Sport e violenza nella società moderna
Molte discipline sportive rappresentano l'eredità, in forma moderna, di quei combattimenti simbolici che è possibile rinvenire in numerose società del passato. La dimensione ludica delle competizioni fisiche premoderne (dai Giochi Olimpici dell'antica Grecia ai tornei medioevali) ha progressivamente generato quelle strategie rituali di limitazione dell'aggressività e della violenza che oggi sono tipiche degli sport organizzati. Eppure, anche nel mondo contemporaneo, alcuni eventi sportivi manifestano un potenziale violento che sembrerebbe contrastare la spinta civilizzatrice della moderna cultura sportiva.
Per incominciare a sciogliere questo nodo problematico è opportuno soffermarsi su una prima difficoltà di ordine metodologico. Mentre è piuttosto semplice distinguere le competizioni sportive moderne dai più antichi giochi competitivi, la nozione di violenza, sul piano strettamente sociologico, è solo apparentemente ovvia: in realtà essa è difficile da definire in modo chiaro e preciso. È significativo, in tal senso, osservare come Hannah Arendt, in apertura del suo magistrale saggio Sulla violenza (1969), rilevasse che nella prestigiosa Encyclopedia of social sciences americana non compariva alcuna voce dedicata a tale concetto.
Esistono numerose definizioni sociali della violenza (morali, giuridiche, di senso comune ecc.), mentre risulta difficile individuare una nozione sociologica di violenza che non sia semplicemente un sinonimo di aggressione, sopraffazione, turbolenza ecc. Differentemente dal linguaggio comune, in quello sociologico un concetto deve avere un elevato grado di determinatezza e di uniformità d'uso. Il concetto di violenza, proprio per la sua plasticità semantica e per il suo significato radicalmente contestuale, incontra alcune difficoltà in tal senso. Luciano Gallino, nel suo Dizionario di Sociologia, definisce la violenza una "forma estrema di aggressione materiale, compiuta da un soggetto individuale o collettivo, consistente vuoi nell'attacco fisico, intenzionalmente distruttivo, arrecato a persone, o a cose che rappresentano un valore per la vittima o per la società in generale, vuoi dall'imposizione mediante l'impiego […] della forza fisica o delle armi, di compiere atti contrari alla propria volontà" (Gallino 1978, p. 743). Tale definizione, per quanto chiarificatrice, è inevitabilmente generale e piuttosto astratta: il fatto che una stessa condotta possa essere, o non essere, definita violenta dipende inevitabilmente dal contesto sociale in cui essa si colloca.
Il pugno sferrato da un individuo coinvolto in una rissa di strada è sanzionato socialmente come un atto violento, mentre il gancio sinistro di un pugile durante un incontro di boxe è parte di un'aggressione socialmente legittima e minuziosamente regolamentata nella cornice specifica di uno sport moderno. Per quanto nel linguaggio comune si possa definire 'violento', il gancio sinistro del pugile è parte integrante di un comportamento conforme alle norme che regolano l'evento sociale di un incontro di boxe e rientra perfettamente tra le aspettative nutrite dagli attori coinvolti in quell'evento. Sul piano strettamente sociologico, un comportamento aggressivo diviene pienamente violento solo nel momento in cui infrange le norme che governano uno specifico contesto sociale: per es., l'uso della forza da parte della polizia in una situazione di disordine pubblico viene considerato legale e legittimo, mentre nel medesimo evento il comportamento turbolento di un gruppo di manifestanti diviene socialmente violento poiché in contrasto con la legge. Dato che, sul piano istituzionale, il ricorso alla violenza è una risorsa del potere ‒ inteso quale autorità pubblica ‒, il termine violenza viene in questo contesto normalmente sostituito dall'espressione "uso della forza". Il comportamento di una folla riottosa, per le ragioni opposte, diviene invece portatore di violenza a tutti gli effetti.
Riassumendo, il fatto che un atto di aggressione sia da considerarsi violento è legato indissolubilmente alla situazione sociale in cui si colloca. Naturalmente, sul piano della morale personale ciascun individuo è libero di etichettare una determinata disciplina sportiva come violenta o eccessivamente aggressiva ma, sul piano strettamente sociale, finché vengono rispettate le regole del gioco, il potenziale violento di una disciplina sportiva non sfocia, di fatto, in atti di aggressione illegittimi. Nel gioco del calcio, un fallo 'tattico' è punito con un calcio di punizione ma un'aggressione a gioco fermo da parte di un giocatore nei confronti di un avversario è un atto di violenza gratuita che il regolamento punisce con l'espulsione.
Ovviamente, non tutti gli sport prevedono un confronto fisico basato su atti di aggressione regolamentati. Ci occuperemo dunque solo di quella specifica famiglia di competizioni sportive nelle quali il potenziale violento viene limitato e 'dirottato' attraverso canali socialmente accettabili. In tal senso, una prima distinzione utile per affrontare il problema è quella tra violenza 'agita' e aggressività simbolica o 'ritualizzata'. Si tratta di una dicotomia mutuata dall'etologia, e in particolare dai lavori di Konrad Lorenz, il quale riprese la nozione di ritualizzazione da Julian Huxley, che a sua volta introdusse il termine 'rito' nello studio del comportamento animale per designare gli schemi di comportamento adattivo che perdono le funzioni originarie, pur mantenendo una determinata forma ripetitiva e costante. Nella prospettiva di Lorenz, l'aggressività ritualizzata non è violenza, bensì un tentativo di evitarla, di inibirla canalizzandola all'interno di comportamenti quali la minaccia (tesa a dissuadere un'aggressione vera e propria), oppure la lotta simulata nei giochi fra cuccioli o ancora i cerimoniali di corteggiamento che regolano la competizione fra maschi della stessa specie. Si tratta dunque di condotte che consentono di evitare quegli atti di aggressione intraspecifici che potrebbero determinare la morte di uno dei contendenti. Così, le corna del cervo fanno in modo che i combattimenti fra simili non siano letali; in molte specie animali assistiamo a veri e propri 'tornei' nei quali, al termine della lotta, il comportamento di sottomissione dell'animale sconfitto inibisce l'aggressività. Volendo trasporre questo modello nell'analisi delle condotte umane, possiamo affermare che alcuni sport nascono come combattimenti ritualizzati che canalizzano l'aggressività all'interno di un contesto in cui la violenza è puramente simbolica: non si tratta di violenza 'agita', ma di una forma codificata di aggressività 'simbolica' che assolve a una funzione di coesione sociale. Il rispetto delle regole del gioco e dell'etica sportiva rimarca infatti la comune appartenenza a una comunità morale. Come riassume Lorenz: "Lo sport educa gli uomini a un cosciente e responsabile controllo del proprio comportamento combattivo. Pochi errori dell'autocontrollo vengono puniti con la stessa immediatezza e severità come quelli che si commettono durante un incontro di boxe" (Lorenz 1990, p. 57).
Ora, al di là degli eventuali limiti di una concezione etologica del nesso aggressività-violenza-ritualizzazione, tale concezione ha il merito di suggerire la necessità di distinguere la violenza vera e propria da quelle condotte aggressive che hanno invece una valenza morale e un significato sociale positivo. Le competizioni sportive, anche quando prevedono la legittimità di determinati atti di aggressione, rientrano in quest'ultima categoria e possono essere considerate un rituale sociativo e un antagonista della violenza. L'adozione di questo punto di vista non implica necessariamente una condivisione della teoria dell'aggressività ritualizzata di Lorenz. Per es. Eric Dunning, uno dei maggiori esponenti della sociologia dello sport di matrice britannica, respinge il paragone tra il comportamento umano e quello animale, dato che il primo è controllato "normativamente, cioè socialmente, e non istintivamente" (Elias-Dunning 1989, p. 307). Ciononostante, anche nella prospettiva di Dunning rinveniamo qualcosa di simile all'idea della ritualizzazione dell'aggressività (seppur priva di una base filogenetica): le moderne competizioni sportive costituiscono sia per gli atleti sia per gli spettatori uno scenario sociale che consente "un controllato allentamento del controllo delle emozioni", vale a dire una 'forma acuta' di tensione emotiva che nella routine quotidiana (per es. nella sfera della vita lavorativa) è invece soggetta a profonde limitazioni. In altri termini, la dimensione agonistica dello spettacolo sportivo consente di bilanciare, in maniera controllata e socialmente accettabile, la repressione degli impulsi e la regolazione dei comportamenti emotivi imposte dal processo di 'civilizzazione' che contraddistingue le società avanzate. In questa prospettiva, anche se viene respinta la tesi etologica della ritualizzazione dell'aggressività, le moderne competizioni sportive si prefigurano come un contesto nel quale al potenziale violento insito del confronto fra gli atleti subentra la competizione agonistica che, se da un lato sollecita l'emotività e il confronto o lo scontro fisico, dall'altro è socialmente disciplinata e assolve dunque una funzione positiva ed equilibratrice.
Inoltre, come afferma Allen Guttmann, gli sport moderni, in quanto giochi strutturati, 'rispecchiano' una società strutturata. Infatti, se uno degli aspetti salienti di diversi sport è il fatto che il comportamento inibito nella vita ordinaria (compreso il contatto corporeo o lo scontro fisico) diviene accettabile nel confronto fra atleti, d'altra parte in ciascuna disciplina esiste un complesso di regole che consentono di minimizzare o mitigare la violenza e di razionalizzare il rischio. Gli sport rispecchiano l'ordine sociale nel quale sono storicamente inseriti. Oggi, gran parte delle discipline sportive segue regole e regolamenti universali o internazionali ed è inserita all'interno di organizzazioni (per es. le federazioni) che le amministrano secondo i criteri della moderna burocrazia. Essendo lo sport non solo un gioco, ma anche un'industria e un complesso di pratiche sociali istituzionalizzate, esso è soggetto alle norme che caratterizzano, secondo l'originaria formulazione del sociologo Max Weber, ogni moderna organizzazione burocratica, vale a dire la forma più razionale di amministrazione di un apparato societario. Come riassume Guttmann, "salvo anomalie quali il baseball e il football americano, ogni sport moderno importante ha la sua organizzazione internazionale che, a sua volta, supervisiona dozzine di affiliati nazionali […]. Le federazioni internazionali cooperano strettamente con il Comitato Olimpico Internazionale e con i vari comitati olimpici internazionali […] c'è una complessa trama burocratica che abbraccia tutto il globo" (Guttman 1994, pp. 60-61).
In questa prospettiva, la specializzazione, la razionalizzazione e la burocratizzazione dello sport si riflettono anche nella struttura interna delle competizioni sportive, come mostrano diversi elementi: la divisione dei ruoli (per es. tra arbitri e giocatori, medici e preparatori atletici, o fra giocatori con mansioni diverse ecc.) e la nascita di specifiche professioni in ambito sportivo; la quantificazione e la calcolabilità delle prestazioni (si pensi alla codificazione dei record, cioè alla misurazione delle migliori prestazioni atletiche raggiunte nel corso del tempo); infine il 'controllo', cioè la garanzia che le condotte degli attori coinvolti (gli atleti, ma anche gli spettatori) seguano determinati standard di comportamento conformi non solo ai principi dell'etica sportiva o ai regolamenti disciplinari, ma anche alle norme sociali in senso lato (quest'ultimo argomento concerne anche l'impiego delle forze di polizia per garantire l'ordine pubblico durante gli eventi sportivi di massa, dunque per prevenire o reprimere comportamenti violenti fra gli spettatori).
Infatti, nonostante la razionalizzazione emotiva dello sport abbia assunto un carattere pervasivo, in molti casi (si pensi solo alle partite di calcio) quella che Dunning definisce una "forma acuta di tensione in compagnia di altri" implica spesso il rischio che l'eccitamento possa "sfuggire di mano". In altri termini, la razionalizzazione delle condotte sportive non impedisce il verificarsi di comportamenti irrazionali o distruttivi. Anche alcuni studiosi che adottano il modello dell'aggressività ritualizzata ‒ in tal caso intesa in un'accezione sociologica e non etologica ‒ sono giunti a conclusioni simili: il riemergere di atti violenti è l'inversione di un processo, è una 'de-ritualizzazione' dell'aggressività o una sua "ritualizzazione imperfetta" (Salvini 1988). Sin qui abbiamo a che fare con modelli generali di spiegazione del rapporto ambivalente che caratterizza la tensione esistente tra la costrizione degli impulsi, da un lato, e la trasgressione violenta dall'altro. Cercheremo ora di analizzare alcuni casi concreti in cui la violenza assume una precisa fisionomia all'interno di eventi sportivi.
Gli sport basati sullo scontro fisico diretto, dal pugilato alla lotta, nell'epoca moderna sono assai meno 'violenti' e crudeli di alcune competizioni arcaiche con le quali mantengono delle significative analogie. Tranne alcune rare eccezioni che sembrerebbero confermare la norma, paradossalmente, nei combattimenti fisici la violenza vera e propria è quasi del tutto assente. Come riassume Norbert Elias, "Nell'antichità, le regole consuetudinarie degli eventi dell'atletica 'pesante' ammettevano un grado di violenza fisica molto superiore alle corrispondenti gare sportive moderne. Inoltre, negli attuali incontri sportivi le regole sono molto più dettagliate e differenziate; non sono, in sostanza, regole consuetudinarie, ma regole scritte, esplicitamente soggette alla critica e alla revisione ragionata. Il più elevato livello di violenza fisica nei giochi dell'antichità era tutt'altro che isolato. Era sintomatico di caratteristiche specifiche dell'organizzazione della società greca" (Elias-Dunning 1989, p. 166). La lotta, nella sua variante moderna, è uno sport profondamente organizzato e regolamentato, amministrato da una federazione internazionale. Le regole olimpioniche introdotte nel 1967 individuano con precisione i comportamenti scorretti della lotta libera: "la presa alla gola, la mezza presa alla gola e il doppio nelson con pressione applicata dal basso o usando le gambe. Dar pugni, calci e colpi di testa è proibito. Gli incontri, che non durano più di nove minuti e sono divisi in tre round di tre minuti ciascuno con due intervalli di un minuto, sono controllati da un arbitro, tre giudici e un cronometrista. Nonostante questo strettissimo regolamento, la lotta libera pare a molti oggi come uno dei tipi di sport meno raffinati e più 'rozzi'. Praticato da professionisti e con la presenza di spettatori, in una versione leggermente più dura ma spesso concordata in precedenza, è ancora molto popolare" (ivi, p. 170). Eppure, raramente i lottatori professionisti riportano ferite nel corso dei combattimenti: "al pubblico ‒ conclude Elias ‒ non piacerebbe vedere ossa rotte e spargimento di sangue. I protagonisti ostentano quindi una buona simulazione di violenza e gli spettatori sembrano gradire la finzione" (ibid.).
Dunque, quelli che normalmente vengono definiti 'sport violenti' sono fortemente regolamentati, il livello dello scontro fisico appare plasmato da una profonda ritualizzazione che inibisce i comportamenti scorretti e che nel contempo conferisce una notevole componente teatrale al combattimento. Infatti, non abbiamo a che fare con il semplice confronto fra lottatori, ma con una messa in scena, con una cerimonia che celebra contemporaneamente i valori della lealtà sportiva ‒ nonostante il carattere cruento della competizione ‒ e che in quanto tale assume un carattere pubblico. Come riassume Cristopher Lasch, "una cerimonia deve avvenire alla presenza di testimoni: il pubblico degli appassionati che conosce le regole della rappresentazione e il suo significato nascosto. Lungi dall'alterare il valore degli sport, la presenza degli spettatori ne è un complemento essenziale" (Lasch 1995, p. 85).
Se il confronto o lo scontro fisico fra due atleti consente agli spettatori di parteggiare per uno dei due sportivi coinvolti nella contesa, gli sport di squadra consentono più facilmente l'identificazione in una comunità. Un'équipe rispecchia una tifoseria ben specifica, una collettività e non una folla di spettatori dispersa o atomizzata. Nelle competizioni a due prevale inevitabilmente la componente individualistica dell'atleta, mentre gli sport di squadra si basano sulla cooperazione dei giocatori. Il caso degli sport di squadra più popolari negli Stati Uniti è piuttosto interessante, poiché nel baseball, nel basket e nel football da un lato viene richiesto un alto grado di cooperazione, dall'altro persiste la possibilità di misurare con certezza minuziosa la prestazione dei singoli giocatori, cosa che consente di riprodurre nel gioco quella forte componente individualistica che contraddistingue la cultura e gli atteggiamenti dell'americano medio. Il calcio, che non ha mai attecchito negli Stati Uniti, neanche dopo l'organizzazione del Campionato Mondiale nel 1994, non risponde a questo requisito. Il fatto che il baseball, il basket e il football americano consentano una misurazione obiettiva del rendimento sia della squadra sia del singolo atleta ha anche una valenza economica. Storicamente, con l'avvento del professionismo negli Stati Uniti, gli sport di squadra americani riconducevano ai 'numeri' della prestazione di un singolo giocatore "la retribuzione, il suo aumento o la sua decurtazione ‒ in modo apertamente analogo al sistema retributivo nelle forme taylorizzate della produzione industriale" (Markovits 1995, p. 161).
Se negli Stati Uniti il baseball e il football sono accomunati dall'alto livello di popolarità, quel che li divide è invece la presenza o l'assenza della 'violenza' nel gioco. Infatti, diversamente dal baseball, il football prevede un contatto corporeo piuttosto duro, una violenza disciplinata e socialmente legittima. Tuttavia, come nota Guttmann, "l'obiettivo primario di questa guerra in miniatura non è la distruzione fisica del nemico, ma la conquista del suo territorio" (Guttmann 1994, p. 148). Il carattere bellicoso e aggressivo del football consente allo spettatore americano 'idealtipico' (appartenente alla middle class) di lasciarsi andare a emozioni intense e a forme di incitamento altrimenti inibite nella vita ordinaria. Quella che negli stadi di football americano è una trasgressione consentita appare tuttavia, agli occhi di un tifoso europeo, una modalità di incitamento alquanto tiepida e poco corale. D'altra parte, in Europa, il calore e l'espressività rituale del pubblico degli stadi di calcio raggiungono un livello di esasperazione inaccettabile per i canoni della middle class nordamericana.
Ora, com'è noto il football americano deriva dal rugby europeo, il quale ha radici piuttosto lontane. Esso origina a sua volta da un folk game praticato nel Medioevo, quando, specie in Francia e in Inghilterra, interi villaggi si scontravano fra di loro in una sorta di battaglia simulata, ma piuttosto cruenta, dove gli avversari, senza seguire alcuna regola, si contendevano la palla senza esclusione di colpi. Come riassumono Elias e Dunning "il re e le autorità cittadine avevano cercato per secoli di impedire che si giocasse a football, tra l'altro perché le partite finivano sempre con uno spargimento di sangue o, se si giocava per le strade della città, perlomeno con una gran quantità di finestre rotte" (Elias-Dunning 1989, p. 148). Nel 19° secolo l'antico folk game tenderà a cristallizzarsi nella struttura di una competizione disciplinata, dunque in uno sport moderno. Nel 1845 compaiono le prime regole scritte. È proprio intorno a delle divergenze inerenti alla durezza del gioco che il calcio e il rugby, pur mantenendo un'origine comune, divennero due discipline sportive distinte. Eppure, quello che, fra i due, dovrebbe essere a prima vista lo sport più 'violento', si svolge normalmente in un clima di minore turbolenza: non solo l'emotività degli spettatori appare assai più contenuta nel pubblico del rugby rispetto a quello del calcio, ma gli stessi episodi di violenza, registrabili sistematicamente durante i tornei calcistici, sono assai sporadici e indubbiamente meno gravi nel caso degli incontri di rugby. La minuziosa regolamentazione degli scontri violenti nel rugby rende questo sport emotivamente più 'freddo' del calcio, minimizza il rischio di un eccessivo contagio della folla. D'altra parte, il calcio, pur essendo assai meno duro nel confronto fra i singoli atleti, presenta una componente di drammatizzazione del gioco che produce un notevole eccitamento fra gli spettatori.
Gli stessi calciatori appaiono immersi nel tentativo di manipolare a proprio vantaggio ciascun episodio della partita, sovente eccedendo in una drammatizzazione rituale dei comportamenti (le proteste nei confronti dell'arbitro, le simulazioni o i gesti plateali di stizza o di imprecazione ecc.). Tale drammatizzazione va ben al di là dell'applicazione del regolamento scritto della disciplina sportiva in questione. Il carattere accidentale e talvolta iniquo del risultato di una partita di calcio spesso contrasta con un'obiettiva quantificazione dei valori espressi in campo: mentre nel rugby e in maniera ancora più esplicita nel football americano esiste una tendenziale corrispondenza fra qualità del gioco e quantità delle realizzazioni (dunque fra prestazione delle due squadre e punteggio finale), nel calcio giocatori e tifosi si trovano spesso di fronte a risultati del tutto aleatori. Come afferma Christian Bromberger, il calcio è una celebrazione rituale di due importanti dimensioni cruciali del mondo contemporaneo: l'incertezza e la fragilità dei valori e dei destini (Bromberger 1999). Per questo la turbolenza degli spettatori del calcio è assai maggiore di quella di uno sport più 'duro' sul campo come è il rugby: la tensione emotiva degli spettatori e il clima sociale che si respira in uno stadio di calcio vanno ben al di là delle caratteristiche tecniche del gioco e della scarsa durezza di quest'ultimo: l'ansia, l'incertezza, il conflitto relativo all'interpretazione di quel che avviene in campo, il rifiuto della legittimità delle decisioni dell'arbitro, l'ambiguità intrinseca di gran parte delle situazioni di gioco scorretto, l'odio di comunità che, per quanto ritualizzato, pervade le due tifoserie rivali, sono tutte variabili che trascendono la durezza del confronto fisico tra gli atleti e innescano fra i tifosi (faziosi per definizione) un atteggiamento di persistente scetticismo verso l'esito ufficiale della gara. La teatralità dei comportamenti di tutti gli attori coinvolti (dai giocatori all'arbitro, dagli spettatori di ciascun settore dello stadio sino ai telecronisti e ai giornalisti) rendono questo sport un dramma sociale che genera un clima di aggressività e di tensione assai meno incline, rispetto al rugby, alla razionalizzazione e al contenimento dell'emotività. Anche se gran parte di questi comportamenti emotivi rimane confinato entro i limiti di tollerabilità prescritti dalle norme sociali, è ormai pressoché endemica la presenza di forme di trasgressione violenta di una quota rilevante di spettatori.
Ora, un ampio repertorio di ricerche storiche e sociologiche sul comportamento dei tifosi di calcio "rivela che fin dalle origini questo gioco è stato associato alla violenza degli spettatori" (Dal Lago 1990, p. 145). Quel che cambia è la 'forma' che la violenza assume nelle differenti epoche storiche. Come vedremo successivamente, negli ultimi decenni il tifo violento è divenuto un fenomeno assai più strutturato e frequente rispetto al passato, è addirittura parte integrante della routine calcistica. In che misura la violenza degli spettatori, nel calcio così come in altre competizioni, può essere considerata interna o estranea alla logica di questo spettacolo sportivo?
Esistono numerosi episodi di violenza che si collocano oltre i margini della cornice situazionale che delimita il rapporto che intercorre fra lo sport, da un lato, e il più vasto contesto sociale dall'altro. Per es. il fenomeno ricorrente dell'interferenza di politica e sport minaccia costantemente l'immagine della purezza ludica di quest'ultimo. È noto il fatto che in diversi momenti del Novecento le vittorie sportive sono state usate da alcune nazioni come veicolo di propaganda (Hoberman 1984). Negli stessi stadi di calcio la politica ha fatto ingresso fra i tifosi delle curve, spesso, come nel caso della ex Iugoslavia, anticipando forme di violenza che si sarebbero concretizzate in un vero e proprio conflitto bellico. In altri casi, come quello della crescente presenza fra i tifosi ultrà italiani di gruppi eversivi legati alla destra radicale, il tifo calcistico convive con propaganda e iniziative violente di stampo neonazista o neofascista.
In tutti questi casi la violenza appare come una variabile esogena, come qualcosa di estraneo che irrompe indebitamente all'interno di uno scenario sociale che dovrebbe esprimere valori positivi e rimarcare la coesione sociale. Un episodio drammatico che ha segnato una svolta sul piano storico è l'attacco compiuto nel Villaggio olimpico di Monaco il 5 settembre 1972, quando un gruppo di otto fedayn irruppe nella palazzina assegnata agli atleti israeliani: furono uccise due persone e altre nove vennero prese in ostaggio. I terroristi tentarono di imporre le loro condizioni: prima fra tutte, la liberazione di 234 detenuti palestinesi rinchiusi nelle prigioni di Israele. Le autorità tedesche concessero ai terroristi due elicotteri per recarsi, insieme agli ostaggi, a un vicino aeroporto dove sarebbero potuti partire per l'Egitto. Nella notte fra il 5 e il 6 settembre l'intervento della polizia bavarese, che schierò oltre 400 agenti, si concluse con una strage. All'aeroporto di Füstelfeldbruk morirono nove atleti israeliani, cinque fedayn, un poliziotto e un pilota d'elicottero. Nonostante la gravità dell'evento e l'indignazione dell'opinione pubblica internazionale, i Giochi olimpici continuarono.
Di tutt'altra natura appaiono alcune drammatiche catastrofi avvenute negli stadi sportivi che hanno registrato un elevato numero di vittime. Si tratta di eventi legati in questo caso non già alla violenza o alla sua variante politica, bensì all'insicurezza degli impianti o a errori fatali nella gestione dell'ordine pubblico. Il calcio, essendo il più popolare e il più seguito fra gli sport di massa, risulta inevitabilmente più esposto a questi rischi.
La prima tragedia è datata 5 aprile 1902: in occasione del derby Scozia-Inghilterra, si verificò il crollo di un intero settore in legno dell'impianto dell'Ibrox Park, a Glasgow, provocando 20 morti e più di 500 feriti. Al Burden Park di Bolton, nel 1946, 33 persone morirono soffocate per il sovraffollamento di un settore delle gradinate; la gara fu interrotta, ma la maggior parte del pubblico, pensando che le vittime fossero soltanto svenute, protestò reclamando la ripresa del gioco.
L'episodio tragico che ha impresso una svolta nella politica delle autorità sportive britanniche in tema di ordine pubblico è la strage di Sheffield del 1989. In questa circostanza, 95 spettatori morirono nello stadio di Hillsborough a causa del sovraffollamento provocato dall'ingresso improvviso, avallato dalla negligenza della polizia, di una consistente massa di tifosi del Liverpool senza biglietto. La possibilità di scappare venne preclusa dalle strutture dell'impianto: la recinzione che separava gli spalti dal terreno di gioco impedì agli spettatori ogni via di fuga. Quest'ultima tragedia danneggiò ulteriormente l'immagine del calcio britannico all'estero. In seguito vennero prese delle misure ben precise tese a migliorare la sicurezza degli impianti e il clima sociale degli stadi, nei quali vennero eliminate le terraces (cioè le gradinate dalle quali si assisteva alla partita in piedi), sostituite da tribune numerate nelle quali è più agevole controllare e mitigare la turbolenza dei comportamenti collettivi.
Anche se fu la tragedia di Hillsborough a imprimere una svolta alle politiche antiviolenza del governo britannico, agli occhi dell'opinione pubblica internazionale l'evento più drammatico della storia recente del calcio inglese va ricondotto alla strage nello stadio Heysel di Bruxelles avvenuta il 29 maggio 1985, quando morirono 39 spettatori, in maggioranza italiani, in seguito a un'aggressione da parte degli hooligans del Liverpool. Mentre negli episodi precedentemente elencati le cause 'esogene' delle tragedie ‒ cioè le determinanti esterne alle dinamiche dell'evento sportivo considerato in sé ‒ appaiono evidenti, nel caso della strage dell'Heysel il problema assume una differente fisionomia. Infatti, in quest'evento drammatico entrò in gioco direttamente la violenza omicida dei tifosi stessi. A ciò si aggiunga il fatto che la strage si consumò sugli spalti di un vecchio impianto costruito nel 1930, inadeguato, sul piano della sicurezza, a ospitare una finale della Coppa dei Campioni. In tal senso, gli errori dell'UEFA e delle forze dell'ordine pesarono quanto la violenza degli hooligans inglesi.
La tragedia dell'Heysel fu seguita in diretta da oltre 300 milioni di telespettatori, cosa che rappresenta un dato quasi paradossale, visto che mentre gli schermi televisivi mostravano le immagini di una catastrofe in diretta, buona parte degli spettatori, italiani e inglesi, presenti allo stadio, ma dislocati in settori distanti da quello in cui si svolgeva l'aggressione, non erano oggettivamente in grado di rendersi conto di quello che stava accadendo. Eppure, nonostante siano state proprio le riprese televisive ‒ anche se, in modo particolare, quelle non trasmesse in diretta, ma utilizzate successivamente nell'inchiesta giudiziaria ‒ a chiarire la dinamica dell'evento, l'interpretazione stereotipata della stampa ha ridotto la tragedia dell'Heysel a un effetto della follia omicida di 'assassini ubriachi' trascurando il contesto in cui il dramma si è svolto, e le specifiche variabili situazionali che hanno reso possibile l'aggressione dei tifosi italiani da parte dei teppisti inglesi. In quell'occasione si verificò una vera e propria frattura nell'ordine ecologico dello stadio, cioè delle regole che presiedono all'occupazione di un determinato territorio delle gradinate da parte delle tifoserie più estreme. Come riassume Dal Lago, al di là del ruolo attivo svolto dagli hooligans, "in quel caso la vera responsabilità morale è da attribuire a chi ha permesso che i 'militanti' inglesi fossero a contatto con gli 'appassionati' e gli 'amatori' italiani, ciò che in uno stadio italiano sarebbe inimmaginabile" (Dal Lago 1990, p. 93).
In altri termini, la violenza del tifo estremo può scaturire proprio da una violazione di questo 'ordine simbolico', violazione che, nella fattispecie dell'evento dell'Heysel, è stata indirettamente generata dagli organizzatori e dai responsabili dell'ordine pubblico. In definitiva, le autorità competenti mostrarono non solo di essere privi della conoscenza del fenomeno hooligans, ma anche del più elementare buon senso. Innanzitutto, il primo, fondamentale errore degli organizzatori fu quello di assegnare un intero settore della curva nord, destinato in origine agli spettatori belgi (da questo punto di vista neutrali), ai tifosi italiani. Nella stessa curva, in un settore contiguo, erano dislocati i tifosi inglesi, quelli che, intorno alle 19.30, caricarono i vicini sostenitori della Juventus, provocando una fuga di massa che a sua volta determinò lo schiacciamento e il soffocamento delle 39 vittime. L'assenza di vie di fuga, le carenze strutturali dell'impianto sportivo, la mancanza di un'adeguata separazione fra i settori inglese e italiano della curva nord (solo una 'rete per polli', come ha raccontato un sopravvissuto), la latitanza delle forze dell'ordine (solo otto poliziotti erano impegnati a vigilare lo spazio fra i due settori, su un totale di oltre 1000 agenti utilizzati per l'occasione) sono tutte variabili che, nel loro complesso, contribuirono a trasformare in una strage l'aggressione dei tifosi inglesi nei confronti di quelli italiani. I tifosi inglesi si trovarono nella situazione anomala di dover spartire la curva con i loro rivali, o con quelli che essi reputavano tali. La 'conquista della curva', nel codice ‒ forse aberrante, ma reale ‒ degli hooligans, era un'impresa inevitabile per i teppisti inglesi, i quali, però, non si trovarono di fronte a un gruppo rivale simile al loro (che poteva essere rappresentato dagli ultras juventini, i quali stavano nella curva opposta), ma a una moltitudine di tifosi comuni, pacifici, che a loro volta non sapevano dare un senso a quello che succedeva, e che inevitabilmente avevano una sola scelta: scappare. Purtroppo non c'erano vie di fuga. Coloro che tentarono rifugiarsi sul prato da gioco scavalcando la recinzione furono addirittura ricacciati indietro a manganellate dalla forze dell'ordine, prive di un coordinamento efficace (si pensi che la curva nord era presidiata dalla gendarmeria nazionale, mentre la sud da agenti della polizia cittadina).
Quella che abbiamo definito una violazione dell'ordine dell''ecologia' dello stadio (cioè della sua suddivisione in spazi sociali dotati di un ben preciso significato simbolico per i tifosi più agguerriti) ha condotto nel caso della strage dell'Heysel a un esito drammatico ma, proprio per questo, rimane emblematica di una fatale leggerezza organizzativa. Infatti, nella logica del tifo estremo, il controllo delle 'proprie' gradinate e la 'conquista' del territorio dei tifosi avversari è una prassi evidente agli occhi di un osservatore attento.
Lungi dal ridursi a una falla nell'ordine sociale, molte delle violenze che avvengono nelle curve degli stadi di calcio evidenziano modalità di azione che i tifosi considerano dotate di senso: azioni strutturate da regole sovente latenti, ma che un'osservazione etnografica è in grado di rendere visibili. Secondo Marsh, Harré e Rosser certi eventi comunemente etichettati come 'pericolosi' e 'anarchici' mostrano in realtà l'esistenza di un ordine sociale latente: "crediamo sia più ragionevole cercare di individuare le concrete possibilità di controllo dei meccanismi di violenza, piuttosto che sperare ingenuamente che si dissolvano. Se accettiamo l'esistenza di regole del disordine, potremo sviluppare strategie di controllo sicuramente più efficaci di quelle fino ad ora adottate" (Marsh-Harré-Rosser 1984, p. 170). In questa prospettiva, anche alla luce degli errori commessi nella gestione dell'ordine pubblico in occasione della strage dell'Heysel, quello che potrebbe apparire un disordine cieco e ingovernabile può essere analizzato come un disordine 'strutturato' che consente di cogliere le dinamiche latenti della violenza tipica del tifo estremo.
Come rileva Antonio Roversi (1994) in una rassegna degli studi sul 'teppismo calcistico' (football hooliganism), le prime ricerche sul tifo estremo furono condotte in Gran Bretagna al termine degli anni Sessanta. Sia nel caso di Ian Taylor (studioso di orientamento neomarxista) sia in quello di Eric Dunning (allievo di Norbert Elias) l'accento era posto sulla provenienza di classe degli hooligans. In uno studio del 1971 Taylor forniva una spiegazione della violenza degli spettatori inglesi focalizzata sul distacco avvenuto fra il calcio professionistico e le comunità operaie di tifosi tradizionali da un lato e, dall'altro, sulle contraddizioni interne alle diverse componenti della classe operaia presenti nelle tifoserie, limitandosi tuttavia a considerare le intemperanze dei tifosi tradizionali e non ancora quelle dei gruppi organizzati di giovani hooligans.
Le ricerche successive svolte dall'équipe di Eric Dunning tracciarono invece un vero e proprio profilo sociale degli hooligans quali bande di giovani degli strati più bassi della working class che, nel corso dagli anni Sessanta, tendono a collocarsi stabilmente nelle ends, l'equivalente delle curve degli stadi italiani. Tali tifosi, influenzati da una sottocultura intrisa di mascolinità aggressiva, nutrono un atteggiamento positivo nei confronti dei comportamenti violenti: "una partita di calcio, infatti, fornisce un contesto in cui essi possono agire in modi che sono condannati dalle pubbliche autorità e dalla società 'rispettabile' contando su una relativa immunità dall'arresto. Essi possono, per così dire, 'sfogarsi' per un momento e istituire un'inversione della struttura di potere della società circostante" (Dunning-Murphy-Williams 1990, p. 42).
Nel corso degli anni Settanta viene a crearsi progressivamente una situazione in cui ciascuna banda di hooligans elabora strategie tese a eludere i controlli e a sopraffare i tifosi rivali, i quali, a loro volta, sono costretti a seguirne l'esempio. Con gli anni Ottanta crescono gli episodi di violenza nel corso delle trasferte all'estero e sorgono le gang di 'superteppisti', come la nota Intercity Firm, i cui aderenti si recano in trasferta in incognito, indossando abiti eleganti, viaggiando sui treni rapidi per sottrarsi ai controlli della polizia.
Nel corso degli anni Novanta, dopo i provvedimenti presi dalle autorità britanniche in seguito alla tragedia di Hillsborough, il clima negli stadi inglesi è mutato. I vecchi impianti sportivi fatiscenti vengono ristrutturati e modernizzati, sono smantellate le terraces e abbattute le recinzioni che dividevano gli spalti dal terreno di gioco, ritenendo preferibile il rischio di invasioni di campo alla possibilità che si ripetano disastri analoghi a quello di Hillsborough. Fra gli spettatori aumenta la presenza della middle class, delle donne e delle famiglie e l'industria del calcio britannico, grazie ai proventi dei diritti televisivi, si riprende dalla crisi che l'aveva afflitta nel decennio precedente. Il clima sociale degli stadi britannici diventa più sereno e meno turbolento, benché, durante le trasferte all'estero, alcune frange violente delle tifoserie inglesi continuino a provocare incidenti.
Il caso italiano, a partire dalla fine degli anni Novanta, pare caratterizzato da una situazione opposta: crescono i disordini dentro e, soprattutto, fuori gli stadi, mentre, diversamente dagli hooligans, i tifosi ultrà italiani raramente esportano violenza nel corso delle trasferte all'estero e sono poco interessati a seguire e a sostenere la nazionale.
In Italia, il sorgere dei cosiddetti gruppi ultrà è legato a una trasformazione storica del pubblico degli stadi. Come rileva Roversi, a partire dalla fine degli anni Sessanta crescono le associazioni che organizzano quote considerevoli di giovani tifosi. Spesso si tratta di gruppi che espongono sugli spalti striscioni con la loro sigla e che seguono la squadra anche durante le trasferte. La nascita del tifo organizzato trasforma il rapporto che intercorre fra gli spettatori presenti sugli spalti e quanto avviene sul campo da gioco. L'atmosfera dello stadio si arricchisce dei colori delle coreografie delle curve e dell'incitamento del pubblico, sempre più rumoroso e corale.
A partire dai primi anni Settanta il pubblico delle gradinate si trova a ospitare fra le proprie file un crescente numero di gruppi organizzati di giovani dagli atteggiamenti vistosamente aggressivi. Questa nuova generazione di tifosi trae origine da almeno tre fattori: autonomia dalla tutela paterna (si va allo stadio con i coetanei); assimilazione per via imitativa delle forme di tifo hooligan, conosciute durante le trasferte internazionali, e di conseguenza del teppismo di matrice anglosassone; modelli parapolitici di coesione di gruppo, nei quali i legami di amicizia si sovrappongono alla militanza nei gruppi politici estremisti (Roversi 1990).
Un elemento che contraddistingue i gruppi ultrà è la spettacolarizzazione del tifo, basata su forme vivaci e ininterrotte di incitamento e da coreografie tipiche della curva (striscioni coloratissimi, enormi bandiere, fumogeni e spettacoli pirotecnici, canti e cori che coinvolgono, talvolta, anche il resto del pubblico dello stadio). Tali gruppi di tifosi costituiscono una forma di associazione strutturata, nella quale alcuni aderenti spesso non nascondono una certa propensione all'aggressione, ma che basa la propria esistenza sull'organizzazione di un evento spettacolare: la coreografia e l'incitamento tipici della curva.
Riassumendo, nel caso inglese, durante gli anni Settanta e Ottanta le finalità violente degli hooligans risultano prive di una logica interna legata al tifo calcistico. Inoltre, ai teppisti inglesi sembra mancare la dimensione organizzativa 'parapolitica', più strutturata, dei tifosi di curva italiani. Fra gli ultrà, invece, la disponibilità allo scontro violento convive con un bisogno profondo di apparire nei rituali autocelebrativi e coreografici del tifo di curva: un fenomeno che necessita di una dimensione associativa e di militanza, volontariato e raccolta di risorse inimmaginabile fra i tifosi delle ends inglesi.
Tuttavia, nel corso degli anni Novanta si manifesta una profonda crisi dell'universo ultrà. Contemporaneamente al declino e alla mancanza di ricambio generazionale della leadership dei gruppi di curva e alla crescente precarietà dei 'gemellaggi' (cioè di quei patti di non belligeranza che consentivano di evitare lo scontro fra alcune organizzazioni ultrà), si diffonde la frammentazione delle tifoserie in più organizzazioni instabili e in concorrenza per la supremazia. Nel contempo crescono i disordini, di matrice extracalcistica, provocati dalle organizzazioni della destra radicale che trovano nelle curve degli stadi un luogo di propaganda e di iniziativa politica.
Il 29 gennaio 1995 la morte di Vincenzo Spagnolo, un giovane tifoso del Genoa accoltellato da un ultrà del Milan, segna una svolta decisiva. Mentre le autorità calcistiche decidono di sospendere per una settimana il campionato, il 5 febbraio centinaia di tifosi militanti provenienti dalle tifoserie di curva di 38 città diverse si ritrovano a Genova, in un'assemblea, per discutere come ripristinare un certo grado di ordine e di lealtà nel mondo degli ultrà italiani. Il tentativo si rivela intrinsecamente ambivalente: da una parte si cerca di dare un'etica al tifo estremo, ma dall'altro non viene respinta l'idea del ricorso alla violenza nel confronto fra tifoserie rivali. Il comunicato emesso al termine dell'assemblea risulta così inevitabilmente elusivo e contraddittorio. "Il concetto centrale ‒ sintetizzano Colombo e De Luca (1996, p. 74) ‒ è espresso in quel basta lame, basta infami, una sorta di appello a tornare indietro, a ricordarsi del codice non scritto, a rispettare le regole [...] la messa al bando di chi alle mani nude preferisce le lame". L'appello lanciato al raduno di Genova del febbraio 1995 da una generazione di leader ultrà in declino non ha alcuna ricaduta pratica, ma segna una dissoluzione irreversibile delle vecchie organizzazioni ultrà che favorisce una nuova ondata di teppismo di tipo 'anomico' (cioè privo di quelle regole che avevano contraddistinto le violenze rituali dei 'vecchi' gruppi di curva) e ormai sempre più incline alla violenza gratuita, al vandalismo, al razzismo e alla xenofobia.
Mentre all'epoca della strage di Bruxelles, durante la fase acuta dell'emergenza hooligans, erano gli stadi inglesi a essere descritti come 'campi di prigionia altamente sorvegliati', oggi gli osservatori inglesi rimangono sbigottiti per la profonda militarizzazione degli stadi italiani. Nonostante ciò, come rileva Giorgio Triani, "diventa quasi legittimo pensare che non ci sia in fondo una reale volontà di venire a capo del tifo violento. Forse perché ‒ sia pure in modo nascosto o inconfessato, anche perché inconfessabile ‒ disordini, devastazioni, feriti, persino qualche morto, se riconducibili all'evento sportivo, cioè se situabili in un contesto definito e non cruciale per l'integrità del sistema sociale, rappresenterebbero un costo ragionevole e sopportabile. 'Meglio essere cattivi là che altrove' ha scritto Raymond Aron" (Triani 1994, p. 61).
In questo capitolo ci siamo soffermati su numerose varianti del nesso sport-violenza. Benché il significato del concetto di violenza possa apparire ovvio e scontato, l'analisi storica e sociologica delle competizioni sportive mostra come tale significato possa variare non solo nel tempo, ma anche a seconda dei contesti sociali specifici in una stessa epoca.
Nell'epoca moderna gli sport apparentemente più duri rappresentano un contesto nel quale l'abbassamento della "soglia di ripugnanza nei confronti della violenza" diviene temporaneamente legittimo e assolve una funzione deroutinizzante (Elias-Dunning 1986). D'altro canto, nella società dello spettacolo, la dimensione dell'intrattenimento prevale rispetto alle caratteristiche intrinseche della logica e dell'etica sportiva. Numerose tragedie caratterizzano alcuni eventi spettacolari dello sport del Novecento. Il calcio, in particolare, è lo sport più vulnerabile nei confronti dei comportamenti violenti di alcune quote ben definite di spettatori; d'altra parte esso è emblematico della supremazia mediatica dello spettacolo rispetto alla più umile pratica sportiva disinteressata. Certo, la perdita di purezza ludica di gran parte degli sport contemporanei non è dovuta unicamente a questi aspetti: il cosiddetto 'narcisismo della folla' va ben al di là del problema dei comportamenti violenti che si manifestano nel calcio o in altri sport che incarnano una metafora bellica o dei combattimenti ritualizzati, e sembrerebbe contraddistinguere gran parte di quelle competizioni sportive che hanno oggi guadagnato un pubblico di massa.
Al di là dei numerosi episodi di violenza 'interna' ed 'esterna' alla logica della competizione sportiva, sui quali ci siamo ampiamente soffermati, le discipline sportive basate sul confronto fisico fra gli atleti o fra équipe rimangono uno scenario sociale dove i riti collettivi e la componente agonale assumono una dimensione fatidica, ma che nel contempo continuano a rappresentare una strategia di limitazione dell'aggressività e della violenza agita. Lo sport come spettacolo ‒ e non solo come pratica edificante ‒ rimane inevitabilmente esposto a un forte clima di esasperazione emotiva all'interno di una cornice sociale i cui margini sono spesso precari, instabili, dove la provocazione metaforica o il duello simbolico rischiano di risultare assai più spettacolari della competizione disinteressata teorizzata a suo tempo da Pierre de Coubertin. In fondo, se gli sport moderni sono competizioni strutturate che riflettono una società strutturata, lo stesso ragionamento vale per gli eccessi di aggressività degli atleti o per la stessa violenza degli spettatori. Lungi dal risolversi in una zona franca o in un'oasi di purezza ludica, lo sport è davvero uno specchio profondo della nostra epoca.
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