staged photography
<stèiǧd fëtòġrëfi> locuz. sost. ingl., usata in it. al femm. – Espressione che contempla molteplici sfumature – «fotografia allestita», «preparata», «messa in scena» – e identifica una serie di strategie estetiche affermatesi nell’ambito della produzione artistica, nella moda e nella pubblicità, tra la seconda metà del Novecento e l’inizio del nuovo millennio. I suoi primi esponenti hanno indagato, in forme molto diverse e talvolta autobiografiche, le potenzialità narrative e illusionistiche della fotografia (tra di essi, per es., Ralph Eugene Meatyard, Arno Rafael Minkkinen, Hiroshi Sugimoto, Joel Peter Witkin, Arthur Tress, Cindy Sherman, Nobuyoshi Araki, Sarah Moon, Leslie Krims, Jeff Wall, Gregory Crewdson, Sandy Skoglund, James Casebere). Innumerevoli le nuove figure emerse in questo campo nell’ultimo ventennio; autori che spesso, rispetto alla generazione precedente, hanno esteso ulteriormente l’orizzonte semantico, spingendolo verso interpretazioni paradossali dell’idea stessa di 'messa in scena' (tra essi, Adi Nes, Shizuka Yokomizo, Jemima Stehli, Thomas Demand, Bernard Faucon, William Wegman, Elad Lassry). Questa idea, del resto, già di per sé implica un notevole coefficiente di ambiguità; inoltre, come ha sottolineato Andreas Müller-Pohle (1988), qualsiasi fotografia è sempre, in un modo o nell’altro, costruita (attesa, provocata, negoziata, inscenata, ecc.), cosicché occorre anzitutto riflettere sul significato di una simile definizione. Essa in effetti non sta a indicare una modalità uniforme nel tempo e descrivibile in base alla tipologia di rappresentazioni prodotte (come accade in altri generi fotografici storici, come il ritratto o lo still life), bensì un modo di relazionarsi del fotografo rispetto al visibile, inteso come luogo di elaborazione dell’illusione, dell’artificio, della fabula, piuttosto che come qualcosa di 'oggettivamente' registrabile attraverso il mezzo tecnico. Ciò può accadere, paradossalmente, proprio in virtù del credito di verosimiglianza che il senso comune da sempre attribuisce alla fotografia. L’emergenza contemporanea di tale categoria, rispetto a un genere rappresentativo che trova i suoi più illustri predecessori nei tableaux vivants sette-ottocenteschi, in alcune pionieristiche esperienze delle origini della fotografia e nei primi utilizzi estetici di questo medium, è così esemplare di una fase di incertezza e profonda trasformazione, giunta in concomitanza con la rivoluzione digitale e segnata da un nuovo, più ambivalente atteggiamento epistemico nei confronti delle immagini e dei rapporti tra verità e finzione. Sotto molti aspetti, questo 'nuovo genere' può essere considerato complementare al paradigma della , per come gioca – producendo commistioni e anacronismi tra le iconografie più diverse – con le caratteristiche illusorie e concettuali di un medium invece storicamente considerato, in un’accezione perlopiù riduttiva, descrittivo e documentale. In tal senso, il successo della s. p. non attesta tanto la nascita di una nuova tipologia di rappresentazioni, quanto di un diverso ordine di aspettative – epistemiche, ideologiche, estetiche – nei confronti dell’immagine fotografica, sia a livello della sua produzione sia sul piano delle dinamiche spettatoriali connesse alla sua ricezione.