SPINI
– Secondo quanto scrisse, tra il 1416 e il 1427, un discendente (Doffo di Nepo Spini, in Archivio di Stato di Firenze, ASF, Carte strozziane, II serie, 13), l’origine di questa famiglia fiorentina risale agli anni tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, quando dalle nozze tra un Moscadi e una Scali sopravvisse un unico figlio che fu chiamato Spino in memoria di un familiare della donna.
Studi recenti attestano che uno Stoldo di Moscado apparve sulla scena politica fiorentina nel 1184, in occasione della sottomissione al Comune dei conti Alberti. Console di Calimala nel 1200, prese parte nel 1201 al giuramento con Siena e nel 1204 – ultima attestazione documentaria in vita che lo riguardi – fu testimone della tregua siglata tra Firenze e Pistoia. Tra i figli di Stoldo vi fu, in effetti, uno Spina che fu consigliere cittadino nel 1234 e morì, probabilmente, poco dopo.
Fu con le discendenze di Manetto e Ugo, i due figli dell’eponimo Spina (o Spino) di Stoldo, che gli Spini, assunto il nuovo cognome, diedero il via al periodo più fiorente della loro storia cittadina.
Dal dominus Manetto nacque, primo di quattro fratelli, uno dei membri più significativi per la storia del casato: Ruggeri detto Geri, cui si fa risalire la committenza del palazzo di famiglia.
Nell’area di S. Trinita, nel quartiere di S. Maria Novella, gli Spini possedevano case già dalla metà del Duecento (come testimonia il Liber extimationum, il registro che elencava i danni subiti dalle famiglie guelfe ai beni di loro proprietà negli anni del regime ghibellino, 1260-66): Ugo e Manetto Spini videro danneggiati in questa zona sette dei loro immobili, almeno tre dei quali dovevano essere in prossimità del palazzo. Una decina di anni più tardi, il 29 maggio 1277, Manetto vendeva alcune case con annessi di sua proprietà all’abate di S. Trinita, per farvi edificare un ospedale per i poveri. L’importo che Manetto avrebbe dovuto ricevere dall’abate fu detratto da una somma più cospicua che egli, a sua volta, doveva corrispondergli per immobili acquistati insieme al fratello Ugo, in particolare «pro domo, terreno et re positi in capite pontis Sancte Trinitatis», (ASF, Diplomatico Santa Trinita, 29 maggio 1277). Alla vendita presero parte anche Tegghiaio del dominus Jacopo della Scala a nome del monastero, e domina Gemma, moglie di Manetto Spini. In tale area e in tale acquisto si tende a riconoscere le origini del palazzo di Geri e il sito su cui venne edificato (ma può anche darsi che il terreno acquistato da Ugo e Manetto fosse destinato ad ampliare i beni e il palazzo che già i due fratelli lì possedevano). Dieci anni dopo, questi immobili necessitavano di interventi di ripristino: Giovanni Villani ricorda un’esondazione dell’Arno del 5 dicembre 1288 così violenta da far «ruvinare palazzi e case degli Spini e de’ Gianfigliazzi, ch’erano di costa al ponte a Santa Trinita» (Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, 1990-1991, I, I, CXXVI, p. 490). Se almeno dal XIII secolo le proprietà cittadine degli Spini si concentravano nell’area tra borgo Ss. Apostoli, piazza S. Trinita e via del Parione, anche nei secoli successivi i discendenti di Geri e della sua casa continuarono a rispettare questa tendenza, senza mai allontanarsi dalla zona degli avi.
Geri ebbe un ruolo centrale nella storia politica cittadina tra Due e Trecento, prosperando al tempo in cui Firenze e i suoi uomini d’affari godevano di una fama di vastissimo respiro, e in cui le loro grandi compagnie, bancarie e mercantili, dominavano sui mercati internazionali, prestavano e riscuotevano crediti in gran parte d’Europa. Rapporti tra la società degli Spini (prima legati agli Scali, poi ai Mozzi) e il Papato sono documentati almeno dalla prima metà del Duecento, ma fu proprio durante il pontificato di Bonifacio VIII che il sodalizio tra Spini e tesoreria papale si fece più stretto. Con l’elezione a papa di Benedetto Caetani (1294), di cui erano già stati agenti al tempo del cardinalato, gli Spini, oramai staccatisi dai Mozzi e costituitisi in compagnia a sé, aumentarono il loro potere presso la Curia. Appena eletto al soglio pontificio, Bonifacio VIII congedò infatti tutti i banchieri della camera apostolica conservando solo le società dei Mozzi, degli Spini e dei Chiarenti; ma il ruolo e l’importanza attribuiti agli Spini erano, secondo Robert Davidsohn, ben superiori a quelli delle altre due compagnie. In seguito ai fatti di Anagni (1303) e alla sconfitta di Bonifacio VIII, la società degli Spini subì dure ripercussioni.
Villani rammentava Geri Spini «e la sua compagnia» come «mercatanti di papa Bonifazio, e del tutto guidatori» (Nuova Cronica, cit., II, IX, 43, p. 573). Sul piano politico, invece, un altro cronista, Dino Compagni (Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di G. Luzzatto), individuava in Geri uno dei più autorevoli rappresentanti della fazione guelfa: sostenitore di Corso Donati e consorte di quel Piero Spini definito appunto «masnadiere de’ Donati» (I, 22, pp. 30 ss.) che, nel 1300, nei disordini seguiti ai festeggiamenti del Calendimaggio, aveva ferito uno dei Cerchi, suoi nemici, tagliandogli il naso con un colpo di spada. Geri, insomma, emerge tra le pagine di Compagni come un uomo influente anche in virtù della protezione che il favore papale gli garantiva. Addirittura Compagni lo riteneva uno dei «cittadini colpevoli della distruzione della città» (II, 22, p. 65). A complemento di una tale fama, la celebrità di cui Geri godeva presso i contemporanei toccò anche un genere letterario meno ufficiale della cronachistica, ma non meno significativo: egli è infatti il protagonista di una novella del Decameron, la seconda del sesto giorno, dove Boccaccio, sottolineando la considerazione che di lui aveva Bonifacio VIII, lo mostrava nell’atto di ospitare gli ambasciatori del papa nel suo palazzo di famiglia presso la chiesa di S. Trinita.
Anche se vi fu una breve parentesi dalla fine del Duecento fino alla metà degli anni Trenta del Trecento in cui gli Spini, dichiarati magnati, furono esclusi dall’accesso alle cariche pubbliche, ciò non impedì loro di avere un ruolo di primo piano nelle vicende politiche della città, come proprio il caso di Geri dimostra.
Geri Spini sposò Oretta di Obizzo Malaspina, dalla quale, stando al ricordo quattrocentesco di Doffo (ASF, Carte strozziane, cit.), ebbe sei figli nati probabilmente nei primi decenni del XIV secolo: Giorgio, Federigo, Luigi, Anfrione, messer Guglielmino, Albizzino. Non si hanno notizie significative su Giorgio, Federigo e Albizzino, mentre sono meglio documentati i casi di Luigi, Anfrione e Guglielmino. Quest’ultimo, il più giovane dei figli di Geri, fu dal 1348 pievano di S. Maria di Pacina e di S. Giusto in Piazzanese, oltre che priore di S. Maria a Peretola. Morì certamente dopo il febbraio del 1374, anno cui risale un testamento che dettò ormai malato.
Anfrione fu gonfaloniere di Compagnia nel 1357, priore nel 1359 e dei Dodici Buonuomini nel 1362. Il 5 dicembre 1363 dettò un testamento in cui lasciava erede di tutti i suoi beni il figlio Cristofano. Le estrazioni ai Tre Maggiori lo indicano già mancato nell’aprile del 1367; morì ucciso da un colpo di spada per mano del cugino Agnolo di Giovanni di Piero Spini, probabilmente per questioni di eredità: il fatto accadde in piazza S. Trinita, sull’angolo del palazzo Spini.
Cristofano di Anfrione, nipote di Geri (1360 ca.-1414), fu certo il personaggio quattrocentesco più illustre tra i suoi diretti discendenti. Dotato come lui di carisma politico e talento per gli affari, Cristofano ebbe larga notorietà presso la cittadinanza e fu spesso inviato in missioni diplomatiche; come suo nonno faceva parte del nucleo della classe dirigente cittadina, e rappresentava un caso di autentica e personale partecipazione alla politica del suo tempo. Iscritto all’arte del Cambio dal luglio del 1381, viene definito talora «banchiere» dalle fonti coeve. Sebbene non risulti che egli avesse una preparazione giuridica, il titolo di cavaliere acquisito nel 1391 e la lunga esperienza politica maturata negli anni fecero sì che la repubblica si avvalesse con frequenza della sua vis retorica. Sul finire del XIV secolo prese parte a diverse ambasciate per conto di Firenze: tra queste, nel 1389 fu inviato al re di Francia; nel maggio del 1394, con Francesco di Neri Fioravanti, fu ambasciatore a Pisa; nell’agosto del 1395, la Signoria lo inviò presso Gian Galeazzo Visconti insieme a Maso degli Albizzi, Francesco Rucellai, Baldo della Tosa; nel marzo del 1397 fu eletto ambasciatore a Genova con Bartolomeo Popoleschi e, dopo un anno esatto, fu inviato presso il papa con Bartolomeo dell’Antella.
Nei decenni che separano Geri Spini da Cristofano, il casato passò attraverso una grande proliferazione di rami e discendenti, mantenendo tuttavia una straordinaria continuità di azione. Gli Spini proseguirono la loro attività bancaria: membri della famiglia furono iscritti alle Arti del Cambio e di Calimala, vennero inviati come ambasciatori, parteciparono al governo e ai consigli, acquistarono beni immobili in città e nel contado.
Quando gli Spini decaddero dal rango di magnati e vennero ‘fatti’ di popolo, si riaprirono loro anche le porte dell’esecutivo e l’accesso agli uffici pubblici, in particolare ai cosiddetti tre uffici maggiori (cioè le cariche di gonfaloniere di Giustizia e Priori, di gonfaloniere di Compagnia e dei Dodici Buonuomini). La massima partecipazione alle cariche di governo si riscontra, in età albizzesca, tra gli anni Novanta del Trecento e gli anni Venti del Quattrocento.
Nel Catasto del 1427, sedici nuclei fiscali facevano capo alla casata degli Spini nel quartiere di S. Trinita e, di essi, almeno sette risiedevano nel palazzo Spini; gli altri nuclei dimoravano comunque in prossimità di esso, tra il Parione e S. Trinita, come si evince dalle confinazioni. Nei rilievi fiscali che seguirono, per l’intero corso del Quattrocento, il palazzo continuò ad apparire diviso in più spazi abitativi e sempre occupato da individui della casa Spini, se pure con qualche redistribuzione delle quote proprietarie.
Gli Spini acquistarono anche beni nel contado, a ovest di Firenze, poderi principalmente, che cercarono di trasmettere per via ereditaria il più integralmente possibile (evitando cioè di frazionare lo stesso bene tra più eredi, ma destinando a ciascun erede, fin dove possibile, un bene unitario), secondo una ripartizione abbastanza continuativa e precisa.
Il ramo di Manetto concentrava così i propri beni nella zona di Peretola e dell’Osmannoro, appena fuori dalla città, mentre quello di Ugo raggruppava le sue proprietà nella zona di Pontorme ed Empoli. Oltre a questa bipartizione territoriale, si coglie tra i due rami anche una bipartizione dei ruoli pubblici: se pure, da entrambi i lati del casato, molti continuassero a esercitare la professione di banchiere, le cariche pubbliche e di rappresentanza si concentravano più che altro dal lato di Manetto (come rivela il caso di Cristofano), mentre quelle bancarie e commerciali facevano più frequentemente capo ai discendenti del ramo di Ugo.
Nell’ottobre del 1414, Cristofano morì senza figli maschi. Gli furono tributate dalla Repubblica solenni onoranze funebri, come si conveniva a un grande rappresentante della dirigenza albizzesca: privo di diretti discendenti, nel testamento lasciò gran parte dei suoi averi (eccetto il palazzo di famiglia e alcuni immobili che non dovevano uscire dalla casa Spini perché ne rappresentavano la memoria) alla primogenita Lisa, sposata a un Guasconi, e al piccolo Anfrione, suo unico nipote se pure non cognominato Spini.
Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, negli stessi anni di attività di Cristofano, ebbero un ruolo rilevante tra gli Spini dal lato di Ugo i due fratelli Scolaio e Doffo di Nepo, che a lungo operarono insieme sul piano economico e furono soci nel banco Spini.
Scolaio di Nepo sposò Andrea di Lorenzo Frescobaldi, dalla quale ebbe almeno nove figli. Il suo nucleo familiare, come quello di Doffo, lo indicava all’inizio del Quattrocento tra i capofamiglia maggiormente tassati nel quartiere di S. Maria Novella. Iscritto all’Arte di Calimala dal 1377, ne fu console almeno sette volte tra il 1394 e il 1410. Come già il padre e il fratello Doffo, Scolaio partecipò attivamente alla vita politica della città: spesso inviato come ambasciatore per il Comune di Firenze, fu estratto cinque volte per l’esecutivo tra il 1387 e il 1406, ed ebbe incarichi sul territorio. Fu il principale artefice dell’ampliamento dei possessi comitatini e cittadini del suo ramo: è a lui che si deve l’acquisto, nel 1385, del podere al Cotone che avrebbe costituito, negli anni, la più nota delle proprietà degli Spini. Scolaio morì a Pisa nel 1412, quando ancora l’attività bancaria prosperava. Pochi giorni dopo di lui mancarono anche i suoi figli Jacopo, al tempo vescovo di Volterra, e Tedaldo, e nel 1414 Antonio, rettore dell’Ospedale di Pisa. Alla morte di Scolaio l’eredità venne distribuita tra i figli adulti e i fratelli ancora in vita (Doffo, appunto) incaricati di proseguirne le attività. Al Catasto del 1427, i tre figli Lorenzo, Giovanni e Agnolo, cui si riduceva la sua discendenza, erano iscritti all’Arte del Cambio e di Calimala, ma a differenza del padre, per nessuno dei tre si riscontra traccia di una, anche modesta, carriera in politica o nelle arti.
Per i figli di Scolaio gli anni Trenta del Quattrocento rappresentarono probabilmente il periodo peggiore, risentendo della sorte fallimentare toccata alla compagnia del padre. Gli effetti della bancarotta ricaddero principalmente sul primogenito Lorenzo, mentre Agnolo riuscì, nel tempo, a recuperare una certa stabilità economica, grazie alla quale poté ricomporre la proprietà di alcuni beni familiari da tempo frazionati. I figli di Agnolo beneficiarono di un rinnovato accesso alle cariche pubbliche solo in seguito alla cacciata di Piero di Lorenzo dei Medici alla fine del XV secolo, forse in ragione di un legame più stretto con il ramo dei Medici popolani.
Ma è Doffo di Nepo (ASF, Carte strozziane, cit.) la fonte della maggior parte delle informazioni genealogiche – che appare come un secondo leader del casato nei primi decenni del Quattrocento; un leader, tuttavia, non fortunato.
Se la morte di Cristofano, con cui venne meno l’elemento politicamente più rappresentativo della casa, segnò il primo indebolimento per la famiglia, pochi anni dopo un altro scossone investì gli Spini: nel 1420 il banco di Doffo – già banchiere papale insieme con Scolaio, e spesso scelto per missioni diplomatiche in Curia – dichiarò fallimento, e fu sostituito dai Medici nella posizione di privilegio presso il papa.
Alla bancarotta seguì, nel decennio successivo, la disfatta politica: come famiglia albizzesca gli Spini subirono le conseguenze del ritorno di Cosimo dei Medici dall’esilio nel settembre del 1434 e un cugino di Doffo, Bartolomeo Spini, fu addirittura tra gli esiliati. Doffo stesso, che fino ad allora aveva ricoperto diverse cariche, non rivestì più alcun ufficio fino alla fine dei suoi giorni.
In precedenza, sino agli anni Trenta, aveva infatti percorso una carriera importante. Iscritto all’Arte del Cambio, venne eletto alle cariche dell’arte, almeno otto volte tra il 1405 e il 1420; fu spesso in carica negli uffici per il territorio (capitano di Arezzo nel 1413, podestà di Barbialle nel 1423, capitano della montagna pistoiese nel 1427, vicario del Valdarno inferiore nel 1429 e infine vicario della Val di Serchio e di Vico nel marzo del 1431, proprio negli anni caldi della guerra contro Lucca). Per gli uffici dell’esecutivo fu eletto per i Dodici Buonuomini nel 1404, gonfaloniere di Compagnia nel 1407 e nel 1410 e priore nel 1405 e nel 1411; l’ultima carica ricoperta fu quella di gonfaloniere di Giustizia nel 1432.
Padre di due maschi e almeno cinque femmine, Doffo – provato dalla bancarotta – fu costretto a combinare per le figlie matrimoni modesti e che talora ne comportarono l’espatrio: la primogenita Sveva sposò nel 1427 Amoretto di Donato da Borgo San Lorenzo, mercante abitante a Valenza; Nanna sposò nel 1428 Francesco di Pagolo Falconieri residente ad Avignone. Insieme con Sveva e con Nanna, sulle galee salpate alla volta di Spagna e Francia, c’erano i due figli maschi di Doffo, Antonio e Niccolò, diretti all’estero in cerca di fortuna. Anche le ultime tre figlie (Gostanza, Checca e Caterina) furono date in spose a membri della ex aristocrazia e comunque esclusi dai giochi politici.
Il tracollo economico e politico fu infine definitivamente sancito dalla diffamazione sociale quando, nel 1432, Doffo fu accusato di sodomia, denunciato pubblicamente e costretto a pagare una forte multa: il suo passato glorioso di banchiere della Camera apostolica, ufficiale e ambasciatore della Repubblica, venne spazzato via insieme alla ricchezza e al ‘capitale sociale’ nel giro di pochi anni.
L’esito più drammatico della situazione di Doffo lo si coglie, nel tempo, dalle dichiarazioni fiscali dei suoi eredi: suo figlio Antonio nel 1442 si dichiarò «miserabile e senza alcuna sustanzia, di età di anni 31 et è di fuori di Firenze e sta ad altrui per sostentare ai bisogni e alla vita sua» (ASF, Catasto, 619, c. 147r.). Privo di qualunque forma di sostegno, Antonio chiedeva di essere messo a catasto con la madre. Oltre a dichiararsi miserabile, si trovava nell’impossibilità di adire qualunque carica politica: le due volte in cui venne estratto per il Priorato e per i Dodici Buonuomini l’elezione fu invalidata per insolvenza fiscale. Nel catasto del 1480, Antonio, ormai ultrasettantenne, era il solo erede diretto di Doffo ancora in vita: con lui ormai in miseria si esauriva la discendenza del banco Spini, un tempo tra i maggiori antagonisti dei Medici presso la Camera apostolica.
La morte di Cristofano e la disfatta di Doffo segnarono in negativo il destino della casa: il passaggio dal regime albizzesco a quello mediceo finì di compierne la sorte generando, almeno nei primi anni, l’esclusione degli Spini (e di molti altri membri della vecchia classe dirigente) dai ruoli di governo. Complessivamente tutti i rami della famiglia, pur riuscendo a sopravvivere, videro indebolirsi drasticamente il loro potere economico e politico.
Tra i discendenti di Manetto, solo gli eredi di Luigi di Geri si distinsero, nel corso del Quattrocento, per aver assunto via via una posizione filomedicea e mantennero viva la tradizionale partecipazione al governo cittadino che contraddistingueva gli Spini. Luigi di Geri di Manetto aveva sposato alla metà del Trecento Bartolomea Cocchi: il figlio Agnolo, il solo che ci sia noto, vissuto nella seconda metà del secolo, svolse un’eccellente carriera politica. Compreso tra i cittadini più abbienti nel 1403, Agnolo ricoprì uffici da onore e da utile e incarichi nell’esecutivo, e fu spesso ambasciatore per il Comune. Dalle sue nozze con Lucietta Bruni nacquero Bernardo (che seguì le orme del prozio Guglielmino, come pievano di S. Giusto, poi canonico del duomo e membro del capitolo della cattedrale), Luigi (che, sposato dal 1415 a Benedetta Nardi, morì nel 1432 senza lasciare figli maschi) e Guglielmino, unico cui si deve la sopravvivenza del ramo. Guglielmino fu priore nel 1423, dei Dodici l’anno successivo e fece parte della Balìa del 1434, che votò il rientro di Cosimo dall’esilio. Il solo maschio che Guglielmino ebbe dalla moglie, Francesca di Banco, fu Agnolo. A capo di una numerosa famiglia costui ricoprì spesso incarichi pubblici e governativi, perseguendo una certa familiarità con i Medici fatta di questue e raccomandazioni, e fu coinvolto personalmente nell’impresa marittima inaugurata da Firenze al principio degli anni Venti. Agnolo morì nel 1481: la sua discendenza si ridusse di lì a poco ai nipoti, figli di suo figlio Bernardo (morto nel 1489).
Tra gli Spini attivi sul finire del XV secolo troviamo anche i cugini di Agnolo, discesi dalla linea di Giovanni di Giorgio di Geri: Giorgio di Giovanni e Antonio di Giovanni. Antonio, detto Pecorella, sposato a Maddalena Spinelli, esercitò la professione di banchiere. Alla sua morte (26 giugno 1428), l’attività fu proseguita dagli eredi: prima dai figli maschi Giovanni e Cristofano, poi dai nipoti figli di Giovanni (morto nel 1462) e di Caterina Villani, in particolare Cristofano (1442-1494) che mantenne ottimi rapporti con Lorenzo il Magnifico e fu fattore e collaboratore di Gherardo Canigiani e di Tommaso Portinari presso le filiali medicee di Bruges e di Londra.
Nel caso di questi Spini, all’orientamento marcatamente albizzesco che aveva ispirato e definito la politica di Cristofano e di Doffo negli anni a cavallo tra Tre e Quattrocento, contribuendo alla temporanea esclusione politica delle loro discendenze, fece da contraltare uno stretto coinvolgimento con individui di parte medicea negli anni seguenti.
Principale mezzo per concludere e suggellare questo tipo di connubio fu il legame matrimoniale. I vincoli matrimoniali stretti dagli Spini del lato di Manetto nel corso del XV secolo non lasciano dubbi: i nomi Borromei, Spinelli, Della Stufa, Alessandri, Lapi tra i parenti di più recente acquisizione, rivelano una stretta contiguità con l’oligarchia medicea. Dal lato di Ugo invece, soprattutto a seguito della bancarotta di Doffo, il legame con la classe dirigente andò progressivamente scemando. Se pure anche da questo lato vi furono Spini che presero parte al governo cittadino o rivestirono incarichi diplomatici di rilievo, le linee discese da Ugo, tutte ancora attive nel Quattrocento, non godettero della stessa fortuna degli eredi di Manetto: la divisione delle eredità tra più titolari, il fallimento economico, la frammentazione del patrimonio, spesso anche le più imponderabili questioni personali non consentirono a tutti i rami di perpetuarsi con lo stesso favore.
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