Sport
Lo sport può essere definito come un'attività tesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e anche come il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui tale attività si realizza. È praticato nel rispetto di regole codificate da appositi enti, sia per spirito competitivo (differenziandosi così dal gioco in senso proprio) sia, fin dalle origini, per divertimento, senza quindi il carattere di necessità, di obbligo, proprio di ogni attività lavorativa. L'evoluzione della pratica sportiva è collegata direttamente al ruolo svolto nella società, alla considerazione di cui è oggetto in un determinato contesto culturale, politico ed economico. Identificato in taluni casi con l'educazione fisica, come strumento pedagogico e talvolta anche ideologico con fini di carattere eugenetico, estetico, morale, perfino razziale, lo sport si caratterizza oggi soprattutto per le sue valenze agonistiche che fanno del desiderio della vittoria il solo obiettivo, fino a trasformarsi in fenomeno professionistico dotato di una sua organizzazione economica, amministrativa e scientifico-sanitaria.
Il termine inglese sport - usato anche retrospettivamente per designare, in modo più o meno antistorico, le attività ludiche dei popoli primitivi e del mondo classico - ha acquistato una generalità semantica e una diffusione planetaria che nessun termine precedente (per es., il greco ἀγών o gli equivalenti latini certamen e ludus) aveva mai avuto. Eppure l'origine della parola viene dall'etimo romanzo e francese antico desporter, "portar via", nel senso di distogliere, divertire, ricreare, svagare, di cui è un residuo raro l'italiano 'diporto'. Da questa locuzione, usata correntemente in Francia fino al Cinquecento, per es. da F. Rabelais, proviene l'inglese disport, usato da G. Chaucer e da J. Milton nel senso appunto di svago (la caccia, la pesca, le gare atletiche, ma anche il gioco erotico). La forma sport appare nella versione inglese della Bibbia detta del re Giacomo, e in W. Shakespeare con il significato di gioco scenico o di vera e propria rappresentazione teatrale. Parte della semantica originaria permane nell'inglese, in locuzioni che indicano il gioco, lo scherzo (anche lo scherzo di natura), l'esibizione ludica. L'uso di sport, nel significato oggi più diffuso, risale all'età della prima rivoluzione industriale, a metà del secolo 18°, quando il processo d'innovazione socioeconomica fondato sulla competizione e sulla libera concorrenza investì la società di antico regime e si estese anche alle attività ricreative (Mandell 1984). Da questa innegabile considerazione i teorici dello sport che si ispirano al materialismo storico hanno ricavato una tesi generale: l'esercizio fisico sportivo non è che un aspetto della divisione del lavoro e della produzione sociale, risalente alle attività primitive dei popoli cacciatori e raccoglitori e consistente nell'acquisizione di abilità muscolari e di destrezza indispensabili alla sopravvivenza, prerogative uniche della specie umana (Körperkultur und Sport in der DDR 1982). Questa teoria ha qualche verosimiglianza, soprattutto se vista nel contesto neodarwiniano dell'evoluzione biologica e sociale dell'uomo; ma resta difficilmente dimostrabile, né spiega la sopravvivenza di tali abilità in società molto evolute, oltre ai grandiosi sviluppi delle attività ludiche e sportive, a loro volta ormai prive di qualsiasi significato evolutivo. Un'altra teoria del gioco sportivo si fonda sulla moderna ricerca etologica. L'infante umano ha in comune con gli animali un'attività ludica rispondente a precise finalità dell'organismo: l'esplorazione dell'ambiente con il quale interagisce, la sperimentazione delle proprie capacità di reazione, l'apprendimento delle tecniche di sopravvivenza. Ma se gli animali giocano come l'uomo, nessuna specie animale pratica intenzionalmente sport; né appare soddisfacente il concetto etologico che l'attività sportiva rappresenti una pura e semplice scarica di tensione, se si pensa alla terribile carica di aggressività che taluni sport provocano nelle masse, o viceversa agli sport che sono del tutto privi di carica aggressiva.
Le ricerche di antropologia ed etnologia fondate sul metodo comparativo hanno dato luogo a una vasta letteratura che studia le connessioni tra religioni primitive, rituali, tabu e pratiche sportive. Per es., è stato descritto il trasporto di pesanti tronchi da parte di due squadre in gara presso la tribù brasiliana dei timbiri: un esercizio assai impegnativo, eppure privo di vincitori e vinti, che gli indigeni eseguono ignorandone il significato. Gli indiani hopi dell'Arizona celebrano i riti della propiziazione per la pioggia con corse a piedi. I giochi a palla degli aztechi, regolati da norme molto precise, erano carichi di un complesso simbolismo cosmologico e religioso. Gli indiani d'America della tribù cherokee praticavano un gioco a palla rituale del quale esistono resoconti dettagliati: esso era preceduto da allenamenti accurati, protetto da tabu di vario genere, come diete speciali, astinenza da rapporti sessuali, ritiri, del tutto analoghi a quelli praticati dalle squadre di calcio. La preparazione degli atleti alle gare con danze in costume, abluzioni e purificazioni conferma - insieme ad altri elementi - la natura cultuale di simili pratiche, che culminavano in cruente graffiature mediante pettini, alle quali i giocatori si assoggettavano per ragioni sacrificali. L'analisi comparata di tali pratiche rituali arcaiche ha indotto gli antropologi a ritenere che i loro protagonisti si comportino come vittime sacrificali di ordalie e riti immemorabili, legati al culto della vegetazione. Si tratterebbe di cerimoniali inabissati nel subconscio collettivo, dei quali è stato generalmente rimosso il significato originario, così come è stato rimosso il significato rituale dei gesti apotropaici e dei più comuni segni di saluto. Confronti illuminanti sono stati tentati tra i comportamenti rituali dei popoli primitivi e i cerimoniali sportivi degli antichi greci. Si è molto discusso circa il nesso che può sussistere tra vari aspetti della religione olimpica e le celebrazioni solenni di giochi e gare in occasioni funebri, i festival periodici di Olimpia e degli altri santuari greci. Alcuni studiosi hanno posto l'accento sul loro significato agonistico e sulla loro 'modernità', minimizzando l'aspetto propiziatorio e cerimoniale retrostante le pratiche sportive cantate da Omero e da Pindaro, testimoniate da numerose fonti letterarie, fissate in tanti capolavori figurativi. Ma l'agonismo dei greci sembra acquistare un significato pregnante, se si interpretano i loro giochi atletici come repliche più o meno consapevoli di veri e propri riti sacrificali, in cui gli atleti in gara svolgevano il duplice ruolo di vittime e di celebranti. Il vincitore di una gara importante era considerato un eletto degli dei. Scrittori e poeti esaltavano le sue virtù come segno di predilezione delle divinità alle quali i giochi erano dedicati. La corsa a piedi lungo uno stadio (210 m), gara culminante dei giochi olimpici, aveva luogo di fronte all'altare di Zeus. Il vincitore celebrava simbolicamente il proprio ruolo di vittima e di sacerdote dando fuoco alle spoglie consacrate del bue sacrificale. L'analisi di taluni dettagli sembra confermare la sopravvivenza di antichissime pratiche rituali legate ai culti della vegetazione, alle cerimonie agrarie, alla caccia e alla pesca, il cui significato originario era stato rimosso già in età classica. Per es., l'incoronazione del vincitore con fili di lana - raffigurata in molte scene di pitture vascolari - ricalca una simbologia usata per le vittime sacrificali offerte agli dei. Il premio costituito da un lebete in bronzo perpetuava il ricordo della cottura delle carni del sacrificio. Tracce degli antichi culti agrari e della vegetazione si ritrovano nell'uso di adornare i vincitori con corone d'alloro, edera o ulivo, simboli dei poteri magici della vegetazione. Questi ornamenti avevano anche un valore pragmatico, nel senso che ripetevano in modo inconsapevole i camuffamenti di foglie o di fronde utilizzati dai cacciatori arcaici per avvicinarsi alle prede senza essere riconosciuti (Sansone 1988). Si tratta di espedienti ben documentati dagli etnologi presso tribù primitive d'America e d'Oceania; e il rituale si replica nella premiazione degli atleti non solo presso gli antichi greci, etruschi e romani, ma nel simbolismo dei premi e delle coppe in uso negli sport moderni.
Fra il 18° e il 19° secolo il corpo assume un ruolo fondamentale nella costituzione e nella caratterizzazione dei processi economici, politici e culturali che investono la società occidentale. Ciò è reso possibile dalla nuova utilizzazione sociale del corpo, la quale si verifica in seguito all'applicazione delle conoscenze prodotte dalla filosofia, dalla biologia, dalla fisiologia, dalla medicina, dalla nascente sociologia e, infine, dalla psicologia sperimentale. La rivalutazione del corpo non si esaurisce all'interno delle discipline che se ne occupano, ma rappresenta un fenomeno che pervade l'intera società. Il suo specifico luogo di individuazione e di realizzazione è rappresentato dallo spazio, ludico prima e sportivo poi, della relazione sociale: in una parola è il gioco, il gioco definito dal tempo libero e inserito nella cultura del tempo. Dal suo luogo naturale il corpo rinnovato, o per meglio dire rivissuto, modernamente vissuto, trasferisce la sua nuova carica fisica, culturale, etica e psicologica nelle altre dimensioni della vita sociale. La nuova rappresentazione scientifica del corpo permette la creazione di una concezione sociale del corpo medesimo: una concezione progressiva, articolata, pluralistica, la quale finisce con il promuovere atteggiamenti e comportamenti che determinano investimenti sempre maggiori, intesi a favorire e istituzionalizzare l'impiego di risorse umane e sociali nelle attività corporali. È così che, a partire da questo momento, gradualmente tutti i paesi del vecchio continente vengono percorsi da quella che si potrebbe definire la 'rivoluzione del corpo'. Riconsiderato sul piano scientifico, gratificato da una rappresentazione culturale forte e pregnante, investito di alti significati civili, il corpo acquista una chiara visibilità pubblica destinata con il tempo a radicarsi, potenziarsi e articolarsi fino al punto di costituire un sistema istituzionale all'interno della società in generale. In maniera sempre più intensa, sotto la prevalente concezione che intende l'uomo soprattutto come faber, il corpo, già sul finire del Settecento, è investito di crescenti 'cure', ginniche, mediche, igieniche, salutistiche, il cui scopo principale è quello di ottimizzarne il rendimento nei processi produttivi. Esso, in particolare, diventa l'oggetto di una teoria 'lavorista' che, sempre con l'avallo della scienza, si determinerà storicamente nei decenni successivi in parallelo con l'espansione delle forme capitalistiche e industriali della società europea.
Tuttavia, nei primi decenni dell'Ottocento, che preparano l'avvento delle grandi potenze e degli imperi coloniali, una diffusa concezione ludica dell'esistenza umana contribuisce a imprimere una più marcata valenza sociale e culturale al corpo. A fianco dell'uomo 'produttore', dell'homo faber, fa la sua apparizione l'homo ludens, un uomo che accanto alle operose attività economiche, politiche, religiose e filantropiche sente il bisogno e la necessità di occasioni di svago e di divertimento. D'ora in poi homo faber e homo ludens andranno di pari passo, percorreranno insieme per oltre un secolo un lungo itinerario nella storia della società e della cultura, dell'economia e della politica. Fra i due aspetti si svilupperà una sorta di sinergia, quasi di osmosi, che produrrà in Europa una strategia tendenzialmente uniforme di investimento sul corpo nei due nuovi 'territori' della socialità moderna: quello dell'educazione, formalizzata nelle istituzioni pedagogiche, e quello del tempo libero, all'inizio ingannevolmente inteso come regno delle opzioni personali, ma destinato a rivelarsi ben presto terreno di coercizione culturale e di esercizio del controllo sociale. Il corpo, infatti, insieme con la sfera del comportamento morale, viene considerato uno dei campi primari di intervento dei nuovi processi educativi, mirati alla formazione dei soggetti della neonata società industriale.
Un obiettivo preciso domina le strategie formative nel tempo delle cosiddette rivoluzioni borghesi e nazionali: educare il corpo. Quando, infatti, nelle contrade d'Europa si scoprono e si denunciano con toni apocalittici la debolezza fisica e l'incipiente degenerazione della specie, è con l'educazione del corpo che si pensa di poter rigenerare la società invertendo il processo regressivo. In particolare, si richiede all'educazione del corpo di creare la nuova cultura del corpo: una cultura in grado di dare un indirizzo eticamente orientato all'esercizio delle energie fisiche e muscolari, di formare insieme al corpo anche il carattere di buoni cittadini e di valorosi soldati, rispettosi dell'ordine sociale e delle idee dominanti. Educare il corpo significa, in primo luogo, svolgere un impegno motorio, fare ginnastica, quindi partecipare ad attività fisiche e di gruppo fuori del tempo della scuola e del lavoro, ossia nel tempo libero. Tali attività, individuali, collettive e di squadra, oltre all'impegno motorio, richiedono l'osservanza di regole, norme e valori che costituiscono le basi di ogni pratica ludica che prenda il nome di sport. In questo modo, dall'educazione diretta del corpo si passa alla cura della sociabilità del corpo tramite le attività sportive che disciplinano e regolamentano il tempo libero. Inoltre le attività sportive, nella loro caratteristica di modelli culturali per vivere il tempo libero, diventano al contempo sistemi condivisi e accettati di comportamento in grado di compensare la ripetitività e la monotonia di un tempo di lavoro privo di attrattive. Lo sport diventa così uno dei luoghi di produzione di una socialità nuova, utile al sistema che lo ha prodotto e promosso e del quale rappresenta un elemento di civilizzazione. Lo sport esercitato sotto il regime ludico diventa una forma dell'esistenza e come tale occupa uno spazio sociale suo proprio nella dimensione della 'realtà ordinaria', accanto agli altri spazi, del lavoro, della religione, della politica, del sesso ecc., che costituiscono l'universo sistemico ove si realizza l'esistenza umana. Come forma della realtà sociale lo sport è compenetrato dalle altre forme sociali, così come esso stesso, in varia misura, le compenetra. Per tale reciproca compenetrazione, lo sport esercita la sua funzione di interazione con gli altri spazi sociali, dal sottosistema economico a quello politico, da quello educativo e culturale a quello sanitario ecc. Oltre a essere il luogo privilegiato di realizzazione di loisir (tempo libero), lo sport finisce così con l'essere anche un fattore coproduttivo di altre forme della realtà sociale.
La forma sociale sportiva diviene luogo di creazione del capitale fisico adeguato ai processi produttivi e luogo di formazione morale degli individui e dell'identità etica delle comunità nazionali; luogo di socialità politica e direttamente della politica, come fattore di conservazione o di trasformazione, o come verbo politico di classi, gruppi, partiti, movimenti nazionalistici, etnie; luogo di cultura, nel senso antropologico del termine, come fattore di riproduzione e di rinnovamento di sistemi di valori, o come forma di espressione e volontà di emancipazione di subculture. In quanto contesto convenzionale e di mediazione, lo sport diventa altresì luogo dinamico delle relazioni fra classi e gruppi, così come fra gli Stati-nazione, e in quanto fattore di identificazione sociale, nonché come modalità di canalizzazione funzionale di energie, sentimenti ed emozioni, diviene luogo della psicologia individuale e di massa. Si configura, infine, come luogo della ricerca della perfezione biofisiologica della specie e luogo dell'economia, in quanto 'fabbrica del tempo libero', con i connessi fenomeni di commercializzazione, e in quanto pratica professionistica o di massa. Complessivamente sono queste le coordinate lungo le quali si è verificata nei secoli 19° e 20° quella che può essere definita l''esplosione sociale' del fenomeno sportivo, che ha progressivamente coinvolto Stati e sistemi sociali, popoli e paesi un tempo ai margini della civiltà e che ha visto la partecipazione massiva tanto di individui quanto di gruppi sociali. Per tali motivi si potrebbe affermare che lo sport ha due secoli di vita e che la sua evoluzione, come taluni hanno sostenuto, è stata uniforme e lineare. Ma questo equivarrebbe ad affermare che la storia dello sport coincide con la storia dello sport europeo, e ciò non è vero, tanto più che quest'ultima non si presenta nemmeno con caratteri così omogenei da rappresentare un fenomeno unitario. Per di più oggi, con l'universalizzazione del fenomeno sportivo cui stiamo assistendo, non è più possibile farne una storia che non sia su scala mondiale. Non si può però nemmeno negare che lo sport come forma sociale sia storicamente ben caratterizzabile. Come tale, esso esprime la storicità della società industriale dell'Occidente in cui è nato, si è espresso e continua a svilupparsi. Per questo motivo, la settoriale storia dello sport andrà sempre a inscriversi nella storia generale della civiltà occidentale, della sua affermazione, della sua evoluzione e della sua espansione su scala planetaria.
Pochi fenomeni contemporanei sono così 'ingombranti' come lo sport. Spettacolo principe delle società di massa - come confermano la sua centralità nell'intrattenimento televisivo e la sua rilevanza commerciale -, lo sport è insieme manifestazione espressiva, stile di vita, modello di comportamento, veicolo comunicativo, ideologia, passione popolare, tecnologia, nonché chiacchiera quotidiana. Qualche antropologo, seguendo le orme di M. Mauss, si è spinto a descriverlo come un fatto sociale totale, capace di mettere in luce la trama sotterranea che regola le relazioni collettive. In altre parole, un vero e completo sistema sociale. Qualche sociologo, riecheggiando É. Durkheim e M. Weber, vi ha colto la capacità di dare risposta culturale a un bisogno insoddisfatto delle società di massa: quel desiderio di significato che crea eventi insieme programmabili e irripetibili, producendo nuove mitologie.
Eppure, al di là di queste intuizioni, gli studiosi di scienze sociali sembrano essere lontani da una vera comprensione della natura profonda e delle implicazioni del fenomeno sportivo nelle società di massa contemporanee. Lo sport rimane ancora, per molti aspetti, una delle manifestazioni più discusse e meno capite del nostro universo sociale. Fenomeno complesso, multidimensionale, contraddittorio, esso richiede un approccio scientifico necessariamente interdisciplinare, presuppone il rischio della scoperta, tende a eludere rappresentazioni nitide e lineari. In alcuni contesti scientifici nazionali, fra cui quello italiano, grava anche un pregiudizio elitistico della cultura accademica, sino a pochi decenni orsono poco incline a farsi coinvolgere in quella che era percepita (anche per scarsa conoscenza delle matrici storiche del fenomeno) come una tipica produzione della cultura di massa. E pesa un pregiudizio ideologico, che ha a lungo accomunato certi filoni del vecchio idealismo filosofico e i critici radicali del nuovo 'oppio dei popoli'. Soprattutto, però, va considerata la sfida intellettuale che lo sport rivolge a una confortevole lettura dicotomica della vita sociale, ossia lavoro versus tempo libero; mente versus corpo; sfera della 'serietà' versus ambito del divertimento; infine, economico versus non economico. Lo sport moderno si produce al crocevia di intricate dinamiche culturali. Se lo spettacolo agonistico classico - l'esempio limite è costituito dai giochi del circo romano - includeva le categorie della violenza e della crudeltà, spettacolarizzandole, lo sport moderno si afferma come costruzione di eventi mimetici, nei quali la violenza è simulata sino alla miniaturizzazione della guerra. Insieme, lo sport diviene un veicolo formidabile di interiorizzazione delle norme e delle obbligazioni sociali. Anzi i moderni giochi di squadra sarebbero il prodotto di un conflitto simbolico fra costumi agrari tradizionali, rappresentati dai giochi di villaggio e dalle pratiche di forza e destrezza associate alla devozionalità religiosa, e l'ideologia competitiva, propria del nascente industrialismo. Con l'affermazione progressiva dei valori e dei modelli di comportamento del capitalismo, nonché dei vincoli sociali della statualità, vengono definite regole del gioco sempre più minute e simbolicamente coercitive, con il ricorso a un arbitro che costituisce la metafora del giudice e del controllo sociale. Lo spazio fisico del gioco viene delimitato, circoscritto, recintato entro le geometrie ossessive dello stadio o di altro campo di gara.
Autori di orientamenti culturali e formazione scientifica assai differenti si sono dimostrati spesso sensibili alle ragioni sociologiche del fenomeno sportivo; ma è solo di recente, con le ricerche di A. Guttmann, che si può parlare di una piena assunzione, da parte delle scienze sociali, della sportivizzazione come dinamica sociale indagabile alla luce della teoria di Weber della modernizzazione e 'scientificizzazione del mondo'. Per Guttmann (1978), i moderni giochi sportivi si pongono in linea di derivazione con la distinzione fra gioco spontaneo (play) e pratica retta da regole (game), posta da G.H. Mead alla base della sua teoria dei ruoli sociali (v. anche gioco). Lo sport discende dunque dal game, nella sua versione competitiva (contest) associata all'esercizio della corporeità (specificazione che apre la controversa questione dei giochi 'mentali', tipo gli scacchi o il bridge). Ma è la modernità industriale a inserire compiutamente lo sport nel reticolo del sistema sociale. Anzi, a farne - come affermano N. Elias e E. Dunning (1986) - una sorta di potente metafora della modernità. Lo sport di competizione, infatti, presuppone un'avanzata secolarizzazione della società. È l'emancipazione dall'uso puramente celebrativo e liturgico della corporeità - come nelle danze sacre o nelle esibizioni devozionali - che libera e rende possibili la gara e il suo corollario intrinseco, la classifica.
Nel contempo, nello sport moderno si riflette il principio industrialistico della specializzazione. La molteplicità delle pratiche agonistiche evidenzia perfettamente una cultura sociale che si ispira alla divisione funzionale del lavoro e che fa di questa un elemento portante della razionalizzazione. Insieme, lo sport competitivo ha bisogno di regole certe, di istituzioni organizzative permanenti, di giudici e sedi arbitrali. La razionalizzazione si associa in tal modo alla burocratizzazione, ma l'altra faccia di questo processo è rappresentata dall'adozione di un principio di pari opportunità di fronte all'accesso alle pratiche e alle sue regole. In questo senso, lo sport riproduce le istanze egualitarie della modernità, affermando codici comportamentali (il fair play, la lealtà sportiva) spesso ipocritamente invocati e rinnegati nei fatti dall'avvento precoce del campionismo e della commercializzazione estrema (si pensi al doping, ai risultati truccati, all'etica del risultato a qualsiasi prezzo). Quello che si vuole però evidenziare è che la filosofia delle pari opportunità è un tipico prodotto della cultura politica della modernità, del tutto sconosciuta allo sport classico e a quello medievale. Infine, con l'ideologia della quantificazione della prestazione e del record si realizza un'intima compenetrazione fra sport e industrialismo, l'uno come l'altro governati dall'imperativo di misurare, calcolare, rendere tangibile e verificabile il prodotto di un'attività umana. L'introduzione dell'elettronica nella misurazione di tempi e distanze ha condotto questa tendenza a esiti quasi parossistici: in alcune specialità le differenze di risultato si misurano ormai in millesimi di secondo, cioè fuori di ogni capacità percettiva dell'occhio e del cervello umani, ma in assoluta coerenza con l'imperativo sociale della misurazione. E l'idea di record, assolutamente estranea allo sport classico, consente un altro miracolo spaziotemporale, permettendo agli atleti di competere non solo con gli avversari diretti, ma anche con atleti che hanno gareggiato in passato o che potranno in futuro tentare di battere quel tempo o quella misura. Inoltre con il record la competizione può essere anche con sé stessi, nello sforzo costante e un po' nevrotico di migliorare la propria prestazione, in un sottile gioco psicologico che chiama in causa bisogni di compensazione e pulsioni perfezionistiche.
Più interessato a descrivere la parabola storica dello sport in relazione ai processi di democratizzazione, R. Gruneau (1983) si è concentrato sulla fase genetica dello sport contemporaneo, cercando di dilatare il campo d'osservazione ristretto al paradigma britannico-vittoriano. In questo senso, lo studioso canadese interpreta l'emergere dell'universo competitivo come momento cruciale del passaggio dalle società tradizionali preindustriali a quelle industriali contemporanee. Sistemi sociali, questi ultimi, di cui lo sport riproduce l'ambiguità: il successo agonistico diviene un paradigma della mobilità 'ascensionale', ma entro il recinto della promozione individuale, affidata alle doti eccezionali del talento, della tenacia, della fortuna. Insieme, la professionalizzazione e lo stesso campionismo, quali si affermano sin dalla fine del 19° secolo, rompono obiettivamente il circuito ristretto ed elitario dei vecchi giochi aristocratici sportivizzati. Lo sport nel Novecento è per Gruneau l'unico vero 'idioma globale' dell'umanità, capace di dar vita a imponenti e iperstrutturate istituzioni sociali, a loro volta espressione quasi paradigmatica della dominanza culturale della civiltà urbano-industriale. I cenni che si sono fatti allo sport come potenziale lente culturale, capace di far risaltare gli aspetti strutturali e le latenze psicologiche di massa di un'intera società, ci consentono ora di precisare meglio i tratti propri di un fatto sociale tendenzialmente totale. Lo sport può essere insomma rappresentato come articolazione, manifestazione, contesto paradigmatico del più esteso sistema sociale. È questa la classica angolatura funzionalistica, attenta a cogliere la distribuzione dei ruoli, i nessi di dipendenza, interdipendenza e autonomia, le gerarchie e i modelli strutturali delle organizzazioni sportive. Si descrive così un sottosistema funzionale, retto da logiche d'azione sostanzialmente ispirate dagli schemi di analisi collaudati dalle ricerche organizzative. L'organizzazione sportiva, come qualsiasi altra, viene identificata attraverso le finalità che si attribuisce, il tipo di composizione sociale che esprime, le dinamiche di avvicendamento delle leadership, la capacità di adattarsi a quell'ambiente esterno che è rappresentato da altre organizzazioni in competizione, da istituzioni chiamate a regolare il sottosistema sportivo e da una cultura sociale diffusa non meglio definita e descritta il più delle volte in chiave impressionistica. Dello sport vengono sottolineate la valenza simbolica, la carica espressiva, la capacità drammaturgica: un epifenomeno, appunto, del 'grande sistema'.
Più convincente è una visione dello sport come autonomo sistema sociale, attraversato da logiche d'azione molteplici e in relazione complessa con l'ambiente. Al punto che è persino possibile descriverne la concreta esperienza - sia nell'ottica del praticante sia in quella dello spettatore più o meno 'mobilitato' - come quella propria di un fenomeno organizzativo che sicuramente riflette più vaste relazioni sociali, ma che è anche capace di 'costruire' il proprio ambiente, rispondendo a pressioni e logiche di tipo endogeno. K. Heinemann e N. Puig (1996), studiosi interessati a cogliere soprattutto l'esperienza sportiva come dimensione della vita quotidiana, costruita attraverso l'interiorizzazione di stili di vita, modelli di comportamento e, ovviamente, miti e gusti collettivi, ci offrono una rappresentazione tipologica abbastanza utile a questo scopo. Essi distinguono fra quattro principali modalità di fruizione esistenziale della dimensione sociale dello sport. La prima rinvia al classico paradigma dello sport 'di competizione'. Si tratta di un modello culturale che impone regole di partecipazione alla vita associativa relativamente rigide, che afferma valori uniformi - il già ricordato fair play, lo spirito di squadra, l'etica del vincere e del perdere - e che produce modelli di organizzazione fondati sul volontariato, sul coinvolgimento dei membri nella gestione societaria e sull'elaborazione di un simbolismo comunitario di tipo identitario. Questo modello prefigura obiettivi collettivi di tipo agonistico (vincere un campionato), ma anche a più ampia latitudine sociale. È il caso dello sport educativo o inteso come pratica di socializzazione per l'integrazione di minoranze. In tutti i casi riproduce la filosofia del lavoro, la work morality fondata sul risultato conseguito con perseveranza e dedizione. Etica dei fini e logica del risultato ne fanno un tipico prodotto della modernità industriale. Ma l'affermarsi nelle società industriali avanzate di nuove tavole di valori ha generato in seno al sistema sportivo un secondo importante paradigma, che gli autori chiamano 'espressivo'. Allo sport, o meglio alla pratica fisico-motoria, si chiede qualcosa di radicalmente diverso: meno strutturazione organizzativa, meno obiettivi dati una volta per tutte, maggiore flessibilità, più possibilità di intervenire creativamente da parte dei soggetti coinvolti nella produzione di significato che alla pratica si connette. È un modello assai più aperto all'innovazione, alla diversificazione e alla contaminazione di esperienze che lo sport competitivo tendeva a rendere non comunicabili. Sciare sulle Alpi non è più un'attività specifica, legata a una disciplina agonistica a sua volta fortemente compartimentata in specialità, regole, tecniche e metodiche. Il consumatore 'espressivo' di sport di montagna non si nega alla sperimentazione del monosci o del parapendio, del trekking o del free climbing. Esperienze che lasciano trasparire una nuova produzione culturale, che chiameremo latamente ecologistica. Scalare una montagna a mani nude, senza l'ausilio di chiodi e piccozze, è culturalmente molto diverso dall'aggredire una parete scoscesa vulnerandone la superficie per il piacere di 'conquistarla', così come praticare l'equitazione di campagna si situa in un certo senso agli antipodi della tradizionale equitazione da concorso, nella quale è essenziale il dominio ferreo del cavaliere sull'animale e la capacità di 'sottomettere' un ambiente di gara assolutamente artificiale, fatto com'è di simulazioni architettoniche (barriere, siepi, muri, ostacoli di ogni tipo), utili a proclamare il primato dell'abilità, della disciplina, del rispetto ossessivo delle regole formali. Creando pratiche a propria misura, mescolando l'esperienza di un trekking in alta quota con quella di un corso di yoga o della riscoperta delle danze tradizionali, si afferma la fun morality, quell'etica del piacere che forse esprime il bisogno di compensare la prevedibilità, la routine della vita quotidiana. Chiaramente, a legittimare lo sport espressivo non è più il conseguimento di un qualche risultato collettivamente definito e tenacemente perseguito dal club, dalla squadra, dal gruppo noi-loro, bensì la sua capacità di gratificare chi lo pratica. In questo senso, si tratta di un modello volatile, volubile, scarsamente strutturato e assai più centrato sull'utenza che non sull'identità.
Un terzo modello è rappresentato dalle pratiche di sport 'strumentale', in cui la fonte di legittimazione è costituita dal desiderio di star bene (cultura della fitness) o dal bisogno di realizzare un'immagine seducente della personalità attraverso l'efficienza fisica. Fedeli ai due comandamenti dell'etica secolarizzata postmoderna 'non invecchiare; non ingrassare', veicolata da quella cultura di massa dell'immaginario che è la pubblicità televisiva, i cultori di questo tipo di pratica fisica esprimono quella filosofia del narcisismo e della distinzione descritti da C. Lasch (1978) e da P. Bourdieu (1979). Il 'corpo in forma' identifica un luogo sociale specifico, in cui la sua immagine si produce e si preserva: la palestra di body building o di ginnastica aerobica, in tutte le loro infinite varianti commerciali. Si tratta, ovviamente, di un'esperienza tendenzialmente individualistica, in cui i paradigmi organizzativi e gli apparati simbolici del classico sport agonistico vengono quasi totalmente meno. Centrale non è più un sentimento di appartenenza identitaria, ma una ricerca di gratificazione e di immagine per definizione personalizzata. Infine, l'era della televisione e dei media planetari produce una declinazione aggressiva dello sport 'spettacolare', assurto a manifestazione principe dell'universo mediatico globale. Basti pensare all'impatto di pubblico e all'imponente circuito commerciale che si associano ai grandi eventi sportivi, dalle Olimpiadi ai Mondiali di calcio, passando per una gamma amplissima di offerte mirate a pubblici particolari. Non si vuole con questo sostenere che lo sport spettacolo sia un'invenzione della modernità tecnologica. L'evento, competitivo e non, possiede da sempre uno straordinario potenziale comunicativo e una grande capacità di intrattenimento. Certo è però che solo nelle società contemporanee lo sport spettacolo induce dinamiche capaci di trasformare radicalmente culture ed esperienze associative. I club professionistici, come quelli di calcio, si sono trasformati in autentiche imprese di dimensioni medio-grandi per fatturati e volume di transazioni commerciali, il cui valore aggiunto è dato dall'attivazione di tifoserie irreggimentate in una sorta di mercato dei simboli e degli interessi. Così lo sport spettacolo ha condizionato le stesse consacrate regole del gioco - si pensi all'introduzione del tie break nel tennis e nella pallavolo o alla programmazione oraria dei grandi eventi come sfida al fuso orario per consentire la massima audience planetaria - per rendere più 'televisivi' e più commercialmente appetibili per sponsor e pubblicitari discipline le cui regole avevano conosciuto pochissime variazioni nel tempo.
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