MALASPINA, Spinetta
Primogenito di Federico di Opizzino, del ramo dello Spino Secco, marchese di Villafranca, e di Elisabetta Malaspina, di Spinetta di Fosdinovo, nacque in Lunigiana intorno al 1340. Trascorse quasi certamente una parte della giovinezza lontano dalla terra natale, forse in Toscana, dove avrebbe ricevuto anche rudimenti negli studi.
La prima citazione documentaria risale al 1352, quando è ricordato con il fratello Anfrione o Anfione nel testamento del nonno Spinetta; a ciascuno dei due, come agli altri nipoti, veniva destinato un lascito di 100 fiorini.
Le prime notizie di rilievo che riguardano il M. risalgono al 1365, allorché egli, ormai maggiorenne, fu incaricato dai genitori di trattare diversi affari patrimoniali.
Dopo la morte del padre, databile intorno alla fine degli anni Sessanta, si dedicò per alcuni anni all'amministrazione dei propri feudi con il fratello; forse all'ottavo decennio del secolo risale la divisione dei beni tra i due fratelli.
Al M. appartennero in esclusiva proprietà i castelli di Monti e Castevoli, agli abitanti dei quali dimostrò talora particolare favore. Alla comunità di Monti elargì concessioni, tra cui la possibilità di disporre perpetuamente e liberamente di beni mobili e immobili, nel febbraio 1370. Analoghe prerogative furono riconosciute agli abitanti di Castevoli in un documento del 26 marzo 1376. Ancora più ampia si sarebbe fatta con il passare degli anni la disponibilità a riconoscere agli abitanti di quella terra notevoli diritti, come risulta da ulteriori concessioni del 1398. Nel maggio 1369 aveva intanto ottenuto dall'imperatore Carlo IV di Lussemburgo la conferma di antiche investiture e privilegi già goduti dal padre.
Non sappiamo quando lasciò la Lunigiana, delegando l'amministrazione delle sue proprietà al fratello. Per alcuni anni svolse mansioni militari al servizio di Siena. Nel 1380 il suo nome figura tra quelli dei senatori senesi (il che suggerì agli antichi genealogisti che in questa città egli avesse trascorso parte della sua giovinezza). A Siena nel 1381 fu eletto capitano di guerra e incaricato di muovere contro i bretoni della compagnia di S. Giorgio; dopo un inizio incerto, egli riuscì però ad avvantaggiarsi delle difficoltà dell'altro capo delle milizie cittadine, Agnolino di Giovanni Salimbeni che, sposato con una Farnese, si ritirò dall'incarico quando i concittadini mossero le armi contro questi ultimi. Subentrato nella conduzione delle operazioni, il M. si distinse anche nel riacquisto di alcune postazioni castrensi di cui, fin da poco dopo la metà del Trecento, si era impadronito il potente magnate Cione Salimbeni, sottraendole al controllo degli Orvietani. Il M. fu inviato contro il ribelle alla testa di una compagnia che in breve ebbe il sopravvento, riconquistando alla giurisdizione senese Celle, Montorio, Cassaro, Castellottieri e ricevendone onori da parte dei Senesi. Non passò molto tempo, però, che i rapporti tra il governo e il M. si guastarono per motivi non chiari ed egli tornò in Lunigiana.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta le notizie si fanno rare; risulta tuttavia documentata un'attività di incremento dei possedimenti nell'area dei feudi aviti con transazioni tese a razionalizzare la detenzione di antichi diritti e possessi che il M. ancora condivideva con altri congiunti: così il 21 ag. 1389 comprò dal cugino Franceschino marchese di Podenzana i diritti sul castello di Brina, di cui divenne unico signore; ancora a Brina e nell'immediato circondario comprava beni nel settembre 1395.
È probabile che egli avesse ormai fissato più stabile dimora nel cuore dei propri possessi, dove dovette trascorrere la maggior parte dell'ultimo decennio della sua vita, con l'eccezione delle relazioni, fitte e gravide di conseguenze, che egli intrattenne con il governo pisano fra 1393 e 1398. Sul finire del 1392 Iacopo Appiani, marito della figlia del M., Ludovica, aveva infatti sostituito Pietro Gambacorta alla guida di Pisa; l'Appiani, appena fu certo della stabilità della propria posizione, nominò collaboratori fidati negli incarichi più delicati, affidando al suocero il mandato di podestà (per quanto la conservazione della tradizionale formula del giuramento dell'ufficiale intendesse sottolineare la continuità con la prassi di governo precedente, sconfessata di fatto dalla scelta di un personaggio a lui tanto strettamente legato). In tale veste il M. dovette fronteggiare i tentativi dei figli del Gambacorta di tornare al potere. L'11 febbr. 1393 fece parte di una commissione creata dall'Appiani per provvedere alla sicurezza dello Stato, soprattutto nelle aree della Valdera e delle colline pisane; la commissione aveva anche lo scopo più immediato di provvedere al recupero della rocca di Pietracassa, l'ultima ancora in mano ai Gambacorta, e a una più sollecita prevenzione delle azioni dei fuorusciti. Ma l'operato del M. si fece assai sollecito dall'autunno 1397 quando Appiani, anziano e malato, privo del sostegno del primogenito Vanni, morto prima di poterlo sostituire al governo, si trovò di fronte a scelte difficili tra l'alleanza di Gian Galeazzo Visconti, a cui spesso si era avvicinato negli anni del governo, e i pressanti inviti di Firenze ad aderire a una politica che scongiurasse il dilagare in Toscana della potenza milanese.
Mosso proprio da tale ordine di preoccupazioni, il M. si allineò in questo periodo alle scelte del guelfismo toscano, dimostrandosi in sintonia con l'operato del gruppo dirigente lucchese, che aveva nei Guinigi il suo punto di riferimento. Fin dal giugno 1397 il M. si era adoperato per tentare un accordo tra Pisa e la guelfa Lucca, che erano in conflitto. L'urgenza della mediazione aveva evidentemente le sue ragioni nell'opportunità di indurre il signore di Pisa ad abbandonare la politica antifiorentina e a sottrarsi all'orbita viscontea, che, estendendosi verso la Toscana, ledeva inevitabilmente anche gli interessi di chi in Lunigiana aveva la propria giurisdizione: la regione era sottoposta a un gran numero di signori appartenenti alla stirpe malaspiniana che, non prevedendo il regime di successione del primogenito, subiva ora le conseguenze più gravi di una frammentazione politica all'interno della quale aveva buon gioco a inserirsi l'azione del duca di Milano. Ottenuto quel titolo dal re dei Romani Venceslao l'11 maggio 1395, Gian Galeazzo, nell'intento di estendere la propria influenza lungo la via che da Sarzana portava a Pontremoli, aveva cercato inizialmente di sottomettere i signori lunigianesi accampando ragioni di natura giuridica, quali il diritto di richiedere loro, che erano sempre stati diretti vassalli dell'Impero, un atto formale di subordinazione feudale. Incoraggiato dall'accondiscendenza di alcuni marchesi, il duca aveva tentato di allargare i confini della propria giurisdizione invadendo le terre del Malaspina. Rivelatasi tuttavia l'operazione troppo ardita per gli equilibri politici della regione, la minaccia era stata sventata dalla costituzione di una lega tra i feudatari lunigianesi, alla quale avevano aderito Leonardo marchese di Fosdinovo, Niccolò marchese di Fivizzano, Marco di Olivola - passato in seguito dalla parte di Gian Galeazzo - e Iacopo Appiani.
L'esigenza di intervenire sugli equilibri politici dell'alta Toscana spinse il M. a iterare tra l'estate 1397 e i primi mesi del 1398 le pressioni su Appiani perché venisse a patti con il fronte antivisconteo. La situazione sembrò volgere inaspettatamente a vantaggio dei suoi piani quando il signore di Pisa, nel gennaio 1398, scoprì e sventò una congiura di cittadini che, d'accordo con i capitani milanesi di stanza in città, avrebbe dovuto spodestarlo per sostituire al suo il diretto dominio milanese. Parve allora che davvero l'accordo con Milano fosse divenuto impossibile: il governo lucchese subito si mobilitò rivolgendosi al M., che peraltro riscontrò già informato dei fatti; nei giorni seguenti il M. fece la spola tra Pisa e Lucca, alla ricerca di una soluzione che coinvolgesse in una nuova alleanza anche Firenze, dove Lazzaro Guinigi, capo di fatto del regime lucchese, si recava per definire la questione con il governo di quella città.
Le pratiche si protrassero fino al mese successivo, ostacolate da reciproche recriminazioni; approfittò dello stallo il Visconti, inviando a Pisa Antonio Porro che seppe ricucire lo strappo con il locale signore. Raggiunta dall'eco della notizia di un possibile divorzio tra le sorti di Pisa e quelle di Gian Galeazzo, anche la Lunigiana era in quel mentre in grande fermento. I marchesi del Terziere, di Mulazzo, di Fosdinovo, di Fivizzano, insofferenti del regime di occupazione militare a cui la regione era sottoposta dalle truppe milanesi, si collegarono covando sentimenti di ribellione.
Il M. dal 1398, dopo la morte del fratello, era ormai unico signore delle proprietà lunigianesi prima condivise. Prezioso risulta l'elenco delle fortezze che, pur formalmente sottoposte alla giurisdizione del vescovo di Luni, erano possedute dal M. nel marzo 1398; a quell'epoca, ormai "vecchissimo e fragile" secondo il ricordo del cronista lucchese Giovanni Sercambi (II, p. 138), rappresentava pur sempre uno degli ultimi, benché periclitanti, argini all'espansionismo milanese, a cui Lucca avrebbe dovuto guardare con particolare rispetto.
Nessun'altra notizia rimane del M. dopo il 1398. Non si conosce il luogo della sua morte, ma probabilmente si trattava della Lunigiana, quasi certamente la rocca della terra di Virgoletta, dove fu stilato l'ultimo atto che lo riguarda.
Aveva sposato una Costanza, di cui non è noto il casato. Ne ebbe i figli Corrado, Ludovica (che sposò Iacopo Appiani, signore di Pisa), Tommaso, Fioramonte, Caterina, Gabriele, Elena, Guido, Isabella, Federico. Fece testamento e lasciò i figli, minori, sotto la tutela della moglie.
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