quali si distinguono per l'arte della variazione e nel genere del tiento, oltre che per il loro sentimento mistico. Tra i teorici ricordiamo Gonzalo Martínez de Bizcargui, emulo di Ramós de Pareja, Francisco Tovar, Francisco Salinas il Cieco (1513-1590) che fu anche per qualche tempo organista a Napoli; fra Tomás de Santa Maria e il Bermudo furono difatti virtuosi d'organo tra i più celebri dell'Europa cinquecentesca.
La polifonia religiosa del sec. XVII è rappresentata da Joán Pujol, Marcià Albareda e Josep Reig a Barcellona; Joan Marqués, Diego Roca, Francisco Miguel López e Joan Cererols monaci di Monserrato; Sebastián Aquilera de Heredia, Grazián Baban e Fra Manuel Correa per l'Aragona, Joan Baptisti Comes, Urbá de Vargas e Jeronime de la Torre per Valenza, Juan Esquivel di Barahona, Sebastián de Vivanco, Juan Ruiz de Robledo, Matteo Romero e Alberto Lobo per la Castiglia. Pure essendo di molto talento, essi continuano a formarsi alla tradizione spagnola del sec. XVII e tardano a incorporarsi nel movimento dell'evoluzione musicale italiana che già era diffuso in tutta Europa. La musica profana continua specialmente per opera delle cappelle reali di Filippo III e Filippo IV e della casa del duca d'Alba. In tutti i casi bisogna ammettere che ben fondati erano i biasimi mossi dal Cerone alla nobiltà spagnola che, al contrario della nobiltà italiana, non amava molto, nei palazzi, la musica profana né la religiosa. Le forme musicali di questo repertorio profano erano quelle dei tonos humanos, villancicos, madrigali, canzoni, letras, sonetti, sonate e arie da camera, oltre che dei Cuatros de empezar. Juan Blas de Castro (l'amico di Lope de Vega), F. Company, Gabriel Díaz, Diego Gómez, Juan Palomares, Matteo Romero e Petro Rimonte, sono i più rinomati tra quei compositori. Questi maestri coltivano anche lo stile madrigalesco, in un contrappunto molto semplice. Tra le composizioni profane destinate ad essere cantate in teatro occorre ricordare i Cuatros de empezar di Matteo Romero, Carlos Patiño e José Peyró: il gruppo intermedio tra lo stile polifonico e la melodia accompagnata è rappresentato dalle Tonadas di Jerónime de la Torre, dai Solos humanos di Sebastián Durón, Juan de Navas, Juan Hidalgo e José Marín.
Gli strumenti usati in questo secolo si riducono ai seguenti: basso, saquebuche, chirimias, vihuela de arco, arpa, corneta e órgano. Poco più tardi si aggiunsero a questi i violini nella cappella reale. Grande voga avevano in quest'epoca i tonos, tonada a solo e i villancicos, accompagnati sul basso continuo. La musica organistica continuò a fiorire secondo la tecnica e il misticismo dei vecchi Venegas de Henestrosa e Cabezón. Novatore fu piuttosto Francisco de Corea de Arauxo. Il poco che si conserva dei maestri castigliani contrasta con la buona conoscenza che possiamo avere degli organisti valenzani e catalani; Joan Baseya, Gabriel Menalt, Pau Nassarre, Andrés Lorente, e Pau Bruna sono i più rinomati di questa scuola, tutti però inferiori a Joan Cabanillas (1644-1712), il genio della musica spagnola per organo, nel quale vediamo in sintesi il processo evolutivo della musica strumentale spagnola. I suoi tientos de falsas (di dissonanze), tientos partidos e llenos, le sue toccate, passacaglie, follie, gagliarde, paseos e versos, provano il suo ingegno nell'arte della variazione e nel contrappunto, nonché la sua rivoluzionaria audacia di armonista.
La musica teatrale spagnola ha un passato molto ricco. A partire da Juan del Encina con le sue écloghe, con i tropi cantati, gli intermedî e i villancicos del primo sec. XVI, passando per i Cuatros de empezar del sec. XVII (specie di ouvertures cantate) fino a venire al teatro di Lope de Vega (che esige frequenti interventi musicali) il teatro lirico spagnolo presenta differenti aspetti degni di ogni studio. Nel 1629 si rappresentò la Selva sin amor di Lope de Vega, la prima opera rappresentata in Spagna, la cui musica si è però perduta; anche si è perduta la musica (di autore sconosciuto) della Púrpura de la Rosa del 1660 su testo di Calderón de la Barca. La più antica opera, conservata in Spagna, di cui si conosca almeno in parte la musica, è su testo del Calderón, e la musica è di Juan Hidalgo: il titolo è Celos aun del aire matan, e rimonta all'anno 1660. I drammaturghi e compositori spagnoli durante il sec. XVII parlano sempre di zarzuelas, éclogas, fiestas de música y de teatro, fiestas cantadas, comedias armónicas, ecc., mentre non usano mai il nome di opera.
La musica dal sec. XVIII al sec. XX. - Il sec. XVIII per la musica spagnola rappresenta un'epoca di transizione. Questo secolo è un'epoca di lotta determinatasi tra i compositori che desideravano andare avanti e staccarsi una buona volta dalla teorica artistica dogmatizzata dal Cerone e dal Navarro, e gli altri, meno artisti, che si riducevano a proseguire il cammino tradizionale. Non dobbiamo però dimenticare il fatto che essi si sforzarono con talento e valentia al fine di potere conservare le caratteristiche della musica religiosa e teatrale del loro paese, preservandola dai nuovi influssi venuti dall'Italia. D'altra parte, prima che gli Italiani invadessero la corte di Madrid, molti compositori iberici già avevano seguito la moda musicale italiana. Un giudizio definitivo sulla musica spagnola del sec. XVIII non può essere dato, visto che la produzione enorme (in parte conservata) di messe, mottetti, cantate, villancicos, opere, oratorî, tonadas a lo humano e a lo divino dei maestri del sec. XVIII, ha bisogno ancora d'essere studiata. Tra i maestri della polifonia religiosa citiamo Francesco Valls (1655-1747) di Barcellona, Josep Gas, Josep Duran (educato in Napoli sotto la direzione di Francesco Durante), Jaume Balivo e Josep Teixidor per la Catalogna; Pere Rabaase, Josep Pradas, Pasqual Fuentes e Francesc Morera per Valenza; Ambiela, Garcia, conosciuto in Italia sotto il nome di Spagnoletto, per l'Aragona; Casellas, Rossell, Iuncá, Roldan, Durón, Torres Martínez de Bravo, Nebra e Literes per la Castiglia. I tre ultimi sono i più celebri rappresentanti della tradizione spagnola che lottò contro la musica italiana in Spagna. Gli archivî musicali spagnoli, così ricchi di opere religiose, non ci hanno tramandato che ben poco o quasi nulla della musica da camera, né della musica orchestrale di questo tempo. È certo che questa musica, se prescindiamo dalla corte reale di Madrid, non trovava nella Spagna settecentesca né mecenati né grandi protettori. In tutti i modi, con la perdita del palazzo reale di Madrid nel 1734, quella del conservatorio madrileno con il suo ricchissimo archivio musicale e con le varie distruzioni del teatro di Santa Creu di Barcellona, degli archivî di Monserrato agli inizi del 1800 (nel tempo delle guerre napoleoniche) e con la perdita di tanti monasteri spagnoli durante la rivoluzione del 1835, è certo che si ridusse in briciole il patrimonio strumentale della musica spagnola sei-settecentesca. Della musica organistica e cembalistica si conservano comunque opere generalmente inedite di Josep Elias, Joan e Josep Moreno, ì Polo, Carles Baguer, J. Gallés, R. Anglés, Rodriguez e parte della produzione dei monaci di Monserrato, Casanovas, Viola e Brell. Il musicista più celebre fu frate Antoni Soler, monaco dell'Escorial (morto nel 1782) già discepolo di Domenico Scarlatti in Madrid e compositore molto stimato dal padre J. B. Martini di Bologna. La stessa opera cembalistica dello Scarlatti fu scritta durante la permanenza del compositore in Madrid in qualità di clavicembalista di palazzo degli anni 1729-i757. Luigi Boccherini, che morì in Madrid nel 1805, è uno degli ultimi rappresentanti di quella feconda costellazione di musicisti italiani del sec. XVIII in Spagna, la cui sede principale fu la città di Madrid.
Con l'avvento dei Borboni fece la sua entrata trionfale in Spagna, fino dai primi anni di Filippo V, l'opera italiana. L'anno 1703 può rimanere celebre anche per l'arrivo a Madrid della prima compagnia lirica italiana. La musica italiana non fu però ben ricevuta nella Spagna di quel tempo, probabilmente proprio a causa della soverchia protezione reale. In questo secolo XVIII la cappella reale si componeva quasi esclusivamente di maestri italiani: Francesco Corradini, Filippo Falconi, Domenico Porretti, Giovanni B. Mele, Francesco Corselli e sopra tratti l'invadente Carlo Broschi (il Farinello), i quali sostennero lotte terribili per contrapporsi in Madrid al talento musicale di José de Torres Martínez, Antonio Literes e José Nebra. In Barcellona l'opera italiana s'introdusse già nel 1709, quando il figlio di Leopoldo I, l'Arciduca Carlo d'Austria, visitò la Catalogna. Fu in questa occasione che si favorì la venuta a Barcellona di una compagnia italiana d'opera che eseguì Dafne di Emmanuele de Astorga, alcune opere di Antonio Caldara e altre ancora, fermando definitivamente in Catalogna virtuosi italiani.
Tenendo dietro all'opera italiana della corte di Madrid, vediamo come negli anni 1744 e seguenti José de Nebra scrisse diverse opere spagnole, al fine di contrapporsi al movimento italianizzante del teatro spagnolo. Però il migliore successo lo ebbero Lluís Mison e i suoi compagni con la pratica della tonadilla. L'ideale di Mison, di risollevare il teatro spagnolo, fu seguito da Antonio Rodríguez de Hita e da Pau Esteve i Grimau. La tonadilla escénica, specie d'intermezzo situato fra le jornadas (atti) di ogni commedia, ebbe tre fasi:1. di crescita e giovinezza (1757-70); 2. di maturità e apogeo (1771-90); 3. di decadenza (1791-1810). Parlando del sec. XVIII dobbiamo tenere anche in conto l'attività degli Spagnoli che ogni loro energia dedicarono all'assimilazione della musica italiana. Dobbiamo citare tra questi Domènec Terradellas (1713-1751) discepolo di F. Durante a Napoli, autore di molte opere e di musica religiosa, emulo di N. Iommelli a Roma. Vicens Martin i Soler, conosciuto in Europa sotto il nome di Martini lo Spagnolo (1754-1806), dapprima a Napoli, Roma, ecc., più tardi maestro alla corte di Vienna al tempo di Mozart, è un altro dei più celebri rappresentanti di questa corrente. Nel secolo XIX è da ricordare l'importanza attribuita alla musica alla corte di Ferdinando VII, dominata dalla scuola rossiniana allora al suo apogeo. Nel 1830 si fonda il conservatorio di Madrid, il primo in Spagna, e nel 1838 si fonda il conservatorio del Liceo di Barcellona. F. A. Barbieri (1823-90), E. Arieta (1823-1891) scrissero di nuovo tipiche zarzuelas, desiderando risuscitare la grande zarzuela di origine calderoniana. Tomás Bretón (1850-1923) si dà all'opera nazionale, seguito da Ruperto Chapí (1851-1909) e da Felip Pedrell (1841-1922), il quale ultimo a sua volta definisce la possibile speciale natura di tale opera.
In Catalogna già dal primo Ottocento incontriamo Ramon Carnicer, più tardi appartenente al teatro di Madrid, il citato Martin i Soler, Ferran Sors (chitarrista) e Carles Baguer, i quali offrono al teatro barcellonese le prime opere improntate allo stile italiano. Josep Anselm Claver (1824-74) è l'iniziatore di quel movimento corale che preluse alla magnifica opera degli orfeonisti di Catalogna. Così come M. Hilarión Eslava (1807-1878) pone le basi della musicologia spagnola, proseguita dopo di lui da Barbieri e Pedrell, quest'ultimo concepì l'idea di riformare la musica religiosa, di creare un'opera nazionale e introdurre gli studî metodici della moderna musicologia. Isaac Albéniz (1860-1909), Enric Granados (1867-1916), Amadeu Vives (1871-1932) e Antoni Nicolau (1858-1933) sono i più celebri tra i già scomparsi rappresentanti della produzione musicale della Catalogna nel sec. XIX e nel principio del XX. Ai nostri giorni l'Orquesta sinfónica, diretta da Arbós, e la Filarmónica, diretta da Bartolomé Pérez Casas a Madrid, l'Orquestra Pau Casals diretta dal suo fondatore, e l'Orfeó català diretto pure dal suo fondatore Lluís Millet a Barcellona, per non citare che le principali, sono le istituzioni che alimentano la produzione nazionale e fanno conoscere l'opera sinfonica e corale dei tempi classici e degli odierni. Fra i compositori, Manuel de Falla, Joaquín Turina, hanno continuato la corrente regionale andalusa di Albéniz e Granados. Conrado del Campo, Oscar Esplá ed Ernesto Halffter Escriche per la Castiglia, Joan Lamote de Grignón, Enric Morera, Josep Barbera, Jaume Pahissa, Joan Manén i Planas, Eduard Tolrà, Francesc Pujol e Robert Gerhard (quest'ultimo discepolo di Arnold Schönberg), per la Catalogna, sono i nomi rappresentativi della Spagna di oggi. Pau Casals, compositore e direttore famoso, e Gaspar Cassadó, violoncellisti; Joan Manén e Antoni Brosa, violinisti; F. Marsal, Ricard Viñes, Ricard Vives, e Leopoldo Guerol, pianisti; Miquel Llobet, Andreu Segovia e Emili Pujol, chitarristi, sono nomi ben conosciuti.
Bibl.: F. Pedrell, Los músicos españ. antiguos y modernos en sus libros, Barcellona 1886-1888; id., Diccionario biográfico y bibliográfico, ivi 1897; id., Teatro lírico español anterior al siglo XIX, La Coruña 1897; id., Musichs vells de la Terra, in Revista Musical Catalana, 1904 segg.; F. A. Barbieri, Cancionero musical de los siglos XV y XVI, Madrid 1890; Cotarelo y Mori, Orígenes y establecimiento de la ópera en España hasta el 1800, Madrid 1917; id., Crónica de la ópera italiana en Madrid desde el año 1738 hasta nuestros días, ivi 1918; R. Mitjana, Histoire de la musique en Espagne, in Encyclopédie de la musique, fondata da Lavignac, IV, Parigi 1920; J. Ribera, La música de las Cantigas, Madrid 1922; G. Ma. Sunyol, Introducció a la paleografia musical gregoriana, Montserrat 1925; ed. franc., 1935; H. Anglès, Les Melodis del trovador Gueraut Riquier, Barcellona 1926; id., Les "Cantigues" del rei N'Anfos el Savi, ivi 1927; id., El códex musical de Las Huelgas, I-III (Música a veus dels segles XIII-XIV), ivi 1931; id., La música en España. Apéndice a la Historia de la música de Johannes Wolf, ivi 1934; id., La música a Catalunya fins al segle XIII, ivi 1935; J. Subirá, La música en la casa de Alba, Madrid 1927; id., La tonadilla escénica, I, III, ivi 1928 segg.; id., Celos aun del aire matan. Ópera del siglo XVII. Texto de Calderón y música de Juan Hidalgo, Barcellona 1933; C. Rojo e G. Prado, El canto mozárabe, ivi 1929; A. Salazar, La música contemporánea en España, Madrid 1930.
Folklore.
Il folklore spagnolo è ricco e vario, con caratteristiche marcate e anche peculiarità notevoli da regione a regione: le leggende, i canti e in genere la musica popolare della Spagna, e più particolarmente le danze, così come i ricchi e pittoreschi costumi, sono diventati notissimi, attraverso la letteratura e la pittura romantiche, il teatro di varietà e l'elaborazione di musicisti dotti, in tutta l'Europa. Si è così creata - come del resto è avvenuto anche per altri paesi - una Spagna di convenzione, mistica e sensuale, gaia e truce, cupa e galante, agitata da passioni violente tra non meno violenti contrasti di colore, in cui, sopra uno sfondo misterioso, ardente e guizzante, sigaraie di Siviglia e toreri danzano e giostrano, altercano e si abbracciano e in un supremo spasimo di voluttà si uccidono con una bene affilata lama di Toledo o si rifugiano nello stesso tetro convento ove il severo hidalgo, tormentato dagli scrupoli e dal confessore, ha rinchiuso per sempre la figlia, colpevole soltanto di uno sguardo.
Considerato con maggiore freddezza scientifica, il folklore spagnolo attesta, anche oggi, le complesse vicende storiche della nazione. Così accade per i racconti popolari e per le leggende, molte delle quali hanno una base classica (come, p. es., il notissimo e assai diffuso episodio di Amore e Psiche, o la leggenda di Ercole), ma la maggior parte si riferisce all'epoca gloriosa ed eroica della Riconquista: basterà ricordare la battaglia di Covadonga, Roncisvalle, i sette infanti di Lara (v.) e i cicli di Bernardo del Carpio, di Pietro I il Crudele (o el justiciero, come è più noto fra il popolo), degli stessi re cattolici e soprattutto dell'eroe più antico e del più noto - anche, in virtù dell'elaborazione letteraria, fuori della Spagna - il Cid Campeador; e accanto a queste, altre numerose leggende, p. es., quella del Graal. Altrettanto ricca è la letteratura popolare dei proverbî, e degl'indovinelli, filastrocche, scioglilingua, ecc., soprattutto infantili. Non meno interessanti e degne di studio sono le sopravvivenze e continuazioni degli antichi drammi liturgici, quali il Transit y Assunpsió de Nostra Señora, che si rappresenta nell'interno della chiesa, il 14 e il 15 agosto, in Elche (Alicante) o la Entradilla de moros y cristianos (provincie di Valladolid e Valenza), il Juicio de Judas (Burgos), e altri, che si rappresentavano ancora recentemente, p. es. nella Galizia e nella Catalogna, o quella dei pastori - durante l'Avvento - nella Murcia: dove un altro genere di teatro popolare è costituíto dai juegos de manates, specie di commedie o farse villerecce, recitate a soggetto sopra uno "scenario" prestabilito.
Notevole soprattutto il folklore religioso. In occasione del battesimo, nelle Asturie, non solo vi è uno scambio di doni simbolici tra i genitori del neonato e i padrini, ma presso i vaqueros quello di offrire pane al primo che s'incontra per via, affinché il fanciullo sia caritatevole. Le feste sono celebrate con la massima solennità, con ogni forma di spassi e processioni o cavalcate, danze e canti. L'inizio del carnevale è annunciato, a Murcia e a Cartagena, da un banditore in costume antico, che dall'alto di un carro arringa scherzosamente il pubblico; famose, per il loro carattere artistico, le cavalcate di Valenza; il mercoledì delle Ceneri, in Catalogna si celebra, senza maschere, il seppellimento del carnevale. Ma le processioni più caratteristiche e più note sono quelle della Settimana Santa, che rievocano i principali episodî della Passione: splendide per bellezza e ricchezza di costumi, che le confraternite allestiscono a gara, quelle di Lorca, di Cartagena, di Murcia (celebri per le sculture di Salcillo), di Toledo, Salamanca, Burgos, Reus, Granata, Cordova, León, Palencia, ecc.; e quelle, famose anche fuori della Spagna e che attirano numerosi forestieri, di Siviglia, per la domenica delle Palme, il mercoledì, giovedì e venerdì santi, con i soldati romani, i penitenti e i bambini in costume di angeli che recano gli emblemi della Passione, le immagini di Gesù, della Madonna e dei principali personaggi della Passione stessa, i trombettieri e cantori che recitano il racconto della Passione, le confraternite come quella detta "del silenzio" e un tempo i disciplinati e altri, nonché le musiche e i cori. In alcune località, p. es., a Sant Vicenz dels Horts, a San Esteban de Bas, a Verges, e altrove, la processione dà luogo a un vero e proprio dramma liturgico. Il Sabato santo si cantano, in Catalogna, le caramelles, o canzoni pasquali e per il giorno di Pasqua si mangiano speciali dolci tradizionali, mentre il Lunedì si festeggia con allegre scampagnate. Anche animatissime sono, dopo le cerimonie della Settimana santa e la celebrazione della morte di Giuda (un fantoccio di stoppa e paglia che rappresenta il traditore e contro il quale si spara finché s'incendia), le feste pasquali in Andalusia. Grandiosi carri si fanno anche a Valenza nella ricorrenza del Corpus Domini, con la rappresentazione della decapitazione dei Santi innocenti, dei sette peccati capitali con la Moma, e varie cavalcate. Nei giorni di S. Giovanni e di S. Pietro. in tutta la Castiglia, e altrove in altre occasioni (specie a Valenza), si fanno le cosiddette enramadas; per S. Giovanni si accendono i tradizionali fuochi, mentre a Valenza per S. Giuseppe vengono preparate e bruciate les falles (sing. falla), o pupazzi di legno mascherato. All'infuori delle feste propriamente religiose, altre occasioni di allegrezza sono fornite dalle rondas, che i giovani fanno un po' dovunque, andando in giro di notte a cantare serenate, con chitarre e altri strumenti e, le notti precedenti le feste di primavera o d'estate (S. Giovanni, S. Pietro, ecc.) le chiassose veglie all'aperto, o verbenas. Celeberrime le grandi feste di Siviglia, dal 18 al 21 aprile e dal 28 al 30 settembre, nel Prado de San Sebastián. Manifestazioni di allegrezza diventano pure i numerosi pellegrinaggi, o romerias. Diffuso è altresì il costume del piantar maggi (v. maggio).
In quasi ogni festività hanno larga parte le danze tradizionali. Tra queste, un gruppo notevole è costituito dalle danze guerriere, caratteristiche dei paesi baschi, quali lo zortriko, l'aurresku, la espata-dantza, ecc. Ma non vanno dimenticati neanche il contrapás catalano, e infine le danze più note, e che tendono a diffondersi, quali il bolero, il fandango (v.), il flamenco, la jota (v.), di origine andalusa e probabilmente valenzana quest'ultima, ma che secondo B. Foz risalirebbero tutte agli antichi balli canario e gitano; mentre altre danze, quali la galiziana muiñeira, vanno cadendo in disuso.
Fra le manifestazioni popolari non vanno naturalmente dimenticate le corride (v.) di tori e i combattimenti dei galli (specialmente a Valenza), e, fra i giuochi, la pelota basca. Ma da varî anni si sta sviluppando in Spagna con singolare fortuna - anche nel campo internazionale - il giuoco del calcio, e in genere gli sport moderni; che non hanno però tolto di mezzo i più antichi giuochi di forza e destrezza, quali la barra (in Aragona, barrón: bastone di ferro della lunghezza di cm. 75, pesante da 7 a 10 kg., che si lancia quanto più lontano facendolo ricadere verticalmente) e altri.
Le nozze sono celebrate con grande pompa. Nella Nuova Castiglia, la notte precedente le nozze, la sposa dorme presso la madrina e lo sposo presso il padrino; il banchetto nuziale è elemento importantissimo di tutta la cerimonia. Nella Montaña di León se ne celebra uno subito dopo che le famiglie riunite hanno, in gran segretezza, dato il consenso alle nozze e stipulato i patti matrimoniali; nella Murcia, si celebrano due banchetti, il primo in casa della sposa, il secondo in quella dello sposo. Gl'inizî di una relazione amorosa, come la richiesta di matrimonio, dànno origine a parecchie manifestazioni interessantissime, p. es. nelle Asturie e in Léon.
Ai funerali prendono parte ancora le prefiche, per esempio nella Nuova Castiglia (plañideras), nelle Asturie (lloronas) e almeno in alcune parti dell'Estremadura. L'usanza del banchetto funebre è assai diffusa; nella Catalogna vige ancora l'antico costume di offrire al sacerdote il pane e il vino; in Galizia, quello dell'abellón: cioè, dopo una refezione, una circumambulazione del cadavere in cui i partecipanti imitano, a bocca chiusa, il ronzio dell'ape.
Diritto.
Elementi del diritto spagnolo. - Come la nazionalità spagnola si è formata con la fusione di elementi etnici assai diversi, così anche il diritto spagnolo è sorto dalla fusione di elementi giuridici molto varî nel corso di una lunga storia. Gli elementi principali del diritto spagnolo sono due: il romano e il germanico (visigotico). S'inizia il diritto propriamente spagnolo quando questi due elementi incominciano a compenetrarsi. Fino dai primi contatti del diritto ispano-romano col visigotico nella penisola, influì vivamente su essi il diritto canonico, fino al sec. XI nelle sue forme nazionali dopo Gregorio VII anche nelle sue forme romane, pretridentine e tridentine. Questo influsso, a partire dalle collezioni visigotiche, è così intenso e vario, da doversi ammettere il diritto canonico come elemento principale del diritto spagnolo, accanto al romano e al germanico. Come elementi secondarî, ma importanti, devono essere additati il diritto indigeno preromano, che diede al diritto romano nella penisola un carattere provinciale assai spiccato, e poi il diritto musulmano. Non si può invece, ammettere un influsso apprezzabile del diritto ebraico e del diritto franco (la leggenda dei fueros franchi, difesa da Helfferich tra i Tedeschi e da Clermont tra i Francesi, è da tempo sfatata). Il diritto spagnolo, sorto come prodotto della fusione di questi elementi, può dirsi, entro certi limiti, fondamentalmente uno, come una è la nazionalità. Questa fondamentale unità non toglie però che nel campo del diritto civile anche oggi esista nella penisola un'assai viva varietà. Accanto al codice spagnolo, che potremmo chiamare comune, sussistevano nella Spagna prima della guerra civile 1936 cinque altre legislazioni (Aragona, Baleari, Catalogna, Navarra, Vizcaya), alcune di esse molto ampie.
Storia del diritto spagnolo. - La storia del diritto spagnolo si apre con la pubblicazione del Liber iudiciorum di Recesvindo (654). A partire da questa data, si può dividere in cinque periodi chiaramente distinti: 1. periodo visigotico, fino alla conquista musulmana (654-711), caratterizzato dal predominio dell'elemento romano-canonico sul germanico; 2. periodo dei "fueros", che arriva alla fine della prima metà del sec. XIII, e spicca per la reazione dell'elemento germanico e per la prevalenza dei diritti locali (fueros, statuti) sul diritto comune (Liber iudiciorum) e sul diritto territoriale; 3. periodo della recezione del diritto romano comune e canonico (corpi del diritto) che lottano col diritto prevalentemente germanico dei fueros, specialmente locali (secoli XIII-XIV); 4. periodo dei diritti territoriali e delle loro compilazioni, che si distingue dal precedente per la preponderanza dei diritti territoriali delle diverse regioni sui diritti locali e per l'ottenuta armonia degli elementi indigeno, romano e canonico, che contribuisce a fissare definitivamente il diritto anteriore ai codici (secoli XVI-XVIII); 5. periodo costituzionale o delle codificazioni, che porta l'unità giuridica in tutti i campi del diritto, tranne il civile, e in questo costituisce il diritto comune spagnolo, il quale, pur riconoscendo l'autonomia giuridica delle regioni con diritto particolare, tende a limitarla (secoli XIX, XX).
1. Periodo visigotico (654-711). - Dall'inizio della conquista visigotica (408) fino a che essa non diventò stabile e completa con la distruzione della monarchia degli Svevi (584) al tempo di Leovigildo (568-586), le due razze ispano-romana e visigotica vissero nella penisola ciascuna sotto le proprie leggi. La Lex Romana (Breviarium) era stata codificata da Alarico II (506) nel periodo franco e formava il diritto dei Romani nelle loro relazioni interne. I Visigoti avevano avuto il primo codice da Eurico (469-475) riveduto poi e accresciuto (Codex revisus) da Leovigildo (verso il 572). Era questo codice la legge dei Visigoti, ma anche la legge comune nei riguardi pubblici e nelle relazioni coi Romani.
L'abolizione del divieto dei matrimonî fra le due razze, la conversione dei Visigoti al cattolicismo (589) e altre circostanze favorirono l'unione nazionale. Questa unione non solo si manifestò, ma si compì anche in buona parte, mediante l'avvicinamento e la graduale fusione dei due diritti, ispano-romano e visigotico. Avvicinamento, prima. Difatti il diritto visigotico, nelle due sue prime recezioni di Eurico e di Leovigildo, aveva sentito intensamente l'influsso romano. Quasi una metà dei capitoli di Eurico (21 su 45) e una terza parte (65 su 200) dei capitoli aggiunti da Leovigildo, contengono dottrine romane (cfr. Larraona-Tabera, El Derecho ustinianeo en España, in Atti del Congresso di dir. rom., II, BolognaPavia 1935, pp. 20-21, 100-101). Sembra anche possibile che sotto l'influsso del diritto visigotico il diritto vissuto degli Ispano-Romani si sia allontanato assai dal diritto scritto del Breviario. Fusione graduale, in seguito. Infatti, le leggi nuove date dai monarchi visigoti, da Leovigildo in poi fino a Recesvindo, conservate nella Lex Visigotorum e che sommano a un centinaio, come anche la legislazione ecclesiastica e civile dei concilîcortes di Toledo, erano comuni, come i tribunali. Indice sicuro dei progressi di questa interessante fusione sono le note formule visigotiche (fine sec. VI e principio del VII) che colgono in pieno il fenomeno (cfr. Zeumer, Formulae Merovingici et Karolingici Aevi, in Mon. Germ. Hist., 1886). Il Liber iudiciorum è la collezione visigotica completata, rifusa e romanizzata, nella forma (a imitazione del codice di Giustiniano), e anche nella materia. In 170 dei 526 capitoli che la compongono, si trovano citazioni, qualche volta testuali, altre volte, se non testuali, sicure del diritto romano. Questa collezione è preziosa per la ricostruzione del diritto visigotico. È noto che le costituzioni posteriori a Leovigildo portano il nome del legislatore dal quale provengono e le anteriori, o leovigildiane o euriciane, vengono indicate con la sigla Antiqua. La collezione ebbe influsso profondo su tutto il diritto germanico; senza dubbio è la più perfetta e ampia delle sue leges. Il Liber iudiciorum di Recesvindo si può considerare come l'atto di nascita del diritto spagnolo. Esso annullò interamente il Breviarium, del quale, eccettuato il palinsesto di León e qualche raro codice di Ripoll, non si trova traccia manoscritta nella Spagna. Le regioni confinanti con la Francia probabilmente lo riebbero dopo l'invasione araba. Questa prima collezione veramente spagnola, come in seguito le altre, civili e canoniche, fu continuata e completata ininterrottamente, prima della conquista araba (Ervigio 680-681; Egica 694-698) e anche dopo. Fino all'età moderna, essa è stata base ideale del diritto nazionale. Bisogna però notare che il diritto in essa contenuto fu forse meglio accettato dagli Ispano-Romani che dai Visigoti. Sembra che questo diritto fosse per i Visigoti troppo elevato e romanizzato, in urto assai vivo con le consuetudini germaniche (cfr. T. Melicher, Der Kampf zwischen Gesetzes- und Gewohnheitsrecht im Westgotenreiche, Weimar 1930).
2. Periodo dei fueros o dei diritti locali germanici. - Con l'invasione araba (711) si ruppe l'unità politica fondata sullo stato visigotico. Rimase, per quanto talvolta sembri indebolirsi, l'unità nazionale, radicata nella comunione del sangue, della religione, della cultura romana tenacemente conservata. Si conservò anche in gran parte l'unità giuridica. La lotta per la riconquista incomincia subito, nello stesso sec. VIII, in diverse regioni (Asturie, Navarra, Aragona, Catalogna) indipendenti le une dalle altre e si formano man mano regni o principati cristiani. Dal punto di vista giuridico, ci sono alcuni caratteri comuni all'evoluzione interna di questi centri della riconquista: a) dappertutto si riconosce vigente il Liber iudiciorum, come diritto fondamentale. Esso fu ritenuto e osservato come diritto vigente anche nei territorî sottomessi ai musulmani. La collezione visigotica fu completata, annotata, tradotta in arabo e mano a mano nelle diverse lingue volgari. b) Si ravviva in tutti i regni, sebbene con intensità diversa, il diritto consuetudinario germanico, spodestato dalla Lex Visigotorum. Esso informa specialmente i fueros locali (vedi appresso), che sono una vera fioritura di un diritto germanico assai caratteristico e affine, a quanto sembra, al diritto germanico norvegese e islandese (G. Ficker, Über nähere Verwandtschaft zwischen gotisch-spanischen und norwegisch-isländischen Recht, in Mitteil. des Inst. f. österreich. geschichtl. Forschung, VI). c) Col secolo IX incomincia il fenomeno giuridico più singolare di questo periodo: l'apparizione dei fueros locali. Questi fueros sono numerosissimi nei secoli XI e XII, scemano nel sec. XIII e quasi scompaiono nel XIV. Il diritto locale dei fueros è un diritto rozzo, rispondente ai bisogni e alle circostanze della riconquista e alle tradizioni popolari visigotiche e, in qualche punto, forse anche ispaniche. Il diritto locale vince il diritto di carattere più ampio e più generale; questo diventa suppletorio riguardo al primo. d) Dal sec. XI in poi, di fronte al diritto locale, incomincia a formarsi e svilupparsi il diritto territoriale, che abbraccia tutta una regione. I primi esempî sono due: nelle regioni occidentali il diritto territoriale dell'assemblea di León del 1017-1020, e nelle regioni orientali quello contenuto negli Usatges di Barcellona (1068 segg.). Questo diritto territoriale incomincia a completare il diritto locale, ma poi lo limita e finisce nei periodi seguenti per vincerlo e sopraffarlo. Il diritto territoriale riveste forme diverse: quella dei fueros generali, che è la principale, si svolge piuttosto nel periodo seguente. In questi diritti territoriali si trova il germe dei diritti regionali così radicati, ancor oggi, nella Spagna. Si conservano parecchie centinaia di fueros, in latino e in lingua volgare. e) Nella Catalogna esercita il suo influsso, al principio di questo periodo, il diritto franco. Dura nel periodo dell'unione feudale della Catalogna con la Francia; cioè, durante i secoli VIII e IX. L'influsso si limita al diritto feudale e processuale. Il monumento giuridico fondamentale della Catalogna in questo tempo è costituito dagli usatges di Barcellona (Usalia o Usatici Barcinonae). Essi diventarono la Charta magna di Barcellona prima, e poi di tutto il territorio catalano. Dopo gli studî del Ficker e di Valls e Taberner (Estudis d'historia juridica catalana, Barcellona 1929) si possono distinguere in questi Usalia (consuetudini giudiziarie) tre diverse redazioni. Il primo nucleo comprende 60 Usatici circa, e fu compilato fra il 1055 e il 1071. Furono aumentati fino a 150 fra il 1076 e il 1082. Le addizioni contengono leggi posteriori, articoli tratti da S. Isidoro, dal codice visigotico, dal libro di Tubinga, da alcune collezioni canoniche (Caesar augustana, ecc.). Posteriormente si fecero edizioni varie, pubbliche e private, con aggiunte successive e diverso numero di articoli che arrivarono nelle più complete a 174. La collezione fu dai glossatori e commentatori dei secoli XIV e XV ordinata per materia. f) L'elemento romano sarebbe quasi scomparso in questo periodo se non vi fosse stato il Liber iudiciorum.
3. Periodo della recezione del diritto romano comune e del diritto canonico. - Questo periodo viene preparato nella seconda metà del sec. XII e nel principio del XIII dai contatti con le scuole italiane e francesi e con la letteratura giuridica da esse prodotta. S'inizia in Castiglia con Alfonso X e nelle altre regioni più o meno nello stesso tempo. I caratteri generali di questo periodo sono i seguenti: a) il Liber iudiciorum continua in León, come diritto ancora di applicazione diretta, alla fine del sec. XIII. Era la legge che si applicava nel tribunale di appello detto Juicio del libro. In Castiglia fu messo alquanto in onore come base ideale al diritto e diritto suppletorio. Fu anche dato come fuero locale ad alcune città che non avevano altro, da Fernando III (Cordova, Siviglia) e da Alfonso X (Jerez) e si adoperò come fonte per altre collezioni di questa epoca (p. es., per il Fuero Real). Nella Catalogna fu abrogato nel 1251 da Giacomo I nelle Cortes di Barcellona, ma, nonostante questa abrogazione, continuò ad adoperarsi come diritto suppletorio in molti casi. b) Il diritto locale (fueros) ha nella prima parte di questo periodo la sua importanza; ma l'evoluzione giuridica è favorevole al diritto territoriale, al quale pian piano cede il diritto locale. c) Il diritto territoriale, in questo periodo, ottiene il suo sviluppo mediante: 1. parziali raccolte di consuetudini regionali, specialmente in Catalogna; 2. fueros generales; 3. sentenze; 4. leggi fatte in Cortes col monarca (Aragona), e dal monarca solo (Castiglia, Navarra, Catalogna). Si arriva così a fissare il diritto, specialmente civile, con le sue caratteristiche in ciascuno dei regni o principati. d) La parte romana, così preponderante, della collezione visigotica e tutta l'immensa tradizione romanistica spagnola contenuta un po' dappertutto: nel diritto canonico nazionale, nelle opere di S. Isidoro, nelle formule e documenti del diritto applicato, ecc., era stata soverchiata dalla forte rinascita dell'elemento germanico. Qualche sprazzo di luce romana arriva sulla fine del sec. XI attraverso riassunti medievali e collezioni canoniche, ma l'eclisse del romanesimo era quasi completa. L'influsso della scuola di Bologna si manifesta nella seconda metà del sec. XII, si intensifica nei secoli XIII e XIV e continua con la fondazione a Bologna del collegio di S. Clemente fatta dal card. Albornoz (v.). Il romanesimo trionfa prima nella scienza e nella prassi e poi ingaggia una lotta a fondo sul terreno legislativo che nel periodo seguente, specialmente in Catalogna e Navarra, fu vinta, quando il diritto romano diventò diritto suppletorio. La scienza romanistica viene principalmente da Bologna. Qui troviamo i Catalani e i Castigliani, sono numerosi i Navarresi e ce ne sono anche, maestri e discepoli, di tutte le altre regioni della Spagna. Sono conosciuti Ponzio de Ilerda (v.) che insegnava nel 1215; Raimondo da Penyafort (v.); Vidal de Cañellas autore del Codice di Huesca, fondamentale per il diritto aragonese, e forse anche del Codice di Valenza; Pietro Albert, autore delle Commemorationes, importanti per il diritto catalano; Pietro Ispano; Lorenzo Ispano (v.); Vincenzo Ispano, discepolo di Accursio verso il 1220 e professore verso il 1230; Giovanni Stefano di Pesetella, maestro verso il 1223, passato poi a Padova; Giovanni di Dio (v.); Bernardo Compostellano iunior o Briganzio (maestro fra il 1254-1260), Giovanni Garcia Ispano. In Italia gli Spagnoli frequentavano anche Padova, Pavia e Vercelli. In Francia erano frequentate le università di Tolosa e Montpellier. e) Le biblioteche e gli archivî spagnoli fin dal sec. XII sono pieni di manoscritti romanistici: così a Vich si conserva il più antico codice della Summa Institutionum di Piacentino. Di Lo Codi si trova in Tortosa (biblioteca capitolare n. 129) un manoscritto della fine del sec. XII, ecc. f) Nella seconda metà del sec. XIII troviamo a Barcellona una scuola di diritto, nella quale s'insegnava diritto romano e sul principio del sec. XV (1400) si fonda l'università di Lérida per l'insegnamento del diritto canonico e civile a somiglianza di Bologna. Venne in essa favorito in tutti i modi, da parte dei monarchi aragonesi, l'insegnamento del diritto civile. In Castiglia nel sec. XII si fondarono l'università di Valenza, alla quale Alfonso VIII (1158-1214) chiamò professori di Francia e Lombardia, poi l'università di Salamanca (1179), confermata e riorganizzata da Fernando III, e quella di Valladolid (1260). g) Nei formularî della prassi, fino dalla metà del sec. XII e specialmente nei secoli XIII e XIV, il contenuto romano è evidente. h) L'elemento canonico segue la sorte dell'elemento romano col quale è unito come scienza, come pratica e anche come legislazione.
I diritti regionali più importanti in questo periodo sono quelli della Castiglia e della Catalogna.
Appaiono in Castiglia durante questo periodo grandi collezioni legislative pubbliche e alcune collezioni private di diritto e di giurisprudenza:
a) Collezioni pubbliche. - Sono il Fuero Real o Fuero de las leyes, le Partidas di Alfonso X e l'Ordenamiento de Alcalá di Alfonso XI. Il Fuero Real era già pubblicato nel 1255, s'ispirava al diritto germanico ma temperato da elementi romani ricevuti dal Fuero di Soria (ed. di G. Sánchez 1919) e da elementi canonici ricevuti dalle Decretali. Le Partidas (parti) formano forse la più bella collezione giuridica di tutto il Medioevo: sono un capolavoro letterario e giuridico. S'ispirano al diritto romano quale era insegnato a Bologna e al diritto canonico. Sebbene non potesse trionfare il diritto delle Partidas, perché troppo colto e troppo romano, non per tanto superate le reazioni, anche violente, ebbe influenza assai forte sul prevalere, nell'età successiva, dell'elemento romano. L'Ordenamiento de Alcalá è una raccolta di leggi in XXXII titoli, approvata nelle Cortes di Alcalà sotto Alfonso XI nel 1348. È assai importante nella storia della lotta fra l'elemento germanico e l'elemento romano del diritto spagnolo. Segna infatti un vero regresso per il diritto romano, che aveva trionfato nelle Partidas. L'Ordenamiento de Alcalá fu corretto nel 1351 da Pietro I, ma s'ignora l'ampiezza della correzione.
b) Collezioni private. - Se ne hanno due di norme scritte, chiamate Leyes nuevas, e una riguardante il processo, detta Leyes de estilo, del tempo di Fernando IV, attribuita, ma senza fondamento, a Oldrado da Ponte.
Il diritto catalano ha una personalità assai spiccata nel diritto spagnolo. Esso conserva ancora parecchi dei caratteri che acquistò definitivamente in questo periodo, e può dirsi a ragione che, in buona parte, ancor oggi è diritto medievale: l'elemento germanico si trova assai accentuato. L'elemento romano e canonico trionfò in Catalogna più largamente che in Castiglia, per quanto la lotta contro di esso fosse nei sec. XIII e XIV assai accanita. Nel 1409, sotto Martino I, il diritto comune, romano e canonico è riconosciuto come parte integrante del diritto catalano.
Il diritto territoriale catalano, è costituito dalle usatges, che diventano il diritto fondamentale catalano: si solevano mettere come appendici nelle collezioni locali. Nella seconda metà del sec. XII appaiono due collezioni private, che poi diventarono pubbliche. Sono: 1. le Costumes de Catalunya, opera anonima scritta in latino che contiene 17 articoli su consuetudini feudali catalane: 2. le Commemoraciones de Pere Albert, trattato in due parti sul diritto feudale catalano scritto originariamente in latino da Pietro Albert, dottore a Bologna e canonico poi di Barcellona. Nel 1470 ottenne alle Cortes di Monzón forza di legge (ed. di A. Robira, Barcellona 1933). Vere collezioni di diritto locale sono le Consietuts, assai numerose in questo periodo. Le principali sono: 1. Consuetudines illerdenses, le più antiche fra tutte, che furono compilate dal giureconsulto di Lérida Guglielmo Botet nel 1228 (ed. di Valls y Taberner nella Revista jurídica de Cataluña, 1926); 2. Consuetudines Dethursae (Costums de Tortosa), che è la più ampia e più scientifica di queste collezioni di consuetudini: ebbe lunga elaborazione e diverse redazioni dal 1241 al 1294. Consta di nove libri con titoli e paragrafi: s'ispira alla Costum di Valenza e direttamente o attraverso questa al Lo Codi. Influiscono sulla collezione il diritto comune, che si dichiara vigente dopo il diritto locale e gli usatges, il diritto canonico e il diritto marittimo di Barcellona (Costums de la mar); 3. Consuetut de Barcelona volgarmente dette le recognoverunt proceres. È una collezione fondamentale nel diritto catalano pubblico e privato. Consta di 116 capitoli scritti in latino, il primo dei quali incomincia colle parole: Recognoverunt proceres. Fu approvata da Pietro III nel 1284 per Barcellona, poi estesa a tutta la Catalogna e ricevuta anche fuori: p. es., a Cagliari. Si riscontrano accanto agli elementi locali e territoriali, elementi romani e visigotici (ed. del testo latino fatta dal Tucci, Il libro verde della città di Cagliari, Cagliari 1925); 4. Ordinacions d'En Sancta Cilia. È una collezione probabilmente del sec. XIV che contiene in 70 capitoli le consuetudini di Barcellona in materia di servitù rustiche e urbane. 5. Consuetuts de Girona. Importanti per la conoscenza del diritto feudale catalano. Il diritto privato è vivamente influenzato dal diritto romano. 6. Dirítto marittimo. Il diritto marittimo catalano è stato la base del diritto marittimo mediterraneo, e uno dei fondamenti del diritto marittimo comune europeo. Le sue fonti principali sono le Ordinacions di Barcellona del 1258.
4. Periodo dei diritti territoriali e delle loro collezioni. - a) Questo periodo comprende tre secoli (XVI-XVIII) ma si può ben dire che sotto diversi aspetti dalla metà del sec. XV incomincia la sua preparazione. Anzi, specialmente per la Castiglia, il suo inizio coincide col regno dei re cattolici. b) Trionfano dappertutto, a scapito dei diritti locali, i diritti territoriali, che sono ormai diventati diritti regionali. Tutte le regioni con personalità giuridica, raccolgono il proprio diritto in compilazioni dello stesso tipo. Esse sono tre, fondamentali, in Castiglia e tre in Catalogna; in Aragona sono molto numerose, e si trovano anche in tutte le altre regioni. c) L'autonomia giuridica riceve un duro colpo dopo la vittoria definitiva ottenuta dalla casa di Borbone nella guerra di successione. Scompare il diritto valenziano e vengono molto limitati il diritto aragonese e il catalano. d) Come diritto suppletorio in Castiglia vige ancora fino al sec. XVIII, almeno in teoria, il Fuero Juzgo. Negli altri territorî principali è interamente dimenticato. e) Il romanesimo, e con esso anche il diritto canonico, trionfa in Castiglia sul diritto indigeno (derecho real) con le Partidas e specialmente per mezzo della dottrina e del diritto applicato. Dal 1499 al 1505, in mancanza di legge costituivano diritto i testi di Bartolo e Baldo, tra i romanisti; di Giovanni Andrea e del Panormitano, tra i canonisti. Nel 1505 le Cortes di Toro prescrissero che in questi casi si ricorresse al re. In Catalugna nelle Cortes di Barcellona del 1599, sotto Filippo III, furono formalmente riconosciuti come diritto suppletorio in primo luogo il diritto canonico e in secondo luogo il diritto romano giustinianeo. In Navarra le Cortes del 1576 accettarono come suppletorio il diritto romano. Il diritto canonico del Concilio di Trento fu ricevuto nella Spagna come legge nel 1564 da Filippo II, con riserva però delle regalie della corona. f) C'è una tendenza all'unificazione giuridica, per l'espansione del diritto castigliano. S'intensifica con la casa di Borbone, e nella seconda metà del sec. XVIII si sviluppa una reazione a favore del diritto patrio, praticamente il castigliano, che incomincia a essere moderatamente insegnato nelle università, accanto al diritto comune (romano) e canonico. g) In questo periodo si compie la più bella irradiazione del diritto spagnolo col diritto coloniale indiano (Leyes de Indias). Riguardo alle fonti, il diritto scritto ottenne il primato sulle diverse forme di diritto non scritto; il potere del re domina le cortes, che son sostituite in gran parte dai consigli (Consiglio reale per il territorio metropolitano; Consiglio delle Indie per le colonie). Questi operano a nome del re (Autos acordados). h) È l'epoca classica della letteratura giuridica, che toccò il massimo splendore nei secoli XVI e XVII.
In Castiglia sono tre le compilazioni generali: l'Ordenamiento de Montalvo (1484), le Leyes de Toro (1505), la Nueva Recopilación (1567) e la Novíssima Recopilación (1805). 1. Ordeniamiento de Montalvo. Collezione pubblicata sotto il titolo Libro de las leyes u Ordenanzas reales de Castillia: raccoglie le leggi vigenti a partire da Alfonso XI. È assai difettosa: non completa, non fedele ai testi che alle volte spezza, riassume, rifonde, ecc. Non è certo che fosse promulgata e riconosciuta come ufficiale. 2. Leyes de Toro. È una collezione di 83 leggi nelle quali sono interpretate ufficialmente alcune delle norme più importanti delle Partidas, Fuero Real, ecc. Si chiamano di Toro perché, preparate a petizione delle Cortes di Toledo del 1502, furono approvate nelle cortes di Toro del 1505. 3. Nueva Recopilación. Siccome l'Ordenamento de Montalvo non soddisfaceva i bisogni, già Isabella la Cattolica nel codicilio fatto in Medina del Campo nel 1504 al suo testamento, raccomandò che si facesse un'altra compilazione più completa. Fu pubblicata da Filippo II nel 1567. Consta di 9 libri distribuiti in titoli e in leggi (sono circa 4000). 4. Novísima Recopilación. Nel 1752 il marchese De la Ensenada proponeva a Ferdinando VI la pubblicazione di un codice fernandino che riassumesse in un volume la legislazione. Ci fu un movimento a favore del progetto, ma non riuscì. Carlo III incaricò Lardizábal (il famoso penalista) di preparare un supplemento a la Nueva Recopilación che contenesse le leggi, ecc., fin dal 1745: fu fatto, ma non ottenne l'approvazione. Carlo IV affidò il supplemento al Reguera Valdelomar che, dopo averlo preparato, propose di fare una nuova compilazione. Fu pubblicata nel 1805 col titolo Novísima Recopilación de las leyes de España, in 12 libri.
In Catalogna: a) Prina compilazione. In Catalogna il bisogno di raccogliere le leggi e norme disperse si sente molto presto, sia per la loro immensa mole, sia per la lingua nella quale si trovano generalmente scritte (latino). Da principio vi furono collezioni private; col sec. XV incomincia il lavoro per la compilazione ufficiale. Nelle Cortes di Barcellona del 1413 si domanda al re Ferdinando I la nomina di due persone che traducano le fonti e le ordinino sistematicamente, e il deposito degli originali in archivio perché possa farsi in caso di dubbio la collazione. Furono designati dal re Bonato Pere e Giacomo Callis. A questi vennero aggiunti per la revisione Narciso de San Dionís e Francisco Bonet. La collezione disiribuita in dieci libri, segue l'ordine giustinianeo riducendo a uno i tre ultimi libri. Fu depositata nell'archivio dove si trovano in due volumi il testo catalano e il testo latino. Non si sa perché non si pubblicò. Fu promulgata e stampata soltanto nel 1495, sotto Ferdinando il Cattolico. Furono aggiunte le leggi date fra il 1413 e il 1495 inserendole nei iuoghi opportuni. b) Seconda compilazione. Dopo due tentativi inefficaci nel 1533 e 1564, nelle cortes di Monzón si decise di nominare una commissione che, riprendendo il lavoro della commissione del 1564, facesse una nuova compilazione aggiornata. Furono nominati tre delegati dal re e tre dalle cortes. Questi sei delegati composero la seconda compilazione generale che ha per titolo Constitucions y altres drets de Catalunya e fu stampata nel 1588-89. Consta di tre volumi. c) Terza compilazione. Si fece per decisione delle Cortes di Barcellona sotto Filippo V (1702). Rispose al bisogno di ristampare la collezione e completarla. Si nominò una commissione composta di tre persone, cioè, l'abate di San Cugat, e i dottori Solà e Massanès. S'intitola come la seconda, Constitucions y altres drets de Catalunya, ed è ancora in vigore (l'ed. ultima è stata fatta dal Colegio de Abogados di Barcellona, 1909).
Dopo la guerra di ribellione della Catalogna al tempo di Filippo IV il conte-duca di Olivares suggeriva l'abolizione del diritto catalano. Filippo V, finita la guerra di successione, manifestò subito l'idea di unificare il diritto nella penisola, privando delle loro autonomie i territorî ribelli, cioè: Aragona, Valenza, Catalogna e Maiorca. Nel 1707 furono aboliti i Fueros di Valenza e Aragona, estendendosi a queste due regioni il diritto castigliano. Il diritto valenziano non fu più ristabilito; il diritto aragonese privato, con alcune limitazioni, fu di nuovo ripristinato nel 171).
A Maiorca si lasciò il diritto privato (1715, 1717, 1718), ma fu abolito tutto quello che toccava il diritto pubblico. Per la Catalogna nel 1716 (16 gennaio) provvide il decreto chiamato Nueva Planta; con esso erano aolite le leggi proprie riguardanti il diritto pubblico, salvi alcuni aspetti di esso, ma si confermava il diritto civile e commerciale.
5. Periodo del diritto codificato. - Il secolo XIX è anche per la Spagna il secolo della codificazione. Attraverso i codici si è ottenuta finalmente l'unità legislativa in tutti i campi del diritto, tranne che nel diritto civile.
L'epoca costituzionale si apre nella storia spagnola con la Costituzione di Baiona (6 luglio 1808), imposta da Napoleone I a Ferdinando VII: dopo questa si sono avute, fino al 1931, le seguenti costituzioni: quella delle Cortes di Cadice (19 marzo 1812) vigente in tre periodi diversi: 1812-1814, 1820-1823, 1823-1837, due volte abrogata da Ferdinando VII (1814, 1823), e rimessa in vigore alla sua morte (1833); lo statuto reale del 17 aprile 1834 che completò la costituzione del 1812; la nuova costituzione del 18 giugno 1839; la costituzione del 23 maggio 1845 con la quale si riformava quella del 1837; la costituzione del 1869; e finalmente quella del 30 giugno 1876, sospesa durante la dittatura del generale Primo de Rivera (1923-1930). In seguito una nuova costituzione fu promulgata dal presidente della repubblica il 9 dicembre 1931.
Il movimento verso la codificazione del diritto civile incomincia nella Spagna nella seconda metà del sec. XVIII. Di questa tendenza codificatrice, in fatto, si trovano precedenti interessanti tanto presso uomini politici quanto presso giuristi. La codificazione incomincia con le Cortes di Cadice e la sua storia ha due periodi assai diversi: il primo va dal 1812 al 1880, il secondo incomincia col 1880. Dopo una lunga preparazione e in seguito a movimentate discussioni nella stampa e in una serie di congressi giuridici, fu approvata l'11 maggio 1888 una legge detta di Bases (criterî fondamentali) per la definitiva redazione del codice civile. Fatta secondo esse la redazione, il codice fu presentato alle cortes, le quali dopo una rapida discussione l'approvarono. Fu pubblicato il 6 ottobre 1888 e incominciò ad avere forza di legge il 1° maggio 1889. Il codice consta di un titolo preliminare e quattro libri con 1976 articoli. Il suo ordinamento è modellato su quello del codice francese (lib. I: Delle persone; lib. II: Dei beni, della proprietà e delle sue modificazioni; lib. III: Dei diversi modi di acquisto della proprietà; lib. IV: Delle obbligazioni e dei contratti). Le sue fonti furono: 1. il progetto del 1851; 2. le leggi generali posteriori, alcune fondamentali, p. es., sul registro civile, sulle ipoteche; 3. le legislazioni regionali, in alcuni pochi punti; 4. i codici francese, italiano e portoghese; 5. le consuetudini, la dottrina e la giurisprudenza. Il codice si applicava, prima della guerra civile 1936, in 39 delle 499 provincie spagnole. Queste 39 provincie formano le regioni di diritto comune. Alle altre 10 (Catalogna 4, Aragona 3, Navarra, Vizcaya e Baleari) secondo il criterio, che finalmente prevalse, venne, come regola, lasciato il diritto civile proprio. Le eccezioni sono di due specie. Si applica a tutte le regioni come suppletorio di primo grado: nelle materie ordinate da leggi generali, nelle quali il codice è dichiarato suppletorio (art. 16). Per l'Aragona e le Baleari è inoltre suppletorio in tutto quello che non si oppone alle proprie leggi (art. 13). Invece, per le altre regioni con diritti proprî è suppletorio di ultimo grado; quando mancano, cioè, gli altri criterî suppletorî (art. 12). Praticamente la giurisprudenza tende a estendere l'applicazione del codice. In Catalogna, p. es., che è la più tenace propugnatrice del proprio diritto, si applicano 502 articoli del codice direttamente e 48 come suppletorî: in tutto 638 articoli su 1976. Dal punto di vista puramente scientifico la critica del codice deve essere piuttosto severa. Il codice doveva essere riveduto ogni dieci anni (Disp. adicionales 1ª, 2ª, 3ª): non si è fatta la revisione neanche una volta. Si dovevano inoltre codificare i diritti regionali e, approvati, pubblicarli, come appendici al codice stesso; fu approvata soltanto l'appendice di diritto aragonese (7 dicembre 1925), che entrò in vigore col 2 gennaio 1926. Delle altre regioni, la Vizcaya compilò la sua appendice nel 1900, la Navarra nel 1901, le Baleari, nel 1903; la Galizia, nel 1915. L'Accademia di diritto di Barcellona arrivò ad approvare un progetto redatto dal Trís, pubblicato nel 1896. Nel 1899 venne costituita una commissione ufficiale, ma nonostante la proroga concessale nel 1907, l'opera non fu compiuta. Finalmente nel 1930, dopo grandissime difficoltà, una commissione composta di noti giureconsulti finì la redazione dell'appendice in 370 articoli (Apendice de Derecho catalán al código civil, Barcellona 1930), che fu presentata per l'approvazione il 18 novembre dello stesso anno.
Il codice commerciale fu approvato con legge 22 agosto 1885; entrò in vigore il 1° gennaio 1886. Il nuovo codice si divide in quattro libri (I, Commercianti e Commercio in generale; II, Contratti speciali; III, Commercio Marittimo; IV, Sospensioni di pagamenti, bancarotta, prescrizione) con un totale di 955 articoli. La fonte principale è il codice del 1829. Sono stati anche adoperati il codice tedesco e quello francese, e si nota l'influenza, inoltre, dei codici italiano, belga e olandese. Separa interamente il diritto commerciale dal civile e lo considera diritto obiettivo (art. 2), non diritto proprio di una classe (commercianti). Mancano in esso molti istituti (ipoteca navale, conto corrente, contratto di edizione, ecc.), che si trovano regolati in leggi posteriori.
Il codice penale fu promulgato il 30 agosto 1870. L'edizione ufficiale risultò così imperfetta che si dovette ripetere (i gennaio 1871). Nella restaurazione monarchica del 1876, con legge del 17 luglio si fecero le principali correzioni necessarie per mettere il codice in armonia con la costituzione di quell'anno.
Siccome questo adattamento non soddisfaceva nessuno, dal 1880 si ebbe una serie di progetti di codice penale. Il più notevole è quello presentato da Francesco rilvela il 29 dicembre 1884. Nel 1926 (12 marzo), fu incaricata la commissione generale per la codificazione di preparare un nuovo codice penale. Esso fu presentato al governo il 12 luglio del 1927 e dopo esser stato discusso nell'assemblea nazionale, creata dalla dittatura, fu approvato il giorno 8 settembre 1928 e andò in vigore col 1° gennaio 1929. Era un codice assai ampio (858 articoli), sotto molti aspetti notevole e non rare volte assai ardito. Il giorno seguente alla caduta della monarchia (15 aprile 1931) fu abolito questo codice penale della dittatura e ristabilito il vecchio codice del 1870. Questo fu però rimodernato con una serie di gravi e ampie riforme che s'introdussero il 2 maggio seguente. Il codice penale del 1870 constava di tre libri in 626 articoli. Era stato oggetto di critiche assai aspre: non corrispondeva alla costituzione; conteneva troppe pene; la commisurazione di esse era troppo meccanica; non lasciava al giudice nessuna libertà nell'applicazione. La riforma cercò di rimediare assai ampiamente a questi difetti. Risponde a tre criterî: armonizzare il codice con la costituzione; renderlo più tecnico e più completo con la inserzione delle leggi posteriori al 1870 che conveniva conservare; finalmente umanizzarlo. Ecco le riforme principali: sono state ampliate le cause scusanti ed esimenti; per riguardo all'età fino ai 16 anni si applicano le leggi per i tribunali tutelari; si riducono le cause aggravanti; si sopprimono la pena di morte e le pene perpetue; parimenti si sopprime la responsalbilità sussidiaria con privazione di libertà, soltanto si ammette in caso di multa. Nel tentativo si può abbassare la pena fino a due gradi. Si lascia assai ampio campo all'arbitrio giudiziale. Con la morte si estinguono anche le pene pecuniarie. Per la riabilitazione, invece di un sistema automatico, si è adottato un sistema facoltativo. Delle leggi posteriori la principale è quella del 4 febbraio 1932 che riguarda le amnistie e gl'indulti.
Attraverso una serie di progetti e leggi parziali si arrivò al codice di procedura civile Ley de enjuiciamento civil, che fu promulgato il 3 febbraio 1881 ed ebbe forza di legge dal 1° agosto dello stesso anno. La legge de Bases sulla quale esso fu redatto era stata approvata il 21 giugno 1880. Il codice è assai complicato come sistema e come procedimento ed ha bisogno assoluto di riforma. Questa è stata tentata diverse volte, l'ultima nel 1918, senza mai arrivare in porto.
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