Spazi dell’ascolto e nuova estetica fenomenologica
È stata una consuetudine, per lungo tempo, tentare di definire l’essenza della musica rispondendo a domande come queste: cos’è la musica? Cosa ci accade quando ascoltiamo un brano musicale? Quando è lecito parlare di musica? Le risposte ovviamente, come sempre succede quando le domande sono così radicali, prendevano vie diverse e conducevano a risultati talmente differenti tra loro da essere a volte addirittura inconfrontabili. Sta di fatto che ormai queste domande appaiono se non improponibili, almeno decentrate e soprattutto incapaci di metterci sulla giusta strada. Non tanto perché il general problem setting and solv-ing, ovvero l’attitudine ad affrontare i problemi a partire da prospettive ariose e dilatate, sia caduto in disgrazia, quanto piuttosto perché le domande sono altre e spostano il centro dell’attenzione.
Dov’è la musica? Dove siamo quando ascoltiamo? Queste sono le sollecitazioni che ci provengono assai di frequente, almeno dagli ultimi decenni del Novecento, sia da chi si occupa di musica a partire da una prospettiva decisamente filosofica sia quando sono in gioco analisi etnomusicologiche, antropologiche, psicologiche e persino musicologiche. È una virata, questa dal cosa e dal quando al dove, ovvero da una domanda essenzialistica o funzionalistica a una localistica, non di poco conto, perché ci spinge a indagare l’esperienza musicale come se essa coinvolgesse innanzitutto e soprattutto la nostra percezione della spazialità. Siamo abituati diversamente, soprattutto dalla riflessione estetica che, almeno a partire dalla metà del Settecento, assorbita dall’arduo compito di costruire un sistema delle arti belle, puntava proprio sulla temporalità della musica al fine di differenziarla dalle arti figurative e dalle arti plastiche. È poi all’inizio del Novecento che la piena affermazione delle cosiddette filosofie della vita, con la loro insistenza sul parallelismo tra il tempo come durata e le dinamiche della vita interiore, aveva portato alle estreme conseguenze la definizione della musica come arte dell’interiorità, precedentemente diffusa soprattutto in ambito romantico.
L’esigenza di ‘non ritirare le anime dallo spazio’ quando parliamo di musica, di marcare i movimenti verso il fuori, di insistere sui processi che, dilatando la nostra sfera sensibile, ci mettono nella condizione di essere soggetti sintonici, piuttosto che espressivi, ha dato l’avvio, soprattutto in Germania, a una serie di lavori e di progetti di ricerca che traggono ispirazione dalla cosiddetta Neue Ästhetik e trovano il loro centro nella nozione di atmosfera. Intorno a questo tema si sta giocando l’opportunità di creare una comunità scientifica che dia coerenza e unità di intenti al dibattito estetico. Protagonista di questo dibattito è Gernot Böhme (n. 1937) il quale, a partire dalla sua Aisthetik (2001) ma soprattutto in Architektur und Atmosphäre (2006), recepisce le suggestioni dell’uso frequente delle metafore atmosferiche nell’ambito delle poetiche artistiche, o anche in contesti extraestetici, e organizza questo materiale privandolo degli aspetti dilettanteschi e inserendolo in una più solida e vincolante cornice filosofica.
Una riflessione sulle atmosfere ha ormai coinvolto ambiti d’esperienza diversi e discipline eterogenee: le scienze sociali, la psicologia, le scienze pedagogiche, la teoria delle arti (soprattutto dell’architettura e della musica), l’urbanistica. Preoccupazione di Böhme è fin dall’inizio quella di interpretare l’atmosfera come chiave di lettura privilegiata dell’esperienza estetica, convinto che la contiguità del discorso sulle atmosfere con i problemi connessi alle dinamiche percettive non configuri il pericolo che l’estetica perda la sua specificità, risolvendosi in una teoria generale della sensibilità. Ma il quadro teorico entro cui si inscrive questo tentativo è quello della Neue Phänomenologie, una corrente filosofica battezzata in tal modo da Hermann Schmitz (n. 1928), che viceversa considerava l’estetica un residuo di problemi mal posti se non addirittura una disciplina in disfacimento (Schmitz 1998).
Eppure da Schmitz occorre prendere le mosse. È sua convinzione che a partire addirittura dall’atomismo democriteo, ovvero dalla seconda metà del 5° sec. a.C., il nostro modo di rapportarci all’esperienza e di avvicinare i processi conoscitivi sia dominato dall’oggettivazione psicologistico-riduzionistico-introiettivi-stica. Si tratta di una vera e propria svolta che ci avrebbe traghettati da una concezione del mondo come un continuum di forze e tensioni, in cui eravamo immersi esperienzialmente attraverso focolai di impulsi semiautonomi, a una rottura della continuità, responsabile, da una parte, dell’emersione prepotente di un soggetto psichico che esaurisce nella sua intimità la sfera dell’esperienza vissuta e, dall’altra, di un mondo esterno levigato, ovvero ridotto e semplificato in tratti caratteristici ripetitivi, durevoli e misurabili. Responsabile di questa svolta è l’idea che la coscienza, dominando i propri impulsi letargici semiautonomi, si chiuda, si avvolga su sé stessa e si congeli come oggetto separato, ignorando colpevolmente quello sfondo di fluttuazioni impulsive che, pure, avevano rappresentato l’origine del processo di identificazione. Tale movimento inizia prestissimo e contrassegna quel lungo cammino che avrebbe progressivamente ritirato le anime dallo spazio.
L’impressione è che questa filosofia della storia regressiva – tale ci pare essere quella di Schmitz –, ovvero spinta dalla convinzione che la felicità e l’integrazione siano durate il tempo di un respiro e che prestissimo si sia avviato un processo di falsificazione e alienazione, ben poco ci dica della complessità delle vicende del pensiero e si chiuda in una dicotomia difficilmente sostenibile. Eppure denuncia un’esigenza, un’inclinazione, un bisogno di marcatura che, questi sì, ci interessano molto.
È almeno dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso che una certa attitudine spaziale è stata posta all’origine del passaggio dal modernismo al postmodernismo; un passaggio che avrebbe condotto alla decostruzione della soggettività e delle sue categorie espressive, spostato l’equilibrio da un’affettività decisamente intenzionale a tonalità diffuse del sentire, vincolato il processo creativo non più allo scavo intimistico ma all’estensione e dilatazione spaziale, archiviato come ormai improduttivo qualsiasi richiamo all’esperienza e al vissuto. È stato in particolare Fredric Jameson (Postmodernism, or the cultural logic of late capitalism, 1991; trad. it. 2007) a far emergere questo squilibrio a favore della spazialità, anche quando la temporalità, come è ovvio, non abbandona il campo; essa piuttosto si lascia influenzare dalla prepotenza di questa nuova attitudine, svincolandosi dal tempo vissuto e diventando essenzialmente scrittura del tempo. La fascinazione per i modi in cui il tempo si iscrive nella natura, nei microscopici organismi e nelle macroscopiche galassie, l’attenzione per le forme di scrittura estrema, come quella del codice del DNA, sono tutti tentativi di interpretare l’attitudine alla spazializzazione del tempo. Sotto il segno della spazializzazione si può collocare, secondo Jameson, anche l’‘arte concettuale’ nella misura in cui si sforza di rendere trasparente, nelle occasioni visive dell’opera, un itinerario mentale, quelle categorie del pensiero di cui generalmente avvertiamo la presenza strutturante, ma che, tuttavia, non potremmo mai visualizzare direttamente. È la mente che qui si spazializza, e l’opera d’arte diventa l’occasione di farne emergere le strutture sotterraneamente operative.
In questa lettura della condizione postmoderna all’insegna della rivincita della spazialità si fa strada una prospettiva decisamente razionalistica orientata a interpretare il movimento verso lo spazio come una forma di anestetizzazione, di minaccia per l’implicazione soggettiva, di decostruzione dell’esperienza. Lo spazio insomma viene utilizzato per marcare la distanza dal vissuto soggettivo e dai processi di assimilazione esperienziale. Al contrario, la teoria delle atmosfere, pur partendo da un’analoga esigenza di emancipazione dagli eccessi psicologistici e di marcatura della percezione spaziale, non smetterà mai di ribadire la necessità di un richiamo costante proprio all’orizzonte dell’esperienza. Anzi, potremmo dire che soltanto all’interno di questo richiamo è possibile parlare di ‘atmosfere’.
La nozione di atmosfera, che per molti versi è radicata nella tradizione perché connessa a categorie molto frequentate soprattutto dalla riflessione estetica, come quelle di grazia, Stimmung, aura, fisionomia, ha dalla sua parte il vantaggio di una focalizzazione concettuale insolita e insieme quello di spostare l’accento, di deviare il centro di attenzione. Se nell’immaginario comune e anche in buona parte della riflessione filosofica l’esperienza estetica si presentava essenzialmente come esibizione di un tempo interiore, come autoascolto, introversione, il movimento è invece ora diretto verso il ‘fuori’ e le sue configurazioni, ed è per questo che una chiave di lettura efficace per interpretare tali processi di dislocazione percettiva, di espatrio del sentire è proprio la nozione di atmosfera.
Cosa si nasconde allora dietro tale nozione, qual è, per così dire, la sua mappa concettuale, quali i presupposti teorici che essa recupera dalla tradizione del pensiero e riplasma? Eccoli, come in un indice: a) la nozione husserliana di sintesi passiva, ossia l’idea che i materiali percettivi si autoorganizzino in un processo, presentino cioè un’interna configurazione che si impone all’attenzione, suggerendo percorsi interpretativi e immaginativi, come fossero un serbatoio di simboli inesplosi (G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, 1979; Atmosfere, 2006); b) la tesi gestaltica (Kurt Koffka, Max Wertheimer) un po’ troppo radicalizzata, secondo cui ogni oggetto rivela la propria essenza, un frutto dice ‘mangiami’, l’acqua dice ‘bevimi’, la donna dice ‘amami’ e così via; c) la nozione di affordance (J.J. Gibson, The ecological approach to visual perception, 1979; trad. it. 1999; Atmosfere, 2006), cioè l’idea che la natura delle cose possa suggerire le loro possibili utilizzazioni e, insieme a queste, percorsi di trasposizione simbolica e fantastica.
Si giunge così a un primo tentativo di definizione dell’atmosfera che deve molto alle premesse teoriche di Schmitz. È Böhme a proporcelo nel suo Architektur und Atmosphäre: «Le atmosfere sono spazi sentiti o – per usare le parole di Hermann Schmitz – sentimenti effusi spazialmente, sentimenti quasi oggettivi. Le atmosfere sono qualcosa di spaziale e diventano esperibili nella misura in cui ci si può immergere in esse e il cui carattere può essere colto a partire dalla loro capacità di modificare la percezione di noi stessi, o almeno di impressionarci. Nella mia ökologische Naturästhetik ho affermato che l’atmosfera è ciò che media tra le qualità oggettive di un ambiente e il nostro sentirci presenti: il modo in cui noi ci percepiamo ci procura il sentimento dello spazio in cui di volta in volta sentiamo di essere» (2006, p. 16).
Atmosfera e Stimmung
Le atmosfere hanno a che fare con la percezione dello spazio, intesa come un’espansione, guidata e vincolata, del sentimento. Quando vogliamo evidenziare il carattere di mondo proprio del sentire, il suo essere essenzialmente un fatto prima che un costrutto, un dato prima che una sintesi, facciamo uso di una terminologia atmosferica ad ampio raggio di incidenza. A questo livello di indagine non interessa ancora la dimensione estetica della percezione atmosferica, perché ciò che conta è ribadire che una concezione del sentimento emancipata dall’introiezione presuppone che si possa distinguere un sentimento dal fatto di sentirlo (Schmitz) o, se vogliamo essere meno radicali, un sentimento con una forte componente ricettiva, al punto da seguire e pedinare la trama delle strutture ambientali, da un sentimento, una tonalità emotiva (Stimmung) in cui ci sentiamo convocati, una sorta di chiamata, di invito a partecipare. Qui possiamo forse cominciare a intravedere la fisionomia di un’esperienza estetica. La difficoltà di distinguere di fatto oltre che di diritto queste due modalità, o componenti, del sentire è la stessa difficoltà che si incontra quando cerchiamo di tenere separate un’esperienza prettamente percettiva dall’esperienza estetica. Ma è proprio questa la sfida di un’estetica delle atmosfere. Se Böhme tende a fluidificare questa distinzione tra Stimmung e atmosfera, facendo emergere la stretta e necessaria collaborazione dei due momenti presentati come alternative più di diritto che di fatto, Schmitz insiste invece nel tentativo di differenziarli. Ci sono sentimenti che più di altri ci paiono congelati nella loro autonomia, sembrano poter vivere senza di noi, appartenere a un mondo, a una situazione, essere registrati come eventi impersonali, anonimi, e tonalità emotive invece legate alle modalità della nostra risposta individuale. In quest’ultimo caso sentire il sentimento significa essere afferrati nel nostro corpo vivo (Leib), sentirci chiamati, convocati. E quel che più ci interessa è il fatto che si tratti di un invito al movimento: dobbiamo ‘andare con’, accompagnare, assecondare, battere il ritmo. La risolutezza gestuale di chi risponde alla chiamata, di chi accetta la convocazione è un segno di questa messa in movimento. «L’atmosfera del sentimento immette nel suo corpo vivo quella suggestione motoria che guida la sua gestualità» (H. Schmitz, I sentimenti come atmosfere, in Atmosfere, 2006, p. 36). Quando parliamo della percezione atmosferica per raccontare un’esperienza estetica intendiamo proprio collocarci nel punto in cui l’atmosfera colpisce il corpo vivo, entra in risonanza attraverso l’oscillazione ritmica tra tensione e distensione.
Lo spazio sentito
È chiaro fin dall’inizio che l’esigenza è quella di salvaguardare la disponibilità del soggetto ad aprirsi al mondo senza sacrificare la polarizzazione soggettiva: esiste un ambiente con le sue proprie caratteristiche e individualità, che non resta muto e indifferente perché entra nella nostra esperienza come spazio sentito a partire dalla percezione che noi abbiamo di noi stessi. Sono sostanzialmente due, ci spiega Böhme, i modi in cui la filosofia occidentale ha inteso lo spazio: lo spazio come topos di Aristotele e lo spatium di Cartesio. Lo spazio secondo la prima accezione meramente topologica ci consente di parlare di luoghi e dei loro rapporti con ciò che li circonda, senza comportare una metrica; lo spatium cartesiano, inteso essenzialmente come distanza e intervallo, può invece essere soggetto a valutazioni quantitative e dunque essere misurato. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di spazi omogenei o isotropi in cui si trovano dei corpi e che vengono pensati in relazione ai corpi. Completamente diverso è il caso dello spazio atmosferico, lo spazio della nostra presenza fisica (leibliche Anwesenheit), quello che sentiamo a partire dalla percezione del nostro corpo e che risulta dunque centrato, non in un senso prospettico vincolato alla nostra scelta del punto di osservazione o alle nostre modalità di rappresentazione, né in senso proiettivo, bensì in quanto coinvolge direttamente il modo in cui ci sentiamo nell’ambiente in cui ci troviamo. L’atmosfera ha dunque a che fare con quel margine di ‘oggettività’ e di ‘esteriorità’ garantito dal fatto che comunque si parla di spazi, di ambienti, di mondo, ma nello stesso tempo è inconcepibile al di fuori delle polarizzazioni soggettive, di quella sfera emotiva che si espande a partire dalla percezione del nostro corpo nell’ambiente.
Se dunque è vero che l’atmosfera è indissolubilmente legata a una certa dimensione dello spazio, ovvero allo spazio sentito a partire da una sorta di dilatazione della nostra sfera sensibile, parrà del tutto naturale che un’estetica basata su questa nozione abbia trovato terreno fertile di esemplificazione nell’architettura, arte dello spazio per l’appunto. E così è stato effettivamente. Ma il terreno su cui ha potuto meglio radicarsi è piuttosto quello delle collaborazioni, contaminazioni, sinergie tra le arti, che hanno rappresentato l’anima del Novecento e che rappresentano, in modo ancora più pertinente, lo spirito del nostro tempo. Il rapporto musica-architettura ne è un esempio particolarmente eloquente.
Una riflessione sull’atmosfera può giustificare in modo più profondo l’antica parentela tra le due arti. Esiste un modo banale, meramente descrittivo, statico di intendere questo rapporto. È il modo di chi, per es., coglie delle affinità strutturali tra musica e architettura sostenendo che entrambe condividono criteri di simmetria, ripetizione, articolazione ritmica, oppure intrattengono un analogo rapporto con il loro contenuto. Di queste comparazioni, piuttosto esterne e obbedienti a finalità perlopiù descrittive, la storia del pensiero estetico è ricca di esempi.
Avvicinare, invece, musica e architettura sulla base della nozione di atmosfera significa essenzialmente porre al centro una relazione dinamica delle due arti con la spazialità. Sembra una banalità affermare che l’architettura è arte dello spazio, nessuno di noi avrebbe l’ardire di negare una simile evidenza. Eppure per molti secoli, rileva Böhme, questa caratterizzazione della spazialità architettonica è rimasta riduttivamente vincolata a un’ontologia che concepisce qualsiasi cosa esista secondo lo schema del rapporto materia-forma. L’operazione architettonica in questo contesto viene intesa come un dar forma alle masse: c’è una materia che attende di prender forma e le costruzioni vengono equiparate a grandi sculture obbedienti a diverse funzioni. È nel 20° sec. che si è lentamente affermata una nuova concezione dell’architettura intesa essenzialmente come formazione o addirittura creazione dello spazio. Non plasmiamo una materia ma, attraverso di essa, lo spazio stesso. Potremmo dire che, in un senso molto largo, è sempre stato così. Peter Zumthor (Architektur denken, 1998; trad. it. 2003) ha efficacemente distinto due modalità di dar forma architettonicamente a uno spazio: da un lato la delimitazione di uno spazio attraverso un corpo architettonico, dall’altro la circoscrizione di uno spazio che resta legato a quello esterno, mediante l’utilizzo di corpi architettonici aperti. Pensiamo a una chiesa per il primo caso, e a una loggia o a una piazza nel secondo caso. Si apre così un ampio spettro di diverse modalità di intendere l’architettura come formazione di spazi. Ma Böhme insiste con particolare forza sul fatto che soltanto intorno alla metà del 20° sec. l’architettura ha fatto di questo modo di trattare lo spazio il proprio tema privilegiato, ha voluto mostrare direttamente cosa significa costruire e formare spazi. «In sintesi possiamo dire che oggi per l’architettura lo spazio non è più qualcosa di dato, poiché essa individua il suo compito nella creazione e nella formazione di spazi ed esperienze spaziali» (Böhme 2006, p. 87).
Atmosfere sonore
Böhme ha voluto tuttavia estendere il suo discorso applicativo e interpretativo alla musica, non solo perché ha inteso dotare di più solide basi filosofiche l’idea da sempre circolante dell’enorme potere suggestivo dell’arte dei suoni, della sua capacità di modificare il nostro modo di percepire noi stessi e l’ambiente che ci circonda, e neppure soltanto per sottolineare come all’arte per eccellenza del tempo appartenga anche la dimensione spaziale – a questo hanno già pensato molte delle poetiche musicali del Novecento impegnate a sfatare il mito della a-spazialità della musica sfruttando le risorse di un dialogo stretto, per es., con la pittura –; Böhme ha voluto dirci qualcosa di più, caratterizzando l’ascolto come una sorta di dilatazione della sfera sensibile, come un ‘andar fuori’, un muoversi verso l’esterno che conserva la flagranza e la forza dell’esperienza percettiva pur implicando una distanza. Non si sa quanto l’esempio tattile portato da Böhme sia pertinente, è certo tuttavia che ci aiuta a comprendere la sua prospettiva e d’altra parte egli stesso non nasconde che si tratta comunque solo di un’analogia. Stiamo peraltro parlando di un esempio che ha una sua storia. Già Cartesio si era posto la seguente domanda: quando tocchiamo con un bastone un sasso, dove sentiamo questo sasso? La sua risposta – lo sentiamo dove esso si trova – ha anticipato le soluzioni proposte nel Novecento dalla psicologia della Gestalt e fa riferimento a quell’estensione dello spazio corporeo, o dilatazione della sfera sensibile che, secondo Böhme, caratterizza la percezione delle atmosfere. In questo caso percepiamo a distanza, tocchiamo il sasso, ma non sulla superficie della nostra pelle bensì attraverso una immaginaria sensibilizzazione del bastone. Ciò che vale per il tatto, il quale presuppone almeno il contatto diretto con l’oggetto, vale a maggior ragione, sostiene Böhme, per l’ascolto che viceversa è fin dall’inizio un andare fuori, plasmato, formato, mosso dai suoni, dalle voci, dai rumori. Il modello della risonanza interiore, secondo il quale noi ascoltiamo sempre un arco melodico ricantandocelo nell’intimità, non tiene conto del fatto che l’esperienza dell’ascolto è innanzitutto un’esperienza di dislocazione percettiva capace di dar forma a uno spazio sensibile che marca l’estensione della nostra sensibilità oltre i limiti fisici del nostro corpo. Un corpo spirituale, potremmo dire, una sensibilità a distanza, una sorta di astrazione percettiva. Dunque ascoltare significa sempre percepire uno spazio a partire dalla dilatazione, dall’estensione della nostra sensibilità, come se il sentimento del nostro corpo si espandesse guidato e modellato dal suono. L’analogia con l’esperienza del tatto a distanza, impropria a un esame semplicemente percettologico, torna utile a Böhme per spiegare un’esperienza estetica di espatrio, dislocazione a partire da una intensa e marcata polarizzazione soggettiva, una sorta, appunto, di moto contrario rispetto a quello introverso, perché orientato a lasciarsi modellare da ciò che sta fuori.
Perché la musica possa avvicinare e porre a tema una simile nozione di spazialità, bisogna sradicare non uno ma due luoghi comuni. Innanzitutto occorre riportare alla sua giusta dimensione l’idea così enfatizzata, soprattutto nella tradizione occidentale, che la musica sia arte del tempo. Ci sembra impossibile oggi concepire la musica senza alcun richiamo anche alla dimensione spaziale, e siamo ormai consapevoli che la sua esclusiva caratterizzazione come flusso, durata, puro movimento del tempo obbedisce più a esigenze di accentuazione filosofica che non a finalità descrittive. Ma c’è ancora un passo da fare, ed è questo che ci porta vicino alla nozione di atmosfera. Quando diciamo che l’ascolto di un suono o di una musica è anche un ascolto spaziale non intendiamo soltanto dire che quel suono proviene da una fonte situata in uno spazio o che riempie un ambiente: vogliamo dire qualcosa di diverso e più dinamico. Intendiamo riferirci al fatto che quei suoni o quelle configurazioni musicali costituiscono delle «presenze con una loro specifica forma spaziale in continua variazione» (Böhme 2006, p. 86). Se l’esperienza del suono acquisisce una connotazione spaziale, ciò accade non tanto perché essa si esplica in uno spazio, quanto perché forma e costruisce una dimensione spaziale. Anche questo è sempre accaduto, ma vale anche qui quello che Böhme ha già affermato a proposito dell’architettura: dobbiamo attendere il Novecento e le riflessioni che accompagnano la nascita e l’evoluzione della Nuova musica, perché le opportunità di uno spazio atmosferico divengano il tema dell’arte dei suoni.
Che cosa, più precisamente, consente di porre in primo piano il tema dell’atmosfera nell’ambito dell’esperienza musicale? Innanzitutto, suggerisce Böhme, la sostituzione del paradigma formalistico con quello qualitativo. L’idea cioè che la musica si sia spinta, a partire dall’atonalismo, fino ai margini del musicale, alla ricerca di un materiale sonoro non ancora modificato linguisticamente, di un suono trovato piuttosto che costruito (G. Piana, Filosofia della musica, 1991, p. 64). Il suono come materia pura, autonoma, il suono concreto, viene a un certo punto considerato l’oggetto privilegiato dell’attenzione compositiva, a partire dalle ricerche di John Cage fino alle manipolazioni sonore di Hans-Joachim Hespos, Daniel Ott, Helmut Lachenmann. Ma di quale materia stiamo parlando? Di una semi-cosa, ci avrebbe detto Schmitz, di un’estasi delle cose ci dice, invece, Böhme, di un’entità fantomatica, secondo Giovanni Piana. Definizioni che nascondono differenze di accento, ma che hanno tutte di mira un unico tema: «Si dice di udire un suono, così come di vedere una cosa, di afferrarla o di toccarla. Ma è appena il caso di notare che il suono è un’entità di tutt’altro genere della cosa materiale che mi sta di fronte, che vedo in un determinato luogo dello spazio circostante, che io posso afferrare con le mie mani ed eventualmente riporre in un altro luogo. Come la voce in eco, il suono aleggia nell’aria diffondendosi nello spazio intorno. Il suo essere ‘qualcosa’ non può non apparire già per questo ricco di problemi, dal momento che se da un lato sembra giustificato far riferimento al suono come a un ‘oggetto’ autentico, dall’altro mancano qui quella determinatezza e quella stabilità che potrebbero forse essere poste a condizione dell’oggettività stessa» (G. Piana, Filosofia della musica, 1991, p. 72). Anche le immagini che Piana sceglie per avvicinare la materia sonora sembrano rinviare direttamente al mondo fluttuante delle atmosfere: «la fluidità acquorea del suono, la sua mobilità ignea, la sua aerea evanescenza» (p. 73).
Non è un caso che Gernot Böhme ricorra alle suggestioni di un altro Böhme, Jacob, cui attribuisce il merito di aver prospettato, nel lontano Seicento, un modello di cosa assai utile per le esigenze della teoria estetica e con rilevanti implicazioni per una filosofia del suono: la cosa è come uno strumento musicale, un corpo in risonanza che ha, grazie alla sua forma, all’incordatura e al tipo di cavità, una sua voce, una Stimmung che ne costituisce la segnatura, ovvero la forza plasmatrice. Insomma un modello di cosa che si impone come preannuncio, nella materia, di una tensione diffusa. Sarà poi in ambito romantico e idealistico, su cui molta influenza ebbe lo stesso Jacob Böhme, che la natura di semi-cosa del suono balzerà in primo piano. Pensiamo soprattutto a Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, ma anche a Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Già a livello della dimensione puramente materiale del suono, si annuncia l’altro volto della musica, quello più ritirato, interiore. Il cammino verso lo spirito ha un presentimento materiale. Il suono è la voce dell’intimità dei corpi, ed è questa introversione del mondo fisico che offre a Schelling, come in seguito a Hegel, lo spunto per passare da una filosofia della natura a una filosofia della musica. La profondità del corpo non più velata dalla sussistenza e resa libera nel suo esporsi alla caducità integrale delle oscillazioni sonore acquista i caratteri di una sorta di animazione meccanica. A sua volta l’intimità della physis che il suono porta ad apparizione costituendone la ‘voce’, proprio per il carattere peculiare del suo manifestarsi, non resta chiusa in sé, non si appaga dell’idealità conquistata, ma esige, evoca la partecipazione dell’interiorità umana. Animazione meccanica e animazione spirituale non seguono percorsi paralleli, solo secondariamente avvicinati, è piuttosto la loro natura instabile, mossa, impaziente a determinare il trapasso dell’una nell’altra. Il movimento verso la soggettività inizia all’interno della materia. Solo che mentre in ambito romantico questa spiritualizzazione della materia avveniva all’insegna della dissoluzione della sussistenza spaziale in nome della temporalità, l’estetica delle atmosfere applicata alla musica vuole essere una riabilitazione dello spazio come affettività diffusa. Non è più in gioco la linearità della successione e dello svolgimento, ma l’espansione, la dilatazione che d’un tratto ci si presenta come blocco, come totalità, come chiusura.
L’accostamento della nozione di atmosfera all’esperienza musicale è, dunque, possibile a partire da una marcatura della spazialità. Ma ci sono vari modi di intendere lo spazio sonoro. Se lo concepiamo come ambiente in cui la musica risuona, cioè come spazio architettonicamente delimitato per ottimizzare, per es., la ricezione del suono, come soluzione contingente volta a determinare il risultato di quella che si dice una ‘buona acustica’, perdiamo di fatto l’opportunità di vincolare la nozione di spazio sonoro a quella di atmosfera. E questo accade innanzitutto perché parlare di atmosfere sonore significa evocare la questione della spazialità non come l’esterno del suono, come il suo ambiente, bensì come il suo interno, il suo nerbo. Questa modalità di intendere lo spazio sonoro, almeno a uno sguardo superficiale, sembrerebbe comportare la perdita dell’opportunità di far dialogare da vicino, attraverso cioè isomorfismi forti, musica e architettura. Verrebbe cioè da dire, frettolosamente, che se il problema dello spazio sonoro non coincide con quello della strutturazione architettonica degli ambienti di ricezione, allora musica e architettura si parlano come in un dialogo tra sordi o come chi discorre senza alcuna reale tensione interna. Le cose non stanno così. È infatti possibile recuperare una parentela stretta tra le due arti, proprio a partire da questa intrinseca nozione di spazio sonoro. E si scoprirà che tale stretta parentela riattualizza la lontana metafora della ‘musica congelata’, le dona nuova vita.
La metafora della ‘musica congelata’ nasce in epoca romantica dal bisogno di istituire rapporti scambievoli fra le arti in reazione a Gotthold Ephraim Lessing e alla sua tesi della specificità dei linguaggi artistici. È chiaro dunque che questa finalità reattiva lascia spazio solo raramente a un approfondimento delle intime ragioni di tale rapporto. Resta l’impressione che mentre le tesi puramente descrittive del rapporto musica e architettura e rispondenti a esigenze sistematiche non ammettono quasi mai deroghe alla staticità, la nostra metafora presagisca possibilità di movimento, si apra a un interno dinamismo. Del mito di Amfione, come di tutti i miti, sono numerose le varianti di scrittura e di lettura. Chi ne ha intuito le potenzialità dinamiche, generative, chi ha intravisto nella metafora della ‘musica congelata’ una sorta di parente lontano di quella ‘atmosferica’ è stato proprio Paul Valéry. In Eupalinos ou l’architecte (1921), un dialogo fra due ombre, o dialogo dei morti, Socrate viene stimolato da Fedro a uscire dal silenzio cui è costretto da una coincidenza perfetta con il movimento della conoscenza, da quella semplicità e indivisibilità della riflessione che i viventi non possono raggiungere in quanto dotati di un corpo. Con questo espediente, Valéry fa parlare Fedro o, per meglio dire, gli consente di riferire a Socrate le riflessioni dell’architetto di Megara, Eupalino, sulla sua arte e sul rapporto con le altre forme artistiche. Socrate stesso entra così nel dialogo, anche se dapprima solo in funzione di appoggio, di spalla. Ebbene, la figura di Eupalino comincia a prendere forma e insieme a lui sembra lentamente definirsi quella nozione di spazio corporeo, di sensibilità a distanza che abbiamo visto essere decisiva per chiarire l’ambito di pertinenza dell’atmosfera. Eupalino era l’uomo dei precetti, ovvero degli ordini con dirette finalità esecutive, controllava con il massimo di attenzione ogni intervento sulla materia, sulle parti sensibili dell’edificio, quasi si trattasse del suo stesso corpo. Questo accento posto sulla fisicità trae forza per contrasto, poiché lo scenario del dialogo è appunto il mondo dei morti, un regno di trasparenza ed evanescenza, dove i corpi sono ricordi, dove la luce si diffonde ovunque in modo uniforme e impregna tutto senza dar risalto a niente.
Da questa omogeneità e uniformità prende pieno risalto e contrario, appunto, la dimensione di una spazialità centrata, ovvero dimensionata alla percezione che noi abbiamo del nostro corpo, la quale a sua volta prende istantaneamente i colori dell’affettività, dell’emotività. Torna qui con forza, insieme all’idea dell’immediata partecipazione affettiva, il tema dell’incrocio chiasmatico di attività e passività. Di quel punto di interferenza in cui un’obiettività diventa soggettiva. Ci sono edifici, spiega Eupalino a Fedro, che sono muti, altri che parlano, altri ancora, e sono i più ispirati, i più riusciti, che cantano. Cosa conferisce il potere del canto alla pietra? Siamo finalmente dentro alla metafora della musica congelata, della musica pietrificata. Eppure Valéry va subito più in profondità, sonda e fa emergere le potenzialità dinamiche della metafora, riportando ancora in primo piano la spazialità sentita a partire dalla percezione del corpo. I viventi che pure hanno a piena disposizione il loro corpo lo usano quasi soltanto come uno strumento per vivere, coincidono a tal punto con esso che non si accorgono neanche più della sua esistenza e delle potenzialità di raccordo universale in esso racchiuse. Il corpo è insieme ciò che ci consente di toccare e di essere toccati, di penetrare nelle cose a partire dall’iniziativa soggettiva, di assaporare la perentoria oggettività della materia e insieme di viverla negli affetti.
È precisamente questa coappartenenza di oggettivo e soggettivo, garantita dalla presenza flagrante della corporeità, ciò che rende sorelle musica e architettura; ma questa volta l’isomorfismo ha più forza. Possiamo allora collocare musica e architettura da una parte, dice Fedro, e dalla parte opposta le altre arti, non più perché esse condividono criteri di simmetria, proporzione, articolazione ritmica, o hanno analoghi rapporti di forma e contenuto, ma perché, ci suggerisce da dietro le quinte Valéry, noi siamo, ci muoviamo, in una parola viviamo nelle opere architettoniche e musicali. Ci sentiamo implicati, non senza una certa distanza; ma questa volta la distanza è colta a partire dal sentimento che noi abbiamo di noi stessi, dalla sensazione del nostro corpo che occupa e insieme costruisce uno spazio. Non è più in gioco dunque lo spazio topologico aristotelico o lo spazio cartesiano inteso come distanza misurabile, non più lo spazio primitivo, bensì, con le parole di Valéry, uno spazio intelligibile e cangiante, che vive cioè per noi e ci circonda mentre, nello stesso tempo, noi viviamo per lui. Arriviamo infine all’ultima caratteristica dell’atmosfera: quella per cui essa garantisce un’esperienza mundana, di espatrio, di movimento verso il fuori. La musica che improvvisamente si leva in una sala ci porta fuori di noi stessi, ci fa coincidere con un mondo che ha la sua oggettività e autonomia: «tutta questa mobilità forma dunque come un solido. Sembra esistere in sé, come un tempio costruito intorno alla tua anima; puoi uscire e allontanartene; puoi rientrarvi da un’altra porta» (P. Valéry, Eupalinos ou l’architecte, in P. Valéry, Œuvres, 2° vol., 1960, p. 103).
Chi ha ben definito lo spazio sonoro a partire da una prospettiva fenomenologica è stato, di recente, G. Piana (2007), e pare significativo che con piccoli slittamenti questa definizione di spazio possa accordarsi a quella di atmosfera. Innanzitutto lo spazio sonoro è disegnato non da suoni-oggetti ma da suoni-processi, perché tale spazio precede la molteplicità discreta dei singoli suoni ed evidenzia piuttosto un’unità, un continuum. Qualcosa di analogo si dice di un’atmosfera che percepiamo, per es., nella sala di attesa di un medico, in un aeroporto, in una casa: essa non scaturisce dai singoli oggetti presenti nell’ambiente, anche se è possibile identificarli analiticamente, ma da un’impressione olistica in cui ciò che ci interessa sono, per così dire, le zone di fluttuazione tra le cose, le estasi degli oggetti. Abbiamo di mira quindi un continuum, non un discreto. Nel caso del suono, l’impressione di una continua metamorfosi e trasmutazione è favorita dalla sua natura processuale. L’esperienza che più ci aiuta, secondo Piana, ad afferrare questo continuum originario, che pure suggerirà dal suo interno possibilità di segmentazione, è quella del glissando, come processo «di continua modificazione che riguarda il nucleo della sostanza sonora, cosicché potremmo parlare, in opposizione al suono-oggetto di un suono-processo: all’identità immodificata del suono-oggetto subentra il movimento del suono inteso come alterazione continua, come metamorfosi e trasformazione» (G. Piana, Filosofia della musica, 1991, p. 191; vedi anche Piana 2007). Lo spazio sonoro è dunque essenzialmente movimento e flusso, è iterativo perché, oltre a essere animato da un andamento progressivo (variazione di altezza), ne ha in sé anche uno ciclico (procede verso una fine che ne costituisce anche l’inizio: pensiamo al glissando nell’intervallo di un’ottava). Tutto ciò ci consente di immaginare lo spazio sonoro, come già l’atmosfera, nei termini di un’unità, oserei dire se non fosse una caratterizzazione troppo statica, di un blocco che si autoimpone, un pezzo di mondo, un fatto. Piana preferisce parlarci di una «chiusura fenomenologica dello spazio sonoro» (Piana 2007, p. 91). Già Schmitz aveva intuito che la spazialità sonora cui ci si appoggia per cogliere l’ambito di pertinenza della percezione atmosferica ha a che fare con la profondità, la voluminosità, nello stesso modo in cui, secondo l’esempio di Schmitz, queste dimensioni sono evocate allorché si dice ‘un sapore rotondo’ per intendere «chiuso», «penetrante» e «penetrabile» (System der Philosophie, 3° vol., Der Raum, t. 2 Der Gefühlsraum, 1969).
Non era questa una possibile definizione di atmosfera? Un blocco che tuttavia è fatto di fluttuazioni, trasformazioni, tensioni, al punto che siamo chiamati a seguirlo. Tutta questa mobilità forma dunque come un solido, diceva anche Valéry, ed è proprio in questo senso che la metafora della musica congelata ci offre l’occasione di intendere il rapporto tra spazio sonoro e spazio ambientale non nei termini delle opportunità di diffusione che quest’ultimo garantisce al suono, bensì secondo una modalità meno ovvia. Come se lo spazio architettonico dovesse congelare lo spazio sonoro, dar visibilità a quelle forme che i suoni ci inducono a immaginare.
Un elemento in più a favore del carattere tensivo dell’atmosfera ci viene dalle figure della mitologia (J. Hasse, Atmosfere e tonalità emotive. I sentimenti come mezzi di comunicazione, in Atmosfere, 2006, pp. 95-116) in cui l’estate e l’inverno, il giorno e la notte si presentano essenzialmente come ‘estasi della natura’. Non sono l’estate piena o il pieno inverno a suggerire atmosfere, non la piena notte o il pieno giorno, bensì il presentimento dell’estate, il presentimento del giorno. L’atmosfera è fatta di tutti quegli eventi (i primi fiori, i primi maggiolini ecc.) che annunciano l’estate imminente. Ciò che muove l’immaginazione è il passaggio, il transito, una sorta di morphing stagionale, come il glissando potrebbe essere definito un morphing sonoro. Ci appare così particolarmente significativo che quando si cerca di costruire un’atmosfera, quando si lavora su immagini e suoni con la finalità di creare atmosfere, il morphing, oggi reso possibile da una sofisticata tecnologia digitale, si presta assai bene allo scopo. Pensiamo al largo uso che la musica jazz fa dei glissandi e all’effetto atmosferico che da essi scaturisce. La trasformazione fluida, graduale, senza soluzione di continuità di immagini e di suoni è in grado, infatti, di suggerire un’ambientazione compatta, anche se costitutivamente processuale, un’impressione di chiusura, di rotondità garantita dal fatto che il processo stesso è vincolante e non accetta elementi aggiunti qualsiasi, e infine una profondità, un volume che ci sospinge a sentirci della partita, ci convoca. La transizione dal continuum al discreto e viceversa, dalla percezione di un’ambiance, come spazio di un’affettività diffusa, quasi-oggettiva, alla pulsazione ritmica come nucleo tensivo fortemente polarizzato, descrive al meglio l’ambito di pertinenza delle atmosfere, ovvero quel passaggio dall’anonimato alla Stimmung, dal mondo come esteriorità diffusa all’implicazione gestuale, psicomotoria che ci sostiene ritmicamente mentre vi acconsentiamo.
Un esempio che sembra costruito apposta per portare a evidenza questa dialettica tra morphing sonoro e visivo e polarità irradiante della pulsazione ritmica ci viene offerto dall’opera video di Antonello Matarazzo (per la quale si rinvia al sito web www.antonellomatarazzo.it), artista avellinese che ha trovato nel tema della deformazione, fluttuazione di immagini e suoni la sua più autentica ispirazione. Miserere (2005), video artistico prodotto in una versione di 20 minuti e in un videoclip di 8 minuti, con la collaborazione di Canio Loguercio, ambientato sullo sfondo dell’archeologia industriale dell’ex Italsider di Bagnoli e tra le pale eoliche di Lacedonia in Irpinia, è tutto animato da una continua deformazione, fluttuazione e sovrapposizione di immagini che creano l’impressione di un ambiente compiuto e rotondo, una spazialità affettivamente diffusa, da cui si stacca la pulsazione ritmica con i suoi coinvolgimenti gestuali, quasi a sostenere la partecipazione e l’implicazione soggettiva. Anche nei video artistici che Matarazzo dedica al tema della memoria e del nostro rapporto con il passato (La camera chiara, 2003; La posa infinita, 2007), applicando il morphing ai caratteri somatici di vecchie fotografie, la dimensione dello spazio atmosferico si impone nettamente su quella del tempo vissuto. È Matarazzo stesso a rivelarci questo nucleo di ispirazione affermando che la memoria, nei suoi lavori, non ha nulla a che fare con la malinconia, né ha la funzione di archivio storico. È invece esattamente il contrario: un archivio aperto dove avvenimenti e date si mescolano in un flusso unico in cui le cose non vengono ordinate cronologicamente, ma vengono invece fatte ruotare in una continua ‘statica mutazione’. Da questa consapevolezza scaturisce la necessità di evocare qualcos’altro: la circolarità dei rimandi conferisce all’opera fissa un movimento virtuale, abbracciando più stadi della mutazione.
C’è un altro ambito di ricerca in cui la nozione di atmosfera torna con forza e si applica volentieri alla musica e alle sperimentazioni sonore. Si tratta della riflessione sul paesaggio sonoro che ha preso l’avvio, negli anni Settanta del 20° sec. in Canada, dagli studi di Raimond Murray Schafer e dei suoi collaboratori tutti raccolti intorno al World Soundscape Project, e si è intrecciata in modo fecondo con gli studi etnomusicologici di Steven Feld condotti nella foresta tropicale della Papua Nuova Guinea, grazie ai quali le componenti ingenuamente naturalistiche e prescrittive delle prime ricerche sugli ambienti sonori si sono stemperate a favore di una forte valorizzazione dell’esperienza immaginativa e simbolica (Serra 2008). Il rapporto musica-natura, sulla scia degli studi di ecomusicologia e della produzione sonora di environ-mental music, parallela alla Land Art o Earth Art, sta dunque assumendo attualmente un ruolo da protagonista nella riflessione estetico-musicale. C’è in questo ambito di studi una certa tendenza (talvolta giustificata) a mitigare l’esito mistico, per es. della teoria dell’imitazione realistica di Marius Schneider, o a ribadire che il discorso sulla musica non può confondersi con quello sulla natura, sebbene tante siano le interferenze e le sovrapposizioni. È tuttavia quasi un sentimento comune a far intravedere in questo filone di ricerca una via feconda per avvicinare la musica: forma d’arte che per tradizione consideriamo più vicina delle altre all’intimità del tempo vissuto e che, pure, rivela una irriducibile attitudine spaziale.
Questi lavori teorici e queste ricerche sul campo costituiscono oggi lo sfondo e lo stimolo per i tentativi sempre più frequenti di una loro applicazione artistica: pensiamo alle cosiddette installazioni sonore oppure alle opere di sound design e di performing art, le quali partono necessariamente dall’ascolto e dall’analisi delle qualità sia acustiche sia sonore di un ambiente, in particolare dallo studio del design acustico delle città, per poi inserire all’interno di questi spazi un nuovo oggetto sonoro. I place works di Max Neuhaus, pioniere delle attività artistiche fondate sull’uso del suono come configurazione spaziale di un ambiente (per le quali si rinvia al sito www.max-neuhaus.info/ie.htm), sembrano offrire un buon esempio di come le teorie atmosferiche possano diventare nucleo di ispirazione delle pratiche artistiche. La nostra percezione dello spazio dipende, secondo Neuhaus, tanto da quello che vediamo quanto da quello che ascoltiamo. E il lavoro che Neuhaus compie nelle sue installazioni è rivolto esattamente a enfatizzare la capacità dei suoni e dei rumori di dar forma a uno spazio, a un ambiente, o di rimodulare la percezione di un luogo preesistente.
Questo ambito di ricerca e di sperimentazione, volto a enfatizzare il rapporto del suono con lo spazio in performances e installazioni che rinunciano anche ai supporti registrati, si è sviluppato in varie direzioni, ai margini di quel che consideriamo generalmente una produzione musicale. Nel lavoro di artisti come Toshiya Tsunoda, Mark Bain, Rolf Julius, Steve Roden, John Duncan, Paolo Piscitelli, prevale l’esigenza di portare in primo piano la fisicità del suono, le sue emergenze qualitative anche ai limiti della disgregazione e della frammentazione, allo scopo di acuire la sensibilità dell’ascolto e insieme la percezione dello spazio circostante (Cascella 2005).
Bibliografia
H. Schmitz, Situationen und Atmosphären. Zur Ästhetik und Ontologie bei Gernot Böhme, in Naturerkenntnis und Natursein. Für Gernot Böhme, hrsg. M. Hauskeller, C. Rehmann-Sutter, G. Schiemann, Frankfurt a.M. 1998.
G. Böhme, Aisthetik. Vorlesungen über Ästhetik als allgemeine Wahrnehmungslehre, München 2000.
M. Seel, Ästhetik des Erscheinens, München 2000.
Ecologia della musica. Saggi sul paesaggio sonoro, a cura di A. Colimberti, Roma 2004.
D. Cascella, Scultori di suono. Percorsi nella sperimentazione musicale contemporanea, Camucia 2005.
T. Griffero, Corpi e atmosfere: il ‘punto di vista delle cose’, in Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, a cura di A. Somaini, Milano 2005, pp. 283-317.
T. Griffero, Paesaggi e atmosfere. Ontologie ed esperienze estetiche della natura, «Rivista di estetica», 2005, 29, n. monografico: Paesaggio, pp. 7-40.
G. Böhme, Architektur und Atmosphäre, München 2006.
Atmosfere, a cura di T. Griffero, A. Somaini, «Rivista di estetica», 2006, 33, n. monografico.
S. Vizzardelli, Filosofia della musica, Roma-Bari 2007.
C. Serra, Musica, corpo, espressione, Macerata 2008.
Si veda inoltre:
G. Piana, Barlumi per una filosofia della musica, 2007, http:// www.filosofia.unimi.it/~piana/barlumi/barlumi_idx.htm (11 giugno 2009).