SPERANZA
. Il concetto cristiano chiarito e svolto dai teologi raccoglie in sintesi gli elementi, talora vaghi e oscuri, del concetto popolare e più quelli della speculazione razionale dei filosofi antichi, massime di Aristotele. Secondo esso la speranza, come atto, è un moto della volontà, e come abito è una retta disposizione di essa, cioè una virtù che tende al bene, non presente ma futuro, non facile ma arduo e tuttavia possibile a conseguire. In questa tendenza occorre un doppio termine: il bene da ottenere e quello che ce lo rende possibile o ce lo fa conseguire. Il primo ha ragione di oggetto, l'altro di motivo; onde la forza apprensiva di chi ha speranza non solo riguarda il bene che intende ottenere, ma anche quello per la cui virtù si confida di ottenerlo.
Applicando ciò all'atto e all'abito della speranza cristiana, in quanto è virtù teologica, e perciò ha Dio stesso per oggetto e per motivo, troviamo appunto che essa tende come a suo oggetto primario a Dio, quale oggetto della felicità umana, ossia della beatifica fruizione, come parlano i teologi, e per conseguente, ossia come oggetto secondario, riguarda gli altri beni e spirituali e temporali, che sono ordinati alla beatitudine, cioè al conseguimento dell'oggetto primario, Dio. Il motivo adeguato su cui si fonda principalmente questa speranza è pure Dio, in quanto onnipotente e misericordioso (virtus Dei auxiliatrix), cioè la sua onnipotenza e misericordia, unita alla fedeltà della divina promessa. Per tale motivo il cristiano spera da Dio ogni bene: Dio stesso, la felicità eterna e quanto ad essa conduce.
Questa dottrina teologica si trova professata, più o meno esplicita, nelle molteplici formule catechetiche, anche le più antiche, indicanti la generale persuasione della Chiesa cattolica e il comune senso dei fedeli "atti di speranza" dei catechismi cattolici), prescindendo dalle speculazioni o controversie delle scuole. Quindi segue pure una doppia proprietà essenziale: la prima è la soprannaturalità della speranza teologica, nel modo e nella sostanza, come dono della grazia divina, e non meno della fede necessario alla salvezza eterna; onde, secondo la definizione del concilio di Trento (sess. VI, c. 7), viene infusa da Dio nella giustificazione a modo di abito permanente, come la fede e la carità; l'altra è la certezza del motivo su cui si appoggia, cioè l'aiuto divino, sebbene ammetta il timore per parte del libero arbitrio umano che vi può frapporre l'ostacolo del peccato. La speranza può quindi, secondo i suoi elementi essenziali, essere definita: "una virtù infusa per cui da Dio aspettiamo con certezza di fiducia i beni della beatitudine eterna".
Essa va unita, ma non confusa, con la fede, come la confondono i protestanti, per cui la fede è sinonimo di fiducia; e neppure va confusa con la carità, anzi da questa può andare scompagnata. Presuppone tuttavia un amore iniziale o desiderio del bene a cui tende, come lo presuppone del resto anche il suo contrario, la "disperazione ": la quale perciò non è il peccato più grave quanto alla malizia, come sarebbe l'odio di Dio, ma quanto al pericolo maggiore che porta seco, precludendo l'ultima via della salvezza, la speranza; contro la quale pecca invece, per l'estremo opposto, la "presunzione" (di salvarsi senza merito, di ottenere perdono senza pentimento, ecc.).
Bibl.: S. Tommaso, Summa Theol., 1ª-2ª, q. 40 (della speranza come passione dell'irascibile); 2ª-2ª, q. 17 e seg. (della speranza come virtù e virtù teologica); L. Gerola, Trattato della speranza cristiana, Torino 1892; S. Schiffini, Tractatus de virtutibus infusis, Friburgo in B. 1904.