SPECIE (fr. espèce; sp. especie; ted. Art; ingl. species)
"Col progredire delle scienze biologiche è accaduto pel concetto di specie quello che suole accadere per tutti i nostri concetti, quando cerchiamo di determinarli con una certa precisione, sforzandoci di circoscriverli in una definizione; che cioè il concetto, che noi credevamo di possedere chiaro e netto e semplice nella nostra mente, ci si è andato tanto più complicando e annebbiando, quanto più tentavamo di analizzarlo" (F. Raffaele).
Gli antichi naturalisti avevano della specie un concetto intuitivo, non diverso da quello del volgo, che distingue diverse qualità di animali e di piante, le quali si perpetuano riproducendosi sempre simili a sé stesse. E questi dati della comune esperienza e i criterî di somiglianza e di differenza che sono sufficienti, nel vivere comune, a farci distinguere un limitato numero di organismi, erano bastanti pure agli antichi zoologi e botanici.
Aristotele riconosce e descrive alcune centinaia di animali, e parla spesso di εἶδος (specie), γένος (genere) e γένος μέγιστον (grande genere) senza peraltro annettere un preciso significato a questi termini, in quanto applicati alla biologia, né tentare di definirli. Sono, per lui, categorie puramente logiche, in cui è implicito un criterio di subordinazione, ma del tutto relativa, potendo una specie assurgere al valore di genere, se scomponibile in altri gruppi minori, o un genere comportarsi come una specie, cioè come una suddivisione di un genere più vasto. Sarebbe tuttavia errato credere, come alcuni hanno affermato, che il concetto aristotelico di specie possa in alcun modo paragonarsi al concetto che si stabilì soprattutto per opera di alcuni dei trasformisti dell'800; che le specie non siano se non categorie create dalla nostra mente per suddividere il mondo dei viventi, essenzialmente unico e continuo. In realtà nessun naturalista dell'antichità, del Medioevo e del primo Rinascimento, si pose il problema biologico dell'esistenza, dei limiti e del significato reale della specie.
Quando, per opera di numerosi naturalisti del Sei e del Settecento, il numero degli animali e delle piante conosciuti si accrebbe notevolmente, quando, con l'affinarsi dello spirito di osservazione e d'indagine, si riconobbe che in molti gruppi d'animali e di piante si potevano distinguere molte più forme di quel che a tutta prima non si credesse, allora cominciò a delinearsi nella mente dei ricercatori il problema della definizione della specie.
Nell'immediato periodo prelinneano si cominciarono a definire con brevi diagnosi i gruppi che corrispondono press'a poco a quelli che oggi chiamiamo generi, e sorsero le prime difficoltà per l'esatto riconoscimento e la delimitazione di questi e delle loro suddivisioni. Fu J. Ray, uno dei maggiori precursori di Linneo, che per primo intuì il problema e riconobbe che i soli criterî morfologici erano insulficienti e potevano essere fallaci, e tentò di penetrare più addentro nel problema della vera natura della specie. Nella Historia plantarum (1686) affermò non esistere indizio più sicuro dell'identità specifica che la "distincta propagatio ex semine" e osservò che le varie forme specifiche "speciem suam perpetuo servant". Introdusse cioè quel criterio genetico, che fu poi universalmente accettato e ripetuto e tuttora si conserva nella definizione della specie.
Spetta tuttavia a Linneo il merito di avere per primo chiaramente formulato il concetto di specie come entità naturale e di averlo applicato a tutto il mondo organico. Il ben noto aforisma: "Species tot numeramus, quot diversae formae in principio sunt creatae" (Phil. bot., § 157) segna la vera "scoperta della specie" (E. Rádl) e ad un tempo addita il compito precipuo del botanico e dello zoologo: riconoscere, definire e nominare le specie create da Dio, e raggrupparle a seconda delle loro affinità in una classificazione "naturale"; e se talvolta il naturalista s'imbatte in individui che si discostano un poco dal modello, o tipo della specie, ricordi che "varietates sunt plantae eiusdem speciei, mutatae a causa quacumque occasionali" e che "varietates laevissimas non curat botanicus".
Se anche si spoglia la definizione linneana del suo presupposto mistico, rimane tuttavia l'affermazione netta e precisa che le specie sono entità naturali e immutabili. E in questo senso l'opera di Linneo deve considerarsi come il culmine e la sintesi di tutto il lavorio anteriore e l'espressione di una concezione che, se pur confusa e mai prima formalmente espressa dai naturalisti, era tradizionale e antica, forse quanto le scienze biologiche.
D'altra parte l'opera linneana deve considerarsi come profondamente novatrice perché, con l'aiuto della nomenclatura binomia (v. classificazione) ha creato un fondamento solidissimo su cui ancora oggi posano le scienze botaniche e zoologiche, e ha instaurato un indirizzo di ricerca che ha reso possibile la comprensione e la sistemazione di un'immensa congerie di dati, i quali, senza di ciò, sarebbero rimasti sconnessi e insignificanti.
Prima ancora che fosse esaurita, nonché la scuola, l'opera stessa di Linneo, cominciò però il lavorio di critica: l'affermazione dogmatica si costituì subito in problema, e questo venne affrontato con diversi criterî. Già nel Settecento alcuni naturalisti poco amanti della sistematica e infervorati di spirito antidogmatico sostennero che le entità sistematiche non sono che categorie create dall'uomo. Il Buffon giunse ad asserire "qu'il n'existe réellement dans la nature que les individus, et que les genres, les ordres et les classes n'existent que dans notre imagination" (Hist. nat., I, p. 38). Tuttavia egli non include la specie fra i gruppi che esistono soltanto nell'immaginazione, e, in altro luogo, sembra credere all'esistenza della specie, poiché propone come criterio da sostituire alla comparazione morfologica quello della fecondità continua (ibid., II, p. 10) e ammette che le specie, anche le più vicine, siano separate da uno spazio che la natura non può superare; alcune tuttavia si avvicinano tanto che non rimane fra esse, per così dire, che lo spazio per segnarne il limite (ibid., V, p. 59). Un contemporaneo del Buffon, Ch. Bonnet, espresse idee molto simili, e considerò tutto il mondo dei viventi, e anche l'inorganico come una scala, in cui si passa per gradi insensibili dal più semplice al più complesso.
Il concetto di continuità, di gradazione, era dunque acquisito e ampiamente illustrato sul finire del secolo XVIII, mancava ancora il concetto genetico, della trasformazione dei viventi.
Al principio del sec. XIX il Lamarck formulò la prima teoria trasformista (v. evoluzione) e ribadì e concretò il concetto alquanto vagamente espresso dal Buffon, che i gruppi della classificazione sono creati dalla mente umana, mentre il mondo dei viventi è essenzialmente continuo e senza laeune. Da questa constatazione statica, assurse all'idea evoluzionistica della lenta e graduale trasformazione delle specie, e quindi dei generi e dei gruppi superiori. La specie e i gruppi "estinti" non sono morti e sostituiti da specie e gruppi nuovamente creati, ma si sono lentamente trasformati negli attuali, i quali quindi sono anch'essi in divenire e daranno origine ad altre forme.
Contro le affermazioni del Lamarck e di alcuni suoi seguaci si levò l'autorità del Cuvier, ligio al concetto linneano e creatore dei grandi raggruppamenti, o tipi animali, per i quali la classificazione diveniva realmente naturale, molto più che non quella di Linneo. Per il Cuvier le specie e i gruppi superiori sono entità immutabili e fisse, e per specie s'intende la riunione degl'individui originatisi l'uno dall'altro, o da parenti comuni, e di quelli che loro rassomigliano altrettanto quanto questi si rassomigliano fra loro.
Uno dei maggiori botanici del tempo, A.-P. De Candolle, sostiene anch'egli il concetto linneano, e definisce in base a criterî puramente morfologici, senza neanche tenere conto del principio genetico.
Una posizione alquanto diversa prendono i "filosofi della natura", che si riferiscono al concetto dell'Urtypus o tipo ideale del Goethe: ecco, ad esempio, la definizione di A. Dugès: "la specie non è un gruppo d'individui (come insegnano Buffon e Cuvier) ma un gruppo di determinati caratteri; è un tipo ideale di forma, di organizzazione e di vita, a cui si possono ricondurre tutti gl'individui che sono molto simili l'uno all'altro e che si riproducono con le stesse forme".
Si può dire quindi che al principio del sec. XIX il problema della specie era posto sotto tre aspetti principali, che si possono così riassumere: 1. se le specie siano entità naturali e reali, o mere astrazioni create dalla mente umana; 2. se, dato ch'esse siano entità reali, siano nettamente delimitate o presentino gradi di transizione; 3. se siano immutabili o variabili. Tre quesiti, in parte indipendenti l'uno dall'altro, ai quali i ricercatori che seguirono cercarono di rispondere in vario modo.
Il trasformismo, ostacolato al suo nascere dalla grande autorità del Cuvier, ebbe nuova vita con l'opera del Darwin, e tosto incontrò larghi consensi e ampia diffusione. Non importa esaminare qui le varie teorie, che sono state esposte alla voce evoluzione; è necessario però rendersi ragione di ciò, che con l'affermare che le specie sono mutabili e non fisse, mentre si riconosce e si dà un significato al fatto che esse non sono composte d'individui tutti assolutamente identici, e perciò spesso non sono facilmente delimitabili, non si nega necessariamente ch'esse siano entità naturali. Così per Darwin, per A. Weismann, e per molti altri, le specie sono realtà, mutevoli e in taluni periodi della loro vita meno nettamente definite, ma tuttavia esistenti come entità concrete. Altri trasformisti invece, rifacendosi all'antico concetto della continuità, preferirono ammettere che in natura non esistano altro che individui, in una serie che, considerata nella sua interezza, cioè tenendo conto di tutti i gradi di transizione o anelli di congiunzione viventi o estinti, non presenta lacune.
Parecchi autori del periodo darwiniano e postdarwiniano rimasero però fedeli al concetto linneano della specie (e fra questi ricordiamo L. Agassiz e il De Quatrefages) e le dispute s'infervorarono soprattutto sul problema della mutabilità o fissità della specie.
Da tali discussioni sorsero due indirizzi di ricerca, corrispondenti a due problemi più circoscritti, ma pur fondamentali: la definizione della specie, intesa non in senso filosofico e generale, ma piuttosto in senso pratico, tale da permettere, nel caso concreto, di decidere se un dato gruppo si deve considerare come razza, o come specie, o come genere; e la dimostrazione sperimentale della variabilità, o della fissità della specie.
Il primo quesito è tuttora insoluto; ancora oggi non si saprebbe dare un criterio uniforme e generale per caratterizzare le specie e distinguerle dalle sottospecie e dalle razze. Le definizioni di tipo linneano non sono vere definizioni, ma petizioni di principio. A. De Candolle (1862) osserva che, per applicare la definizione di Linneo "il faudrait remonter à l'origine, chose impossible. Définir par un caractère qui ne peut pas se vérifier n'est pas définir". E K. Möbius (1873) rileva che i naturalisti della scuola di Linneo "nella loro sicura fede in un dato numero di specie create, non si accorsero che essi stessi stabilivano quali forme fossero diverse, prima che potessero dire: queste forme sono diverse, che furono chiamate in vita dalla creazione".
Consideriamo ora le definizioni che si sogliono dare della specie, ed esaminiamo i varî criterî proposti per la delimitazione delle specie. Ecco, ad esempio, come definisce P. Savi (Ornitol. ital., 1873): "chiamasi specie l'insieme di tutti gl'individui, i quali (almeno quelli dell'epoca attuale) trassero o traggono origine da genitori a loro simili; che con l'unione dei due sessi producono dei figli a loro somiglianti per tutti i caratteri essenziali, e che restano costantemente fecondi, perciò atti a provvedere all'esistenza della loro specie, e mantenerla inalterata". Ed ecco la definizione di L. Plate (1907): "ad una specie appartengono tutti quegli esemplari, che posseggono i caratteri stabiliti nella diagnosi; tutti quelli che se ne discostano, ma sono intimamente collegati con quelli per numerose forme intermedie, e infine tutti quelli che stanno evidentemente in diretta continuazione con i precedenti, o che dànno con essi prodotti indefinitamente fecondi". In modo simile si esprimono altri autori.
I due criterî fondamentali sono dunque quello morfologico e quello genetico. Riguardo al primo, che rimane pur sempre, per necessità evidente, il più usato, si deve osservare innanzi tutto ch'esso è lungi dall'essere obiettivo, perché non v'è regola fissa per sapere quali caratteri sono buoni a distinguere una specie dall'altra, e quali invece caratterizzano razze o sottospecie, oppure generi. È affidata all'intendimento e al buon senso del naturalista la determinazione dei caratteri specifici, tant'è vero che spesso accade che una specie venga scissa in molte altre, o viceversa che diverse forme, ritenute da alcuni autori come specie distinte, vengano da altri riunite in una sola. La distinzione delle "bonae species" è insomma lasciata al giudizio dello speciografo, e si potrebbero citare innumerevoli casi di specie che sono state suddivise in molte altre, e poi nuovamente riunite. Così, ad es., la specie linneana Cyprinus carpio, il carpione, fu suddivisa da Heckel e Kner in tre specie: Cyprinus carpio, C. acuminatus e C. hungaricus, che il von Siebold poi riunì nuovamente nella specie primitiva. È stato spesso osservato che le varie razze di cani, ad es., un pechinese e un alano, differiscono tra loro più che non un lupo da un cane lupo; eppure non si esita a considerare tutti i cani come appartenenti ad una sola specie e a classificare i lupi in un'altra. La variabilità che gl'individui di molte specie manifestano rappresenta spesso una seria difficoltà per la determinazione dei limiti della specie, pur prescindendo dagli errori, evitabili, che possono dipendere dalla comparazione di organismi in stadî di sviluppo diversi, dal polimorfismo e dalla alternanza di generazioni, che costituiscono apparenti eccezioni al principio della produzione di figli simili ai genitori. Il eriterio morfologico pertanto è per lo meno molto soggettivo.
Il criterio genetico, che propone di considerare come appartenenti alla stessa specie gli organismi capaci di accoppiarsi e di dare origine a discendenti tutti e sempre fecondi e simili ai genitori, è indubbiamente più importante ed essenziale, perché coglie un legame concreto che unisce tutti gl'individui di una specie. Tuttavia presenta anch'esso varie difficoltà, oltre a quella dell'applicazione non sempre possibile. Vi sono infatti razze che sono sterili (Zea, Cucurbita) ed è noto che la consanguineità va spesso associata con la sterilità. D'altra parte negl'incroci interspecifici si osservano tutti i casi possibili compresi tra la fecondità costante e l'impossibilità della fecondazione, senza che appaia una netta e costante relazione con la posizione sistematica delle specie che s'incrociano (v. ibridazione; ibridismo). Perciò se i risultati dell'ibridazione interspecifica possono darci qualche lume sull'affinità sistematica, non sono in grado di fornirci un criterio sicuro e costante per la determinazione delle specie (cfr. A. Ghigi, 1936).
V'è infine un terzo metodo, sul quale si sono fondate molte speranze, basato sui fenomeni immunitarî. Se s'inietta, per es., in un coniglio sangue di cane, il sangue del coniglio s'immunizza contro quello di cane, fabbricando delle sostanze (anticorpi) che, quando il sangue del coniglio immunizzato sia nuovamente messo in presenza del sangue di cane, reagiscono con questo provocandovi la formazione d'un precipitato nel siero, l'agglutinazione dei globuli rossi e l'emolisi. Queste reazioni sono assai sensibili e abbastanza specifiche, perché non si producono se il sangue immunizzato per il cane viene mescolato con sangue di un altro animale, ma non tanto da poter servire come mezzo per la determinazione delle specie. Si è visto, ad esempio, che un sangue immunizzato contro il sangue umano reagisce anche più debolmente con quello delle scimmie antropoidi, e ancora più debolmente con quello di alcune altre scimmie. Anche le ricerche sulla tolleranza dei trapianti di tessuti embrionali d'una specie su embrioni di un'altra non hanno finora dato risultati definitivi per il problema della specie. Certo le differenze morfologiche e fisiologiche sono in relazione con differenze del chimismo; in molti casi i fenomenì immunitarî possono venire in aiuto del sistematico, ma, per ora almeno, non siamo in possesso di elementi sicuri che valgano come fondamento per la diagnosi della specie.
In conclusione si può dire che ancora oggi non s'è trovato un criterio obiettivo unico e generalizzabile che permetta di diagnosticare le specie, né si sono trovati limiti esatti entro cui circoscrivere questo concetto, che pur corrisponde a una realtà naturale. Evidentemente ciò significa che la specie non è esattamente definibile, sia perché l'ambito delle singole specie è diverso, come diversa è la loro storia evolutiva, e sia perché non è possibile fissare entro termini precisi i limiti di una entità che è in continuo divenire, e che continuamente si rinnova nei suoi componenti. Non diversa, del resto, è la sorte di altri concetti, pur essi fondamentali e rispondenti a realtà concrete, come quello dell'individuo, o di qualsiasi altro gruppo naturale.
Le ricerche statistiche e sperimentali sulla variabilità della specie, d'altro canto, hanno portato numerosi e importanti contributi al problema (v. evoluzione; genetica; variabilità). Per opera specialmente di F. Heincke, H. De Vries, W. Johannsen, si è dimostrato che, come già il botanico francese A. Jordan aveva intuito fin dalla metà del sec. XIX, la specie dei sistematici è molto spesso scomponibile in un certo numero di "piccole specie" o "specie elementari" le quali spesso coincidono con le "razze locali" dei biogeografi, e presentano una rilevante uniformità e costanza di caratteri. Queste possono rappresentare veri biotipi, cioè raggruppamenti d'individui omozigoti, o risultano dalla riunione di pochi biotipi. Si usa anche indicare le specie sistematiche col nome di specie linneane, o "linneoni" e le piccole specie col nome di specie jordaniane o "jordanoni".
La scoperta delle specie elementari è certamente una delle più notevoli conquiste moderne nel campo della genetica. Dal punto di vista sistematico, le specie elementari non sono utilizzabili, perché moltiplicherebbero, e ai fini pratici inutilmente, il già notevole numero delle specie e dei nomi. Esse sono però certamente raggruppamenti naturali e abbastanza nettamente delimitabili, perché l'omozigosi, cioè l'uniformità del patrimonio ereditario è, almeno in teoria, obiettivamente dimostrabile. Inoltre il concetto di piccola specie, e quelli, ancora più circoscritti, di biotipo e di linea pura, hanno permesso di sottomettere ad un'analisi sperimentale il problema della mutabilità della specie, e di dimostrare (specialmente per merito di W. Johannsen) che le variazioni indotte dall'ambiente su una popolazione geneticamente omogenea non sono ereditabili, e la selezione non può quindi avere presa su esse (v. variabilità). Variazioni ereditarie sono pure state messe in evidenza, e sono quelle a cui il De Vries ha dato il nome di "mutazioni" ma sono relativamente rare, e insorgono verosimilmente per cause interne, in modo subitaneo.
Dopo lungo e faticoso lavoro di speculazione e di analisi, la genetica moderna ha quindi dimostrato una notevole stabilità della specie, almeno nel breve lasso di tempo che può durare la ricerca sperimentale, e ha finora riconosciuto tre modi principali di variazione, che possono servire come base per la trasformazione della specie: l'ibridazione interspecifica, le mutazioni fattoriali, cioè quelle che interessano qualche "fattore" o "determinante" di certi caratteri, e le mutazioni cromosomiche, cioè quelle che importano la modificazione del numero (aploidia, poliploidia) o della struttura dei cromosomi (v. genetica). Su questi elementi fervono ora le ricerche, che potranno decidere se essi siano tali da dare ragione del processo dell'evoluzione.
Le specie di animali descritte sono state computate a circa 500.000; quelle di piante a circa 200.000; le fossili a circa 100.000. Certo il numero delle specie sistematiche viventi è molto maggiore di quello delle descritte; v'è chi (Riley) afferma che non sono meno di 15 milioni.
Per la nomenclatura, v. nomenclatura: Botanica; Zoologia.
Bibl.: Oltre alle opere classiche di Linneo, Cuvier, Darwin, ecc., citate alle voci relative, cfr.: A. De Candolle, Étude sur l'espèce, ecc., in Arch. des sc. phys. et nat., 1862; L. Agassiz, De l'espèce et de la classification en biologie, trad. di F. Vogeli, Parigi 1869; K. Möbius, Die Bildung und Bedeutung der Artbegriffe in der Naturgeschichte, Kiel 1873; S. Belli, Observations critiques sur la réalité des espèces en nature, Torino 1901; G. H. F. Nuttal, Blood immunity and relationship, Cambridge 1904; F. Raffaele, L'individuo e la specie, Palermo [1905]; id., Il concetto di specie in biologia, in Scientia, I (1907), nn. 1 e 2; L. Plate, Verebungslehre, II, Jena 1933, p. 1054; L. Cuénot, L'espèce, Parigi 1936; A. Ghigi, Affinità gametica ed affinità sistematica alla luce dell'esperienza, in Riv. di biol., XX (1936).
Filosofia. - Il termine latino species corrisponde esattamente al greco εἶδος, così come genus a γένος. Entrambi i vocaboli greci debbono il loro ingresso nella terminologia filosofica a Platone, che si vale dell'uno o dell'altro per designare l'"idea", cioè l'eterna forma e sostanza delle realtà transeunti: essa è infatti sia εἶδος-species in quanto "forma, aspetto" termine di un ἰδεῖν-speculari assoluto, sia γένος-genus (dal tema di γίγνεσϑαι, γεννᾶν, generare) in quanto "stirpe, genere, famiglia", sotto cui si raccolgono i varî individui esistenti. Ma nello sviluppo dell'idealismo platonico, orientato infine verso la costruzione di una gerarchia delle idee a seconda dei loro rapporti di comprensione-estensione, e più ancora nella sistemazione formale che di esso dà la logica aristotelica, anche εἶδος-species viene ad assumere lo stesso carattere di "generalità" rispetto alle idee inferiori d'estensione (l'εἶδος che non ne ha è eccezionale, ed è appunto l'ἄτομον εἶδος, la species individua). Tuttavia l'antica distinzione si conserva nel senso che l'estensione del genus resta sempre maggiore di quella della species, in cui appunto esso si "specifica" (donde il nesso con la dottrina della definizione, che si compie per genus proximum et differentiam specificam): ed è questo il valore generale che è rimasto ai due termini.