Sparta: la polis che si volle perfetta
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il nome di Sparta evoca un regime chiuso, talora crudele e spietato, caratterizzato da costumi austeri e da un’educazione rigorosa. Sparta è una polis singolare, eppure i fattori e i principi che ne determinano e plasmano gli assetti sono tutt’altro che unici nell’esperienza storica dei Greci. Le istituzioni cittadine si sviluppano al termine di un processo lungo e difficile da ricostruire, che culmina però in una riforma che persegue con straordinario rigore obiettivi chiari e ambiziosi. Questa storia ha un eroe conclamato, e nessun protagonista certo.
I Greci avevano le idee relativamente chiare sul conto di Sparta: erano persuasi che la fortuna della città fosse quella d’aver avuto, nel suo remoto passato, un grande legislatore, Licurgo.
Plutarco apre la sua biografia di Licurgo con una celebre avvertenza al lettore: “Di Licurgo, il legislatore, non si può dire assolutamente nulla che non sia controverso; tanto sulla nascita che sui suoi viaggi all’estero, sulla morte e infine sulla sua attività di legislatore e di statista si tramandano notizie diverse, e tanto meno c’è accordo circa l’epoca in cui visse”.
Le sue però sono preoccupazioni di biografo: certe discussioni interessano gli eruditi impegnati a ricostruire e sistemare il passato dei Greci e toccano questioni di dettaglio, non la sostanza.
È senso comune, nel mondo greco e romano, che Sparta debba la sua grandezza a Licurgo, e che la città abbia cessato di essere la potenza egemone in Grecia quando ha smesso di rispettare le sue leggi.
Per gli studiosi d’oggi le cose sono naturalmente più complicate. Non perché li assillino le questioni biografiche relative a Licurgo – alla cui storicità, o comunque rilevanza storica non si crede più. La nascita e la crescita di Sparta, e naturalmente il processo che ne definisce il peculiare sistema politico e sociale, restano però difficili da ricostruire. Per certi versi lo diventano sempre di più, quanto più raffinato diviene il loro modo di interrogare le fonti antiche e di riflettere sulla complessità dei fenomeni sociali, politici e culturali.
Tanto per cominciare, che gli Spartani fossero Dori è cosa nota: ma come e quando i Dori siano discesi dalla Grecia centrale nel Peloponneso, lì dove si trovavano alcune delle loro sedi principali, Sparta e la sua storica rivale Argo, è tutt’altro che chiaro. Gli antichi volevano che i discendenti di Eracle ve li avessero guidati qualche tempo dopo la guerra di Troia. Questi Eraclidi avrebbero fondato poi dinastie ad Argo, Messene e Sparta.
Il “ritorno degli Eraclidi” era un grande spartiacque della storia: prima c’era il Peloponneso del tempo mitico, con una sua geografia politica e le dinastie dell’epica eroica; i re di Sparta d’epoca classica erano invece discendenti degli Eraclidi e il ritorno degli Eraclidi aveva tracciato sulla carta del Peloponneso – con una sola provvisoria eccezione, la Messenia – i confini regionali d’epoca classica. Nell’antichità si era convinti che i Dori fossero più valorosi e forti in battaglia degli altri Greci, e soprattutto degli Ioni. I due secoli da poco trascorsi hanno attribuito ai Dori anche altre virtù, sovente in ossequio a teorie apertamente razziste. Le interpretazioni razziali della storia e del mondo, bandite dal discorso storiografico e da quello politicamente corretto (per quanto?) sopravvivono nel quotidiano, in diffusissimi e non sempre consapevoli pregiudizi. Gli storici dell’antichità, invece, hanno appreso dalle scienze sociali che le identità etniche sono il risultato di complesse costruzioni culturali, fondate sulla nozione, sostanzialmente artificiale, di una patria e di una stirpe comune. Si è a lungo pensato che il crollo dei regni e della civiltà micenea sia stato provocato dalle invasioni doriche. Si è anche suggerita una teoria dei due tempi: i Dori si sarebbero infiltrati nella Grecia meridionale dopo che le forti organizzazioni dei regni micenei si erano disintegrate. Il movimento avvenne verosimilmente in piccoli gruppi, e alcuni di questi gruppi probabilmente già si definivano Dori: molte comunità, però, “divennero” doriche, ossia assunsero una nuova identità etnica, solo in un “terzo tempo”, dopo una lunga fase di instabilità insediativa, organizzativa e sociale.
Dagli Eraclidi discendono, secondo la tradizione, i due basilèis di Sparta. Non sappiamo – lo si deve dire con chiarezza – come mai il gruppo di villaggi nella media valle dell’Eurota che nell’insieme ebbero il nome di Sparta si pone sotto la guida di due basilèis. Va ricordato almeno che la traduzione di basilèus con “re” è approssimativa e che basilèus non equivale a monarca. Nella città dei Feaci descritta da Omero vi sono molti basilèis, anche se ve ne è uno – Alcinoo – superiore agli altri. In quanto discendenti di Eracle, e dunque di Zeus, i basilèis sono distinti da tutti gli altri membri della comunità, che sono Dori, e non Eraclidi. Questo contribuisce al loro carisma, e tale carisma fa sì che i membri delle due famiglie – gli Agiadi e gli Euripontidi – si succedano al regno senza interruzioni da un momento non ben precisabile nei primi tre secoli del I millennio a.C. fino alla fine del III secolo a.C. Il contrasto fra condivisione della basileia e straordinario pedigree divino è singolare, e altrettanto singolare è, se si confronta Sparta con le altre poleis, il lungo perdurare della basileia a Sparta.
Un altro aspetto peculiare della Sparta storica è l’estensione del dominio della città. Nei lunghi secoli della sua massima potenza, fra il VII secolo e il 369 a.C., anno della rinascita di Messene come polis autonoma, Sparta domina su tutta la parte meridionale del Peloponneso, ossia su Laconia e Messenia, quella che per comodità, ma non arbitrariamente, chiameremo la Grande Laconia. La Grande Laconia nel suo insieme è poco più grande dell’Umbria attuale (8500 kmq ca.), ma il paragone è fuorviante. Bisogna guardare alla frammentazione prodotta dal sistema della polis: la superficie della Grande Laconia è il triplo rispetto a quella della regione di Atene, l’Attica (2500 kmq ca.), e le altre poleis greche hanno territori nell’ordine delle centinaia o del centinaio di kmq.
Qui dobbiamo chiamare in causa un’altra nozione di sapore scolastico, quella di perieci. Dopo l’eroica resistenza degli Spartani alle Termopili, Erodoto fa dire a Demarato, un re spartano in esilio presso Serse (re di Persia dal 486 al 465 a.C.): “Sovrano [Demarato si rivolge a Serse], molti sono i Lacedemoni e molte sono le loro città; ma saprai quello che vuoi apprendere. A Lacedemone c’è la città di Sparta, che ha circa 8000 uomini. Questi sono tutti pari a quelli che hanno combattuto qui; gli altri abitanti della Laconia non sono pari a questi, ma valorosi anche loro (VII 234)”. Le altre città della Laconia, oltre a Sparta, sono le poleis dei perieci. Di esse sappiamo in realtà piuttosto poco. Certo a ciascuno di questi centri urbani, spesso piccoli, spetta una parte, anche ridotta, della Grande Laconia. La Laconia e la Messenia non sono dunque tutto territorio civico di Sparta. Tutti probabilmente ricordano che i perieci (letteralmente “quelli che abitano intorno”) sono liberi, ma non hanno diritti politici. Spartani e perieci combattono insieme nell’esercito lacedemone, ma le decisioni che impegnano tutti i Lacedemoni si prendono a Sparta; i perieci non partecipano all’assemblea e non possono essere magistrati di Sparta. Di fatto, insieme agli Spartani, i perieci formano una più grande unità di carattere etnico, quella dei Lacedemoni (Lakedaimonioi). È anche verosimile, benché non suffragato da prove certe, che l’unità etnica lacedemone abbia avuto un proprio riflesso e fondamento religioso nella partecipazione a culti comuni. Mentre nel corso del tempo le comunità etniche sviluppano istituzioni di tipo federale, l’unità lacedemone rimane, per tutta la storia di Sparta, fondata sui re eraclidi, “i basilèis dei Lacedemoni”, e sulla centralità di Sparta.
La progressiva annessione dei centri perieci alla comunità lacedemone avviene certo anche grazie a esemplari manifestazioni di forza e segna la crescita di Sparta nei primi, oscurissimi secoli della sua storia. Il processo culmina nella sottomissione della Messenia, portato a compimento con due guerre combattute probabilmente fra la fine dell’VIII e l’inoltrato VII secolo a.C. La tradizione su queste guerre è relativamente abbondante, ma in gran parte di valore storico molto dubbio.
La seconda guerra messenica è però legata alla poesia di Tirteo. Il poeta è testimone contemporaneo delle difficoltà affrontate nel ridurre all’obbedienza i Messeni ribelli, per via, sembrerebbe, della scarsa convinzione dei cittadini. Egli esalta i re eraclidi: fa appello all’obbedienza e descrive in quest’ottica il funzionamento dell’assemblea spartana. Afferma il valore supremo della virtù militare rispetto a ogni altra forma d’eccellenza individuale, dalla ricchezza alle qualità atletiche: la qualità dell’uomo si misura sul campo di battaglia. A motivare l’azione deve essere, secondo Tirteo, l’onore riconosciuto dalla polis all’uomo valoroso, sopravvissuto o caduto nello scontro.
I guerrieri di Tirteo per certi versi somigliano già a quelli delle Termopili (480 a.C.) – e la sua poesia, del resto, è all’origine della retorica di ogni epoca sui caduti per la patria. Tirteo conosce anche, oltre alla doppia basileia, un’altra istituzione tipica di Sparta classica: il consiglio degli anziani, la gerousia. La gerousia è un collegio composto dai due re e altri 28 membri, gli ultrasessantenni gerontes, eletti a vita, e già in epoca arcaica ha compiti importanti nel processo di deliberazione.
Gli Spartani di quest’epoca sono simili ai loro concittadini d’epoca classica anche per altri aspetti. Sono già orgogliosi della propria vita cittadina tradizionale: solo chi è convinto della qualità delle proprie istituzioni ne attribuisce l’origine a un legislatore leggendario. E la leggenda di Licurgo – che Tirteo a quanto pare non conosce – risale verosimilmente alla fine del VII o all’inizio del VI secolo, almeno a giudicare da un documento straordinario, conservatoci da Plutarco, la “grande rhetra”, presentato come un oracolo che avrebbe prescritto a Licurgo come organizzare la cittadinanza e far procedere alle deliberazioni. Evidentemente gli Spartani attribuiscono sin da allora a Licurgo il merito del loro successo e delle loro qualità.
Pare in effetti che gli Spartani abbiano iniziato molto presto a nutrire quell’insopportabile senso di superiorità che li contraddistingue in epoca classica. Al termine della prima guerra messenica, al passaggio fra VIII e VII secolo, l’orgoglio di Sparta era già grande. Risale all’incirca a quest’epoca una pretesa per noi singolare, quella di fare di Agamennone un re della Laconia, anziché di Micene e dell’Argolide. Il santuario di Agamennone e di Alessandra (la Cassandra dei poemi omerici) si trovava ad Amicle, poco a sud di Sparta, presso l’antico centro della Laconia micenea. Più o meno negli stessi anni su una collina di fronte a Sparta viene invece fondato il santuario del Menelaion, sede del culto di Elena e Menelao. Sparta reclama il suo posto nel mondo dell’epos, e si proclama erede del capo degli Achei in guerra a Troia. Nel corso dell’VIII, del VII e nella prima metà del VI secolo gli Spartani dimostrano d’essere i più forti non solo in guerra, ma anche in tempo di pace, primeggiando costantemente negli agoni atletici di Olimpia. Le nostre conoscenze sui vincitori olimpici sono incomplete, e per questo periodo forse in parte anche imprecise, per esempio quanto alle date esatte delle vittorie. Quello della supremazia degli atleti di Sparta in questo periodo è però un dato schiacciante e incontrovertibile. Ogni vittoria individuale negli agoni conferma le qualità della collettività spartana.
La società spartana dell’epoca di Tirteo, però, è per altri aspetti ancora molto diversa da quella d’epoca classica. Non sembra per esempio che l’esercito lacedemone dell’epoca abbia pienamente adottato la tattica oplitica d’epoca classica. Tirteo si rivolge infatti anche a guerrieri armati alla leggera, evidentemente più poveri dei fanti che combattono coperti di bronzo, secondo l’uso che contraddistingue il guerriero oplitico. Negli stessi anni un altro poeta spartano, Alcmane, testimonia un amore per le gioie del convivio inconcepibile nella Sparta classica, passata alla storia per la sobrietà nel bere e per il brodo nero dei suoi pasti in comune, i sissizi, o più propriamente pheiditia. I ritrovamenti archeologici, soprattutto ma non solo quelli nel santuario di Artemis Orthia, mostrano che fra il tardo VII secolo a.C. e la metà circa del VI secolo a.C. fiorisce a Sparta un artigianato vario e spesso ricco e sofisticato. All’inizio del secolo scorso essi suggerirono l’idea che la trasformazione fondamentale delle istituzioni e della cultura spartana fosse avvenuta nel VI secolo a.C. Al nome di Tirteo è collegato, inoltre, il ricordo di disordini sociali, culminati in una richiesta di redistribuzione di terre. Anche Sparta si trova, dunque, a fronteggiare i problemi posti dalla crescita delle comunità cittadine d’epoca arcaica, che spesso genera mobilità e incertezza circa l’ordine sociale, crea notevoli disparità di ricchezza e determina un’intollerabile pressione sulle classi meno abbienti. In questa situazione anche a Sparta – come ad Atene con Solone – si avverte la necessità di definire in termini chiari il posto che spetta ai singoli all’interno della comunità. Per i Greci d’epoca arcaica, la cui cultura è ispirata al comportamento degli eroi omerici, questo significa essenzialmente definire gli onori che spettano a ciascuno: onori che sono cariche politiche, ma anche la garanzia di uno stile di vita adeguato al proprio status.
La risposta a questa domanda è la tappa conclusiva del lungo processo che trasforma Sparta nella città che ci è più familiare. Delle riforme, attuate verosimilmente durante la prima metà del VI secolo a.C., mettono in piedi un sistema coerente e razionale, ispirato a un principio semplice e tradizionale.
Gli Spartani vogliono che la prima città della Grecia sia composta solo dai migliori e governata da una élite rigorosamente selezionata. Introducono perciò un limite di censo al di sotto del quale si perdono i diritti civici: ogni Spartano è tenuto a versare un contributo in prodotti alimentari da destinare alle mense comuni. Non è facile determinare quantitativamente questo limite, che non pare tuttavia fosse modesto. I continui successi di Sparta rendono possibile l’esistenza di una grande comunità cittadina fatta di proprietari di terre che dei contadini dipendenti, gli iloti, coltivano per loro: senza considerare i territori delle città perieche, gli Spartani possiedono un territorio assai vasto, esteso nella valle dell’Eurota e nelle fertili terre della Messenia centrale, di là della catena del Taigeto. All’inizio del V secolo Sparta è una grande città, per gli standard greci, e si stima che potesse mettere in campo 8000 opliti.
Viene anche istituito, e a un certo punto reso obbligatorio, un sistema pedagogico organizzato e sorvegliato dalle autorità cittadine. Tale sistema, che suscitò enorme interesse presso gli antichi e che i moderni sono soliti indicare con il termine di agogé, è in parte fondato su riti preesistenti, e viene certo ulteriormente sviluppato nel corso del tempo. Esso forma guerrieri a tempo pieno, dediti al bene della polis e al rispetto del nomos: la costante competizione nel dar mostra delle virtù socialmente approvate porta alla selezione di un’élite dei migliori, costantemente sorvegliata nelle sue performance.
Si vuole anche che a tutti gli Spartani sia garantita un’esistenza aristocratica. Liberi da ogni lavoro manuale, si dedicano alle attività politiche e religiose, alla caccia, all’atletica, ai banchetti, pronti in ogni momento a mostrare il loro valore. Per alcuni di loro si tratta d’una vera promozione sociale. L’appellativo homoioi (“pari”, pari innanzitutto in valore, e dunque potenzialmente in dignità) di cui si fregiano sottolinea anche il superamento delle differenze di status fra i cittadini. Ma la “parità” richiede ai più fortunati uno stile di vita morigerato.
Alla fine del V secolo Tucidide può scrivere che gli Spartani avevano da tempo adottato una condotta di vita modesta e fortemente egualitaria. Il desiderio e l’ostentazione di ricchezza appaiono come una minaccia alla concordia civica; i beni di lusso e una vita rilassata sono poi considerati delle seduzioni superflue e pericolose per gente chiamata a sopportare ogni durezza e a dimostrare il proprio coraggio virile in battaglia. Lo status individuale (timé) deve essere deciso dalla polis e rispecchiare la dedizione al bene della comunità e la fedeltà ai suoi valori etici e politico-militari.
La città designa e premia i migliori; le differenze economiche e le manifestazioni di prestigio non devono interferire con questa decisione: la ricchezza, in genere, non è valorizzata socialmente.
Le differenze economiche non vengono eliminate, ma poste in secondo piano; possono emergere occasionalmente, in circostanze e forme rispettose dei valori condivisi. Allo stesso modo, la morale comune consente di perseguire gli interessi economici, soprattutto nella sfera privata e familiare, ma tiene lontani i cittadini da transazioni economiche, considerate indegne; del tutto approvati sono invece gli scambi condotti in modi appropriati, nel contesto di relazioni sociali di tipo tradizionale, che fanno appello a reciprocità e amicizia (doni, doti, testamenti), ma il miglior modo per acquistare beni è la conquista militare.
La riforma del VI secolo non porta buoni frutti a tutti gli abitanti della Laconia. Il termine homoioi distingue anche, implicitamente, gli Spartani da chi non è alla loro altezza, innanzitutto nella società lacedemone.
Le fatiche del lavoro della terra, ritenute indegne d’un uomo di valore, sono riservate agli iloti: da loro dipende l’esistenza di ogni Spartano. Ricerche condotte recentemente nella campagna della Laconia hanno mostrato che intorno alla metà del VI secolo i dintorni di Sparta, rimasti fino allora privi d’insediamenti, si popolarono di numerose fattorie molto piccole. Anche altrove, in Grecia, fra l’età tardoarcaica e classica si registra una più densa occupazione della campagna: in Laconia il fenomeno fu però straordinariamente rapido, e appare spontaneo, non il frutto di una distribuzione di terre, ma di un nuovo modo di sfruttarle.
È ragionevole postulare un rapporto con la decisione di legare lo status civico al contributo per le mense comuni. I contributi obbligatori ai sissizi non comprendono solo cereali, ma anche vino e fichi, e spingono all’allevamento: in sostanza, inducono a praticare un’agricoltura che, per i parametri d’allora, possiamo dire intensiva e che richiede una più stabile presenza contadina sui campi.
Le riforme che definiscono lo status degli homoioi influiscono così profondamente anche sulla vita delle classi dipendenti. L’allontanamento della popolazione non libera in residenze stabili in campagna è certo frutto d’un’opzione economica, ma approfondisce – non solo in termini fisici – la distanza fra dipendenti e cittadini. In generale si fissa una rigorosa contrapposizione fra liberi e non liberi, che coincide in buona parte, almeno a quest’epoca, con la distinzione fra cittadini di pieno diritto e i disprezzati iloti. Le condizioni dei contadini dipendenti – quali che ne fossero le origini: certo non tutti gli iloti sono i discendenti di popolazioni asservite, fossero Messeni vinti da Sparta, o addirittura Achei sottomessi dagli invasori Dori – saranno d’ora innanzi più omogenee; forse la stessa categoria degli iloti viene ora giuridicamente definita. Lo statuto perieco – anch’esso verosimilmente meglio definito in termini giuridici a partire da questo momento – costituisce probabilmente una valvola di sfogo per coloro che si sono trovati esclusi dalla cittadinanza.
Alle tensioni sociali ed economiche, dunque, si risponde definendo cosa spettasse a ciascuno: Solone ad Atene difende la dignità dei cittadini più deboli e riconosce apertamente il peso della ricchezza. Sparta opta per l’“uguaglianza”, a danno degli esclusi.
Un ruolo importante in queste trasformazioni riveste l’eforato, sulla cui origine mancano notizie degne di fede.
Le fonti attribuiscono dapprima la creazione di questa magistratura collegiale (gli efori sono cinque, e uno di essi ha l’onore dell’eponimato) all’immancabile Licurgo. Solo in seguito fu elaborata una tradizione che assegnava il vanto d’averla istituita al glorioso re Teopompo, cui Tirteo attribuisce già il merito della prima conquista della Messenia. L’eforato viene però creato certamente più tardi: la “grande rhetra”, già ricordata in precedenza, prescrive e descrive il funzionamento dell’assemblea spartana senza menzionare gli efori, cosa impensabile in epoca classica, quando gli efori la presiedono. Il compito essenziale degli efori – e presumibilmente originario, come suggerisce il loro nome, “osservatori”, “sorveglianti” – è quello di vegliare sul rispetto della legge e dei costumi. Questo fa pensare che il collegio sia stato istituito proprio nel contesto della riforma del VI secolo. Le loro funzioni sono infatti strettamente legate all’idealizzazione delle norme. Il mito di Sparta nasce a Sparta, dalla consapevolezza che la polis deve la sua grandezza ai propri nomoi.
All’entrata in carica gli efori annunciano: “Tagliatevi i baffi e obbedite alla legge, se non volete incorrere nella nostra severità” (Plutarco, Vita di Cleomene, 9 3) e ogni mese efori e re si scambiano un celebre giuramento descritto da Senofonte (Costituzione dei Lacedemoni, 15 7). “Ogni mese si rinnova sotto giuramento un patto reciproco tra gli efori a nome della città e il re a titolo personale. Il re giura di regnare in modo conforme alle leggi stabilite dalla città, la quale a sua volta giura di non intaccare le prerogative regali se il re resterà fedele ai propri giuramenti”.
Questi rituali politici formano un sistema simbolico trasparente: gli efori sono – a nome della città – i custodi del nòmos; al rispetto della legge sono tenuti anche i più grandi (i basilèis), e tutti sono tenuti a rispettarla, fin da giovani e anche nei dettagli più piccoli; su tutto e tutti vegliano gli efori.
Gli Spartani devono aver sentito il bisogno di porre sotto controllo i basilèis; si deve temere che, forte del carisma conferitogli dal mito eraclide e da secoli di successi militari, qualcuno di loro si possa sbarazzare del collega, o comunque possa instaurare una tirannide.
La tirannide del resto è un’epidemia che, fra la fine del VII e il VI secolo, infuria in Grecia. L’esempio più chiaro della strenua difesa della città nei confronti di un aspirante tiranno è quello che si conclude con la morte di Pausania, il vincitore di Platea (479 a.C.).
Gli Spartani avvertono che i carismatici re eraclidi costituiscono una poderosa minaccia all’ordine, ma hanno profondi motivi etico-religiosi e politici per non sbarazzarsi di loro.
La storia di Sparta non è comunque caratterizzata dal conflitto fra efori e re: in concreto, il prestigio acquisito sul campo di battaglia e l’ossequio alla tradizione e alla legge sono fattori importanti degli equilibri politici interni, e dei re abili e fortunati esercitano un notevole ascendente sulla comunità, determinandone il più delle volte le scelte.