Sperimentazione animale
Nell'ambito scientifico si intende per sperimentazione una prova effettuata per comprovare un'ipotesi, per studiare le caratteristiche intrinseche di una realtà specifica, per accertare le possibilità applicative di una scoperta teorica e per verificarne la validità e la sicurezza. Si tratta, quindi, di un particolare momento del processo conoscitivo, che si distingue da altri per l'incertezza del risultato e perché comporta un intervento diretto dello sperimentatore su ciò che costituisce l'oggetto dell'indagine. Questo intervento è molto variabile, potendo oscillare dalla misurazione di un particolare parametro fino alla riproduzione in laboratorio di un fenomeno naturale; qualunque sia la sua entità, tuttavia, esso si traduce sempre in un cambiamento, che può arrivare fino al sacrificio di un essere vivente. In assenza di queste due connotazioni, ovvero dell'incertezza del risultato e del cambiamento richiesto per ottenerlo, la sperimentazione ha a che fare con una semplice osservazione dei fatti; è tipicamente rappresentata, in questo caso, dalla registrazione di un evento pregresso, e costituisce un momento conoscitivo ugualmente importante, ma diverso. Qualcuno include nella sperimentazione anche altri impieghi degli animali, per esempio a fini didattici. In questa sede, comunque, ci atterremo strettamente alla definizione enunciata in precedenza.
Contrariamente a quanto molti ritengono, nella maggior parte dei casi la sperimentazione non è effettuata su viventi, ma su processi fisici o reazioni chimiche che utilizzano materiale inanimato, su modelli meccanici o computerizzati dei processi biologici e su molecole di varia complessità, dai sali inorganici fino agli enzimi e al DNA. La sperimentazione sul genoma ha imposto l'esigenza di tutelare il materiale sperimentale anche quando esso non sia dotato di vita propria. Una parte consistente della discussione etica, tuttavia, verte sulla sperimentazione condotta su animali (da virus, batteri, Protozoi e altri eucarioti monocellulari a organismi multicellulari di crescente complessità, dal moscerino ai Mammiferi, fino all'uomo), con particolare riguardo a quelli dotati di un sistema nervoso centrale ben sviluppato, che consente un pensiero organizzato e la percezione cosciente della sofferenza, sia fisica sia mentale, oltre che del piacere. A differenza di quanto avviene in natura, durante la sperimentazione questi esseri sono inermi di fronte all'uomo, che può disporre del loro destino e sottoporli a qualunque manovra, anche cruenta. La loro posizione sembrerebbe abbastanza simile, sotto questo profilo, a quella del bambino, del malato mentale e di altri individui menomati, sebbene tra questi e gli animali esista una differenza sostanziale. Gli umani sono infatti tutelati da esseri appartenenti alla medesima specie, che avvertono ciò come un obbligo radicato nella religione, nella morale laica e nella giurisprudenza; la tutela dei non umani, al contrario, è affidata a una specie diversa, nella quale il relativo principio ha stentato a lungo ad affermarsi e tuttora non è ben precisato.
In alcuni casi la sperimentazione produce, oltre che nuove informazioni d'interesse generale, anche un vantaggio specifico a favore del soggetto sul quale è condotta. Questo avviene, per esempio, quando un malato, rappresentato da una persona o anche da un animale, è trattato con un medicinale la cui attività curativa è ormai accertata ma deve essere precisata ulteriormente. In tali circostanze si parla di sperimentazione terapeutica o di terapia sperimentale.
La vita, nel corso del suo sviluppo, sostenuto dall'incessante sperimentazione di ogni possibile alternativa, sembra regolata da tre leggi fondamentali. Esse riguardano tutti i viventi, dai virus e dagli organismi unicellulari fino a quelli multicellulari, che includono gli animali e l'uomo. La prima di queste leggi è la difesa a oltranza della propria esistenza, cui nemmeno l'uomo si sottrae, come individuo e come specie, e che può arrivare fino alla soppressione dell'esistenza altrui. Per semplicità, la chiameremo 'legge della difesa del sé'. I maggiori successi della medicina moderna sono riconducibili a essa. Prendiamo, per esempio, i chemioterapici, gli antibiotici e i vaccini: che cos'altro sono se non armi micidiali, usate per combattere e in qualche caso sterminare altre forme di vita? In questo caso esse sono rappresentate da batteri, funghi e Protozoi patogeni, ma per difendere la propria salute l'uomo non esita a uccidere anche il bestiame e gli animali selvatici, non appena sospetta che siano portatori di malattie trasmissibili, come la rabbia e l'encefalopatia spongiforme bovina, comunemente detta 'malattia della mucca pazza'.
Oltre a questa, esiste una seconda legge della vita, inscindibile dalla prima e ugualmente fondamentale, che chiameremo 'legge della solidarietà'. È grazie a essa che agli albori della vita due grumi di materia (o di energia, se così la vogliamo chiamare) hanno ricavato dalla loro unione la spinta a procedere in senso opposto rispetto al mondo circostante, che andava verso la disgregazione e lo spegnimento. Da quell'unione è nato qualcosa di più complesso di una semplice somma, che ha saputo far tesoro di quanto era fin lì avvenuto, memorizzandolo e utilizzandolo da un lato per difendere la propria esistenza e dall'altro come punto di partenza per procedere verso sistemi ancora più organizzati e complessi. Quella prima espressione della vita si è duplicata, per ridurre il rischio di essere schiacciata dal mondo circostante e di andare perduta. Lo ha fatto a costo della propria stessa esistenza individuale, perché la duplicazione implica il trasferimento del sé a qualcosa di diverso, rappresentato da entità dotate di una loro propria individualità, diversa da quella del genitore.
La terza legge è quella dell'evoluzione verso sistemi di organizzazione e complessità crescenti. Essa si applica anche al progresso culturale e chiama in causa il problema della gradualità. La questione del progresso nasce in effetti dalla rapidità dei cambiamenti che esso implica. Anche la natura cambia continuamente, ma lo fa in maniera graduale. Per esempio, i viventi hanno impiegato milioni di anni per dotarsi di apparati ‒ quali l'occhio, l'udito, i tensocettori e i nocicettori interni, che consentono di percepire alcuni dei tanti segnali provenienti dal loro interno e dall'esterno ‒ oppure per passare dall'acqua alla terraferma, per librarsi nell'aria e per perfezionare ciascuna di queste capacità. Quanto più questi cambiamenti sono drastici, tanto più l'adattamento richiede tempo. Ne troviamo un chiaro esempio nel passaggio dagli organismi monocellulari a quelli multicellulari. I primi crescono rapidamente, duplicandosi nell'arco di pochi minuti, mentre i secondi, costituiti da cellule, tessuti e apparati diversi che per convivere devono adattarsi gli uni agli altri, hanno ridotto la velocità della duplicazione cellulare a una ogni 12-24 ore e più. L'uomo ha seguito questo medesimo percorso evolutivo, ma poi se ne è discostato per imboccare quello, incomparabilmente più rapido, consentito dal progresso scientifico e tecnologico. Ha imparato a proteggersi dal freddo e dalle intemperie non con adattamenti dell'organismo, che richiedono milioni di anni, ma con il fuoco, con gli indumenti e con le abitazioni, strumenti che ha potuto realizzare rapidamente. Si è servito, per conservare ed elaborare le sue esperienze, non del sistema nervoso, che si è evoluto lentamente, ma di substrati artificiali estranei al suo corpo, quali la carta e altri mezzi sempre più potenti, sviluppati nel corso di poche generazioni.
Sebbene sia una pratica antica, la sperimentazione sugli animali si è affermata e diffusa come uno degli strumenti basilari del progresso medico soltanto in età moderna. William Harvey (1578-1657) se ne servì per studiare e descrivere la circolazione sanguigna, demolendo l'errata spiegazione che ne aveva in precedenza fornito Galeno, mentre Claude Bernard (1813-1878) la utilizzò per studiare le funzioni del fegato, del pancreas e dei nervi vasomotori, nonché gli effetti del curaro e di alcuni anestetici. Essa è stata determinante anche per la scoperta del Salvarsan, il primo chemioterapico di sicura efficacia, a opera di Paul Ehrlich (1854-1915). In seguito la procedura si è talmente diffusa che sarebbe materialmente impossibile anche solo elencarne gli impieghi e i risultati più significativi. Eppure, nonostante la sua diffusione e la crescente importanza, le implicazioni etiche della sperimentazione sugli animali sono state inizialmente poco dibattute. Francesco Bacone (1561-1626) si limitò a preconizzarne e giustificarne l'impiego in nome della tesi secondo cui la scienza opera in vista di un fine primario, preminente su tutti gli altri, rappresentato dal bene dell'uomo. Secondo Immanuel Kant (1724-1804), l'uomo è l'unico essere vivente cui può essere riconosciuta una dignità morale. Il problema della tutela dell'animale, d'altronde, è scarsamente avvertito anche dalle religioni monoteistiche, nelle quali prevale la visione di un ordine gerarchico dell'universo che vede all'apice la divinità e, subito sotto, l'uomo, cui è assegnato il dominio della Terra. Nella Bibbia e perfino nel nuovo catechismo della Chiesa cattolica (1992), non c'è alcuna menzione specifica dei diritti dell'animale. Ci si affida, di conseguenza, alle norme generali che guidano il comportamento dell'uomo.
I diritti dell'animale vengono rivendicati con forza solo a partire dalla seconda metà del XIX sec., soprattutto per merito di movimenti a carattere popolare. Nel 1876 il governo britannico emana, sotto la spinta della lega fondata da Frances Power Cobbe, il Cruelty to animals act. In seguito, diversi Paesi adottano analoghe norme che prevedono una pena per gli atti di crudeltà sugli animali. Un esempio di provvedimento particolareggiato è l'Animal welfare act, con cui nel 1970 gli Stati Uniti d'America stabiliscono con precisione le norme da rispettare per la stabulazione, il trasporto e il maneggio di cavie, conigli, gatti, cani e, in generale, tutti gli animali in cattività, inclusi quelli destinati alla sperimentazione. Sull'argomento esistono in italiano due documenti del Comitato nazionale per la bioetica (1992 e 1998) e uno del Comitato etico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (1992). Non entreremo nei dettagli, anche perché la legislazione e la normativa sono in continua evoluzione, ma in senso generale va rilevato che la debolezza dei principî teorici posti a tutela dell'animale è ampiamente compensata dalle norme ‒ sempre più stringenti e dettagliate ‒ che lo proteggono sul piano pratico, quantomeno a livello della sperimentazione. Il ricercatore che intenda condurre un esperimento è soggetto a una lunga serie di obblighi e controlli esterni, che riguardano le condizioni di stabulazione, le premesse scientifiche che giustificano la prova, l'importanza dei risultati previsti, l'assenza di procedure alternative, le misure adottate per evitare disagi e sofferenze, e altri aspetti ancora. Ne deriva un impedimento obiettivo a quella consistente parte della ricerca scientifica che si regge tuttora su questa pratica.
Per inciso, la situazione dell'uomo è diversa rispetto a quella dell'animale. I suoi diritti fondamentali non sono più soltanto genericamente affidati alla tradizione religiosa, filosofica e giuridica, ma sono stati solennemente ribaditi in documenti che impegnano formalmente l'intera umanità. Basta citare la Dichiarazione dei diritti dell'uomo (ONU 1948) e, nell'ambito dell'Unione Europea, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e le libertà fondamentali (1997). Per quanto attiene più specificamente alla sperimentazione, un documento fondamentale è il Codice di Norimberga: formulato nel 1947, al termine del processo contro i medici nazisti responsabili di aver eseguito esperimenti su uomini, donne e bambini, esso stabilisce che nessuna sperimentazione sull'uomo può essere condotta senza il consenso di chi vi si sottopone. Questo principio basilare è stato in seguito ripreso nel documento noto come Dichiarazione di Helsinki (1964), preparato in occasione della XVIII Assemblea medica mondiale, ma con un'importante aggiunta: mentre il Codice di Norimberga demandava l'ottenimento del consenso alla responsabilità dello sperimentatore, qui si avverte l'esigenza di un controllo indipendente, da affidare a un organismo esterno.
Il principio è stato ulteriormente ribadito in occasione delle Assemblee mediche mondiali di Tokyo (1975), di Venezia (1983) e di Hong Kong (1989), nonché in altre manifestazioni pubbliche. È così diventato una sorta di codice deontologico per il ricercatore, oltre che un punto di riferimento costante per le leggi e le norme promulgate a tutela delle persone sottoposte a sperimentazione. In sintesi, il controllo esterno è demandato a organismi pubblici, come l'FDA (Food and Drug Administration) negli Stati Uniti d'America, e ai comitati etici, centrali e periferici, che li affiancano con un ruolo sempre più incisivo. Sul piano pratico rimane, tuttavia, un'ampia fascia di sperimentazioni che sono lasciate alla discrezionalità del medico. La medicina è tuttora un'arte in larga misura empirica, che si avvale di interventi e mezzi curativi, sia farmacologici sia chirurgici, difficilmente riconducibili a schemi prefissati o garantiti da solide conoscenze scientifiche. Essa procede, di conseguenza, per tentativi e aggiustamenti progressivi che, pur potendosi definire 'terapeutici', costituiscono di fatto una sperimentazione effettuata su pazienti che sono privi sia della possibilità o capacità di dare il loro assenso informato, sia delle garanzie esterne che tutelano la sperimentazione sugli animali e sull'uomo in un ambito più strettamente scientifico.
I sostenitori della sperimentazione animale hanno buon gioco nel sottolineare che questa pratica è stata determinante per gli sviluppi moderni della ricerca e, quindi, della medicina. Essa ha consentito di raccogliere informazioni preziose sul funzionamento dei principali organi e di trasformarle in applicazioni pratiche, che si sono spesso rivelate utili per l'uomo, per gli animali domestici e per la tutela dell'ambiente. Ha permesso di riprodurre in laboratorio molte malattie, come le infezioni, le avitaminosi, l'epilessia, l'ipertensione, l'arteriosclerosi e l'artrite reumatoide, il cui studio sul campo sarebbe stato incomparabilmente più lungo e difficile. Ha così reso possibile vagliare milioni di composti naturali e di sintesi, molti dei quali si sono rivelati attivi e hanno trovato un'applicazione pratica, in medicina e in altri campi. Ha dato modo di verificare l'efficacia e la sicurezza dei medicinali e di altri ritrovati in maniera più sistematica, e sotto certi aspetti più approfondita, rispetto a quanto avveniva in precedenza, quando le prove erano condotte sull'uomo ‒ il quale, peraltro, era spesso rappresentato da individui socialmente deboli, come i prigionieri e gli indigenti. Tutto ciò implica un certo grado di danno o sofferenza spesso inevitabile per l'animale; ma questo risvolto negativo è controbilanciato dai benefici concreti che vanno a vantaggio non solo dell'uomo ma anche degli animali stessi. D'altronde, la sperimentazione animale è tassativamente imposta dalle autorità sanitarie per l'approvazione della maggior parte dei nuovi medicinali, alcuni dei quali sono essenziali per la sopravvivenza: basti pensare ai vaccini e agli antibiotici. Proibirla significherebbe, pertanto, fermare il progresso terapeutico, privandoci della speranza di sconfiggere malattie tuttora incurabili, come molte forme di cancro.
Gli oppositori della sperimentazione animale, per contro, sottolineano quanto sia difficile trasferire all'uomo risultati che sono stati ottenuti su esseri viventi profondamente diversi sul piano anatomico, fisiologico e, conseguentemente, farmacologico. Lo dimostra il fatto che gli effetti negativi dei medicinali emergono spesso non durante la sperimentazione animale, ma successivamente, nel corso dell'impiego medico. Nonostante tutti gli accorgimenti adottati, un margine d'incertezza permane, tant'è vero che tutti concordano nel ritenere cruciali non le prove di attività e sicurezza effettuate sull'animale, bensì la successiva sperimentazione sull'uomo. Inoltre, i modelli animali sono spesso fuorvianti in quanto riproducono i sintomi e le manifestazioni esteriori delle malattie ma non le loro cause. In tal modo, essi hanno favorito lo sviluppo di medicinali sintomatici, anziché curativi; tali sono, per esempio, quelli usati contro l'ipertensione, la schizofrenia e la depressione.
Le conoscenze e le tecnologie attualmente disponibili offrono numerose alternative alla sperimentazione animale, e riducono le conseguenze negative che essa ha su coloro che vi sono sottoposti. Le prove in vitro, condotte su cellule, tessuti ed estratti biologici isolati, forniscono informazioni spesso altrettanto preziose. La biologia molecolare, assieme ai nuovi strumenti di indagine che ne hanno accompagnato gli sviluppi, ha aperto interessanti prospettive allo studio dettagliato e non necessariamente invasivo dei processi fisiologici e patologici. I modelli e i sistemi computerizzati, che con un notevole grado di approssimazione simulano il funzionamento dell'organismo, forniscono un aiuto sempre più importante. Sono disponibili molti strumenti, gli stessi largamente usati nella diagnostica clinica, che permettono di spingere lo sguardo dentro l'organismo evitandogli qualunque danno. Per esempio, lo studio dei possibili effetti cancerogeni dei farmaci e delle loro trasformazioni metaboliche, che un tempo comportava necessariamente il ricorso all'animale, oggi può essere in parte effettuato su cellule, tessuti e sistemi enzimatici isolati. Questo spiega perché il dibattito tra sostenitori e oppositori della sperimentazione animale, che un tempo era particolarmente acceso, si stia smorzando.
Il problema, tuttavia, non si esaurisce in questi termini. Per spiegarlo occorre ricordare che la sperimentazione sugli animali si è finora dimostrata utile soprattutto in tre settori della ricerca biomedica: la ricerca di base, che studia i processi biologici, incluse le malattie, per chiarirne i meccanismi; la ricerca applicata, che traduce le conoscenze in applicazioni pratiche; il collaudo tossicologico dei medicamenti e di altri ritrovati, che è effettuato prima della loro sperimentazione sull'uomo e del loro impiego su larga scala. La ricerca di base, almeno nelle sue prime fasi, non richiede sempre il ricorso alla sperimentazione sugli animali. Molte delle grandi scoperte che hanno più profondamente inciso sull'esistenza umana sono nate dall'osservazione attenta e acuta di processi che si manifestano spontaneamente in natura, senza alcun intervento da parte dell'uomo. James Lind (1716-1794), un medico della marina britannica, rilevò per esempio una correlazione tra lo scorbuto, malattia allora gravissima e molto comune tra i marinai, e la mancanza di cibo fresco, e ne dedusse che quest'ultimo contiene principî essenziali che si deteriorano col tempo. La sua scoperta dell'efficacia del succo di agrumi contro lo scorbuto fu all'inizio del tutto casuale, e fu anche, probabilmente, la prima grande scoperta medica dell'epoca moderna. Essa non soltanto riguardò un medicamento di sicura efficacia, ma fu documentata con uno studio controllato, effettuato paragonando tra loro trattamenti diversi, con modalità che conservano intatta la loro validità. La sperimentazione animale fu di grande importanza anche in questo caso, ma solo in un secondo momento, quando fu approntato un modello sperimentale di scorbuto che consentì l'identificazione del principale componente attivo degli agrumi, rappresentato dalla vitamina C. La sua scoperta valse nel 1937 ad Albert Szent-Gyorgyi il Premio Nobel per la medicina o fisiologia.
Un altro caso interessante è quello della scoperta dell'insulina. Fin dal 1889 era noto che il diabete mellito è dovuto a un difetto di funzionamento del pancreas, ma nei decenni successivi nessuno era riuscito a isolare il principio attivo responsabile della malattia. Frederick G. Banting osservò, al tavolo chirurgico, che l'ostruzione del dotto pancreatico causava una degenerazione della parte esocrina del pancreas ricca di enzimi proteolitici, i quali, una volta usciti dalle cellule, hanno la capacità di distruggere i composti di natura proteica con i quali vengono a contatto. Per evitare questo fenomeno, cui potevano essere imputati gli insuccessi precedenti, Banting decise, prendendo spunto da quanto aveva osservato al tavolo chirurgico, di provocare una degenerazione della parte esocrina del pancreas, così da ottenere la scomparsa degli enzimi proteolitici. Sottopose, quindi, alcuni cani alla legatura del dotto pancreatico e dopo un congruo periodo di tempo raccolse ed esaminò il loro pancreas. Fu così che riuscì per la prima volta a isolare il fattore la cui mancanza causava il diabete. Per questo successo, ottenuto tra mille difficoltà, nel 1923 fu insignito del Premio Nobel assieme a Jones J.R. Macleod, che lo aveva sostenuto e aiutato. Per inciso, i due vincitori suddivisero a loro volta il premio l'uno con Charles H. Best e l'altro con James Collip, che li avevano affiancati nelle loro ricerche. Anche in questo caso, se la sperimentazione animale risultò di importanza critica, l'evento davvero cruciale fu l'interpretazione di un fenomeno naturale, che si era manifestato spontaneamente, senza l'intervento dell'uomo. Tale combinazione si ritrova in molte altre scoperte moderne, soprattutto nel campo delle vitamine, dei vaccini e degli ormoni.
Chiarendo le cause delle malattie è spesso possibile curarle con medicamenti costituiti da sostanze fisiologiche, la cui carenza produce la malattia, oppure con sostanze che sono capaci di attivare un meccanismo difensivo dell'organismo. Il primo è il caso delle vitamine, dell'insulina e di altri ormoni, il secondo quello dei vaccini. L'azione terapeutica di queste sostanze consiste nel reintegrare la composizione dell'organismo o nel valorizzarne le potenzialità. La loro sicurezza, pertanto, dipende dalle conoscenze di base che li riguardano, le quali, a loro volta, consentono di avvalersi del collaudo al quale la natura li ha sottoposti nel corso di migliaia o milioni di anni. Il loro studio sull'animale al fine di verificarne la sicurezza, prima della sperimentazione sull'uomo e del successivo impiego medico, può essere utile, ma non è indispensabile. Inoltre, in qualche caso, questi agenti sono costituiti da proteine talmente diverse da specie a specie che il trasferimento dei risultati dall'animale all'uomo diventa non difficile, ma impossibile.
Lo studio dei fenomeni naturali è prezioso anche quando porta alla scoperta di medicamenti che sono estranei alla composizione e al funzionamento dell'organismo umano. Un esempio classico è quello dell'antibiosi, descritta fin dal XIX sec. da Louis Pasteur e Jules F. Joubert. Questi scienziati scoprirono che alcuni microrganismi secernono sostanze velenose capaci di proteggerli da altri organismi con i quali sono in competizione. L'antibiosi è un meccanismo difensivo relativamente primordiale, in quanto si avvale di armi a composizione fissa, che, pertanto, non possono essere adattate alle caratteristiche specifiche di ciascun aggressore. Inoltre, nei loro confronti è agevole sviluppare contromisure, che si traducono nella resistenza. Pertanto, nel corso dell'evoluzione, la natura ha cercato altre soluzioni; a partire dai Vertebrati, le ha trovate in un sistema immunitario che non produce sostanze a composizione fissa, bensì gli anticorpi, i quali possono essere modificati tenendo conto sia delle caratteristiche specifiche di ciascun aggressore sia del suo eventuale controadattamento. Una lettura attenta dei processi naturali ci avrebbe consentito di comprendere gli inconvenienti degli antibiotici, rappresentati principalmente dalla resistenza, e ci avrebbe insegnato che la strada maestra da percorrere nella lotta contro le infezioni non era quella degli antibiotici, o dei chemioterapici, ma quella dei vaccini.
Il problema della sperimentazione sugli animali assume dimensioni diverse nel caso delle malattie le cui cause sono poco conosciute. I modelli sperimentali relativi si sono moltiplicati e sono diventati di grande importanza nella ricerca farmacologica. Sotto certi aspetti, tuttavia, essi si sono rivelati fuorvianti, e hanno comportato molti inconvenienti. In queste circostanze, infatti, si è spesso fatto ricorso a modelli animali capaci di riprodurre i sintomi o le manifestazioni esteriori della malattia. Un esempio classico è quello dell'epilessia: nel 1938, H. Houston Merritt e Tracy J. Putnam ebbero l'idea di riprodurre questa malattia in animali da laboratorio utilizzando una scarica elettrica capace di indurre convulsioni e si servirono di questo modello sperimentale per passare al vaglio le sostanze allora disponibili. Tale sistema, sostanzialmente empirico ‒ l'origine dell'epilessia è ancora sconosciuta ‒ consentì di identificare la fenitoina, tuttora usata in terapia, e molti altri agenti.
Questi modelli empirici di malattia portano, generalmente, alla scoperta di medicamenti costituiti da sostanze che vengono sintetizzate per la prima volta dall'uomo o che, comunque, sono prive di qualunque riscontro nella composizione e nel funzionamento del suo organismo. Esse devono dunque, prima di venire impiegate in terapia, essere sottoposte a un approfondito collaudo volto a verificarne la sicurezza. Come si è già ricordato, oggi è possibile ricorrere a prove in vitro, che forniscono informazioni preziose sui potenziali rischi tossicologici. A meno di indicazioni talmente negative da suggerire l'abbandono della sostanza, alle prove in vitro fanno seguito quelle acute, subacute, croniche e speciali, che sono condotte su diverse specie animali, di cui analizzano la risposta a livello dei principali organi e apparati. Di conseguenza, si può affermare che la sperimentazione animale finalizzata al collaudo tossicologico dei farmaci nasce soprattutto dal sistema empirico di ricerca precedentemente descritto e dalle caratteristiche delle sostanze che esso consente di identificare.
In senso più generale, si può concludere che la vera misura alternativa alla sperimentazione animale, quella che potrebbe ridimensionarne sostanzialmente l'importanza nella ricerca biomedica, è costituita non tanto dal ricorso agli studi in vitro, ai modelli informatici e ad altri mezzi di valore analogo, quanto da un ripensamento della strategia stessa della ricerca. Da una parte ci sono i laboratori dove l'uomo conduce la sua sperimentazione, sia sugli animali sia su altro materiale, secondo la sua logica, che è quella di combattere rapidamente e con qualunque mezzo disponibile i mali che lo affliggono; dall'altra c'è il grande laboratorio della natura, nel quale in ogni istante, da molti milioni di anni, vengono condotti miliardi di esperimenti su ogni genere di essere vivente. In esso, gran parte dei problemi che l'uomo si affanna a risolvere sono già stati affrontati, e hanno trovato una soluzione.
Purtroppo, queste soluzioni non sono scritte nei libri, né conservate in biblioteche o nei moderni mezzi informatici che sono di consultazione relativamente facile, ma sono impresse nel funzionamento stesso della vita. La comprensione del messaggio richiede una sensibilità particolare, che non tutti gli scienziati hanno. Ma non è questo l'unico motivo che porta a trascurare la sperimentazione condotta dalla natura. Attorno a quella effettuata dall'uomo si è infatti consolidato, con il passare del tempo, un insieme di norme che l'hanno favorita a discapito dell'altra. La concessione dei brevetti premia le sostanze chimiche realizzate per la prima volta dall'uomo, più che le loro caratteristiche intrinseche. Senza la proprietà garantita dal brevetto, d'altronde, un'industria farmaceutica che investisse nella ricerca si troverebbe nella medesima condizione di un costruttore che edificasse un edificio senza averne il possesso: potrebbe farlo una volta, forse due, ma poi fallirebbe. Di conseguenza, l'industria farmaceutica è stata spinta, fin dal XIX sec., a puntare più sulla sintesi di nuove molecole che sulla valorizzazione terapeutica di sostanze in sé più promettenti ma già note e quindi meno facilmente brevettabili. Ha inoltre insistito sullo screening empirico delle nuove molecole, anziché sulla ricerca di base. In questo modo, con il passare del tempo, si è persa la nozione del fatto che i farmaci empirici, quelli che curano le malattie prima che se ne conoscano le cause, devono rappresentare un rimedio di emergenza, da utilizzare nell'attesa che se ne realizzino altri, sostenuti da una solida base scientifica, che trae vantaggio dalla lezione della natura. Denunciare questa situazione sarebbe un'operazione sterile, se contemporaneamente non fossero formulate proposte costruttive. A tal fine occorre un forte impegno culturale, per dibattere i problemi di fondo e favorire così una riconversione della ricerca biomedica industriale e accademica ‒ una riconversione che non sembri una misura punitiva, ma sia piuttosto la conseguenza e l'espressione di un cambiamento dei fattori, inclusi quelli d'ordine brevettuale, che ne hanno fin qui condizionato lo sviluppo.
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