sphota
Termine sanscr. («manifestazione») che indica il veicolo del significato nella teoria di Bhartr̥hari (➔) e di altri grammatici. La teoria dello s. è uno dei più importanti contributi indiani alla questione linguistica dell’unità minima di significato. Patañjali all’inizio del Mahābhāṣya («Grande commento») distingue tra s. e dhvani («suono»), probabilmente già alludendo con tali termini all’aspetto mentale e a quello fonico del significante. Lo s. acquisisce un ruolo centrale nel Vākyapadīya («Della frase e della parola») di Bhartr̥hari. Egli esamina gli enunciati dotati di senso dal punto di vista sia del parlante sia dell’ascoltatore; nel primo caso si parla di un fattore mentale che causa l’enunciato, nel secondo di suoni che veicolano il significato. In entrambi i casi, però, uno stesso principio linguistico immutabile (lo s.) veicola il medesimo significato, e ciò permette la comunicazione. Quando il parlante desidera dare una forma linguistica al significato da lui inteso, lo s. assume un aspetto fonico, in apparenza costituito da certi suoni in una certa sequenza, che una volta udito permette all’ascoltatore di comprendere il senso grazie a quello stesso sphoṭa. Secondo Bhartr̥hari è quindi lo s. il vero veicolo del significato. Se a livello analitico e a scopo didattico si può parlare di s. di frase, parola e fonema, l’ontologia di Bhartr̥hari sembra ammettere in fondo un’unica, indivisibile identità linguistica (śabda-advaita), le cui divisioni in frasi, parole e fonemi servono solo all’analisi, all’insegnamento e all’apprendimento del linguaggio. La teoria linguistica di Bhartr̥hari verte tuttavia soprattutto sulla frase e parte dalla constatazione che la comunicazione avviene sempre attraverso enunciati completi, perché sia il parlante sia il suo interlocutore intendono tali enunciati come unità. La comprensione di un significato è un’intuizione istantanea (pratibhā) di un’unità indivisibile. Fonemi e parole concatenate non fanno altro che permettere la manifestazione di tale unità con un crescente grado di chiarezza e non sono singoli elementi significanti di un significato composito. Se il significato è un’unità indivisibile, anche il suo veicolo, lo s., deve essere tale; in esso le apparenti parti non hanno rilevanza autonoma. Per Bhartr̥hari, il fatto che l’enunciato si sviluppi grazie all’intermediazione di fonemi concatenati in una sequenza cronologicamente strutturata non è sufficiente a giustificare l’idea che esso consista di parti. Dal punto di vista del parlante, Bhartr̥hari propone l’analogia del pittore, che pur sviluppando il suo dipinto in fase sequenziali, intende sin dall’inizio la sua opera come un’unità. Dal punto di vista dell’ascoltatore, lo s. riflesso dalla materia fonica è come un oggetto che, riflesso nell’acqua, sembra cangiare a seconda delle increspature del liquido, pur restando l’oggetto immutato. La teoria dello s. di Bhartr̥hari fu attaccata dalla Mīmāṃsā, in partic. da Kumārila Bhaṭṭa, e anche dal buddista Dharmakīrti. Maṇḍana Miśra la difese di fronte a questi attacchi nella sua Sphoṭasiddhi («Dimostrazione della Sphota»). Un resoconto delle varie posizioni è presente nella Nyāyamañjarī («Mazzo di fiori della logica») di Jayanta Bhaṭṭa (9° sec.), esponente del Nyāya che a sua volta nega la teoria dello sphoṭa. Sia la Mīmāṃsā sia il Nyāya, infatti, polemizzano con il monismo linguistico insito nella teoria di Bhartr̥hari, che sarebbe secondo tali scuole basato sul presupposto metafisico e immaginario dell’esistenza di uno s. al di là e al di sopra dei fonemi effettivamente udibili.