Sport e politica: identità nazionali e locali nella società moderna
Il legame fra sport e politica è talmente stretto che è assurdo ipotizzare che le due sfere si possano dividere, tenendo la politica fuori dallo sport. Le prospettive attraverso cui tale legame può essere preso in considerazione sono diverse. In questa sede se ne esamineranno sei. La prima riguarda il modo in cui i principi organizzativi e la diffusione storica di alcune discipline sono serviti a promuovere particolari forme di identificazione locale e nazionale. La seconda considera il rapporto fra sport e forme di identità nazionale e locale più fortemente connotate dal punto di vista politico, in particolare i nazionalismi militaristici. Nella terza parte, si discuteranno alcuni processi di esclusione determinatisi nel mondo sportivo in riferimento a classe, genere e razza, e la loro connessione a particolari forme di identità nazionale e locale. Come quarto aspetto si valuterà come il professionismo sportivo si possa armonizzare con sentimenti di identità nazionale e locale. Nel quinto punto saranno messi in relazione con le identità politiche gli aspetti internazionali delle competizioni sportive. Infine si approfondirà quali riflessi sulle identità nazionali e locali abbiano, nello sport attuale, la commercializzazione e la globalizzazione.
Sono i principi fondamentali stessi su cui si basa lo sport moderno ‒ la struttura basata su regole e la logica competitiva ‒ a promuovere una sua forte interazione con le identità nazionali e locali. Per definizione gli sport moderni devono fondarsi, piuttosto che su mutevoli tradizioni locali, su regole universalmente riconosciute che possano essere apprese da chiunque in modo che ciascuna disciplina possa essere praticata ovunque, in ogni ambito culturale. Durante l'attività sportiva culture diverse entrano in contatto, cosicché inevitabilmente lo sport diventa veicolo di presentazione di caratterizzazioni locali e nazionali ad altre comunità.
I protagonisti delle competizioni sportive, siano individui o squadre, in qualche modo rappresentano entità geopolitiche, vale a dire popolazioni di porzioni di territorio (città, regioni, Stati), che gareggiando contro altre località o nazioni sviluppano un senso di identificazione collettiva più forte. In sport come il calcio, il cricket, il rugby, l'hockey o la pallavolo, i singoli giocatori appartengono a squadre che riconoscono la loro 'casa' in un determinato ambito nazionale o cittadino, ma anche in sport più individuali, quali il ciclismo, lo sci o il golf, viene sottolineata la nazionalità dei partecipanti e, su questa base, l'impegno degli atleti assume valenza rappresentativa.
Il sistema sportivo internazionale sottolinea queste identità, particolarmente quelle a livello nazionale. Le organizzazioni sportive continentali e mondiali si configurano tipicamente come assemblee di associazioni nazionali. Così il CIO, la FIFA e l'ICC riuniscono le federazioni dei vari Stati rispettivamente delle discipline olimpiche, del calcio e del cricket, e la partecipazione alle competizioni internazionali che organizzano è su base nazionale. Esempio ne sono i Giochi Olimpici, dove individui e squadre si presentano per nazioni, non singolarmente o per corporazioni. L'azione di ogni organizzazione sportiva nazionale è improntata in riferimento a fattori regionali, quindi riconosce e utilizza le strutture sociali e le identità culturali locali. I membri delle associazioni nazionali a loro volta si rifanno a particolari forme di identità locale.
Lo sviluppo storico degli sport moderni e la loro diffusione internazionale sono avvenuti attraverso la costruzione e l'espressione di identità di questo tipo. Molti furono fondati dagli inglesi nell'ambito di quella games revolution che investì le Isole Britanniche alla fine del 19° secolo. Il rugby, il cricket e alcune discipline dell'atletica leggera furono poi esportati nei domini britannici in Africa, Asia, Caraibi, America del Nord, Australia, Nuova Zelanda da funzionari delle amministrazioni, missionari cristiani, personale militare e coloni. In maniera diversa, il gioco del calcio si diffuse in Europa e America Latina soprattutto grazie ai contatti culturali e commerciali inglesi.
Nell'America del Nord e nelle colonie britanniche lo sport ebbe un ruolo importante nell'affermazione e nella crescita di forti sentimenti di identità locale e nazionale tra le popolazioni bianche dominanti. Lo storico J.A. Mangan (1986) ha messo in luce i termini fortemente imperialistici con cui gli inglesi vedevano lo sport, strumento attraverso il quale i muscular Christian gentlemen venivano addestrati allo stile di vita britannico e preparati al comando militare ed economico. Alle popolazioni delle colonie, cioè alle razze non bianche, era di norma vietato giocare contro i bianchi, sebbene in alcuni casi, specialmente nel subcontinente indiano, ai membri dell'élite aristocratica venissero insegnati i benefici civilizzanti di giochi come il cricket.
Il potere politico e pedagogico dei regimi coloniali è stato così forte da portare alla marginalizzazione e alla scomparsa delle forme locali di cultura fisica, in favore delle moderne discipline sportive. Questo è particolarmente evidente nell'Africa coloniale: in Kenya, per es., la corsa e il salto tradizionalmente praticati dalle popolazioni indigene furono accantonati per far posto agli sport britannici importati. Tuttavia allo stesso modo in cui il Weltanschauung inglese non fu assimilato incondizionatamente nelle colonie e nel Nuovo Mondo, anche nei confronti delle pratiche sportive britanniche le popolazioni locali adottarono un atteggiamento critico e lo sport permise il perpetuarsi di forme secondarie di identità locale e nazionale in opposizione a quelle delle élites bianche. In molti casi la pratica sportiva ha addirittura rappresentato un mezzo di lotta sociale e di rivalsa culturale. In Brasile, per es., le comunità di colore oppresse appresero gli sport dei bianchi dominatori, in particolar modo il calcio, e presto riuscirono a praticarli a livello agonistico. Alla diffusione del gioco tra i non bianchi e alla loro assoluta bravura tecnica non si poté opporre resistenza e ciò portò al loro inserimento nelle squadre di massimo livello dagli anni Venti in poi.
Il sociologo Roland Robertson (1922) ha coniato il termine glocalization per descrivere il modo in cui pratiche e idee diffuse a livello planetario siano state assorbite in specifici contesti culturali. Per quanto riguarda lo sport questo ha comportato l'adattamento a realtà locali di regole e di significati universali, in genere di derivazione britannica. In alcuni casi sono state le popolazioni bianche a impadronirsi di quelle tecniche sportive per dar vita ai propri codici: è quanto è avvenuto negli Stati Uniti, dove i modelli di calcio britannico sono stati trasformati nei colleges fino a creare il football americano, nel quale si esprime il nazionalismo aggressivo e spesso violento della nuova nazione, o in Australia dove i coloni dello Stato di Victoria forgiarono il 'footbal australiano', per adattarlo al duro terreno e agli estesi campi di gioco degli antipodi. Entrambi gli sport accentuarono poi dal tardo Ottocento la loro specificità nazionale e locale. Il caso più interessante, tuttavia, è probabilmente quello irlandese. Alla fine del 19° secolo, nell'ambito del tentativo operato da figure di spicco della comunità cattolica di affermare una distinzione culturale e nazionale nei confronti degli inglesi che a quel tempo controllavano il paese, gli sport britannici furono rifiutati e fu promossa la pratica dei giochi 'celtici', come il calcio gaelico e i lanci. Si deve peraltro notare che per stabilire le regole e per organizzare lo svolgimento di tali giochi le autorità sportive irlandesi fecero ampiamente ricorso ai modelli inglesi.
Ci sono altri esempi, di minore valenza nazionalistica, che mostrano come antiche popolazioni indigene abbiano contribuito in modo determinante allo sviluppo di particolari sport. In Canada la popolazione nativa ha fornito il prototipo per il lacrosse, una disciplina che riveste un ruolo di rilievo nel programma sportivo del sistema educativo nazionale. In India l'hockey si sviluppò per via della preferenza accordata a questo sport da molte delle élites locali: queste giudicavano troppo rudi altre attività come il calcio e il rugby, che oltre tutto comportavano la necessità di un contaminante contatto fisico con la palla di pelle.
Più comunemente sport di squadra come il calcio e, in minor misura, il rugby e il cricket furono adottati dalle culture locali. Come in Inghilterra, le squadre vennero a rappresentare particolari località, gruppi etnici o classi sociali. Nella struttura organizzativa e nello stesso stile di gioco dei club, oltre che nella rivalità fra questi, si rifletteva l'identità culturale di giocatori, dirigenti e tifosi. Per gli sport più popolari furono istituiti campionati per promuovere periodici e vantaggiosi confronti tra squadre di posti diversi. Nel Nuovo Mondo questi tornei furono spesso ristretti a regioni o a Stati all'interno di una stessa nazione; mentre in Europa essi assunsero più spesso carattere nazionale. Gli avvenimenti sportivi più sentiti divennero i derby, scontri tra squadre della stessa città o di aree attigue. Specialmente nel calcio si dimostrò presto il vantaggio di fondare in aree confinanti due o più club, capaci di accendere rivalità locali e attrarre grandi folle.
I sociologi, seguendo la traccia indicata da Emile Durkheim, hanno cercato di analizzare come gli eventi sportivi siano esempi di rituali attraverso i quali specifiche comunità entrano in contatto e allacciano legami culturali, e come lo sport fornisca a ogni comunità una serie di riti attraverso cui può evidenziare la sua identità e comunicare la sua unità a un pubblico locale, nazionale o internazionale. Come le feste religiose, i rituali dello sport permettono a ciascuna collettività di celebrare sé stessa, rafforzando il sentimento di identità condivisa tra partecipanti e spettatori. Il simbolismo è la chiave di tutto. I singoli atleti incarnano, e rappresentano, la località o la nazione, sono letteralmente avvolti nei suoi colori. Sono i singoli a vincere una medaglia d'oro olimpica o la finale della Coppa del Mondo, ma sono il club (che ha sede in una località) o la nazione a essere accreditati della vittoria nei libri di storia. Lo stadio è un microcosmo della struttura sociale: all'élite delle persone illustri sono garantiti i posti migliori e il loro status è vieppiù sottolineato quando gli atleti vengono loro presentati prima della partita; la borghesia paga per avere buoni posti nelle tribune; le classi operaie sono collocate alle estremità, lontane dal centro dell'azione. Un'acuta analisi di Lanfranchi (1991) esplora le connessioni storiche e sociali tra comunità e sport, nel caso specifico il calcio.
Negli incontri internazionali è issata la bandiera nazionale, mentre l'inno è suonato e cantato dai giocatori e dal pubblico. L'evento è diffuso dai media assieme a una telecronaca o una radiocronaca che mira a stimolare l'interesse dell'intera nazione, spingendo lo spettatore o l'ascoltatore a seguire lo svolgimento dell'incontro alla stregua di un sostenitore della patria. L'avvenimento stesso implica varie dimensioni psicosociali, non ultima la capacità di generare tensioni emotive che spaziano dall'ansia acuta all'estatica celebrazione. La condivisione di queste emozioni tra spettatori e giocatori durante lo scorrere dell'evento serve a intensificare la loro solidarietà collettiva.
Nel consolidamento delle moderne concezioni di identità nazionale hanno assunto un ruolo fondamentale tre elementi a carattere unitario: la creazione di media e di sistemi di comunicazione, la promozione della lingua e l'introduzione del sistema di educazione. Negli Stati occidentali e nelle loro colonie questo triplice processo, a fine Ottocento-inizi Novecento, ha coinciso con l'affermazione degli sport moderni (come il calcio o le discipline olimpiche), che hanno così svolto una parte importante in ognuna di queste sfere: fornendo contenuti ai media, arricchendo di un nuovo gergo il lessico nazionale e occupando una rilevante porzione del curriculum scolastico con l'educazione fisica.
Studiosi di etnie e di nazionalismi hanno riservato grande attenzione al concetto di 'comunità immaginaria' espresso da Benedict Anderson (1983) per descrivere il processo per cui persone che vivono in parti diverse di una nazione o del mondo hanno un (immaginario) senso di identificazione con gli altri, anche se tale comunità non si esplicherà mai in incontri diretti tra questi differenti gruppi. Gli effetti a lungo termine delle migrazioni mostrano come la forza della comunità immaginaria tenda sempre più a estendersi oltre il livello nazionale. Lo sport fornisce un fondamentale spazio simbolico perché questo tipo di sentimenti si instauri e si riproduca. In altre parole, guardando e applaudendo i calciatori e i maratoneti italiani, una forma di comunità immaginaria si forma, per es., tra italiani nati e cresciuti a Roma e italo-britannici di terza generazione nati e vissuti nel nord-est della Scozia.
Per alcuni gruppi etnici, la comunità immaginaria è quasi interamente disseminata nel mondo e quindi priva di qualsiasi riferimento territoriale. Sebbene la 'nazionale' nello sport rappresenti sempre ufficialmente uno Stato specifico, gran parte dei giocatori e dei sostenitori della squadra spesso vanta solo una remota connessione a quell'entità geopolitica. Per es., la Repubblica d'Irlanda ha meno di quattro milioni di abitanti, ma nell'America Settentrionale oltre cinquanta milioni di persone dichiarano di avere un legame ancestrale con la razza irlandese. Molti dei giocatori di calcio dell'Irlanda sono nati nel Regno Unito, ma hanno i requisiti per rappresentare la Repubblica Irlandese grazie ai loro antenati. è in questo senso che dopo la finale della Coppa del Mondo del 1994, la presidente Mary Robinson poté affermare che il suo essere rappresentante del popolo irlandese superava i confini nazionali e si estendeva a tutto il mondo. Simili forme di dispersione dell'identità etnico-nazionale si trovano nel tifo assicurato alle rappresentative di Italia, Grecia, Turchia, India, Pakistan e Israele.
L'esplicarsi delle forme di identità sociopolitica generalmente richiede un gruppo 'altro' contro il quale una specifica collettività può definire sé stessa. Questo secondo gruppo possiederà molti dei valori e dei simboli avversati dal primo. Il nazionalismo moderno, perciò, dà vita a forme di opposizione antagonistica o binaria tra nazioni a un livello che spesso precipita in violenze o conflitti militari. Le competizioni sportive forniscono un contesto in cui questa opposizione viene prepotentemente messa in scena, dato che l''altro' è presente in maniera tangibile, in termini di rappresentazione e simbolismo individuale. Sport, nazionalismo e forti opposizioni sono, perciò, fortemente interconnessi.
Il rapporto storico fra sport e violenza militaristica e nazionalistica è molto controverso. Le contraddizioni si incarnano nella figura stessa di Pierre de Coubertin, fondatore delle moderne Olimpiadi, che da una parte considerava lo sport un mezzo per promuovere nella gioventù francese la disciplina militare nell'ambito delle crescenti tensioni internazionali della belle époque, dall'altra nella sua visione dei Giochi come occasione di contatti internazionali e di interscambi culturali puntava sul potenziale pacificatore dello sport stesso. Questo certamente presenta alcuni aspetti internazionalisti di rilievo. Consente fra l'altro di dare sfogo con una prospettiva incentrata sul gioco a rivalità locali e nazionali che potrebbero avere esiti ben più violenti. In alcune regioni dell'Africa dilaniate dalla guerra, soprattutto nelle zone occidentali e centrali, diverse organizzazioni di volontariato e altre agenzie non governative utilizzano le competizioni sportive per cercare di instaurare migliori rapporti tra fazioni ed etnie rivali. In alcune occasioni lo sport è riuscito a fermare conflitti militari, sebbene temporaneamente. Per es., durante la guerra del Biafra in Africa, gli scontri si interruppero quando nel paese arrivò Pelé. Durante la Prima guerra mondiale, più volte a Natale, in una tregua delle ostilità, vennero organizzate nella 'terra di nessuno' partite di calcio tra squadre di nemici, come espressione della loro 'buona volontà'.
In Europa, tuttavia, la fondazione e l'istituzionalizzazione dello sport moderno hanno avuto un forte legame con la strategia militare nazionalistica. La letteratura di propaganda bellica ha spesso utilizzato metafore sportive per descrivere conflitti militari, specialmente nelle apologie poetiche durante la Grande Guerra. Nella maggior parte degli Stati nazionalistici le forze armate manifestano un forte interesse per lo sport, a livello sia di giochi di squadra sia di preparazione e igiene fisica attraverso gli esercizi ginnici. Nelle discipline in cui non vige il professionismo, molti degli atleti di spicco appartengono alle forze armate, avvalendosi della possibilità di seguire un duro regime di allenamento e di contare su risorse istituzionali volte a promuovere i meriti sportivi.
È famosa la frase di George Orwell secondo cui "lo sport è una guerra senza gli spari". Tuttavia, la relazione tra lo sport e il nazionalismo xenofobo o i reali conflitti militari è estremamente variabile e dipendente dal contesto. Nei periodi di mobilitazione nazionale e di militarizzazione della società, lo sport è sempre stato un simbolo di coraggio e forza. Negli anni Trenta, l'atletica leggera, il pugilato e il calcio rappresentavano le arene in cui le nazioni cercavano di affermarsi ai danni dei nemici emergenti, dimostrando la loro vitalità e la loro vigoria. I regimi fascisti in Italia e Germania presentavano gli atleti alla stregua di guerrieri della nazione. Ma anche in contesti democratici, più precisamente in Francia e Inghilterra fino al 1914, non sono mancate ideologie simili. Nell'era degli armamenti nucleari, la Guerra Fredda tra i sistemi capitalistici e comunisti si esplicava anche in ambito sportivo, in special modo nelle Olimpiadi e in tutte le altre occasioni importanti di gare. Più di recente, per la partita Iran-USA ai Mondiali di calcio di Francia 1998 i media internazionali hanno fatto ricorso a un lessico militaristico, sebbene si trattasse in realtà di un match di scarsa importanza.
Gli esempi di grave violenza politica connessa con lo sport rimangono piuttosto rari. Il caso più famoso è forse la cosiddetta 'guerra del pallone' scoppiata tra Honduras e El Salvador nel luglio del 1969. Agli scontri tra le opposte tifoserie seguì un conflitto militare che durò 100 ore, causando circa 6000 morti e 12.000 feriti. La lunga storia di antagonismo militare tra le due nazioni induce a pensare, a ogni modo, che i disordini sportivi siano stati un pretesto per la violenza successiva. Un ruolo notevole negli scontri civili e nella militarizzazione è stato svolto dallo sport nella ex-Iugoslavia. A una partita di calcio tra i serbi della Stella Rossa di Belgrado e i croati della Dinamo Zagabria, i tifosi, la polizia, i giocatori e gli arbitri rimasero coinvolti in una rissa di vaste proporzioni, che fu documentata dalla ripresa televisiva. Fu un detonatore di non poco conto per la guerra civile, dal momento che figure di spicco delle due tifoserie rivali, soprattutto il serbo Arkan, erano promotori di unità paramilitari.
In altre circostanze, la violenza si è manifestata durante eventi sportivi successivi a gravi conflitti politici o militari. Il più famoso di questi casi è forse rappresentato dalla sanguinosa partita di pallanuoto disputata tra URSS e Ungheria alle Olimpiadi di Melbourne nel 1956, subito dopo la repressione dell'insurrezione di Budapest da parte dei carri armati sovietici. È più frequente comunque che queste manifestazioni di violenza si verifichino lontano dai campi di gioco. L'esempio in assoluto più grave in questo senso fu l'attacco palestinese alla squadra israeliana durante le Olimpiadi di Monaco del 1972, terminato con il tragico bilancio di 16 vittime (9 israeliani, 5 palestinesi, un ufficiale della polizia e un pilota di elicottero tedeschi).
Molto più spesso è possibile trovare elementi di antagonismo politico di matrice nazionalistica o regionalistica nelle violenze che coinvolgono i tifosi. Talvolta si tratta di opposizioni etniche o religiose, com'è evidente nel calcio scozzese fra i sostenitori dei due club di Glasgow: i Celtic, squadra con eredità irlandesi e cattoliche, e i Ranger, con tradizioni protestanti, unioniste e anticattoliche. Nell'Irlanda del Nord, alcune squadre di tradizione cattolica hanno dovuto chiudere o si sono iscritte al campionato di calcio dell'Eire, a causa delle violenze dei tifosi e dei disordini che immancabilmente scoppiavano fra la folla. Simili tensioni etnico-religiose e nazionaliste si palesano quando si affrontano squadre dell'area balcanica (Giulianotti 1999).
Molto spesso gli incontri internazionali sono l'occasione per far riemergere ataviche rivalità nazionalistiche e sfociano in violenze tra spettatori e giocatori. La partita di calcio internazionale di più antica data ‒ quella tra Scozia e Inghilterra ‒ dovette essere soppressa nel 1989 a causa della crescente violenza tra tifosi; nell'ultima edizione, giocata a Glasgow, ci furono 250 arresti. Le partite tra Olanda e Germania o fra Turchia e Grecia si caratterizzano per la forte carica nazionalistica e spesso viene messa a rischio la sicurezza degli spettatori. I ricorrenti casi di violenza di cui fin dai tardi anni Settanta sono protagonisti i tifosi inglesi durante gli incontri europei sono stati interpretati da alcuni sociologi come un riflesso della storica crisi di identità nazionale che ha colpito l'Inghilterra post-coloniale, dando innesco a espressioni di razzismo, xenofobia e attardati atteggiamenti anti-europei.
Al di fuori delle democrazie liberali europee, le violenze collegate allo sport si sono anche configurate come scontri tra spettatori e forze dell'ordine repressive, specialmente polizia ed esercito. Nell'America Meridionale, dove in numerosi casi le diverse dittature militari o fasciste hanno definito 'interesse nazionale' la loro stessa sopravvivenza, gli eventi sportivi, e in particolare le partite di calcio, sono stati spesso utilizzati come occasione di manifestare opposizione e resistenza nei confronti dei leader nazionali. Le forze di polizia, a loro volta, hanno adottato violente strategie di 'controllo della folla', per reprimere ogni segnale di dissenso o di disordine sociale.
Anche in alcuni Stati africani si sono verificati scontri mortali fra polizia e pubblico. Nel giugno 2000, per es., un incontro tra Zimbabwe e Sudafrica terminò nel caos quando la polizia dello Zimbabwe, avvertendo fra gli spettatori alcuni segnali di sostegno al partito politico di opposizione, sparò gas lacrimogeni sugli spalti. Dodici persone morirono schiacciate dalla folla che tentava di lasciare lo stadio attraverso le uscite che erano state chiuse a chiave.
Gli scontri fra tifosi sono più usuali a livello di club, dove possono trovare espressione violenta forti sentimenti di identità locale e regionale. In Italia, questo tipo di rivalità spesso riproduce le divisioni strutturali e culturali del Mezzogiorno o anche particolari forme di orgoglio e campanilismo cittadino. In Inghilterra si esprimono nel calcio i dissidi tra il Nord e il Sud, mentre in Belgio la divisione più evidente è tra le popolazioni di lingua francese e fiamminga. In Spagna, nel modo più clamoroso, le tendenze regionalistiche e separatiste emergono negli incontri tra le squadre dei Paesi Baschi, della Catalogna e della Galizia e quelle delle regioni centrali castigliane.
Altre volte le rivalità hanno origine locale o intraregionale. Si è già notato che i derby fra club della stessa città, metropoli o regione sono gli incontri di calcio più seguiti; spesso sono occasione di violenza fra i tifosi. In Italia è molto frequente che siano accompagnate da disordini la partita Lazio-Roma e al Nord quelle fra Atalanta, Brescia e Verona; lo stesso avviene in Inghilterra nei match tra Tottenham Hotspur e Arsenal, due club della zona nord di Londra, o tra Millwall e West Ham United, squadre di due quartieri popolari situati rispettivamente nella periferia sud-orientale e orientale della città. L'antropologo Gary Armstrong (1998) ha sottolineato come a Sheffield la rivalità tra i due club locali abbia impregnato ogni aspetto della vita quotidiana, arrivando perfino a determinare la preferenza dei tifosi per le sigarette che hanno sul pacchetto i colori della loro squadra. È interessante notare invece che a Liverpool i derby tra Liverpool e Everton sono sicuramente molto seguiti ma raramente sfociano in violenze: questo dipende in parte dal fatto che i tifosi dei due club provengono dalle stesse località, e spesso dalle stesse famiglie, all'interno del Merseyside.
Man mano che gli hooligans sono divenuti parte integrante del calcio del dopoguerra, il fenomeno ha finito per essere più influenzato da dinamiche subculturali che da forme di identità locali e nazionali. In altre parole, è più probabile gli hooligans si vedano come un gruppo che condivide alcune caratteristiche, come per es. il vestiario o il sistema di valori violento o la capacità di autoidentificarsi come hooligans. Da una parte, queste dimensioni subculturali possono sovrapporsi agli antagonismi locali e nazionali portando a collegamenti internazionali tra specifici gruppi di hooligans, dall'altra queste stesse dimensioni possono generare nuovi e inediti tipi di rivalità tra le tifoserie.
Altri contesti sportivi e culturali producono forme di associazione tra violenza ed espressioni di identità locale e nazionale differenti. Negli Stati Uniti, è più probabile che accadano disordini e risse quando in una città si festeggia la vittoria della squadra locale in un campionato o in un incontro importante. È il caso per es. delle agitazioni provocate nel 2002 da tifosi ubriachi durante le Olimpiadi invernali di Salt Lake City. Non di rado nei colleges americani i tifosi, per celebrare il successo del loro team, invadono gli stadi, portano via le porte e distruggono macchine e negozi.
Con le forme di identità nazionale e locale si incrociano e si intersecano specifiche coordinate di classe, etnia o genere, da sempre presenti nello sport moderno.
Nelle società di mercato, i gruppi di élite hanno utilizzato l'adozione di determinate discipline sportive per distinguersi culturalmente ed economicamente dalle altre classi. In Gran Bretagna e nelle sue colonie gli sport preferiti dai ceti più elevati erano il cricket e il rugby, da cui le classi inferiori erano tenute fuori mediante i regolamenti sul dilettantismo e altri tipi di restrizioni. Successivamente è rimasta tipica dei ceti più abbienti la navigazione da diporto, a vela o a motore, nonché la frequentazione dei circoli sportivi. La necessità di iscriversi a un club fa sì che sia in genere molto limitata presso le classi meno abbienti la pratica del golf e del tennis.
Tuttavia, a seconda delle nazioni e delle città, si possono notare differenze anche grandi in questo genere di associazione fra classi sociali e sport. Nel 20° secolo, per es., in Inghilterra sono state le classi lavoratrici più 'rispettabili' e con un più alto livello di educazione a svolgere un ruolo di primo piano nell'organizzazione a livello locale delle squadre di football, mentre nell'Europa meridionale il calcio ha avuto un'impronta molto più interclassista. In Galles, al contrario dell'Inghilterra, il rugby ha un seguito molto esteso tra le classi meno abbienti e in Scozia il golf non è esclusiva della borghesia come nel resto del Regno Unito.
Il rapporto storico fra sport e identità etnica si intreccia fortemente con le moderne ideologie razziste e le conseguenti forme di esclusione sociale. Nelle colonie inglesi e in America le persone di colore o non potevano praticare gli sport di squadra (per es. il cricket, a causa degli alti costi necessari per procurarsi l'equipaggiamento) o erano segregate in campionati separati. La lotta condotta dagli atleti non bianchi per affermare il diritto a prendere parte a tutte le competizioni ha assunto forme differenti nei diversi paesi. Negli Stati Uniti, per es., i giocatori di baseball furono costretti a giocare nelle Negro leagues fino a che la barriera del colore non fu gradualmente abbattuta nel dopoguerra. In Sudafrica fino alla fine del sistema dell'apartheid è stato impossibile che si svolgessero eventi sportivi di una certa importanza che coinvolgessero insieme bianchi e non bianchi.
Il trattamento riservato a livello internazionale ai campioni neri di pugilato, categoria pesi massimi, offre un'interessante prospettiva sulle condizioni sociali della gente di colore. Negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, il campione nero Jack Johnson fu indicato come una pericolosa minaccia all'ordine 'razziale' a causa dei suoi rapporti confidenziali con alcune donne bianche. Nel periodo tra le due guerre, Joe Louis fu considerato un 'buon negro' per via dei suoi modi calmi e sottomessi. Muhammad Alì è stato un simbolo del movimento per i diritti civili dei neri negli anni Sessanta e Settanta. Più recentemente, Mike Tyson sembra essere l'incarnazione della profonda crisi delle comunità afro-americane delle città, con i loro problemi di sfruttamento, misoginia, grossolano consumismo e di arresti di massa fra i giovani.
Un aspetto importante della lotta contro il razzismo nello sport si è incentrato sul diritto degli atleti non bianchi di rappresentare specifiche località o nazioni. Nelle Indie occidentali negli anni Quaranta e Cinquanta i giocatori neri dovettero combattere per ottenere di essere selezionati per la nazionale secondo i loro meriti e per avere il diritto di essere nominati capitani. Il contrario avviene oggi nel calcio europeo, dove sono oggetto di critica quelle squadre o quelle nazionali che non sono riuscite a reclutare giocatori neri di talento.
Una forma di razzismo, soprattutto a livello di nazionale, condiziona spesso l'assegnazione delle attività o dei ruoli di gioco. Così alcuni allenatori sostengono che i neri 'per razza' non sono adatti al nuoto e non li incoraggiano a praticare questo sport. In molti sport di squadra, i neri sono raramente schierati in posizioni che richiedano prontezza o freddezza sotto pressione. In Brasile, per es., storicamente è difficile trovare un portiere di colore nei club principali o nella nazionale.
La terza forma di esclusione su cui occorre richiamare l'attenzione è relativa al genere. Nello sport moderno le forme di maschilismo sono sempre state dominanti, mentre ‒ come sottolinea Jennifer Hargreaves (1994) ‒ la presenza delle donne è stata fortemente limitata, inizialmente attraverso il diretto divieto di giocare e più recentemente per via di continue pressioni culturali volte a favorire gli sport maschili. Gli uomini sono nettamente più numerosi delle donne nelle competizioni più importanti e conseguono maggiori riconoscimenti economici e sociali nella loro attività sportiva. In generale, la lotta delle donne per partecipare pienamente e con pari opportunità alla pratica dello sport ha superato confini locali e nazionali. Tuttavia, nelle diverse nazioni ci sono enormi differenze in termini di presenza femminile nello sport: in quelle più sviluppate e a cultura laica le donne ricoprono un ruolo maggiore, mentre nei paesi in via di sviluppo o in società dove è più forte l'impronta religiosa (come nell'Europa meridionale e ancor più in Medio Oriente) il coinvolgimento femminile è nettamente inferiore a quello degli uomini.
Il modello professionistico, che è attualmente quello predominante in ambito sportivo, si inquadra con modalità del tutto particolari rispetto alle identità nazionali e locali. Negli sport di squadra, il rapporto 'biografico' tra gli atleti e i club che essi rappresentano è scarsissimo. In Italia nella pallacanestro, nel calcio o perfino nel rugby è sempre più difficile trovare giocatori importanti che siano nati o cresciuti nelle vicinanze dello stadio della loro squadra o che abbiano con questa un rapporto affettivo radicato nel tempo. Negli Stati Uniti il reclutamento dei giocatori di pallacanestro o di football americano avviene essenzialmente nell'ambito di un pool di università e la possibilità che i giocatori siano nati nella città che ospita il club è praticamente pari a zero. Alcuni club di sport professionistici tentano di invertire questa tendenza incoraggiando i loro atleti a costruire una rete di contatti con la comunità, oppure nominando capitani i giocatori locali. Riaffermare l'appartenenza del club alla comunità cittadina è infatti essenziale per mantenere intatto il rapporto con lo 'zoccolo duro' del pubblico, che è costituito dai sostenitori locali.
Una sorgente importante di identificazione con la comunità è rappresentata dai campi di gioco. A questo proposito John Bale (1994) ha usato il termine 'topofilia' per descrivere l'intenso senso di attaccamento emotivo che gli individui e le comunità possono avere verso particolari scenari sportivi. Il simbolismo è particolarmente forte quando lo stadio è collocato al centro della città, costituendo un elemento di spicco nella geografia cittadina e nel suo panorama, e se la gente del luogo ha con l'impianto e con le persone che vi lavorano un contatto quotidiano. Inoltre è rilevante che lo stadio disponga di caratteristiche architettoniche peculiari che permettano di differenziarlo da tutti gli altri. Ancora, uno stadio acquisisce un forte valore simbolico se ha alle spalle una lunga storia che consenta di collegare gli spettatori attuali con le generazioni precedenti. Lo stadio 'Luigi Ferraris' di Genova è un esempio lampante di come uno stile architettonico unico, una posizione centrale e una lunga storia si combinino nel creare il fascino di un luogo dedicato allo sport che simboleggia la città e più ampiamente la regione ligure. Al contrario, impianti ultramoderni e in posizione decentrata, anche se presentano la comodità di essere facilmente raggiungibili e sono funzionali e razionalmente organizzati, risultano privi della capacità di coinvolgere emotivamente il pubblico.
L'avvento del professionismo nello sport è lontano dall'aver cancellato un altro elemento proprio dell'identità culturale dell'esperienza sportiva, quello relativo alla tecnica e allo stile di gioco. Uno degli aspetti più affascinanti dello sport internazionale è rappresentato dall'estrema diversità di questi stili e dal loro confrontarsi nel corso delle competizioni. Spesso si tratta di differenze continentali. Nella corsa di fondo la tecnica africana di cambiare il passo contrasta con quella tradizionalmente adottata dagli europei, più metodica e programmata. Nell'hockey su ghiaccio, i giocatori europei hanno la reputazione di essere più tecnici e artistici dei loro colleghi nordamericani, più aggressivi. In Sudamerica, il calcio europeo è considerato più tattico e professionale rispetto allo stile più istintivo e aperto al rischio lì preferito.
Altre differenze si riscontrano a livello nazionale ed è significativo che esse siano avvertite dal pubblico e soggette a costante analisi quali espressioni di particolari identità culturali. Nel cricket nelle Indie occidentali si preferisce uno stile spettacolare e aggressivo di battuta e servizio, in contrasto con l'approccio più difensivo degli inglesi, le finte e la battuta angolata degli indiani o la rude professionalità degli australiani. Nel rugby, l'esuberanza della Francia fornisce un contrasto tattico e di stile con l'approccio strettamente disciplinato delle squadre delle isole britanniche, specialmente l'Inghilterra.
Ma è soprattutto il calcio a fornire numerosi esempi di connessioni tra identità nazionali e particolari stili di gioco. La cultura industriale della classe operaia scozzese costituì il contesto ideale per la creazione del passing game, basato su un serrato lavoro di squadra. Il calcio tedesco è stato a lungo famoso per la solidità e la concretezza nel produrre risultati, mentre il gioco italiano, come metafora della società, è caratterizzato da talenti brillanti, alieni da un tatticismo eccessivamente sistematico. L'antropologo Eduardo Archetti (1998) ha analizzato come in Argentina lo stile criollo dia particolare risalto ai giocatori dotati di tecnica raffinata e di dribbling, e sia un riflesso di aspetti chiave della cultura nazionale. In Brasile il calcio è più ballerino e incline a improvvisi cambi di velocità.
In effetti facendo connessioni di questo tipo si rischia di fare riferimento a stereotipi sommari che possono scadere in una mentalità razzista. La storia di questo genere di etichettature rivela l'influenza delle società bianche dell'Europa settentrionale. Nazioni come Inghilterra e Germania presentano le loro rispettive culture come moderne, scientifiche, razionali e coronate da successo, mentre le società non bianche e colonizzate sono viste come imprevedibili, irrazionali e perlopiù destinate a una continua lotta. Tali tipologie sono interiorizzate come caratteri nazionali o razziali dalle varie popolazioni e si trasferiscono nei codici interpretativi, nei principi stilistici e nelle tecniche di gioco propri dello sport.
Non si può tuttavia non considerare che due fattori smentiscono queste forme stereotipe di identificazione nazionale. Per prima cosa, in termini di risultati, l'approccio 'razionalistico' europeo non sempre è stato vincente; al contrario nel calcio, per fare un esempio, particolare successo ha arriso alla cultura sudamericana, apparentemente irrazionale, esuberante e ibrida, e ciò induce a pensare che la cultura dell'istinto è in realtà razionale nel produrre risultati sportivi di successo. In secondo luogo, ampliando il punto precedente, l'organizzazione e l'amministrazione dello sport sia nell'Occidente sia nei paesi in via di sviluppo, sono sempre più guidate da principi scientifici e razionali. Già alla metà degli anni Sessanta le istituzioni sportive brasiliane spendevano milioni in programmi di sviluppo scientifico a lungo termine e nei trattamenti riservati ai più importanti giocatori di calcio del paese. Zico, il più forte calciatore del mondo alla fine degli anni Settanta e all'inizio degli Ottanta, avrebbe potuto intraprendere una carriera professionistica se i medici brasiliani non lo avessero aiutato nella crescita con prodotti farmacologici?
Il diritto di partecipare agli eventi sportivi e di ospitare i più importati tornei internazionali è per una nazione un segno di legittimazione politica e di riconoscimento internazionale, mentre per contro l'esclusione dalle competizioni può segnalarne la debolezza nei confronti degli altri Stati. Nel 1920 Austria, Bulgaria, Germania, Ungheria e Turchia furono escluse dalle Olimpiadi a causa delle loro posizioni durante la Prima guerra mondiale. Per ragioni simili alla Germania e al Giappone fu interdetta la partecipazione ai Giochi di Londra del 1948. A causa del sistema politico razzista al Sudafrica nel 1964 e alla Rhodesia nel 1968 non fu permessa la partecipazione alle competizioni olimpiche.
I boicottaggi sportivi sono stati anche utilizzati dalle nazioni come risorsa estrema per asserire davanti al mondo le loro istanze politiche. La minaccia di boicottare le Olimpiadi da parte degli Stati africani portò all'estromissione dal CIO del Sudafrica. Nel 1980 gli Stati Uniti boicottarono le Olimpiadi di Mosca per protestare contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Quattro anni più tardi, l'Unione Sovietica e altre tredici repubbliche socialiste disertarono i Giochi di Los Angeles adducendo motivi diversi, tra i quali spiccava la protesta contro l'influenza commerciale americana nelle Olimpiadi.
Altre volte boicottaggi e rinunce sono stati un modo per affermare la posizione di una nazione riguardo a questioni di politica sportiva. Per es., nel periodo tra le due guerre le quattro federazioni calcistiche britanniche (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord) hanno ritirato in due occasioni la loro rappresentanza nella FIFA per protestare contro la partecipazione tedesca e contro i regolamenti adottati in materia di dilettantismo. Con queste dimissioni si voleva anche riaffermare la superiorità britannica nel calcio, nella convinzione che la FIFA privata dell'apporto delle quattro federazioni avrebbe visto diminuire in maniera sostanziale la sua importanza internazionale.
L'organizzazione di grossi avvenimenti sportivi può risultare utile sia alla politica interna di un paese sia ai suoi rapporti esteri. In patria l'evento può essere sfruttato per promuovere sentimenti di unità e solidarietà regionale o nazionale. L'organizzazione e la vittoria dell'Uruguay nel Campionato del Mondo di calcio del 1930 aiutarono a cementare l'identità nazionale in una popolazione che era in maggioranza di estrazione europea. L'aver ospitato i Giochi Olimpici nel 1896 e l'essersi assicurata l'edizione del 2004 è per la Grecia un modo di riaffermare la discendenza ellenica del movimento olimpico come elemento chiave dell'identità e della memoria culturale greche. Le città che non sono capitali di uno Stato, quando si aggiudicano il diritto di ospitare manifestazioni importanti come le Olimpiadi, ne ricevono una spinta a oltrepassare il loro status provinciale e a ridefinire il loro profilo, nella nazione e verso l'estero, in termini politici e commerciali.
È una preoccupazione di antica data per le democrazie liberali il fatto che i regimi oppressivi e totalitari possano sfruttare l'organizzazione di eventi sportivi per rafforzare il nazionalismo, guadagnare credibilità internazionale e stornare l'attenzione dal malessere sociale e dalla violazione dei diritti umani. L'assegnazione a Pechino delle Olimpiadi del 2008 ha suscitato vaste critiche nei movimenti per la difesa dei diritti umani e fra i dissidenti cinesi anticomunisti. La Coppa del Mondo di calcio fu ospitata dall'Argentina nel 1978, nel periodo in cui il regime militare procedeva sistematicamente alla tortura e al rapimento di migliaia di oppositori. Il fatto che gli argentini preferiscano rievocare la vittoria nella Coppa del Mondo del 1986 piuttosto che quella del 1978 è indicativo dell'impossibilità di manipolare con facilità la memoria nazionale.
Gli eventi sportivi possono essere anche usati per sottolineare temi-simbolo dei valori dominanti o emergenti in una nazione. Per es., le Olimpiadi del 1972 e i Mondiali di calcio del 1974 in Germania occidentale furono occasione per enfatizzare sia la moderna e sofisticata capacità organizzativa raggiunta dalla Repubblica tedesca nel dopoguerra sia il crescente interesse del paese per il verde e l'ambiente. Nel 1980 le Olimpiadi di Mosca servirono a evidenziare l'internazionalismo del marxismo-leninismo e la sua volontà di stabilire una cornice di armoniosa solidarietà sociale, mentre quattro anni più tardi l'impostazione commerciale dei Giochi di Los Angeles simboleggiò la centralità dei principi di mercato nella vita americana.
D'altra parte l'organizzazione di eventi sportivi importanti può far convergere l'attenzione sulle divisioni e sulle aree di malessere interne a una società. A livello politico, spesso le opposizioni di sinistra hanno contestato la destinazione di ingenti somme di denaro pubblico alla costruzione di nuovi stadi e infrastrutture invece che alla realizzazione di case per le persone socialmente svantaggiate. In altri casi può accadere che le fasce più deboli della società, come particolari gruppi etnici o gli abitanti di regioni meno sviluppate, protestino in quanto l'evento sportivo porta a un aggravamento del loro stato. È quanto si è per es. verificato in Australia, dove nel 1982, quando Brisbane ospitò i Giochi del Commonwealth, il governo approvò leggi speciali che permisero alla polizia di cacciare gli aborigeni dagli spazi pubblici, mentre nel 2000 molti aborigeni cercarono di utilizzare le Olimpiadi di Sydney per sollecitare l'interesse dell'opinione pubblica internazionale verso la storica oppressione esercitata nei loro confronti dalle autorità bianche (Booth-Tatz 2000). Talora nell'immediata vigilia o nel corso dei maggiori eventi sportivi i governi hanno cercato di riaffermare l''interesse nazionale', reprimendo violentemente ogni forma di dimostrazione e di disobbedienza civile. In Messico nel 1968, per es., centinaia di manifestanti furono uccisi durante le manifestazioni di piazza che precedettero i Giochi Olimpici.
L'assicurarsi il diritto di ospitare competizioni sportive internazionali giova alla credibilità della nazione e del suo governo. Con i Giochi Olimpici del 1960 Tokyo trasmise il messaggio che il Giappone era una società ordinata, avanzata e sofisticata, degna della considerazione riservata alle nazioni occidentali. Le Olimpiadi di Seul nel 1988 ebbero uno scopo analogo per la Corea del Sud.
Da quando l'Italia si aggiudicò l'organizzazione delle Olimpiadi del 1960 grazie a una campagna promozionale costata circa trenta milioni di dollari, gli investimenti delle nazioni in questo settore sono cresciuti in maniera incontrollata. La spesa sostenuta da Giappone e Corea del Sud per promuovere la candidatura all'organizzazione del Mondiale di calcio 2002 è stata stimata in centinaia di migliaia di sterline e ha avuto come risultato l'affidamento congiunto del torneo ai due paesi da parte della FIFA. Non è possibile determinare in che misura alle pressioni diplomatiche si accompagnino episodi di corruzione e di versamento di tangenti, ma i recenti scandali che hanno investito il CIO e la FIFA fanno pensare che si tratti di pratiche diffuse.
Assicurarsi il diritto di ospitare una manifestazione è diventata sempre più una questione politica. Al giorno d'oggi è comune che leader politici e personaggi di Stato contribuiscano alla causa nella fase della candidatura, tanto che quando il gruppo promotore non riesce a garantirsi il pieno sostegno della classe politica si può essere certi che andrà incontro a un fallimento. A livello internazionale l'incapacità di aggiudicarsi un evento rilevante per un paese è indice di scarsa credibilità sui propri livelli di stabilità e di benessere. Il fallimento della candidatura del Sudafrica per il Mondiale di calcio del 2006 è stato interpretato come un segno di sfiducia sulla sua stabilità economica e politica e sulla sua capacità di far rispettare la legge. Il Campionato del Mondo è stato attribuito alla Germania e a livello europeo il successo tedesco a discapito dell'Inghilterra ha assunto un forte valore simbolico.
I legami di una squadra con la sua comunità di appartenenza possono essere indeboliti da questioni commerciali volte a massimizzare i profitti. Questo porta in alcuni casi al trasferimento del club, che va a giocare le sue partite 'in casa' in un'altra città. Così alcune squadre di football australiano di Melbourne disputano gli incontri casalinghi a Sydney per procurarsi una nuova base di sostenitori. Ma è lo sport nordamericano a fornire gli esempi più evidenti di questo imperativo commerciale. Negli sport professionistici, quali baseball, football americano, hockey su ghiaccio e pallacanestro, i club sportivi d'élite sono membri franchigia' delle rispettive leghe. I proprietari delle squadre, se lo desiderano, sono generalmente liberi di cambiare la città di appartenenza. I presidenti spesso si impegnano in dure contrattazioni economiche con le autorità locali in modo da ottenere che alla loro squadra sia costruito uno stadio e siano assicurate le massime concessioni fiscali possibili sui profitti della società. Varie grandi città con forti tradizioni sportive hanno perso la loro rappresentanza nei campionati maggiori, dopo che i proprietari dei club hanno trasferito i loro affari in ambienti più redditizi. Molte squadre di baseball della costa occidentale sono nate nell'Est e sono andate poi alla ricerca di un pubblico più ricco. L'esempio più famoso è il trasferimento dei Brooklyn Dodgers, diventati i Los Angeles Dodgers nel 1958, di cui parla una famosa canzone di Frank Sinatra, There used to be a ballpark. Non c'è dubbio che questi spostamenti riducano i contatti tra la comunità e i club professionistici, indebolendo il senso di fiducia tra i dirigenti e i tifosi. Fin dall'inizio degli anni Novanta, i club canadesi hanno subito una forte pressione per spostarsi a sud, verso i più ricchi mercati degli Stati Uniti. In questo caso nella questione si è dunque inserita anche una caratterizzazione nazionale.
Nel rugby a 13, i campionati di massimo livello in Inghilterra e in Australia sono stati rivoluzionati nei tardi anni Novanta quando i canali televisivi satellitari hanno pagato forti somme alle autorità sportive perché fosse potenziato lo sviluppo dei club aventi sede in località densamente popolate. In entrambe le nazioni molte delle squadre di più antica tradizione furono escluse dalle nuove serie o furono costrette a fondersi fra loro. Lo storico South Sydney fu escluso dal campionato e venne reinserito solo in seguito ad azioni legali e a imponenti proteste pubbliche da parte dei tifosi: una forma di resistenza che peraltro conferma come forti identità culturali locali possano prevalere su astratti principi di mercato.
Nel Regno Unito, i tifosi di calcio si sono fortemente opposti ai tentativi operati da alcuni uomini d'affari di fondere o rilevare club a fini puramente finanziari. A Edimburgo la proposta dell'acquisto della squadra degli Hibernian da parte degli Hearts portò a invasioni di campo, violenze e minacce di morte contro il presidente degli Hearts. In Inghilterra, il magnate dei media Robert Maxwell cercò di fondere due squadre per creare una nuova società, ma non riuscì nel suo intento per l'opposizione dei tifosi e dei dirigenti sportivi.
In alcuni casi la bancarotta dei club professionistici ha privato la comunità di una sua risorsa-chiave per cause esclusivamente finanziarie. Il crac della Fiorentina nel 2002 ha avuto una vasta eco a livello sociale, come se fosse stato sradicato un simbolo della città internazionalmente riconosciuto, tanto che la fondazione di una nuova società, la Florentia, è stata interpretata come la rinascita di un simbolo di identità civile.
A livello nazionale lo sport è stato fortemente influenzato dallo sviluppo delle politiche regionali nell'Europa occidentale e dal crollo del socialismo negli Stati dell'Europa dell'Est. Si tratta in realtà di una 'resurrezione' del nazionalismo solo apparente poiché simili istanze non sono mai veramente scomparse nel dopoguerra. Ma, mentre fino ad anni recenti i nazionalismi europei si identificavano con le maggioranze etniche del singolo Stato (per es. gli inglesi in Gran Bretagna, i castigliani in Spagna) da ultimo si è assistito a una più netta affermazione di identità regionali legate alle minoranze etniche, quali per es. in Spagna i baschi e i catalani che hanno ottenuto notevoli margini di autonomia politica e che sono protagonisti di forti movimenti nazionalistici. Analogamente nel Regno Unito, Scozia e Galles hanno ottenuto propri parlamenti che rispetto ai decenni precedenti si fanno interpreti di specifiche istanze di nazionalismo culturale e politico. I cambiamenti più significativi si sono verificati negli Stati post-comunisti nei quali più volte l'emergere dei diversi nazionalismi etnico-politici ha sortito conseguenze drammatiche. Le repubbliche baltiche si sono liberate dall'influenza russa, la Iugoslavia si è disgregata e la Cecoslovacchia si è spaccata in due. In tutti questi casi si è mantenuto intatto lo stretto rapporto che abbiamo fin qui rilevato fra sport e identità nazionale. Per una nazione schierare la sua rappresentativa nelle competizioni internazionali rimane un mezzo culturale per ribadire la propria esistenza e un successo a livello mondiale simboleggia l'importanza della nuova nazione (certamente così sono stati intesi il terzo posto della Croazia ai Mondiali di calcio del 1998 o la vittoria della Slovacchia ai Mondiali di hockey su ghiaccio del 2002).
Anche quando non è stata raggiunta l'indipendenza, sono nate nuove compagini 'nazionali', come quella di calcio della Catalogna, selezionata per diverse manifestazioni. Quando queste regioni ospitano competizioni internazionali, la lotta simbolica tra le diverse forme di identità nazionale rimane una costante. Ancora una volta l'esempio viene dalla Catalogna: durante le Olimpiadi di Barcellona si intrecciavano e interscambiavano in continuazione, soprattutto durante le cerimonie di apertura e chiusura dei Giochi, i differenti simboli di Spagna, Catalogna, Olimpiadi ed Europa nelle bandiere, nelle lingue, nei riferimenti a momenti e immagini della storia.
Secondo un processo opposto, alla centralità della nazione ha fatto riscontro una crescente rilevanza dell'identità continentale. Questa tendenza è particolarmente evidente nell'Africa sub-sahariana, dove è l'intero continente a celebrare come un suo successo le vittorie dei mezzofondisti kenyoti o dei velocisti ghanesi. In Europa una forma di identità transnazionale e continentale si manifesta soprattutto nell'antagonismo con gli Stati Uniti. Il più importante evento sportivo in cui si manifesta questa contrapposizione è la Ryder Cup di golf. Questa tradizionalmente era disputata da formazioni statunitensi e britanniche; tuttavia, poiché gli americani generalmente vincevano con ampio margine, nel 1985 si decise di espandere a tutta l'Europa la squadra formata da Gran Bretagna e Irlanda. Da allora, la competizione è stata molto più combattuta e ha visto spesso la vittoria dell'Europa, che riceve il sostegno di tifosi tutte le nazioni europee.
Anche per quanto riguarda lo sport la globalizzazione sta facendo avvertire il suo influsso a livello di identità locali, nazionali e sovranazionali, con un diretto impatto politico. Lo sradicamento dei tifosi dalla comunità locale è un processo che si verifica da lungo tempo. Già nel dopoguerra l'interesse tributato dai media allo sport professionistico, in particolare al calcio, ha portato le squadre di alcune città a costruirsi un seguito di sostenitori nazionale e internazionale. Naturalmente i club, se vogliono acquisire questo status, devono produrre risultati di successo, quasi dominanti. È quanto è riuscito in Italia alla Juventus e al Milan, in Inghilterra al Manchester United, all'Arsenal e al Liverpool, in Spagna al Real Madrid e al Barcellona. Il potenziamento delle infrastrutture di trasporto ha reso possibile ai tifosi che non risiedono nella città della squadra di andare con relativa facilità ad assistere alle partite giocate in casa, ma in generale è stata la televisione a permettere a milioni di 'tifosi da poltrona' di seguire a distanza la loro squadra preferita.
Poiché il numero di eventi sportivi teletrasmessi a livello internazionale è in continua crescita, è sempre più frequente che sostengano la stessa squadra persone in differenti nazioni o continenti. Si stima che il Manchester United abbia 50 milioni di tifosi, la maggior parte dei quali fuori dalla Gran Bretagna, soprattutto in Estremo Oriente. Al contrario dei tifosi di squadre locali, i fan stranieri tendono ad avere con la loro squadra un rapporto più orientato al consumo: il merchandising è disponibile nei negozi sportivi di tutto il mondo, mentre i giocatori di questi club, considerati delle celebrità, si fanno carico di un robusto ruolo di sponsorizzazione. In sostanza per questi tifosi l'interazione con la squadra si traduce più nell'acquisto dei suoi prodotti che nella frequentazione dello stadio .
Il rapporto tra i sostenitori 'locali' e quelli 'globali' non è scevro di tensioni. Per prima cosa, i tifosi delle squadre più piccole accusano i club più importanti di minare le basi competitive dello sport, proprio perché attraggono i tifosi da zone ben al di fuori del loro ambito geografico. In secondo luogo, tra i gli stessi tifosi di queste grandi squadre quelli di antica data, che hanno un forte attaccamento personale e geografico con il club, non apprezzano i sostenitori motivati solo dal successo del momento, quasi fossero 'cercatori di gloria'. Terzo e ultimo punto, l'attaccamento cosmopolita è avvertito come parassita in relazione a quello locale, senza il quale non sarebbero possibili la nascita di istituzioni sportive grandi o piccole o l'esistenza stessa delle competizioni sportive. Quanto meno per questi motivi i responsabili della politica dello sport dovrebbero continuare a considerare con la massima attenzione il complesso intreccio delle implicazioni locali, nazionali e (adesso) globali.
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