Sperimentazione animale e principio delle 3R
Con l’espressione sperimentazione animale s’intende l’utilizzo di animali a scopi scientifici. In generale, la sperimentazione animale può essere di base oppure applicata. Nel primo caso, la ricerca mira a comprendere le caratteristiche di quel dato animale sotto osservazione, per poter ampliare lo spettro delle nostre conoscenze in campo teorico. Per es., lo studio del canto di un particolare uccello può servire a conoscere meglio i meccanismi evolutivi che portano al manifestarsi di quel tipo specifico di comunicazione vocale. Nel secondo caso, invece, l’animale è usato come modello, vale a dire come mezzo per comprendere meglio una determinata caratteristica biologica di un’altra specie, per lo più quella umana. Di solito, per sperimentazione animale s’intende proprio questo secondo aspetto e gli animali sono generalmente utilizzati per meglio conoscere l’origine di una serie di malattie e disturbi che colpiscono la nostra specie, in modo da prevenirli e curarli. Benché apparentemente distanti, i due tipi di ricerca sono invece essenziali uno per l’altro: infatti, mediante la ricerca di base si possono acquisire informazioni fondamentali per la sperimentazione applicata. L’esame, per es., di come si sia evoluta nel corso del tempo una determinata capacità legata alla sfera cognitiva, in specie differenti rispetto a quella umana, può fornire chiavi interpretative importanti per lo studio di determinate patologie del sistema nervoso degli uomini.
La sperimentazione animale applicata utilizza gli animali come modelli sperimentali. Possiamo definire un modello animale come una condizione che permette di studiare processi biologici e comportamentali fondamentali; oppure, si può pensare al modello animale come alla possibilità di indurre processi patologici che riproducano, almeno per certi aspetti, lo stesso fenomeno patologico osservato negli umani, o in altre specie animali. Quindi il più delle volte, quando si parla di sperimentazione animale, non ci si riferisce a una particolare specie, ma a una specifica situazione, o quadro patologico, creato in un animale particolarmente adatto per il tipo di ricerca in oggetto.
Un’altra importante caratteristica del modello animale è che, spesso, si tratta di un concetto relativo. Il modello animale raramente rappresenta l’insieme di una particolare malattia, specialmente quelle più complesse: per es., non esiste un modello animale per il morbo di Parkinson, ossia, al momento non disponiamo di un modello animale nel quale riprodurre l’interazione tra i diversi aspetti nervosi, fisiologici e psicologici che caratterizzano tale malattia nella nostra specie. D’altro canto, differenti modelli animali possono fornire informazioni molto importanti su alcuni aspetti e meccanismi di base del morbo. Possiamo dire, in questo caso, che il modello animale della malattia di Parkinson è la somma di una serie molto differenziata e ampia di diversi modelli animali.
Giustificazione scientifica per la sperimentazione animale
Qual è la giustificazione scientifica all’uso dei modelli animali? Ha senso ricavare informazioni utilizzando una specie animale diversa da quella alla quale siamo interessati? La giustificazione scientifica all’uso di animali non umani per studiare gli esseri umani ha il suo fondamento nella teoria darwiniana dell’evoluzione. Secondo Charles Darwin, infatti, due specie sono tanto più simili fra loro quanto minore è il tempo passato dall’esistenza di un progenitore comune alle due specie in oggetto: per es., umani e primati non umani sono più simili fra loro che umani e roditori. Infatti, è riconosciuto che il progenitore comune a tutti i primati è vissuto circa tra i 5 e i 6 milioni di anni fa, mentre quello comune a tutti i mammiferi si pensa sia vissuto durante l’era del Triassico, tra i 250 e i 200 milioni di anni fa. Ne consegue che tutti i primati, tra cui anche l’uomo, condividono più caratteristiche comuni che l’uomo e tutte le altre specie di mammiferi.
Questa idea darwiniana della discendenza comune riguarda tutti gli aspetti della biologia di un organismo, compreso (grazie alle intuizioni, tra gli altri, dell’etologo Konrad Lorenz) il comportamento. Se adottiamo questa prospettiva, sia teorica sia metodologica, possiamo legittimare sul piano scientifico l’utilizzo di un animale non umano per comprendere meglio alcuni aspetti della biologia dell’uomo.
La scelta del modello
Come possiamo scegliere il modello animale più adatto a una particolare sperimentazione? Dipende strettamente dal tipo di problema che si sta considerando: il modello deve essere valido nel senso che le caratteristiche biologiche alle quali siamo interessati devono essere presenti e intatte. Non è necessario, quindi, utilizzare sempre l’animale filogeneticamente più vicino all’uomo, come la scimmia, per ottenere risultati applicabili alla specie umana. Il mollusco marino Aplysia californica, per es., è stato studiato per capire meglio gli aspetti molecolari coinvolti nei processi di apprendimento. Ciò è stato possibile perché questo invertebrato presenta un sistema nervoso molto semplice e facilmente osservabile. I risultati ottenuti da questo animale sono stati molto importanti per lo studio di diverse patologie umane caratterizzate da difficoltà di apprendimento.
Detto questo, a causa del limitato repertorio comportamentale e della distanza filogenetica da Homo sapiens, l’Aplysia non è un animale molto utile per ottenere modelli che, per es., aiutino a capire in generale aspetti fisiologicamente complessi legati a particolari patologie umane. Modelli molto più adatti in questo senso si possono ottenere ricorrendo ai roditori, in particolare topi e ratti, che attualmente sono di gran lunga gli animali più utilizzati nei laboratori di ricerca. In effetti, l’uso dei roditori in sperimentazione porta con sé diversi vantaggi pratici: questi animali richiedono relativamente poco spazio per essere adeguatamente ospitati nei laboratori di ricerca, si riproducono con facilità ed è possibile lavorare su ceppi geneticamente omogenei, in modo da limitare le fonti di variabilità biologica.
Se però abbiamo bisogno di raccogliere informazioni utili a prevenire e curare disturbi che riguardano nostri comportamenti complessi, come, per es., afferrare un oggetto nello spazio, abbiamo bisogno di un modello diverso. Quello più idoneo in tal caso è il primate non umano, ossia la scimmia. Questi animali sono filogeneticamente assai vicini alla nostra specie e presentano strutture del cervello simili alle nostre, specialmente per quanto riguarda la corteccia cerebrale. Inoltre, le scimmie mostrano comportamenti che, dal punto di vista della complessità, assomigliano molto ad alcuni aspetti del comportamento umano. Afferrare un oggetto con destrezza è un esempio di tali comportamenti.
È quindi necessario che a una particolare domanda scientifica, alla quale si vuole rispondere mediante uno specifico esperimento, corrisponda il modello animale appropriato, ossia quello in grado di fornire dati attendibili e trasferibili alla specie umana.
Giustificazioni etiche per la sperimentazione animale
Per giudicare la validità di una particolare sperimentazione animale, l’unico parametro che viene utilizzato è la validità scientifica del dato sperimentale? In effetti, una delle più frequenti obiezioni alla pratica della sperimentazione animale è che tale attività provoca dolore e sofferenza agli animali, per ottenere risultati che non sono applicabili alla specie umana: il modello animale, cioè, è troppo differente dall’umano per generare risultati validi. Questa argomentazione è spesso accompagnata da esempi storici riguardanti farmaci che si sono rivelati innocui sugli animali, ma letali negli umani (il drammatico caso della talidomide è forse il più citato, quando invece questo particolare caso indica la pericolosità di una sperimentazione animale non sufficientemente rigorosa e accurata).
Se però si accetta l’argomentazione che il modello animale non funziona, allora non rimane che sperimentare direttamente sugli umani per ottenere una completa corrispondenza tra modello animale e specie in esame. Ma se pensiamo alla sperimentazione umana, ci accorgiamo che l’attendibilità del risultato non è l’unico parametro valutativo a nostra disposizione. Infatti, non tutti sarebbero automaticamente disposti ad accettare tale tipo di sperimentazione. Verrebbero immediatamente sollevati importanti problemi etici: su quali individui sperimentare? Chi dovrebbe decidere su chi sperimentare? Esistono quindi anche considerazioni etiche che in qualche modo ci frenano, se pensiamo alla sperimentazione sugli umani come alternativa a quella animale. Noi tendiamo ad attribuire agli altri umani uno status morale uguale al nostro, e ciò rende molto problematico il concetto di sperimentazione sull’uomo.
Se quindi parliamo di status morale, allora la domanda che segue è: che status morale hanno gli animali? Questa è una domanda a nostro avviso importante, perché il modo in cui noi pensiamo debbano essere trattati gli animali deriva dallo status morale che noi attribuiamo loro. Possiamo dire che in pratica, generalmente, gli animali vengono trattati con un certo rispetto. Consideriamo, per es., gli animali da compagnia: diamo loro un nome, pensiamo che abbiano una loro personalità, ne abbiamo cura, in qualche modo rispettiamo la loro dignità. È come se gli animali, specialmente quelli da compagnia, facessero già parte della nostra comunità morale, quindi tendiamo a non causare loro sofferenza.
Ma gli animali da laboratorio? Tra coloro che argomentano a favore di una rilevanza morale degli animali (perlomeno per quegli animali ai quali potrebbe essere riconosciuta una qualche coscienza di dolore e sofferenza), vi è una forte corrente di pensiero che afferma come la pratica della sperimentazione animale sia moralmente inaccettabile, e quindi vada abolita. Questo punto di vista però si scontra con la realtà di una pratica scientifica largamente diffusa. Inoltre, generalmente non c’è consenso sullo status morale degli animali, abbiamo bisogno di prevenzione e cure per le malattie che affliggono il genere umano e, come già accennato, siamo istintivamente prevenuti a considerare lecita la sperimentazione sugli esseri umani. Per molti ricercatori, sperimentare sugli animali diventa quindi un’alternativa accettabile, benché presenti un carico morale rilevante.
Detto questo, anche se giudichiamo moralmente accettabile l’utilizzo degli animali nella sperimentazione biomedica, è necessario seguire due vie parallele: continuare a ricercare attivamente alternative all’uso degli animali; migliorare le condizioni sperimentali, in favore di una sempre maggiore cura degli animali da laboratorio. Queste due necessità possono essere soddisfatte applicando il principio delle 3R.
Il principio delle 3R
Nel 1959 due accademici britannici, Rex Burch e William Russell, membri della Universities federation of animal welfare (UFAW), associazione tuttora molto attiva nel campo del benessere animale, proposero un principio, o modello, che i ricercatori dovrebbero adottare per attuare una forma di sperimentazione animale più attenta al grado di sofferenza che tale pratica scientifica causa nei soggetti sperimentali (Russell, Burch, The principles of humane experimental technique, 1959).
Il principio delle 3R fa riferimento a tre fondamentali concetti: rimpiazzare (replacement), ridurre (reduction) e rifinire (refinement). Quindi il ricercatore dovrebbe inizialmente cercare, con il maggiore sforzo possibile, di rimpiazzare, o sostituire, il proprio modello animale con un modello alternativo; il secondo passo è quello di cercare di ridurre il più possibile il numero di individui utilizzati in un certo protocollo sperimentale; infine, con l’ultima R si intende l’operazione di rifinire, o migliorare, le condizioni sperimentali alle quali sono sottoposti gli animali.
Rimpiazzare
Con questo concetto si vuole suggerire al ricercatore di indagare a fondo sulle possibilità di sostituire il modello animale con metodologie alternative. Nell’accezione originale del termine, quella proposta da Russell e Burch, si intendeva l’utilizzo di materiale non senziente, al posto del modello animale. I due autori descrissero una serie di metodi alternativi alla sperimentazione animale basati su piante, microrganismi, sistemi chimici e fisici non viventi. Attualmente, metodi alternativi al modello animale includono l’utilizzo di volontari umani, modelli tridimensionali e sistemi di realtà virtuale.
Già Russell e Burch introdussero i concetti di rimpiazzo parziale (relative replacement) e rimpiazzo completo (absolute replacement). Nel primo caso, ci si riferisce agli esempi nei quali una specie animale viene sostituita da un’altra specie caratterizzata da un sistema nervoso relativamente meno complesso di quella originale, oppure, a quelli in cui in una particolare fase del protocollo sperimentale, l’animale è stato sostituito da un modello non senziente. Nel secondo caso, invece, il modello animale risulta completamente eliminato dal protocollo sperimentale.
Queste definizioni suggeriscono che, in realtà, il concetto di rimpiazzo si ricollega a due tipi di questioni. La prima è relativa a cosa viene esattamente sostituito. Si tratta di una specifica metodologia che è parte dell’esperimento in questione? Oppure, allargando la prospettiva, si tratta di sostituire un particolare programma di ricerca che implica quegli specifici tipi di esperimenti (come, per es., nel caso della proibizione di condurre test animali per i controlli sui cosmetici)? La seconda si pone il problema di quali siano le condizioni che devono essere rispettate nel caso dovessimo proporre un’alternativa all’esperimento animale. Per es., l’esperimento alternativo dovrebbe fornire lo stesso tipo di risultato del modello animale originale (che potrebbe essere lo stesso tipo di informazioni relative all’innocuità di un certo prodotto)? Oppure, ragionando in modo inverso, possiamo riconsiderare il fine o i risultati attesi del progetto, in modo da poter applicare il metodo alternativo all’uso di un modello animale?
Tali questioni dovrebbero essere trattate in combinazione. In ogni caso, le prime considerazioni sull’utilizzo o meno di una tecnica alternativa all’uso di un modello animale dovrebbero sempre riguardare la scientificità dell’esperimento proposto originariamente e il suo specifico fine. Quindi, all’interno di questo inquadramento generale, si potrebbe poi operare un’analisi più fine rispetto ai diversi aspetti di quel particolare protocollo sperimentale.
Ridurre
Il secondo passo riguarda la riduzione del numero di soggetti utilizzati in un determinato protocollo sperimentale. Russell e Burch descrissero questo concetto come una riduzione del numero degli animali utilizzati, tale da ottenere comunque una quantità di dati numericamente significativi di sufficiente precisione (Russell, Burch 1959). Mediante uno studio pilota, per es., è possibile determinare quantitativamente gli effetti di una certa manipolazione sperimentale, la facilità con la quale tali effetti possono essere identificati e il grado di variazione estranea all’esperimento stesso ma che può influenzare i risultati ottenuti. Tali informazioni possono quindi essere utilizzate per calcolare con precisione il numero di soggetti sperimentali necessari all’ottenimento di risultati significativi per quel dato protocollo sperimentale. In questo tipo di approccio è di fondamentale importanza un uso corretto della statistica: un accurato disegno sperimentale, in termini di ampiezza del campione e potere del test statistico selezionato, è fondamentale per determinare il numero minimo necessario di soggetti da utilizzare.
Un altro modo per ridurre in linea generale il numero di soggetti sperimentali usati da diversi laboratori dovrebbe, in teoria, essere quello di armonizzare il più possibile, e a livello internazionale, i protocolli standard richiesti per i test di tossicità. Ciò ridurrebbe sensibilmente la necessità di ripetere gli stessi test in differenti Paesi, abbassando automaticamente il numero di animali utilizzati in questa particolare pratica sperimentale.
Dalla descrizione del concetto di riduzione emerge che esso può essere applicato non solo a livello del singolo esperimento, o di un particolare progetto di ricerca, ma anche a livelli più generali, dove però tale applicazione richiede uno sforzo diverso e a volte più complesso. A questo proposito, si distinguono un livello intrasperimentale, uno sovrasperimentale e uno extrasperimentale. Al primo livello, la riduzione riguarda il numero di animali all’interno di ogni singolo esperimento. La possibilità di ridurre dipende dalla domanda scientifica posta inizialmente e potrebbe variare da esperimento a esperimento. In questo caso si può effettuare una riduzione migliorando il disegno statistico, eseguendo studi pilota e, mediante un’analisi retrospettiva di dati ottenuti in precedenza, calcolando il numero di soggetti strettamente necessario. Va sottolineato che questa è un’analisi da condurre per ogni singolo esperimento si voglia eseguire.
A livello sovrasperimentale la riduzione si attua cambiando il modo più generale di fare ricerca: basti pensare, per es., a corsi di aggiornamento per il personale addetto all’applicazione del principio delle 3R, ai metodi statistici e ai vari tipi di disegni sperimentali. In tale livello rientrano anche l’azione dei comitati etici, la possibilità di scambiarsi informazioni fra differenti gruppi di ricerca, l’ottimizzazione dei programmi di riproduzione, la possibilità di utilizzare i soggetti sperimentali come controlli di sé stessi.
Infine, a livello extrasperimentale la riduzione si ottiene mediante un’evoluzione della pratica sperimentale, evoluzione che non era originariamente relativa alla volontà di ridurre il numero di soggetti utilizzati. Un esempio può essere l’armonizzazione delle regole nazionali sulla sperimentazione animale tra Paesi europei, Stati Uniti e Giappone.
Rifinire
Questa azione inizia quando è stato compiuto ogni sforzo possibile per trovare alternative al modello animale originariamente scelto e per ridurre il numero di individui utilizzati in uno specifico disegno sperimentale. Russell e Burch (1959) definiscono rifinire semplicemente come la riduzione, a un minimo assoluto, del disagio imposto agli animali usati nella sperimentazione. Questa definizione, generalmente valida ancora oggi, ha tuttavia subito una serie di successive modifiche come risultato dei progressi compiuti nell’ultimo anno nell’ambito della scienza del benessere animale e nel campo della filosofia morale, progressi che hanno informato e reso più stimolante il dibattito sui diritti degli animali.
Come già accennato, il concetto di rifinire o migliorare le procedure sperimentali si è modificato nel tempo. Una delle conclusioni di una recente ricerca compiuta da un gruppo multidisciplinare di studiosi, al quale hanno partecipato sia biologi sia filosofi (http://www.inemm.cnr.it/animalsee/index.html), è stata la ridefinizione di questo particolare concetto, includendo tutti gli aspetti che possono essere interessati dall’applicazione di questa R: trasporto, stabulazione, tecniche usate nelle procedure del protocollo sperimentale, eutanasia. Quello che però appare particolarmente rilevante in questa proposta è l’accenno a un necessario e attivo sforzo per il miglioramento dello stato di benessere dell’animale sperimentale, al di là di una semplice minimizzazione dello stato di malessere (Buchanan-Smith, Rennie, Vitale et al. 2005). L’uso del rinforzo positivo, per es., è un buon modo per migliorare le procedure sperimentali. In questo caso, infatti, agli animali è data l’opportunità di cooperare con le procedure, mediante la somministrazione di premi, generalmente alimentari, riducendo così i casi nei quali l’animale deve essere forzato a partecipare a un certo protocollo sperimentale. In tal modo si può ottenere come risultato l’offerta spontanea di un arto da parte di una scimmia per una certa inoculazione, oppure lo spostamento volontario di un individuo da una gabbia all’altra.
Bisogna però tenere presente che, in alcuni casi, il miglioramento delle condizioni di vita di un animale sperimentale può contrastare con gli scopi di una specifica ricerca. Si potrebbe pensare, per es., di migliorare le condizioni di benessere di un determinato individuo offrendogli regolarmente del cibo molto prelibato, soddisfacendo così i bisogni alimentari di quell’animale. Tale scelta, però, potrebbe essere in conflitto con le condizioni necessarie per un esperimento, peraltro ormai sempre meno utilizzato, in cui la restrizione di cibo motiva l’animale a partecipare a un test nel quale alla fine esiste una ricompensa in cibo.
Benessere animale e arricchimenti ambientali
Un giudizio sul grado di benessere degli animali da laboratorio e su come questo possa essere influenzato da certe condizioni di cattività deve basarsi su un’accurata conoscenza della specie animale coinvolta. In funzione della specie animale e della sua normale organizzazione sociale, fattori ambientali come, per es., dimensione della gabbia e sua struttura, luce (intensità, lunghezza d’onda, fotoperiodo, frequenza), suoni, ventilazione ecc., sono tanto importanti quanto la presenza o assenza di soggetti della stessa specie, il loro sesso e la prevedibilità e controllabilità dell’ambiente. Esiste però un certo rischio di antropomorfismo nel giudizio di importanza relativa per questi fattori. Condizioni favorevoli al benessere umano non lo sono necessariamente altrettanto per quello degli animali e ciò è egualmente valido per una comparazione tra differenti specie animali e tra diversi gruppi di ogni singola specie. Questo problema può essere affrontato misurando la predilezione di un animale per certe condizioni ambientali con un test di preferenza, durante il quale agli animali viene offerta una scelta tra varie condizioni per il sistema di mantenimento, la lettiera, il cibo e così via. Quando le scelte sono combinate con dettagliate osservazioni comportamentali, si possono ottenere informazioni sull’importanza relativa dei diversi fattori ambientali. Bisogna, in ogni caso, fare attenzione nel momento in cui s’interpretano i risultati ottenuti in termini di benessere: la scelta, infatti, può essere influenzata da precedenti esperienze, o un animale può non essere in grado di giudicare quale opzione sia la migliore per il suo benessere nel lungo termine.
In particolare, ciò può essere vero per la scelta degli arricchimenti ambientali da fornire agli animali in cattività. Se intendiamo migliorare le condizioni generali di benessere di un animale utilizzato in sperimentazione, uno dei modi possibili è, per es., quello di provvedere all’allestimento di un ambiente stimolante e vario. L’introduzione di arricchimenti ambientali può servire indubbiamente a tale scopo. Generalmente per arricchimento ambientale, si intende qualunque tipo di stimolazione, sia strutturale sia più prettamente sociale, in grado di fare esprimere all’animale in cattività un repertorio comportamentale più simile a quello dei suoi conspecifici in natura.
È opinione generale che le condizioni di vita degli animali in cattività siano tanto migliori quanto più questi sono in grado di esprimere i comportamenti osservati nei loro conspecifici in natura. Tuttavia, la validità di tale metodo comparativo per la valutazione del benessere degli animali non è mai stata completamente dimostrata. Inoltre, se pensiamo che una parte del repertorio comportamentale di una specie può essere modificata in tempi relativamente brevi, e se consideriamo la flessibilità comportamentale tipica dei mammiferi, allora appare possibile che le necessità comportamentali di individui che da molte generazioni vivono in un ambiente totalmente differente da quello naturale siano diverse da quelle dei loro conspecifici selvatici. Pertanto è sempre più diffusa l’opinione che fattori quali la storia dell’individuo e il contesto a cui è abituato possano influenzare i suoi bisogni comportamentali e che, quindi, sia necessario tenere conto di tali aspetti. Partendo da queste considerazioni, sperimentalmente si possono studiare colonie di animali in cattività appartenenti alla stessa specie, ma ospitati in ambienti molto diversi tra loro, sia per storia della colonia sia per differenti scopi di ricerca. L’idea è che applicare la stessa tecnica per migliorare la qualità della vita di questi animali non sia corretto e che sia necessaria una sua taratura su ogni singola situazione, affinché tale tecnica, di solito la presentazione di un particolare arricchimento ambientale, possa rivelarsi realmente efficace.
Per quanto riguarda la procedura sperimentale, si può condurre una raccolta preliminare di dati, al fine di ottenere una fotografia della condizione di partenza. Successivamente le condizioni arricchite vengono proposte agli animali. La presentazione degli arricchimenti può avvenire utilizzando due diverse metodologie, ossia effettuando la presentazione di una singola condizione arricchita oppure la presentazione di una scelta. La scelta viene offerta perché dare agli animali questa possibilità è da molti ritenuta una procedura migliore per garantire il loro benessere. I dati raccolti possono essere di due tipi: comportamentali, ottenibili tramite osservazione diretta, e biochimici, misurabili, per es., attraverso campioni di saliva in modo da valutare il livello di ormoni in circolazione. I dati comportamentali forniranno informazioni sull’uso/non uso degli arricchimenti, sul loro diverso utilizzo e sull’eventuale grado di scelta espresso dalle specifiche colonie di animali; dai dati biochimici ci si attendono differenti livelli ormonali in risposta alle differenti condizioni.
Un ulteriore aspetto per valutare l’efficacia di un determinato arricchimento si basa sulla misurazione del grado di motivazione di particolari individui a usufruirne. Tale misurazione viene effettuata attraverso l’osservazione del lavoro che l’individuo è disposto a fare per raggiungerlo (cfr. al riguardo G. Mason, D. McFarland, J. Garner, A demanding task: using economic techniques to assess animal priorities, «Animal behaviour», 1998, 55, 4, pp. 1071-75).
Vi sono vari tipi di arricchimenti ambientali. Quelli di tipo strutturale possono essere oggetti mobili trasportabili. Arricchimenti di tipo sociale, invece, sono quelli che hanno lo scopo di migliorare le condizioni sociali di vita degli animali da laboratorio: per es., si possono variare il numero e la composizione di un determinato gruppo di animali in cattività per meglio soddisfare le naturali tendenze e inclinazioni sociali di una particolare specie.
Un tipo di arricchimento sociale è quello interspecifico e una sua possibile forma è rappresentata dall’interazione essere umano-animale. Per quanto riguarda i primati non umani, per es., si possono identificare due tipi di interazione in cattività tra animali ed esseri umani. La prima si può definire interazione umana strutturata, oggi sempre più diffusa nei protocolli sperimentali che utilizzano scimmie di laboratorio: si tratta del rinforzo positivo, al quale si è già accennato in questo scritto. Tale interazione è alla base dei programmi di addestramento delle scimmie per ottenere la loro collaborazione durante le procedure di routine di un laboratorio. Il secondo tipo di interazione essere umano-animale è definibile come interazione umana non strutturata, e fa riferimento al quotidiano rapporto che si viene a instaurare tra gli animali e chi si prende cura di loro. Questo tipo di interazione è molto importante perché, soprattutto nel caso dei primati non umani, gli animali generalmente sono in grado di traslare il rapporto di fiducia, instauratosi con un particolare essere umano, verso altri membri della stessa specie. Ciò vuol dire che gli animali tenderanno a essere meno diffidenti in presenza degli sperimentatori che li manipolano e ne osservano il comportamento, fornendo dati di maggiore qualità scientifica.
Interazioni positive tra le 3R
Vi sono diversi casi nei quali l’uso di una delle tre R può avere un impatto positivo su una o tutte e due le altre R: per es., l’introduzione di programmi educativi e specie-specifici per personale addetto alla manutenzione degli animali da laboratorio può portare a un miglioramento della cura di questi ultimi e a una maggiore abilità nell’identificare problemi di benessere e quindi anche problemi relativi a un particolare piano sperimentale. Questo approccio porta a un miglioramento generale delle condizioni di benessere degli animali da laboratorio. Inoltre ne deriva un decremento nella variabilità dei risultati sperimentali dovuta agli effetti stressanti dell’esperimento stesso. Occorre sottolineare che tale minore variabilità implica una diminuzione del numero di soggetti sperimentali necessari per raggiungere una significatività statistica. Quindi, in questo caso, contemporaneamente si sono migliorate le condizioni di benessere degli animali durante la sperimentazione ed è stato ridotto il numero di soggetti sperimentali necessari per ottenere dati scientificamente credibili.
La sostituzione di animali dallo sviluppo neurofisiologico complesso con invertebrati oppure organismi unicellulari è, come abbiamo visto, una strategia di sostituzione parziale del modello animale. D’altra parte, rappresenta anche una strategia di miglioramento delle tecniche sperimentali per diminuire il grado di sofferenza, perché molto probabilmente un invertebrato, o un organismo unicellulare, soffre meno rispetto a un organismo relativamente più complesso.
L’armonizzazione internazionale dei protocolli sperimentali e delle regole che riguardano i test di sicurezza per i farmaci rappresenta un’importante strategia che può determinare una forte diminuzione dei singoli esperimenti compiuti nei diversi Paesi. Da questo deriva automaticamente una riduzione complessiva dei soggetti utilizzati in questi test. L’armonizzazione fra diversi Paesi può però anche portare all’individuazione di test obsoleti e inutilmente invasivi, che possono essere sostituiti da tecniche più avanzate che fanno uso di materiale non senziente (rimpiazzo completo). Quindi, sostituzione e riduzione del numero dei soggetti possono in questo caso avvenire contemporaneamente.
Interazioni negative tra le 3R
Può succedere che le 3R entrino in conflitto fra loro. Nel caso si debbano validare metodi alternativi, per es., vi è la necessità di comparare il metodo alternativo proposto con la corrispondente e tradizionale versione in vivo di tale tecnica. Ciò rappresenta un conflitto fra i concetti di rimpiazzo e riduzione. D’altra parte, una simile situazione si pone anche quando è necessario verificare la validità di alcune tecniche di miglioramento di un dato protocollo sperimentale, con il fine di ridurre il grado di sofferenza animale. In questo caso, entrano in conflitto i concetti di miglioramento della procedura sperimentale e di riduzione del numero di soggetti sperimentali.
L’uso di metodi telemetrici a distanza, che vengono impiantati sottocute o nella cavità viscerale dell’animale, permette di rilevare parametri fisiologici utilizzando animali liberi di muoversi, e non limitati da cateteri permanenti, o bloccati da misurazioni che prevedono l’immobilizzazione del soggetto sperimentale. Questi metodi rappresentano, quindi, un miglioramento delle condizioni sperimentali per l’animale utilizzato. Inoltre, poiché i dati ottenuti risultano qualitativamente migliori, dato che gli animali sono meno stressati dalla procedura sperimentale, esiste anche la possibilità di utilizzare un numero minore di soggetti per ottenere dati di qualità, e quindi ridurre il numero totale di soggetti utilizzati. D’altra parte, però, l’impianto di una trasmittente, specialmente quando questa è posizionata nei visceri, richiede un intervento chirurgico complicato e lungo, e può causare considerevole dolore postoperatorio. Inoltre, soprattutto nel caso di piccoli roditori, il peso della radiotrasmittente può comportare disagio fisiologico e fisico. Tutto ciò è contrario al concetto di miglioramento delle condizioni sperimentali volto alla diminuzione del grado di sofferenza inflitto agli animali. È stato poi osservato che la presenza di un compagno può alleviare lo sconforto postoperatorio. Questo significa che, se abbiamo a che fare, per es., con un gruppo sociale di scimmie, si dovrebbe isolare un altro individuo dal resto del gruppo e sottoporlo, anche se indirettamente, a una procedura sperimentale, causando nuovamente un conflitto con il concetto di riduzione dei soggetti sperimentali.
Quale R privilegiare?
Come abbiamo visto, possono sorgere dei conflitti tra le diverse R. In che modo occorre regolarsi in questi casi? Uno dei problemi degli attuali modelli di analisi etica di un particolare esperimento è che, sebbene le 3R siano prese in considerazione, spesso lo sono in maniera indipendente una dall’altra. Per questa ragione, sorgono frequentemente difficoltà decisionali quando esistono conflitti tra rimpiazzo, riduzione e miglioramento del modello animale. In generale, i comitati etici per l’analisi della sperimentazione animale adottano decisioni di buonsenso, e di comune condivisione, il più delle volte basate su un approccio utilitaristico al problema sotto esame. Questo tipo di approccio prevede di massimizzare il bene per il maggior numero di individui.
Ogni singola procedura, protocollo e ricerca sperimentale rappresenta un caso a sé stante. In ogni singolo protocollo sperimentale possono sorgere dei conflitti fra le differenti R e per questa ragione è necessario utilizzare procedure per decidere a quale R dare maggiore peso. Purtroppo, nell’attuale normativa sulla sperimentazione animale il principio delle 3R non è esplicitamente menzionato, e quindi non è indicata una regola da seguire nel caso di conflitto. Si può comunque ricordare che in alcune normative nazionali come, per es., quelle dell’Home office britannico (http://www.archive.official-documents.co.uk/document/hoc/321/321.htm, 26 apr. 2010), viene data più importanza al miglioramento delle procedure sperimentali che alla riduzione del numero di soggetti sperimentali utilizzati. La ragione di questo atteggiamento è che il grado di sofferenza provato da un singolo individuo rappresenta il valore più importante del quale tenere conto; quindi, provocare maggiore sofferenza a un numero minore di individui per non aumentare il campione sperimentale non è accettabile. In ogni modo, quando può essere ottenuta una riduzione considerevole del numero dei soggetti sperimentali, creando un lieve aumento della sofferenza dei soggetti utilizzati, allora la riduzione dei soggetti può essere accettata. Come si può capire il raggiungimento di un equilibrio tra questi due fattori si basa molto sul giudizio personale del ricercatore, però è importante che tali dilemmi generati dall’applicazione del principio delle 3R siano discussi, e sia offerta una qualche sorta di guida per poterli risolvere.
Analisi costi-benefici
La sperimentazione animale è una pratica scientifica che, come abbiamo visto, coinvolge diversi fattori e competenze. La legittimità di una ricerca che fa uso di modelli animali deriva dalla valutazione bilanciata di questi fattori. Ci si può augurare che l’analisi dei diversi fattori sia preceduta o comunque accompagnata da un’attenta disamina sulla possibile applicazione del principio delle 3R.
I tre principali punti di vista da tenere in considerazione sono: la validità del dato scientifico ottenibile; la trasferibilità di tale dato al genere umano; il grado di sofferenza inflitto agli animali sperimentali (P. Bateson, When to experiment on animals, «New scientist», 1986, 109, 1496, pp. 30-32). È necessario che un ricercatore ricordi questi tre aspetti nel momento in cui è pianificata una ricerca che fa uso di modelli animali.
I comitati etici sono il luogo ideale nel quale condurre un’analisi dei costi e dei benefici per una particolare sperimentazione. Il risultato di tale analisi può portare all’accettazione o alla bocciatura di una certa sperimentazione. Si può considerare come esempio il modo di operare dei comitati etici neerlandesi. La documentazione da questi richiesta prevede che i ricercatori descrivano accuratamente il grado di sofferenza imposto agli animali in laboratorio, distinguendolo in tre categorie: minore, moderato, elevato. L’entità della sofferenza viene bilanciata in relazione a tre livelli di importanza per la società e la scienza: minore, moderata, grande. Esempi di tre tipi di sofferenza animale possono essere: fare un’iniezione (minore sofferenza), isolare un individuo in una gabbia singola (moderata sofferenza), procurare dolore prolungato (elevata sofferenza). Progetti che hanno un minore livello di importanza per scienza e società generalmente sono rifiutati, così come sono rifiutati progetti che, pur essendo di importanza maggiore, causano un elevato grado di sofferenza. È importante anche che il comitato possa valutare la qualità e gli scopi di un particolare esperimento, insieme alle credenziali del ricercatore. Successivamente queste informazioni vanno messe a confronto con il livello di sofferenza che verrà imposto all’animale durante quella determinata ricerca. In pratica, il ricercatore deve rispondere ad alcune domande, relative a una serie di aspetti della propria ricerca, prima di sottoporre al comitato la richiesta di permesso per procedere. Tali domande riguardano il livello di sofferenza cui verranno sottoposti gli animali, il valore qualitativo della ricerca proposta, il suo significato applicativo, le credenziali del gruppo di ricerca.
Il comitato etico dei Paesi Bassi chiede informazioni anche su altre caratteristiche del protocollo sperimentale proposto quali, per es., la durata espressa in giorni del grado di sofferenza imposto agli animali sperimentali, le condizioni di mantenimento dei soggetti sperimentali, incluse la salute fisica e psicologica, e la possibilità che sia soppresso il manifestarsi di comportamenti specie-specifici. Il principio delle 3R viene chiamato in causa nel momento in cui al ricercatore si domanda se ha esaminato con cura la possibilità di una sostituzione del modello animale. Viene infatti richiesta una specifica conoscenza di tecniche alternative all’uso dell’animale, quali pubblicazioni dedicate sono state consultate a tale proposito e anche quali data-base. Inoltre, e ciò è molto importante, viene specificamente chiesta una giustificazione per il mancato uso di tali tecniche alternative. Riguardo al concetto di riduzione del numero di soggetti sperimentali si richiede al ricercatore se esistono ricerche simili in corso e se si prevede, o è già in atto, una collaborazione con gruppi di ricerca che conducono studi simili. Tale collaborazione potrebbe, in effetti, portare a una riduzione generale dei soggetti sperimentali utilizzati.
Il principio delle 3R e la legislazione
Il principio delle 3R è alla base della legislazione europea dedicata alla protezione degli animali utilizzati in sperimentazione. La direttiva 1986/609/CEE (http://ec.europa.eu/food/fs/aw/aw_legislation/scientific/86-609-eec_it.pdf, 26 apr. 2010) e la Convenzione europea ETS 123 del 18 marzo 1986 (http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/123.htm, 26 apr. 2010) offrono le regole base per la protezione degli animali sperimentali, ma in alcuni Stati, come Germania, Paesi Bassi e Gran Bretagna, la normativa nazionale va oltre ciò che è suggerito dalla legislazione europea. Una caratteristica centrale del principio delle 3R, per es., è che, prima di dar luogo a qualunque tipo di esperimento che coinvolga l’uso di modelli animali, bisogna procedere con un’accurata analisi dei costi e dei benefici che tenga conto, da una parte, della sofferenza causata agli animali sperimentali e, dall’altra, dei potenziali benefici che possono derivare dalla sperimentazione in oggetto. Detto questo, una richiesta specifica di condurre tale analisi costi-benefici è presente esplicitamente solo nella legislazione dei tre Paesi sopra menzionati, nonostante questa idea sia implicita nella direttiva europea.
Attualmente, il principio delle 3R è presente in maniera indiretta nella normativa italiana riguardante la sperimentazione animale, rappresentata dal d.l. del 27 genn. 1992 n. 116 (http://www.ministerosalute.it/imgs/C_17_normativa_946_allegato.pdf; 26 apr. 2010), che costituisce un’adozione della direttiva europea. Infatti, all’art. 4, 2° co., del d.l. si legge: «Quando non sia possibile ai sensi del comma 1 evitare un esperimento, si deve documentare alla autorità sanitaria competente la necessità del ricorso ad una specie determinata e al tipo di esperimento; tra più esperimenti debbono preferirsi: 1) quelli che richiedono il minor numero di animali; 2) quelli che implicano l’impiego di animali con il più basso sviluppo neurologico; 3) quelli che causano meno dolore, sofferenza, angoscia o danni durevoli; 4) quelli che offrono maggiori probabilità di risultati soddisfacenti». La direttiva 1986/609/CEE è attualmente in fase di revisione, ed esistono elevate probabilità che il nuovo testo possa rendere ancora più esplicito il riferimento al modello di Russell e Burch.
Conclusioni
Nel contesto di un complessivo miglioramento delle condizioni di vita degli animali da laboratorio sono stati compiuti importanti passi in avanti negli ultimi anni. Il principio delle 3R ha ispirato profondamente tali miglioramenti. Alan M. Goldberg e Horst Spielmann, a questo proposito, elencano cinque punti ritenuti principali: il riconoscimento dell’importanza, come settore scientifico, della ricerca di alternative alla sperimentazione animale e il rafforzarsi di un’importante corrente di pensiero, in questo senso, nella comunità dei protezionisti; una globale e consistente riduzione del numero di animali che vengono utilizzati in ricerca, in educazione e nelle prove di tossicità; l’attenzione dedicata al miglioramento delle tecniche utili a controllare la sofferenza imposta agli animali sperimentali; la creazione di solidi criteri e processi di validazione, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, volti all’implementazione di metodi alternativi, e lo sforzo verso una generale armonizzazione di tali azioni; l’impegno dedicato a creare protocolli di controllo di tossicità che risultino più efficaci, più predittivi e più attenti al grado di sofferenza imposto agli animali sperimentali (Goldberg, Spielmann, in Progress in the reduction, refinement and replacement of animal experimentation, 2000).
Il principio delle 3R offre agli sperimentatori un inquadramento metodologico nel quale la sofferenza, sia diretta sia indiretta, provocata dalla ricerca sugli animali può essere ridotta, e nel quale i filosofi possono praticare una logica analisi etica. L’applicazione di diverse metodologie per la sostituzione dei modelli animali, il miglioramento delle tecniche e la riduzione del numero dei soggetti utilizzati hanno un impatto positivo sulla validità dei disegni sperimentali, la credibilità dei risultati e l’immagine pubblica dell’esperimento che fa uso di animali. Detto ciò, l’apparente facilità dell’applicazione del principio delle 3R si rivela problematica nel momento in cui si manifestano possibili conflitti fra le singole R. In questo caso, se non si ha la possibilità di usufruire di una legislazione che può risolvere il conflitto, il singolo ricercatore deve affidarsi alla propria capacità di individuare che tipo di conseguenza tale conflitto avrebbe sullo stato di benessere degli animali sperimentali. Tale valutazione deve essere fatta caso per caso, perché ogni protocollo sperimentale presenta le proprie specifiche caratteristiche e porta con sé un potenziale carico di sofferenza animale. Se, come sembra, il principio delle 3R sarà incorporato nella revisione della direttiva 1986/609/CEE, ci si può augurare che vengano anche fornite delle indicazioni sulle relative priorità di ciascuna delle 3R, al fine di migliorare la loro applicazione.
Nonostante le difficoltà sopra accennate, negli anni a venire è molto probabile che il principio delle 3R conserverà il suo grande valore, dal punto di vista sia teorico sia applicativo.
Bibliografia
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Progress in the reduction, refinement and replacement of animal experimentation, ed. M. Balls, A.-M. Van Zeller, M.E. Halder, Amsterdam 2000 (in partic. A.M. Goldberg, H. Spielmann, High production volume (HPV) chemical testing, pp. 1639-42).
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