spesa pubblica
L’articolazione della spesa pubblica
La spesa pubblica concerne l’amministrazione centrale (i ministeri), l’amministrazione previdenziale (gli enti previdenziali, ➔ previdenza), le amministrazioni decentrate (Regioni ed enti locali).
La spesa per beni e servizi e la spesa per trasferimenti.
Dal punto di vista economico, la distinzione più significativa è quella tra spesa per beni e servizi e spesa per trasferimenti. Nel primo caso, la spesa pubblica crea valore aggiunto, finanziando il processo produttivo dei servizi pubblici; quindi si tratta di uscite rivolte all’acquisto di beni intermedi correnti (consumi e attrezzature) e di servizi di lavoro (stipendi dei pubblici dipendenti), ma anche di investimenti che vanno a incrementare lo stock di capitale pubblico (infrastrutture, edifici pubblici). Nella sanità (➔), per es., con la spesa corrente si coprono gli stipendi dei medici, degli infermieri e dei dipendenti amministrativi, si acquistano farmaci, per distribuirli agli assicurati, o attrezzature per i laboratori di analisi; con la spesa di investimento si costruiscono ospedali.● I trasferimenti sono invece sussidi in denaro e in natura a famiglie e imprese, senza un corrispettivo diretto da parte dei beneficiari. Rientrano in questa seconda categoria le pensioni (➔ pensione obbligatoria; pensione sociale), le agevolazioni alle imprese e gli aiuti per l’assistenza e la disoccupazione (➔ sussidio), ma anche, sebbene la natura sia completamente diversa, gli interessi sul debito pubblico (➔ p).
Nel modello macroeconomico di determinazione del reddito standard, la spesa pubblica per beni e servizi, corrente e d’investimento è una componente autonoma della domanda aggregata (‘spesa autonoma’) alla stessa stregua del consumo autonomo, degli investimenti privati e delle esportazioni, per cui a essa si applicano i medesimi effetti moltiplicativi di breve periodo. Mentre la spesa per trasferimenti, poiché va ad accrescere il reddito disponibile delle famiglie e le risorse per le imprese, diviene indirettamente (‘spesa indotta’), tramite il consumo e l’investimento privato, domanda aggregata (➔). Gli effetti moltiplicativi sono dunque quelli corrispondenti a tali componenti. La spesa pubblica ha anche ricadute nel lungo periodo, in particolare sul tasso di crescita potenziale dell’economia, quando assume la veste di investimento in capitale materiale, immateriale e umano. Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante, dato che alcuni importanti capitoli di spesa corrente, come l’istruzione e la sanità, hanno proprio il risultato di accrescere il capitale umano (➔) che interagisce con i fattori produttivi privati, in particolare il lavoro, aumentandone la produttività. Garantire un adeguato livello aggregato di salute, fornire un’istruzione pubblica di base e superiore di alto profilo è quindi funzionale alla crescita.
La politica della spesa pubblica può perseguire finalità allocative, distributive e di efficienza produttiva. La politica allocativa riguarda la composizione della spesa, cioè la distribuzione nei vari settori, da cui scaturiscono i rapporti al PIL in relazione ai fabbisogni espressi dalla collettività.
In Italia, le quote sul PIL più significative della spesa primaria, cioè al netto di quella per interessi, riguardano le pensioni (16%), la sanità (7,5%), l’istruzione (4,5%), la difesa (2%) e l’ordine pubblico (3%). La spesa in conto capitale, tra cui gli investimenti pubblici, non supera il 4% del PIL. Questa composizione è sufficientemente stabile, in quanto riflette una stratificazione formatasi nel tempo, talvolta indipendentemente da specifiche decisioni esplicite dei policy makers.
La politica allocativa della spesa riguarda anche la distribuzione territoriale, fra livelli di governo, delle competenze e delle funzioni. In Italia, nel 2011, il totale della spesa primaria della pubblica amministrazione ammontava a 726 miliardi di euro, di cui 486 dell’amministrazione centrale e previdenziale e 240 di quella locale. Il decentramento della spesa consiste nei processi normativi e istituzionali che spostano a livello regionale e anche locale capitoli di spesa originariamente di competenza statale. Ancora la sanità fornisce un esempio utile. La spesa sanitaria è in grandissima parte regionale, dato che questo livello di governo ha la responsabilità organizzativa e anche legislativa del servizio, mentre allo Stato centrale spetta di garantire, mettendo a disposizione delle Regioni le risorse necessarie (entrate proprie e trasferimenti), un accesso uniforme al servizio sul territorio nazionale.
In merito alla politica distributiva della spesa pubblica, alcuni capitoli svolgono una funzione di riduzione delle disuguaglianze nella collettività, come la spesa che finanzia gli istituti di contrasto della povertà e di sostegno alla non-autosufficienza e disabilità e, genericamente, alla famiglia, alla natalità e all’infanzia. Complessivamente, questa componente assistenziale si colloca, in Italia, intorno al 4% del PIL. Al volume di spesa pubblica non è detto che corrisponda il raggiungimento degli obiettivi che questa si pone, per cui occorre sempre valutarne l’efficienza (➔ efficienza economica).
La spesa pubblica rappresenta i costi necessari all’acquisto di input utilizzati nei processi produttivi dei servizi pubblici. I costi però possono anche riflettere una composizione dei fattori produttivi non efficiente, nel senso che potrebbe essere razionale cambiare le tecniche di produzione, riducendo le uscite a parità di livello quantitativo e qualitativo del servizio offerto. La politica di efficientamento della spesa pubblica intende proprio introdurre elementi di razionalità tramite la riorganizzazione dei processi di produzione dei servizi. Si tratta di un lavoro puntuale, a livello microeconomico, di revisione della spesa, da svolgere nelle singole amministrazioni centrali e periferiche, che nel linguaggio corrente prende il nome di spending review, dalla collaudata esperienza anglosassone in materia.