«Star basso»: l’antropologia religiosa di Alessandro Manzoni
Sommario: «Culto razionale» ▭ «Le parole della sapienza divina e i vani discorsi degli uomini» ▭ «La filosofia morale sarà... la teologia stessa» ▭ «Non contristare una immagine di Dio» ▭ «Impadronirsi della morale» ▭ «Prendere sul serio» ▭ «Feroce forza il mondo possiede»
«Media, fra i Promessi sposi che toccano la perfezione e le altre scritture del Manzoni che partecipano della mediocrità, incede la Morale cattolica, che per merito morale è la più perfetta, e per letterario la più imperfetta delle opere di quel grande scrittore. [...] Quanto alla sostanza, il libro non supera la ordinaria mediocrità, quantunque sia sempre esatto e perspicuo»1.
Così «La Civiltà cattolica», poche settimane dopo la morte di Manzoni, in uno scritto «pieno di riserve e cattiverie»2. Rileggere le Osservazioni sulla morale cattolica in chiave non specialistica, non storico-letteraria3 mira qui non solo a sottolineare alcuni punti centrali della cultura religiosa di Manzoni nel suo momento formativo, ma anche, forse, a illuminare qualcosa della storia più recente della cultura cattolica e del cristianesimo in Italia. Di questa storia e delle sue svolte fa parte il mutamento di giudizio sull’opera di Manzoni, dal giudizio condiscendente e arrogante della Civiltà cattolica, alla sua quasi canonizzazione ad opera di papa Ratti.
Le Osservazioni sulla morale cattolica (1819-1855) di Alessandro Manzoni com’è noto, sono la risposta, lungamente rielaborata, all’ultimo capitolo dell’opera di Simonde de Sismondi (1773-1842) Histoire des républiques italiennes du moyen âge4, in cui il cattolicesimo appare tra le cause della decadenza italiana, accanto all’educazione, alla legislazione e al «point d’honneur», la morale dell’onore. Più che Madame de Staël, François Guizot, Jules Michelet e dello stesso Stendhal, più che gli inglesi italofili, da Percy Bysshe Shelley a John Ruskin, più che Jacob Burckhardt, Sismondi amava e capiva l’Italia e la com-pativa: «Une profonde pitié pour cette nation, si richement douée par la nature, si cruellement dépravée par les hommes, doit être le résultat d’un tel examen»5 sono le parole con cui egli introduce la sua analisi delle cause della nostra decadenza.
La replica conteneva grandi riconoscimenti al valore dell’opera di Sismondi, ne apprezzava l’originalità nel far storia non di pochi protagonisti, ma della nazione intera, con le sue istituzioni giuridiche, economiche, politiche. Perciò Manzoni si limitava, sceglieva di scrivere una risposta analitica che isolava una dozzina di pagine finali dell’opera (il capitolo 128), le citava ampiamente e vi ribatteva puntualmente. Volersi ancorare al commento puntiglioso e alla critica di quelle poche pagine costituiva in verità un vincolo che toglieva respiro ed efficacia all’argomentazione. Anche la revisione delle Osservazioni, iniziata alla fine degli anni Quaranta, fu difficile e tormentata. Forse l’amicizia maturata nel frattempo con Antonio Rosmini era ulteriore motivo di un sentimento di insoddisfazione e di inadeguatezza. Lo rivelava l’Avvertimento alla seconda edizione, con ammissioni piuttosto imbarazzate:
«La seguente operetta fu pubblicata la prima volta col titolo di Prima Parte, credendo allora l’autore di poterle far tener dietro alcune dissertazioni relative a diversi punti toccati in essa. Ma, alla prova, dovette deporre un tal pensiero, venendogli meno sia l’importanza o l’opportunità che gli era parso di vedere nelle materie che s’era proposte, sia la capacità di trattarle passabilmente, nemmeno al suo proprio giudizio»6.
La prima lettura crea l’impressione di un testo assai lontano ed estraneo, anche se la qualità stilistica, la nobile modestia del «debole ma sincero apologista», l’elevatezza dei modelli (la Bibbia, Pascal e i moralisti cristiani francesi) suggeriscono rispetto e attenuano il senso di angustia che ogni impresa apologetica comporta e che lo stesso Manzoni paventava, quando scriveva Al lettore:
«[...] sento che a ogni lavoro di questa sorta s’attacca un non so che d’odioso, che è troppo difficile di levarne affatto. Prendere in mano il libro d’uno scrittore vivente e, a giusta ragione, stimato; ripetere alcune sue proposizioni, esaminarle punto per punto, trovare in tutto che dire, fargli per dir così, il dottore a ogni passo, è una cosa che, a lungo andare, è quasi impossibile che non lasci una certa impressione di presunzione, e di basso e insistente litigio»7.
E tuttavia rimane che le Osservazioni (1819) appartengono allo stesso periodo decisivo per la creatività manzoniana (Fermo e Lucia del 1823; i Promessi sposi del 1827; gli Inni sacri; le due tragedie Il conte di Carmagnola e Adelchi), che le Osservazioni, ponderate con attenzione, contengono temi che la sua produzione artistica svilupperà con straordinaria efficacia, e infine che esse sono una testimonianza di convinzioni e giudizi che l’autore non avrebbe mutato e anzi avrebbe confermato preparando la riedizione del testo trentacinque anni dopo.
L’edizione critica delle Osservazioni a cura di Romano Amerio del 19658, è segnata da un forte tratto filosofico-sistematico e apologetico: retta dalla ferma convinzione circa l’alta qualità filosofica delle Osservazioni, quest’opera, frutto di un lungo impegno, rimane utile per la massa di dati che vi sono raccolti e merita di essere presa in considerazione più di quanto si sia fatto sinora, anche da chi, come noi, non ne condivide per nulla la prospettiva. Va ricordata anche l’edizione curata da Umberto Colombo, anch’essa tuttavia carica di afflato apologetico9. I due ammirevoli volumi di Francesco Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni10 sono tuttora importanti e tuttavia il dibattito su Manzoni giansenista ci appare ormai distante e sfocato, per le ragioni che diremo. Dopo queste edizioni non ci risultano apporti significativi a proposito delle Osservazioni. L’edizione nazionale delle opere di Alessandro Manzoni ha messo a disposizione le Postille a testi talvolta pertinenti al nostro tema11.
È difficile mettere da parte le critiche che Benedetto Croce rivolgeva alle Osservazioni in uno scritto del 1930: un libro «di importanza documentaria» (data la prossimità alla maggior produzione manzoniana) ma «rimasto estraneo alla cultura e al sentimento italiani». Rimangono anche ben nitide le due principali obiezioni mosse a Manzoni, entrambe derivate dal fatto del non essere lui «mente filosofica»12. La prima: la concezione moralistica della storia «come sequela di cause operanti a favorire o a turbare e corrompere la natura e la disposizione morale»; una concezione razionalistica e astratta che, del resto, Manzoni ha in comune con l’«onesto Sismondi»: il cattolicesimo (quale? domanda Croce) come causa della decadenza italiana per il Sismondi, come «causa benefica» invece per Manzoni. La seconda critica riguarda la pretesa di marcare la morale con un secundum quid (cattolica, giudaica, protestante...), volendola sottomettere a qualcosa di esterno a lei, «e sia pure di celestialmente e divinamente esterno»13. Tutto questo si riduce alla piccola logica: «Il Manzoni può ben dirsi, com’è stato detto, uno spirito logico, ma, per verità, bisogna soggiungere, egli maneggiava piuttosto la logica piccola che logica in grande»14, cioè la logica hegeliana.
Il terzo volume dell’edizione di Amerio è tutto dedicato, si può dire, a una risposta al Croce. Manzoni è per Amerio una mente filosofica, che rivendica il carattere razionale, «logico» della fede, l’analisi psicologica e la stessa biografia vanno messe da parte (e questo invece contro Ruffini).
Il primo passo di Sismondi che Manzoni assume per criticarlo recita:
«L’unité de foi, qui ne peut résulter que d’un asservissement absolu de la raison à la croyance, et qui en conséquence ne se trouve dans aucune autre religion au même degré que dans la catholique, lie bien tous les membres de cette Église à recevoir les mêmes dogmes, à se soumettre aux mêmes décisions, à se former par les mêmes enseignemens»15.
Manzoni risponde che la fede include la sottomissione della ragione, che è voluta dalla ragione stessa, una volta che abbia riconosciuto inconfutabile che la religione cristiana è rivelata da Dio e che essa sia unica. Anche se la sua unicità ed eternità non fossero insegnate dalle Scritture, la ragione stessa deve arrivarci «per una necessità logica».
«L’illustre autore non adduce gli argomenti per cui l’unità della fede non deva poter resultare che dalla schiavitù assoluta della ragione alla credenza. Se la cosa fosse così, non si potrebbero conciliare i passi citati dianzi, con quell’altre parole del medesimo apostolo: il razionale vostro culto [Rom.12, 1]. Ma non solo si conciliano; si spiegano anzi, e si confermano a vicenda.
Certo, la fede include la sommissione della ragione: questa sommissione è voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi princìpi, è posta nell’alternativa, o di credere alcune conseguenze necessarie, che non comprende, o di rinunziare ai princìpi. Avendo riconosciuto che la Religione Cristiana è rivelata da Dio, non può più mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non solo irreligioso, ma assurdo. Supponendo, per un momento, che l’unità della fede non fosse espressa nelle Scritture, la ragione che ha ricevuta la fede deve adottarne l’unità: non ha più bisogno per questo di sottomettersi alla credenza; ci deve arrivare per una necessità logica.
La fede sta nell’assentimento dato alle cose rivelate, come rivelate da Dio. Suppongo che l’autore scrivendo questa parola fede, le ha applicata quest’idea, perché è impossibile applicargliene un’altra. Ora, repugna alla ragione che Dio riveli cose contrarie tra di loro; se la verità è una, la fede dev’esserlo ugualmente, perché sia fondata sulla verità. La connessione di quest’idee è chiaramente accennata nel testo già citato in parte: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Dall’unità di Dio resulta necessariamente l’unità della fede, e da questa l’unità del culto essenziale».
Intransigenti e assoluti sono i dinieghi opposti a ogni idea di pluralismo: «L’idea di fede e di pluralità sono così contradittorie, che il linguaggio stesso pare che repugni a significare la loro unione; poiché si dirà bene le diverse religioni, opinioni, credenze religiose, ma non già le diverse fedi»16. Dal carattere della fede come assenso razionale Manzoni trae anche la delegittimazione di ogni fede nazionale o «popolare». Trae però anche la conseguenza, essendo la fede atto incoercibile dell’intelletto, che occorra ripudiare ogni uso della forza in materia religiosa, come si dirà più avanti.
Interessa qui invece rilevare brevemente due premesse teoretiche, che toccano appunto l’antropologia religiosa dell’autore e forse non solo di lui, ma di un certo cristianesimo italiano. La prima consiste nella continuità tra i due ordini, natura e grazia, sottintesa per esempio in un passo di questo genere, in cui si parla della «nozione di un bene perfetto e inamissibile»:
«[...] nozione che ha istruito l’uomo intorno alla sua intima natura più di quello che nessuna speculazione scientifica potesse mai fare; poiché, concepita l’essenza d’un tal bene, l’uomo poté intendere e, dirò così, avvedersi che solo un bene di quel genere, o piuttosto quel solo bene fuori d’ogni genere, era capace di soddisfare un essere dotato, come lui, d’intelligenza e di volontà»17.
Lo stesso Amerio, che scriveva in prossimità del dibattito sul soprannaturale e della Humani generis di Pio XII, avvertiva che «Il M., eludendo un punto spinoso, non chiarisce se la natura abbia verso l’ordine della grazia una qualche esigenza o disposizione o potenzialità»18.
La seconda premessa è che l’impossibilità di contraddizione tra fede e ragione dipende dall’unico Logos divino, che presiede alla creazione, alla storia e alla rivelazione: «fede e ragione sono doni d’un solo e stesso Dio». Si tratta di una linea di riflessione che attraversa la sapienza biblica, è valorizzata in Filone, si affaccia nei primi apologisti, e appare nella letteratura cristiana antica come rivendicazione della sapienza antica, egizia in particolare (le cui spoglie spetterebbero di diritto agli ebrei), arriva nella modernità come rivendicazione della compatibilità tra scienza e fede, e garanzia dell’universalità della dottrina cristiana: così nell’ultimo Campanella, edito da Amerio, che se ne serve per illuminare la filosofia di Manzoni.
Di questo approccio razionale alla fede (ben lontano dal giansenismo) Manzoni trova un compendio nella formula che si trova sin dall’inizio del primo capitolo delle Osservazioni, dove si appella a s. Paolo, alla Lettera ai Romani, 12, 1, tradotto: «il razionale vostro culto». La formula è ripresa così alla fine dello stesso primo capitolo:
«Il non essere la Chiesa cattolica soggetta alle fluttuazioni accennate sopra; il trovarsi in essa, non un maggiore o minor grado d’unità di fede, ma l’unità della fede; questo dirsi e poter essere immutabile, è un carattere doppiamente essenziale della verità de’ suoi insegnamenti. È la condizione necessaria della ragione, come della fede; due doni d’un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia de’ quali è divinamente espressa nelle parole già citate dell’Apostolo: il razionale vostro culto».
È molto interessante notare che la stessa formula viene usata nella Qui pluribus, una delle prime encicliche di Pio IX (1846):
«Bisogna che la ragione umana, per non esser tratta in inganno e per non sbagliare in una cosa così importante, studi attentamente la divina rivelazione, per esser sicura che Dio ha parlato e per renderGli ossequio secondo ragione [rationale obsequium exhibeat], come con grande saggezza insegna l’Apostolo. Chi infatti può ignorare che bisogna avere ogni fede nel Dio parlante e che nulla è più conforme alla ragione stessa che ammettere, attaccandovisi saldamente, quelle cose che si siano constatate come rivelate da Dio, che non può essere ingannato né ingannare?»
La stessa formula compare nella costituzione dogmatica Dei Filius del concilio Vaticano I, dove a proposito della fede si dice che «perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme a ragione [ut ... fidei nostrae obsequium rationi consentaneum esset], Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della rivelazione»19.
Va detto anzitutto che il significato di logikē latréia è diverso da quello attribuitogli dai documenti del magistero nell’Ottocento, nel testo di Paolo il significato è cultuale, come appare dal contesto:
«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (λογικὴ λατρεία). Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom.12, 1).
Culto «spirituale» è certo meglio di «razionale», per tradurre logikē20. Si è detto che questo significato morale di culto razionale non è certo quello che viene attribuito dal magistero al «rationabile obsequium» da Pio IX. Ma da questo differisce anche l’uso di Manzoni. La sua traduzione proviene dalla versione Martini, che annotava esattamente: «Ed un tal sagrifizio comprende quel culto della mente e della ragione il quale non ne’ riti esterni e nella ragione, ma nello spirito e nella santità della vita consiste, come dice il Grisostomo» (Lutero aveva tradotto «vernünftige Gottes;dienst», Diodati «rational servigio», King James «reasonable service»: tutti sono consapevoli che non si tratta dell’ossequio razionale della fede).
Manzoni traducendo correttamente «obsequium» con «culto» e pur parlando di sommissione della ragione, intende qui una convergenza dei «due doni d’un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia de’ quali è divinamente espressa nelle parole già citate dell’Apostolo: il razionale vostro culto», come si è già letto. Siamo lontani dall’accezione del magistero recente, ma anche dallo stretto contesto della Lettera ai Romani, a meno che, come proponiamo, si contestualizzino il discorso morale di Paolo, e quello di Manzoni, nel quadro più ampio della sapienza biblica.
La lettura della Bibbia come testo sapienziale si è fatta strada durante gli ultimi decenni21. Il materiale biblico storico-legale (la legge, e il racconto del dono e della ricezione di questa) ci è proposto nel testo biblico sotto due punti di vista. Il punto di vista profetico, che esalta il ruolo della parola potente che crea, rivela, salva, in tempi, luoghi eccezionali, con mediatori straordinari, i profeti appunto. E il punto di vista sapienziale, appunto, che riflette il bisogno di conoscenza e di disciplina, la persuasione che la bellezza del creato dia testimonianza del Creatore, l’idea che esistono esperienze universali e comunicabili, la necessità di maestri saggi, la convinzione che nella coscienza umana si danno una evidenza e una argomentabilità interna del bene esternamente attestato dalla tradizione, la certezza che bene e male hanno anzitutto una retribuzione immanente.
La polarità sapienza-profezia non coincide semplicemente con i due blocchi materiali dei «libri profetici» e dei «libri sapienziali»: non si tratta solo di due forme letterarie, ma di due prospettive, due punti di vista con cui si può percorrere tutta la storia biblica e da cui si può guardare anzitutto all’opera e alla parola di Mosè e di Gesù, «ancor meglio» del profeta di Giona, e del saggio di Salomone.
La possibilità di delineare una lettura complessiva delle scritture ebraiche e cristiane in cui la prospettiva sapienziale sia posta in rilievo come asse centrale, come luogo in cui il materiale trasmesso in contesto storico e profetico viene rimeditato e riespresso in termini esperienziali, pragmatici. Questa sapienza biblica ha infatti carattere pratico, non metafisico: attiene all’«intelligenza della propria via» (Prov. 14,8), non alle cause e ai fini ultimi della realtà. Al principio della sapienza sta l’accettazione dell’incomprensibilità ultima delle origini e della cause, il rifiuto della speculazione metafisica e il riconoscimento di non padronanza sulla propria vita (il «timore di Dio»), un’ammirazione per la potenza e bellezza misteriosa della creazione, e insieme un desiderio di verità e di giustizia nella cose che dall’uomo dipendono. Questa sapienza ha carattere tendenzialmente universale, attraverso la mediazione delle sapienze mediorientali e delle filosofia ellenistica (Siracide, Sapienza di Salomone). Essa talvolta riprende la tradizione in termini critici e problematici (Giobbe, Qohelet). Essa non argomenta circa l’esistenza della divinità, ma insegna che l’obbedienza ai comandamenti contiene un principio di conoscenza sicura di quelle realtà che sfuggono alla conoscenza teoretica. In questo senso la sapienza è, come la legge, prossima, accessibile a tutti: è «cultura popolare» (Sir. 44, 4). Naturalmente Israele vanta di essere il primo depositario. Si legga la descrizione di Sir. 24, dove parla la Sapienza. Ma la sapienza è essenzialmente più ampia rispetto allo spazio positivamente determinato della rivelazione storica e della profezia che la rinnova: essa ha carattere in qualche modo sperimentale (oltre che trasmissibile e tradizionale), ragionevole, suscettibile perciò di accogliere «sapienze straniere», mondano, secolare.
Questo carattere viene additato da Gerhard von Rad nel suo La sapienza in Israele, dove, riferendosi all’epoca postsalomonica parla di «un brusco processo di secolarizzazione, di una scoperta dell’umano, di una umanizzazione [...] preceduto dal crollo interiore, dalla decomposizione di una concezione della realtà che possiamo definire con una formula molto felice di Martin Buber: “il pansacralismo”»22. E altrove afferma: «Se prendiamo la parola “illuminismo” nel senso della ben nota definizione di Kant come uscire dallo stato di minorità, sarà lecito pensare che lo stato di maggiore età [...] anche in Israele è consistito innanzitutto nell’affrontare criticamente il mondo dell’esperienza e le sue leggi proprie». Ciò che naturalmente non avviene attraverso l’espulsione di Dio dal mondo, ma attraverso «un’idea altrettanto intransigente sulla guida degli avvenimenti da parte di Dio e sulla sua penetrazione in tutti i campi della creazione»23.
Molta parte dell’insegnamento stesso di Gesù - in cui si ritrova la polarità profetica e quella sapienziale - è traducibile in quel nucleo sapienziale, esperienziale, secolare, tendenzialmente universalistico. La convivialità che accoglie gli esclusi è una prassi di Gesù (Lc. 7, 35), che realizza così l’invito contenuto nel libro biblico dei Proverbi (9, 1-6). Anche in Gesù si ritrovano la polarità profetica e quella sapienziale, e la sua figura può essere compresa sotto l’uno e l’altro profilo: egli è più di Giona, più di Salomone (Lc. 11, 29-32, parallelo a Mt. 12, 39-42, cosiddetta fonte Q).
Sosteniamo allora che la prospettiva sapienziale è atta a gettare luce sull’antropologia e la morale manzoniana24.
C’è una pagina molto bella delle Osservazioni, in cui l’autore protesta la sua ammirazione per le sue fonti, e rinvia appunto allo studio delle Sacre Scritture e alla lettura dei grandi moralisti cattolici e alla meditazione su di sé e sugli altri. Vale la pena di leggerla per intero, anche perché l’autore vi affida il nucleo (come è stato osservato) della vicenda e dell’insegnamento del romanzo storico:
«Chi ha fatti studi seri e lunghi sulle Sacre Scritture, fonti inesauste di morale divina, e ha letti con attenzione i gran moralisti cattolici, e ha meditato, con riflessione spassionata, sopra di sé e sopra gli altri, troverà superficiali queste Osservazioni; e sono ben lontano dall’appellarmi dal suo giudizio. Le discussioni parziali possono bensì mettere in chiaro qualche punto staccato di verità; ma l’evidenza e la bellezza e la profondità della morale cattolica non si manifestano se non nell’opere, dove si considera in grande la legge divina e l’uomo per cui è fatta. Ivi l’intelletto passa di verità in verità: l’unità della rivelazione è tale che ogni piccola parte diventa una nova conferma del tutto, per la maravigliosa subordinazione che ci si scopre; le cose difficili si spiegano a vicenda, e da molti paradossi resulta un sistema evidente. Ciò che è, e ciò che dovrebb’essere; la miseria e la concupiscenza, e l’idea sempre viva di perfezione e d’ordine che troviamo ugualmente in noi; il bene e il male; le parole della sapienza divina, e i vani discorsi degli uomini; la gioia vigilante del giusto, i dolori e le consolazioni del pentito, e lo spavento o l’imperturbabilità del malvagio; i trionfi della giustizia, e quelli dell’iniquità; i disegni degli uomini condotti a termine tra mille ostacoli, o fatti andare a voto da un ostacolo impreveduto; la fede che aspetta la promessa, e che sente la vanità di ciò che passa, l’incredulità stessa; tutto si spiega col Vangelo, tutto conferma il Vangelo. La rivelazione d’un passato, di cui l’uomo porta in sé le triste testimonianze, senza averne da sé la tradizione e il segreto, e d’un avvenire, di cui ci restavano solo idee confuse di terrore e di desiderio, è quella che ci rende chiaro il presente che abbiamo sotto gli occhi; i misteri conciliano le contradizioni, e le cose visibili si intendono per la notizia delle cose invisibili. E più s’esamina questa religione, più si vede che è essa che ha rivelato l’uomo all’uomo, che essa suppone nel suo Fondatore la cognizione la più universale, la più intima, la più profetica d’ogni nostro sentimento. Rileggendo l’opere de’ gran moralisti cattolici, e segnatamente i sermoni del Massillon e del Bourdaloue, i Pensieri del Pascal, e i Saggi del Nicole, io sento la piccolezza dell’osservazioni contenute in questo scritto; e sento che vantaggio dava ai due primi l’autorità del sacerdozio, e a tutti il modo generale di trattare la morale, un grand’ingegno, de’ lunghi studi, e una vita sempre cristiana»25.
L’ammirazione per la legge divina e il rilievo dato alla prassi e alla vita rispetto al sapere astratto, l’importanza dell’insegnamento dei maestri, la corrispondenza meravigliosa fra la parte e il tutto, la notizia delle cose invisibili che consente di intendere quelle visibili (Rom. 1, 20, che dipende da Sap. 13, 1-9; Manzoni, come osserva Amerio, inverte: dall’invisibile al visibile), la visione realistica della vanità e del peccato umano, ma anche proprio la sapienza divina, la bellezza vera di una vita secondo giustizia e verità: sono temi che dalla tradizione sapienziale biblica, direttamente o per la mediazione della psicologia dei grandi moralisti giungono sino a Manzoni. Così pure fa parte della teologia sapienziale il ricapitolare la storia e darle senso come espressione di un piano, di una provvidenza, di una prospettiva («La rivelazione d’un passato, di cui l’uomo porta in sé le triste testimonianze, senza averne da la tradizione e il segreto, e d’un avvenire, di cui ci restavano solo idee confuse di terrore e di desiderio, è quella che ci rende chiaro il presente che abbiamo sotto gli occhi»).
Naturalmente per un credente le domande che i sapienti della tradizione sapienziale e poetica ebraica pongono, come nel Qohelet, talvolta senza risposta: che cosa è l’uomo?, trovano questa risposta nella rivelazione cristiana: «E più s’esamina questa religione, più si vede che è essa che ha rivelato l’uomo all’uomo», vedi naturalmente Pascal «Non solamente noi non conosciamo Dio che attraverso Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi che attraverso Gesù Cristo»26. «Tutto si spiega col Vangelo, tutto conferma il Vangelo».
Coerentemente con la sua tesi dell’integrale unità di fede e ragione Manzoni negava la possibilità di una opposizione tra filosofia morale e morale teologica. Sismondi, pur riconoscendo il legame tra la religione e la morale, sosteneva che la filosofia morale è una scienza assolutamente distinta dalla teologia: quella è basata sulla ragione e sulla coscienza, mentre la teologia è dominio del magistero ecclesiastico, che se ne è impadronito:
«Il y a sans doute une liaison intime entre la religion et la morale, et tout honnête homme doit reconnoître que le plus noble hommage que la créature puisse rendre à son Créateur, c’est de s’élever à lui par ses vertus. Cependant la philosophie morale est une science absolument distincte de la théologie; elle a ses bases dans la raison et dans la conscience, elle porte avec elle sa propre conviction; et après avoir développé l’esprit par la recherche de ses principes, elle satisfait le coeur par la découverte de ce qui est vraiment beau, juste et convenable. L’Église s’empara de la morale, comme étant purement de son domaine»27.
Manzoni non comprendeva questa contrapposizione:
«[Gesù Cristo] unì allora la filosofia morale alla teologia; toccava alla Chiesa a separarle? Di che tratta la filosofia morale? Del dovere in genere e de’ vari doveri in particolare; della virtù e del vizio; della relazione dell’una e dell’altro con la felicità o l’infelicità; vuole insomma dirigere la nostra volontà e negl’intenti e, conseguentemente, nelle deliberazioni. E la morale teologica ha forse un altro scopo? può averlo? Se dunque hanno per oggetto lo stesso ordine di verità, per applicarle, nella pratica, allo stesso ordine di fatti, come saranno due scienze diverse? Non è egli vero che dove discordano, una dev’essere falsa? e che dove dicono lo stesso, sono una scienza sola? È evidente che non si può prescindere dal Vangelo nelle questioni morali: bisogna o rigettarlo, o metterlo per fondamento. Non possiamo fare un passo, che non ci si pari davanti: si può far le viste di non accorgersene, si può schivarlo senza urtarlo di fronte; non essere con lui, senza essere contro di lui; si può, dico, in parole, ma non in fatto»28.
Manzoni giungeva a identificare, almeno tendenzialmente, i due punti di vista: se la filosofia morale attinge veramente a ciò che appaga per bellezza, giustezza, convenienza (sono le parole di Sismondi), essa «sarà la teologia stessa» (l’affermazione suscita le rimostranze dello stesso Amerio, nel commento al passo seguente):
«Ma questa filosofia morale ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con sé il suo proprio convincimento; e dopo avere sviluppato lo spirito con la ricerca de’ princìpi, appaga il core con la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente E cos’ha fondato, da sé, su queste basi? Ha prodotto un convincimento unanime e perpetuo? La sua ricerca de’ princìpi è riuscita a un solo e inconcusso ritrovato? Le sue scoperte del bello, del giusto e del conveniente sono anch’esse concordi? E appagano il core davvero? Se è così, può essere distinta dalla teologia: non ne ha più bisogno; o, per dir meglio, sarà la teologia stessa»29.
«Ramener à la religion des sentiments grands, nobles et humains qui découlent naturellement d’elle»30. Questo era il programma già espresso nel 1816 a una lettera a Claude Fauriel. La religione cristiana è intima sia al cuore che alla ragione umana, è tutta l’argomentazione delle Osservazioni, che si prolunga nella produzione artistica.
Si veda per esempio come il cardinal Federico riassuma in sé, nella descrizione in Fermo e Lucia (II, XI), il complesso delle virtù che già Paolo desume dai moralisti greci: «fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i quali adoperarono una lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente nella ricerca “di ciò che è pudico, di ciò che è giusto, di ciò che è santo, di ciò che è amabile, di ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e lode di disciplina”», citando esplicitamente la Lettera ai Filippesi (IV, 831); e si aggiunga anche il progetto grandioso della Biblioteca Ambrosiana.
E si veda anche in Fermo e Lucia (II, XI) la difesa del ruolo decisivo, per il risveglio della cultura italiana, dei lumi francesi:
«Ma non si deve dissimulare che v’ha alcuni altri (pochissimi invero) i quali tengono invece che la lettura degli insigni scrittori francesi, che fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano più stolide e più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro idea d’una letteratura nutrita di ricerche importanti, di ragionamenti serj, di discussioni sincere, d’invenzioni che somigliassero a qualche cosa di umano, e di reale, diretta a far passare nell’ingegno dei lettori una persuasione ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad un punto più elevato di scienza, di sentimento a cui erano giunti alcuni con una meditazione particolare. Scorgono costoro che questi italiani cominciarono ad imparare dalla lettura di quei libri, e furono dal confronto nauseati degli scritti, dei giudizj, degli intenti, dei metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la letteratura italiana di quel tempo; e cominciarono a porre essi nei loro scritti una cura più esatta a cercare un vero importante, e lo fecero con una mente più disciplinata, più addestrata a questa ricerca, e diffusero a poco a poco nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che avevano attinto»32.
A questo si può forse ricondurre anche l’ampia sezione delle Osservazioni, destinata a una seconda parte, sullo «spirito del secolo», in cui Manzoni, evitando del «secolo stesso» la condanna massiccia, invita a un esercizio di «discernimento»: non conformarsi al secolo era prescritto dalla stessa Lettera ai Romani che insegnava il «culto razionale».
Ne nasceva anche la convinzione che di principio non sia corretto separare la religione dalla politica: la morale abbraccia tutto il campo della giustizia, e quindi anche il campo dei rapporti politici e sociali. Madame de Staël sosteneva che non vi è pietà sincera se non nei paesi in cui la dottrina della Chiesa non abbia rapporto con i dogmi politici, e Manzoni replicava: «rien de plus absurde»: sarebbe come affermare che la religione debba essere indifferente al bene e al male, al diritto e all’ingiustizia33.
Si capisce che Manzoni si rivoltasse quando lesse in Sismondi l’accusa alla Chiesa di aver perso di vista la sofferenza umana, di aver rigettato la base che la natura umana aveva posto nei cuori umani, per affidarsi invece ai casuisti:
«La morale fut absolument dénaturée entre les mains des casuistes; elle devint étrangère au coeur comme à la raison: elle perdit de vue la souffrance que chacune de nos fautes pouvoit causer à quelqu’une des créatures, pour n’avoir d’autres lois que les volontés supposées du Créateur: elle repoussa la base que lui avoit donnée la nature dans le coeur de tous les hommes pour s’en former une toute arbitraire»34.
Qui Manzoni è toccato e offeso nel suo profondo. Mentre liquida sprezzantemente i casuisti (intendi soprattutto Alfonso Maria de’ Liguori), affermando di non averli mai letti egli risponde opponendo con forza un tema fondamentale della sua antropologia e della sua etica: la dignità dell’uomo, immagine di Dio, punto di raccordo tra illuminismo e visione biblica: «Il riguardo al dolore degli altri, il dovere di non contristare una immagine di Dio è uno di questi sentimenti stampati da Dio nel cuore dell’uomo»35. E ancora:
«Perché noi riceviamo per lo più l’opinione fatta dagli altri; e i gentili, che stabilirono quella di Traiano, non credevano che spargere il sangue cristiano togliesse nulla all’umanità e alla giustizia d’un principe. È la religione che ci ha resi difficili a concedere il titolo d’umano e di giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore d’un’anima immortale c’è qualche cosa d’ineffabile; è essa che ci ha istruiti a riconoscere e a rispettare in ogni uomo l’immagine di Dio, e il prezzo della Redenzione»36.
Lo stesso argomento si trova nei Promessi sposi, e precisamente nelle parole di padre Cristoforo che replica indignato a don Rodrigo, quando questi offre la sua protezione a Lucia. Nella versione definitiva del 1840:
«Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno... »37.
Alla fine della vicenda fra Cristoforo biasima Renzo a causa delle espressioni violente con cui vorrebbe giustificare padre Cristoforo per il suo delitto giovanile, a causa del quale si era fatto frate:
«E perché sei povero, perché sei offeso, credi tu ch’Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine? Credi tu ch’Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar da te ogni benedizione. Perché, in qualunque maniera t’andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finché tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono», (cap. XXXV).
Il tema sembra apparire per la prima volta nell’inno della Pentecoste, iniziato nel 1817:
«A Te sollevi il povero/ Al ciel ch’è suo, le ciglia/ Volga i lamenti in giubilo/ Pensando a cui somiglia»38.
Manzoni è uscito da un momento di difficoltà religiosa. Ne è uscito persuaso della presenza dello spirito nella Chiesa, «Madre dei santi»; persuaso della necessità di sottomettersi, facendosi «parvulus», come scrive nella lettera a Fauriel del 21 settembre 181039. Dio solo proteggerà questi piccoli, che sono suoi, per l’immagine che ha loro donata, per l’immagine del Figlio sofferente, dai terrori di questo e di ogni altro secolo.
Più, molto più ancora che della fiducia nella Provvidenza che guida con giustizia la storia, si tratta qui dell’abbandono mistico al Dio che «atterra e suscita, che affanna e che consola».
Ma dietro al ricordo dell’immagine di Dio si coglie anche un rifiuto indiretto, ma forte di ogni dispotismo e di ogni sacralizzazione del potere. L’abate Henri Grégoire, così ammirato da Manzoni, non aveva denunciato con indignazione nel 1814 il Cathéchisme à l’usage de toutes les églises de l’Empire Français che insegnava che l’imperatore era l’immagine di Dio? «Dieu l’a établi notre souverain; il est son image sur la terre»40.
Si deve notare che l’uomo-immagine di Dio non appartiene all’antropologia pessimista del giansenista Pascal, tanto amato da Manzoni, che però appunto non lo segue nell’«abétissement» dell’umano. Cartesio e Fénelon attribuiscono invece un’importanza particolare a questo tema41. Si può pensare che questa idea abbia un ruolo importante perché Manzoni era ansioso di sottolineare il suo cattolicesimo più rigoroso, nell’atto di accogliere dai lumi l’idea della dignità dell’uomo.
«Nessuna filosofia è più aliena da un tale errore stranissimo, che fa di Dio quasi un artefice inesperto, il quale, per aggiungere un novo lume alla sua immagine, impressa, per dono ineffabile, nell’uomo, avesse bisogno di cancellarla; errore che fa del cristiano quasi una nova, anzi un’inconcepibile specie d’animale puramente senziente, al quale venisse, non si sa come, aggiunta la fede. Sicuro, che è una filosofia naturaliter christiana, come disse profondamente Tertulliano, dell’anima umana. Sicuro che, dopo aver percorso liberamente e cautamente (che in fondo è lo stesso) il campo dell’osservazione e del ragionamento, si trova, per dir così, accostata alla fede, e vede negl’insegnamenti, e ne’ misteri medesimi di questa il compimento e il perfezionamento de’ suoi resultati razionali. Non che la ragione potesse mai arrivar da sé a conoscer que’ misteri; non che, anche dopo essere stata sollevata dalla rivelazione a conoscerli, possa arrivare a comprenderli; ma n’intende abbastanza (mi servo della bella distinzione ricavata da questa filosofia medesima) per vedere che le sono superiori, non opposti, e che è quindi assurdo il negarli; n’intende abbastanza per trovare in essi la spiegazione di tanti suoi propri misteri: come è del sole, che non si lascia guardare, ma fa vedere»42.
Questa fedeltà ai lumi poi si impone da sé quando Manzoni riprende il tema e la denuncia di tortura, nella storia della Colonna infame. Questo saggio è dedicato in particolare a un episodio terribile della confessione sotto tortura. Qui, uno dei momenti più toccanti è quando Giangiacomo Mora, il povero barbiere, è costretto ad ammettere la sua connivenza con Guglielmo Piazza nel diffondere la peste. Egli è minacciato di tortura:
«A quella minaccia, rispose ancora: replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo dissi per li tormenti. Poi riprese: V.S. mi lasci un puoco dire un’Aue Maria, et poi farò quello che il Signore me inspirarà; e si mise in ginocchio davanti a un’immagine del Crocifisso, cioè di Quello che doveva un giorno giudicare i suoi giudici».
Nell’opposizione alla pena di morte e alla tortura, Manzoni assume un tema illuministico, e si connette, com’è noto, alla tradizione familiare. Il nonno Cesare Beccaria è stato, infatti, il celebre autore di Dei delitti e delle pene (1764), e Pietro Verri, a cui Manzoni era profondamente legato, aveva già scritto le sue Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all’occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l’anno 1630, pubblicate postume nel 1804. Verri condannava un secolo di «barbarie», allo stesso modo in cui Beccaria aveva denunciato la legislazione dei «secoli barbari». Se da un lato Manzoni studia l’antica giurisprudenza e mostra, con la consueta accuratezza storica, che la giurisprudenza aveva già fornito un importante insieme di cautele per l’uso della tortura che i giudici di Milano hanno trascurato (e per questo sono colpevoli), d’altro canto avviva il suo testo con una intensità religiosa sconosciuta a Verri e a Beccaria.
La dignità umana, fondata sull’immagine di Dio, è appunto per Manzoni un punto di confluenza tra i lumi e la Bibbia. O meglio, il punto in cui l’istanza illuministica può, secondo Manzoni, essere ricondotta alla sua piena verità biblica.
Da ciò che è si visto, Manzoni porta con sé ed esprime nel suo testo una fondamentale esigenza di unità: unità di fede, nel tempo e nello spazio; unità tra filosofia e morale; unità tra morale e politica. Unità tra la piccola e la grande morale: quasi anticipando la risposta a Croce, che gli rimproverava di attenersi alla «piccola logica», Manzoni, nel dialogo Dell’invenzione rigettava il detto del Mirabeau , circa la piccola morale che uccide la grande: «La petite morale tue la grande».
«La petite morale tue la grande, disse il Mirabeau; e lo disse, non già per buttar là una sentenza speculativa, ma come una norma e una giustificazione applicabile ai gran fatti pubblici ne’ quali fu anche lui pars magna. E chi non vede la forza pratica d’una massima di questa sorte? Certo, per i tristi di mestiere è superflua, o di poco uso; ma questi non potrebbero far gran cosa, se dovessero far tutto da sé, e non avessero l’aiuto delle coscienze erronee. E, per ingannar le coscienze, qual cosa più efficace d’una massima che, non solo leva al male la qualità di male, ma lo trasforma in un meglio? che fa della trasgressione un atto sapiente, della violazione del diritto un’opera bona? Quello, però, che può parere strano a chi appena ci rifletta, è che una proposizione così repugnante al senso comune, e i termini della quale fanno a’ cozzi tra di loro, sia potuta non parere strana a ognuno. La morale, che è una legge, e, come legge, è essenzialmente assoluta e una, divisa in due parti, una delle quali distrugge l’altra!»43.
Di questo bisogno di integrità, di coerenza, vi sono anche risvolti di impressionante intransigenza. Al pastore liberale ginevrino Jean Jacques Chenevière il 27 settembre 1829: «Vous me parlez de liberté mais ce n’est pas ce que je demande ni c’est ce que je dois demander. Je demande à croire, puisque c’est pour cela que j’ai une intelligence, et qu’il y a une religion; croire c’est mon besoin et mon devoir».44 E anche l’atteggiamento verso Victor Cousin, adesso lumeggiato anche dalla pubblicazione delle Postille, è indicativo. Il Cousin poneva in primo piano una sorta di rivelazione primitiva, degna di ogni rispetto, perché si tratta della forma originaria della filosofia: «L’homme appelle révélation l’affirmation primitive. Le genre humain a-t-il tort?»45. Manzoni si oppone nettamente a una distinzione tra forma e sostanza della religione e arrivava ad affermazioni di assoluta e impressionante intransigenza : «La verità è con quella religione che, diciotto secoli sono, disse al mondo: Io non cangerò mai e che non si è mai cangiata». Così scriveva nella Seconda parte inedita, ma probabilmente coeva alla Prima.
È veramente notevole come questa vena intransigente si prolunghi nel magistero di papa Pio XI. Achille Ratti era profondamente legato a Manzoni46. Del suo precettore e amico, Tommaso Gallarati Scotti scriveva: «Pio XI il romanzo e gli Inni sacri di Manzoni se li teneva – ricordo – sul tavolo di lavoro, nella sua biblioteca, accanto a opere venerande di Padri e Dottori della Chiesa»47. Fra l’altro nella sua funzione di prefetto nell’Ambrosiana, si era fatto forte delle pagine del romanzo dedicate a Federigo Borromeo e alla biblioteca per raccogliere risorse a sostegno di questa «nobile opera a perpetua utilità»48.
Un lungo brano della Osservazioni viene richiamato – cosa inconsueta – nella Divini illius Magistri, del 31 dicembre 1929, per giustificare la giurisdizione morale della Chiesa:
«[...] dichiara Pio X di santa memoria: “Qualunque cosa faccia il cristiano, anche nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni soprannaturali, ché anzi deve secondo gli insegnamenti della cristiana sapienza dirigere tutte quante le cose al bene supremo come ad ultimo fine; tutte le sue azioni inoltre, in quanto sono buone o cattive in ordine ai costumi, ossia in quanto convengono o meno con il diritto naturale e divino, sottostanno al giudizio e alla giurisdizione della Chiesa” (Enc. Singulari quadam, 24-9-1912). Ed è degno di nota come abbia saputo bene intendere ed esprimere questa dottrina cattolica fondamentale un laico, mirabile scrittore quanto profondo e coscienzioso pensatore: “La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso d’esclusivamente) a lei, ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l’uomo non possa conoscere alcuna verità morale, ha anzi riprovata quest’opinione più d’una volta, perché è comparsa in più d’una forma. Dice bensì, come ha detto e dirà sempre, che per l’istituzione che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo Spirito Santo mandatole in suo nome dal Padre, essa sola possiede originariamente e inammissibilmente l’intera verità morale (omnem veritatem) nella quale tutte le verità particolari della morale sono comprese, tanto quelle che l’uomo può arrivare a conoscere col semplice mezzo della ragione, quanto quelle che fanno parte della rivelazione, o che si possono dedurre da questa” (A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, cap. III)»49.
Papa Ratti, fine conoscitore del testo, si riferisce a una nota a piè di pagina in cui Manzoni sente di dover precisare l’«impadronirsi della morale» di Sismondi:
L’illustre autore, dopo aver detto: L’Église s’empara de la morale, aggiunge: comme étant purement de son domaine: parole che non esprimono esattamente la dottrina cattolica, e perciò richiedono un’osservazione. La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso d’esclusivamente) a lei, ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l’uomo non possa conoscere alcuna verità morale, ha anzi riprovata quest’opinione più d’una volta, perché è comparsa in più d’una forma. Dice bensì, come ha detto e dirà sempre, che per l’istituzione che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo Spirito Santo mandatole in suo nome dal Padre, essa sola possiede originariamente e inammissibilmente l’intera verità morale (omnem veritatem) nella quale tutte le verità particolari della morale sono comprese, tanto quelle che l’uomo può arrivare a conoscere col semplice mezzo della ragione, quanto quelle che fanno parte della rivelazione, o che si possono dedurre da questa; come fa la Chiesa stessa, con assoluta autorità, nelle nove decisioni che siano richieste da novi bisogni; e come si fa nella Chiesa, con autorità condizionata e sottomessa, da quelli che hanno da essa l’incarico d’istruire i fedeli nella legge di Dio; e come si fa anche da’ semplici fedeli medesimi, senza autorità, ma senza usurpazione, quando riconoscano questa mancanza in loro d’ogni autorità, e abbiano l’intenzione sincera di non dipartirsi dagl’insegnamenti della Chiesa, e di sottomettersi in ogni caso a ogni sua decisione50.
Le Osservazioni appaiono di frequente in Pio XI. Egli vi si riferisce parlando ai rifugiati della guerra di Spagna, nel 1936:
«Si è detto in questi ultimi giorni che Religione e Chiesa Cattolica si sono mostrate impari e inefficaci contro quelle sciagure e quei mali, e si è creduto di darne prova coll’esempio della Spagna e non di essa sola. Quadra pienamente a questo proposito l’osservazione di A. Manzoni: “Per giustificare la Chiesa non è mai necessario ricorrere a degli esempi: basta esaminare le sue massime” (Osservazioni VII). L’osservazione è evidente oltreché solida e profonda. Dateci infatti una società nella quale abbiano sinceramente libera ed incontrastata diffusione le massime che la Chiesa e la Religione Cattolica continuamente insegnano e intimano con forza di leggi e di essenziali direttive come da Dio volute e da Dio controllate e sancite a norma della condotta e dignità individuale, della giustizia privata e pubblica, sociale e professionale, della santità della famiglia [...]. Noi domandiamo con che cosa e come possono Chiesa e Religione Cattolica più e meglio contribuire al vero benessere individuale, domestico e sociale»51.
In un’altra occasione parlando della stampa cattolica, Pio XI attribuisce direttamente a Manzoni la formula «forte e profonda»: «impadronirsi della morale», che invece appartiene originariamente al Sismondi polemista. Manzoni certo la fa propria («Quando Gesù Cristo disse agli Apostoli: “Istruite tutte le genti [...] insegnando loro d’osservare tutto quello che v’ho comandato” ingiunse espressamente alla Chiesa d’impadronirsi della morale») ma come espediente polemico, usando un linguaggio dell’avversario che non gli appartiene:
«Coi quali contributi la Chiesa cattolica, voi lo direte altamente, non intende punto nulla usurpare di quello che alla politica propriamente detta appartiene in ragione del suo fine, usurpazione contro verità oggi affermata per creare alla Chiesa cattolica ogni sorta di difficoltà ed escludere la sua benefica azione proprio da quei più vasti campi che ne hanno maggior bisogno e più ne profitterebbero: la gioventù, la famiglia, la scuola, la stampa, le masse popolari. La Chiesa riconosce allo Stato la sua propria sfera d’azione e ne insegna, ne comanda il coscienzioso rispetto; ma non può ammettere che la politica faccia a meno della morale e non può dimenticare il precetto del divin Fondatore che, secondo la forte e profonda espressione del nostro grande Manzoni (Osservazioni III), le comandava di occuparsi in proprio, di impadronirsi della morale dovunque essa entra e deve entrare: docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis»52.
Ma già nell’unico colloquio con Mussolini nell’anniversario del Concordato, l’11 febbraio del 1932, il papa invocava le Osservazioni: si coglie qui ancora meglio il significato di questo «appropriarsi della morale», come volto a opporre a un totalitarismo fascista una sorta di «totalitarismo mondiale cattolico»53.
La sintesi dell’incontro si legge nel resoconto che Mussolini inviava tempestivamente a Vittorio Emanuele II, ed è attendibile, perché il contenuto trova conferma nelle frequenti enunciazioni analoghe di Pio XI, compreso il riferimento evangelico a Mt. 28, 19s., che lo scrivente ricordava in modo impreciso. Tra virgolette caporali parla Pio XI:
«Sono lieto che si sia ristabilita la compatibilità tra Partito Fascista e l’Az.[ione] Cattolica. Se mai, le difficoltà avrebbero dovuto partire da parte cattolica. Ma io non vedo, nel complesso delle dottrine fasciste tendenti all’affermazione dei principi d’ordine, di autorità, di disciplina niente che sia contrario alle concezioni cattoliche:
«E mi spiego anche la pur reiterata affermazione – un po’ meno frequente in questi ultimi tempi – del totalitarismo fascista.
«Nell’ambito dello Stato questo totalitarismo si comprende, ma oltre gli interessi materiali, ci sono quelli delle anime e qui entra in azione il “totalitarismo cattolico”».
Il S. P. a questo punto prende un libro, cerca una pagina e quindi riprende «Ecco un libro di Manzoni, non abbastanza conosciuto “La morale cattolica”. Manzoni, in genere, è uno scrittore cauto e moderato, ma in questo periodo sembra stringere il pugno. “Quando”, dice Manzoni, “Cristo disse agli apostoli ‘Eunte [sic] et docete omnes gentes’ affidò alla Chiesa un mandato divino, un ordine che la Chiesa deve eseguire”».
Io condivido l’opinione del S.P. – Stato e Chiesa agiscono su due «piani» diversi e possono quindi delimitate le loro reciproche sfere di attività – collaborare insieme.
Il Santo P. ritiene questa collaborazione tanto più necessaria in questi tempi di crisi e di grande miseria54.
Mi pare allora si possa affermare che le Osservazioni hanno un ruolo non secondario nella elaborazione di una intransigenza che si può dire «totalitaria» nel contesto dell’opposizione ai totalitarismi coevi55: si trattava di un modello ideale, la cui corrispondenza con fatti può ben essere discussa, a cominciare dai contenuti del colloquio stesso con Mussolini.
La formazione dei due editori delle Osservazioni, Colombo e Amerio, si colloca appunto in questo orizzonte. In particolare, trovano risonanza e amplificazione in Amerio le affermazioni più radicali, come quella citata: «La verità è con quella religione che, diciotto secoli sono, disse al mondo: Io non cangerò mai e che non si è mai cangiata». Amerio commenta citando Mt. 5, 18: «iota unum aut unus apex non praeteribit a lege»56: questa è forse la cellula originaria da cui si svilupperà il suo circostanziato e durissimo attacco alle «variazioni» indotte dal concilio Vaticano II denunciato come attentato alla dottrina immutabile della Chiesa cattolica57.
Proprio il recupero cattolico in clima concordatario, attraverso lo stesso magistero pontificio, di Manzoni, il «nostro» Manzoni, costituisce il quadro ultimo in cui comprendere l’interpretazione antagonista, cattolico-liberale (in senso lato, poiché, come insisteva Arturo Carlo Jemolo58, Manzoni «sta a sé»), che si condensava intorno all’opera di Ruffini, e che era fatta propria dallo stesso Benedetto Croce, così critico delle Osservazioni, ma pronto, nel momento di opporsi al Concordato, ad iscrivere Alessandro Manzoni in quel «partito nazionale-liberale-cattolico, che accolse uomini insigni, da tutti oggi ricordati e venerati e un poeta che si chiamò Alessandro Manzoni. Quel partito, giova rammentarlo, non venne respinto e condannato dai liberali, ma dalla Chiesa»59.
Che cosa dunque portava a definire liberale Manzoni (dubitava di questa qualifica Jemolo, la difendeva Spadolini)?60 C’era un nucleo profondo che originava poi quei suoi atteggiamenti concreti di apertura verso il movimento unitario risorgimentale e i suoi protagonisti?
Intolleranza teologica e tolleranza civile sono le due categorie che usa Ruffini, come anche Amerio che parla di liberalismo pratico. Questi ne da una giustificazione teorica classica: l’intellettualismo manzoniano (il suo «integralismo logico») non può ammettere alcuna coazione nell’assenso di fede. Ruffini faceva appello alla matrice giansenista come chiave esplicativa: è questa matrice a rendere Manzoni straordinariamente sensibile al tema della libertà dinanzi ogni prevaricazione storica della Chiesa romana.
Di grande finezza nel segnalare tutte le tracce di giansenismo nella formazione di Manzoni, la ricerca di Ruffini è tuttavia meno convincente nell’individuare elementi espliciti e chiari nel pensiero dell’autore e alla fine ci pare che lo stesso giansenismo divenga un concetto piuttosto evanescente. Che le Osservazioni siano solo un «penso» che Manzoni deve svolgere su ordine dei suoi direttori spirituali è difficile da ammettere, data la sua personalità indipendente e data la sua volontà di riprendere il testo decenni dopo. Le sue professioni di fedeltà alla Chiesa romana, dopo il ripudio del calvinismo61, sono assolutamente chiare, come i suoi dinieghi, sia nei confronti del giansenismo, che nei confronti del «libero pensiero», come si è visto dalla risposta a Chenevière e a Cousin, e ciò ben prima dell’incontro con Rosmini. È significativo l’esito dello scambio con Sismondi. Scrivendo il 20 dicembre 1820 a Fulvia Iacopetti, figlia di Pietro Verri e quindi amica di Manzoni, Sismondi si diceva onorato dell’attenzione di Manzoni, e apprezzava la gentilezza delle sue espressioni, ma diceva: siamo come due spadaccini che si battono nel buio, in due angoli diversi di una stanza. In realtà non ci si intende: la posizione di Sismondi non è su questo o quel punto di dottrina, ma sull’atteggiamento di fondo, «c’est la soumission de tous à toutes les décisions de l’église, sur toutes les questions théologiques et philosophiques, qu’on peut élever sur la nature de Dieu, sur celle de l’âme humaine, sur tous les rapports de l’une avec l’autre». Manzoni, lamenta Sismondi, risponde con il catechismo davanti a sé, invece di abbandonarsi all’originalità dei sui pensieri62.
Così racconta lo stesso Ruffini. È tuttavia impressionante che mentre papa Ratti serrava i ranghi del cattolicesimo appellandosi alle proposizioni intransigenti delle predilette Osservazioni, Ruffini producesse il suo grande ultimo libro sulla vita religiosa di Alessandro Manzoni. L’autore di libri straordinari come La libertà religiosa. Storia dell’idea (1901), o Diritti di libertà (1926), contro il fascismo incipiente, l’oppositore del Concordato e al giuramento di fedeltà al fascismo, morì nel 1934. Nell’ultima pagina, Ruffini scriveva che quando non si accetta la componente giansenistica nella sua conversione, si perde la nota più caratteristica profonda di Manzoni, la serietà e la coerenza di vita:
«si distrugge, in tal modo, anche uno dei più fini e penetranti strumenti di analisi psicologica, il solo anzi che ci possa mostrare perché al Manzoni spetti [...] il merito incomparabile di aver restituita alla letteratura italiana quella concezione seria, quella visione patetica e drammatica, non per altro disperata e tragica, del mondo e della vita, che ne erano esulate dopo Dante e, per di più, quella rispondenza piena tra la propria arte e la propria vita, che costituì una dei lati più mirabili, anzi la nota più caratteristica di quella esistenza gloriosa»63.
Sono parole – serietà, rispondenza tra arte e vita – che vanno ben soppesate, pensando al contesto storico in cui Ruffini scriveva. (Benedetto Croce sottolineava questo tratto nello stesso Ruffini dicendo di lui, all’indomani della morte di questi: «neppure si poneva il quesito se potesse darsi sceveramento tra il proprio convincimento e il proprio operare»)64.
Nella stessa pagina, a Bossuet, «le sérieux incompréhensible de la vie chrétienne», Ruffini riteneva pertinente aggiungere Giovanni Gentile:
«Questo pensiero forma il nucleo della commemorazione manzoniana di Giovanni Gentile (Dante e Manzoni, Firenze 1923) che scrive (p.121), opportunamente rifacendosi a una frase dello stesso Manzoni nel suo elogio del cardinale Federigo Borromeo: “Prendere sul serio” le cose che tutti han sempre ammirate ed esaltate; e perciò non dirle soltanto, ma farle: ecco la grande novità della visione manzoniana della storia»65.
Pensando ai diversi esiti di questa «serietà», ci si domanda ancora, più in profondità, che cosa rendono veramente diversi l’intransigenza, la coerenza, la serietà, eventualmente il giansenismo e il liberalismo di Alessandro Manzoni rispetto a quanto gli attribuivano e gli attribuiscono i suoi diversi lettori e ammiratori.
A questa domanda ci sembra ci sia una risposta molto semplice in un’espressione che si trova di passaggio in una sua lettera: «La Provvidenza ha posto per me nello star basso il rimedio a due miserie in una sola volta»66. Chi scriveva si riferiva soprattutto alla vanità e al timore dinanzi alle «critiche e alle animosità letterarie», e al carattere provvidenziale di certi tratti di carattere, di certi impedimenti materiali che ne limitavano, per così dire, la socialità; ma «star basso» può essere scelto a segnare la scelta intellettuale e di vita di Manzoni.
«Star basso» voleva dire accettare il peso, alle spalle, di una vita laicale, che «non era stata sempre cristiana»67. Voleva dire accettare di stare come intellettuale (pensiamo sempre alle Osservazioni) nella Chiesa cattolica, sentita come un grande popolo che attraversa la storia, al di là di ogni discriminazione nazionale, e ciò pur sentendosi sempre impari allo scopo (viene in mente Angelo Roncalli che, nell’accettazione del pontificato, citava il cardinal Federico, «Quae scio de mea paupertate et vilitate sufficiunt ad meam confusionem», Promessi sposi, cap. XXVI: tradotto in latino!)68.
Di qui veniva anche l’attenzione a quanto si muove nel secolo, senza conformarsi a esso, ma con la volontà di discernervi tutto ciò che può giovare al rispetto della dignità umana (cfr. «Della opposizione della religione con lo spirito del secolo»)69.
«Star basso» implicava astenersi dal discettare circa il rapporto della morale cattolica con la politica, un punto che «non è stato da me obbliato, ma intralasciato per una certa ripugnanza a toccare un argomento che non avrei potuto pienamente discutere»70, senza tuttavia precludersi scelte precise e coraggiose nel quadro politico della storia unitaria che si stava facendo.
«Star basso» significava ripudiare la forza che domina il mondo:
«[...] loco a gentile / Ad innocente opra non v’è: non resta /Che far torto o patirlo. Una feroce / Forza il mondo possiede»71.
Di ogni forza e splendore deve spogliarsi (come il servo di Dio in Isaia) anche la religione:
«Mi ingannerò, ma credo che quando la religione fu spogliata in Francia dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, poté parlare più alto e fu più ascoltata; e almeno coloro che sono disposti a pigliare le parti degli oppressi, ebbero contro di essa un pregiudizio di meno; e il linguaggio de’ suoi difensori ebbe tosto i caratteri gloriosi di quei primi che la professarono, quando il confessarla non portava che l’obbrobrio della croce»72.
Quando Manzoni parlava dell’impero romano come luogo di violenza («una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza»), le sue parole ricordano Simone Weil, del resto accomunabile in generale a Manzoni per la rivendicazione dell’unità tra religione e politica:
«Ah! quando alla memoria d’un cristiano si può rimproverare che, per uno zelo ingiusto e erroneo, abbia usurpato il diritto sulla vita altrui, sia pure stato, in tutto il resto, pio, irreprensibile, operoso nel bene; a ogni sua virtù si contrappone il sangue ingiustamente sparso: una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza. E perché nel giudizio tanto favorevole di Traiano non si conta il sangue d’Ignazio e de’ tanti altri innocenti, che pesa sopra di lui? perché si propone come un esemplare? ...È la religione che ci ha resi difficili a concedere il titolo d’umano e di giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore d’un’anima immortale c’è qualche cosa d’ineffabile; è essa che ci ha istruiti a riconoscere e a rispettare in ogni uomo l’immagine di Dio, e il prezzo della Redenzione [...] Ah! chi ha insegnato al mondo, che Dio non s’onora che con la mansuetudine e con l’amore, col dar la vita per gli altri e non col levargliela, che la volontà libera dell’uomo è la sola di cui Dio si degna ricevere gli omaggi?»73.
«Star basso» significava soprattutto farsi piccolo (lettera a Claude Fauriel), entrar in contatto con se stesso, con le proprie parti più deboli e infantili, ma anche più creative, e dare loro voce (a partire dalla ricerca di una lingua comune), non come l’apologista «debole ma sincero» delle Osservazioni, ma come poeta e narratore dei poveri di Dio, i «nessuno» di cui il Griso dice: «Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno» (cap. XI). Forse, se una disposizione sapienziale fatta di mitezza, di semplicità, di compassione può dirsi liberale, anche Manzoni vi appartiene intimamente74.
Questa caratterizzazione della figura religiosa complessiva di Manzoni – all’interno di una scansione temporale della ricezione del pensiero religioso manzoniano che va dal rigetto post-unitario all’esaltazione da parte del cattolicesimo in epoca concordataria sino a una specie di oblio dopo gli anni Sessanta del Novecento – si pone di là da categorie che solo parzialmente gli si attagliano: liberalismo, giansenismo, illuminismo, intransigentismo, e relativizza il conflitto delle interpretazioni che per un secolo ha tenuto il campo.
Manzoni religioso «sta a sé». La sua è una irripetibile sintesi di cultura biblica, di francescanesimo, di umanesimo, di illuminismo, di idealismo romantico. Ma il tipo religioso che si delinea dalla sua opera – detestare la forza, una certa naturalezza nel credere, saggezza e ironia, non odiare nessuno... star basso – è certo raro ma costante nella storia religiosa italiana, e costituisce una radicale alternativa alla prospettiva filo-romanismo di Machiavelli:
«Pensando adunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi i popoli fussero piú amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti, la quale credo sia la diversità della educazione nostra dall’antica, fondata nella diversità della religione nostra dalla antica. Perché avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo: onde i Gentili stimolandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro piú feroci [...]. La nostra religione ha glorificato piú gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire piú che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere adunque pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati, i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini per andare in Paradiso pensa piú a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce piú senza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio e non secondo la virtù»75.
Note
1 Cronaca contemporanea, «La Civiltà cattolica», Firenze 26 giugno 1873, 24, 1873, III, p. 82.
2 G. Spadolini, prefazione a A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni, Firenze 1973, p. VII. A proposito dell’atteggiamento verso Manzoni sarebbe opportuna una ricerca attraverso tutte le annate della rivista.
3 Cfr. in generale il saggio introduttivo in Fermo e Lucia, revisione del testo critico e commento a cura di S.S. Nigro, Milano 2002, in partic., per l’eccellente appendice, cfr. Percorsi bibliografici, a cura di S.S. Nigro, E. Paccagnini, ivi, pp. 1375-1402. Bibliografia recente si trova anche in P. Floriani, s.v. Manzoni, Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXIX, Roma 2007, pp. 306-322. Cfr. inoltre D. Ellero, Rassegna Manzoniana (2005-2008), «Lettere italiane», 61, 2009, pp. 602-641. Specificamente sulle Osservazioni la bibliografia di recente è molto ridotta: F. Mattesini, Dalla “Morale Cattolica” ai “Promessi sposi”, in Manzoni tra due secoli, Milano 1986, pp.11-25.
4 S. de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du moyen âge, 12 voll., Zürich-Paris 1807-1818.
5 S. de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du moyen âge, XVI, Paris 1826, p. 418.
6 Citiamo normalmente la seconda edizione, del 1855, in Opere morali e filosofiche, a cura di F. Ghisalberti, III, in Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari, F. Ghisalberti, III, Milano 1963, p. 2.
7 Ibidem, p. 3.
8 A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, 3 voll., Milano-Napoli 1966; Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di U. Colombo, III, in A. Manzoni, Opera omnia, diretta da C. Secchi, D. Nava, Milano 1965. Prima delle edizioni di Amerio e di Colombo, l’edizione di riferimento era quella curata da Antonio Cojazzi presso la Società editrice internazionale di Torino, varie edizioni a partire dal 1910: Osservazioni sulla morale cattolica: parte I e II, postuma, e pensieri religiosi. Studi introduttivi, commenti e appendice di A. Cojazzi, tuttora interessante per alcuni spunti sulla ricezione del testo.
9 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di U. Colombo, cit.
10 F. Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, 2 voll., Bari 1931.
11 Cfr. Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, a cura del Centro nazionale di studi manzoniani, XX, Postille: filosofia, con introduzione di V. Mathieu, a cura di D. Martinelli, Milano 2002, pp. 1997 seg.
12 B. Croce, Alessandro Manzoni. Saggi e discussioni, Bari 1942, pp. 57 seg.
13 Ibidem, p. 65.
14 Ibidem, p. 57.
15 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 11.
16 Ibidem, p.12.
17 Ibidem, p. 49.
18 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., III, p. 76.
19 H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di H. Hünermann, Bologna 1995, nn. 2778, 3009.
20 Il termine non si trova nella versione greca della Bibbia ebraica, si trova sia in Filone Ebreo sia nella letteratura del periodo cosiddetto intertestamentario sia nella letteratura filosofica stoica: Epitteto e anche nel Corpus hermeticum. L’idea di fondo di logikē latréia è quella di un culto, di un servizio divino non ritualistico, ma reso attraverso una vita moralmente degna. In particolare Paolo intende dire che «il culto cristiano basato sulla fede non è paragonabile a nessuno degli espletamenti rituali esteriori compiuti sia dai gentili sia dai giudei; anzi egli non pensa neppure che il cristianesimo abbia dei riti propri, ma intende l’intera vita quotidiana! Il cristiano è chiamato ad agire nel suo contesto esistenziale in modo conveniente sia alla sua fede sia anche alla sua dignità umana», R. Penna, Lettera ai Romani, III, Rm 12-16, Bologna 2008, pp. 24 seg.
21 Questa è una prospettiva su cui abbiamo insistito sin dai primi anni Novanta (P.C. Bori, Per un consenso etico tra culture, Genova 1995), sottolineando la differenza tra un conoscere scisso ed astratto e un sapere più alto che si volge a cogliere il nesso tra parti e tutto, tra il pensare e agire, tra filosofia e religione.
22 G. von Rad, La sapienza in Israele, Casale Monferrato 1975, p. 61.
23 Ibidem, p. 94.
24 Aveva anche ragione Ernesto Buonaiuti quando rimproverava a Manzoni tutto di mancare di «uno di quei violenti battiti d’ala improvvisi e sollevanti che danno il sentore di rinnovamenti spirituali preludianti ai trapassi della tradizione cristiana nella storia» (E. Buonaiuti, Storia del cristianesimo. Origini e sviluppi teologici, culturali, politici di una religione, a cura di C. Marongiu Buonaiuti, Roma 2002, p. 1053): ma appunto Manzoni non appartiene al profetismo, sia pure romantico.
25 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 6.
26 Pascal. Oeuvres complètes, éd. par J. Chevalier, Paris 1954, n. 729.
27 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., pp. 23 seg.
28 Ibidem.
29 Ibidem, pp. 26 seg.
30 Lettera 52, del 23 marzo 1816, in Carteggio A. Manzoni-C. Fauriel, a cura di I. Botta, premessa di E. Raimondi, Milano 2000, p.199.
31 Lo stesso in Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., III, p. 508.
32 Prima minuta (1821-1823). Fermo e Lucia, a cura di B. Colli, P. Italia, G. Raboni, in I Promessi sposi, ed. critica a cura di D. Isella, Milano 2006, p. 277.
33 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., III, p. 332.
34 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 55.
35 Ibidem, p. 57; cfr. P.C. Bori, Alessandro Manzoni contre la torture, «Cristianesimo nella storia», 31, 2010, pp. 199-206.
36 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 78. Rispetto alle Osservazioni del 1819, nelle Osservazioni del 1855 si parla dell’«immagine e somiglianza dell’ineffabile Trinità», ivi, p. 53, e vi sono due nuovi riferimenti nel cap. XV.
37 Si veda la scena corrispondente nel Fermo e Lucia, dove manca il riferimento al Faraone: «Ho compassione di questa casa: ella è segnata dalla maledizione. State a vedere che la giustizia di Dio avrà rispetto a quattro pietre e a quattro scherani! Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine per darvi il diletto di tormentarla! voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla contra voi! Vi siete giudicato. Ne ho visti di più sicuri, di più potenti, di più temuti di voi; e mentre agguatavano la loro preda, mentre non avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano di Dio si allungava in silenzio dietro alle loro spalle per coglierli. Lucia è sicura di voi, ve lo dico io povero frate, e quanto a voi, ricordatevi che verrà un giorno...», Prima minuta (1821-1823). Fermo e Lucia, a cura di B. Colli, P. Italia, G. Raboni, cit., p. 81.
38 Si veda anche A. Manzoni, Adelchi, III, VII: «[...]Che, regnante o caduto, è tale Adelchi, / Che chi l’offende, il Dio del cielo offende / Nella più pura immagin sua». Si veda anche il coro alla fine del secondo atto del Conte di Carmagnola: «Tutti fatti a sembianza d’un Solo, / figli tutti d’un solo Riscatto, / in qual ora, in qual parte del suolo, / trascorriamo quest’aura vital, / siam fratelli; siam stretti ad un patto: / maledetto colui che l’infrange, / che s’innalza sul fiacco che piange, / che contrista uno spirto immortal!».
39 Carteggio A. Manzoni-C. Fauriel, cit., p. 144.
40 F. Ruffini, La vita religiosa, cit., I, pp. 35 seg.
41 L. Devillairs, L’homme image de Dieu. Interprétations augustiniennes (Descartes, Pascal, Fénelon), «Archives de philosophie», 2, 2009, 72, pp. 293-315.
42 Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, cit., XVI, Dell’invenzione e altri scritti filosofici, introduzione e note di U. Muratore, testi a cura di M. Castoldi, p. 224. La nota rinvia alla dottrina rosminiana.
43 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 747.
44 Ibidem, VII, I, lettera 323, p. 566.
45 Lettera a V. Cousin, in A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 605. Si veda Postille: filosofia, a cura di D. Martinelli, cit., pp. 1997 segg.
46 C. Confalonieri, Pio XI visto da vicino, Torino 1957, 1993, p. 153; Y. Chiron, Pie XI, Paris 2004, conta una cinquantina di citazioni di Manzoni nei discorsi di Pio XI, tra il 1922 e il 1939, è fra i laici il più citato. Va anche segnalata una lunga citazione di Manzoni, «un illustre scrittore, il quale tratta anche di cose sacre con una competenza rara a trovarsi in un laico», in Ad catholici sacerdotii, lettera enciclica del 1935.
47 T. Gallarati Scotti, La giovinezza del Manzoni, Milano 1969, pp. 260 segg.
48 http://www.group.intesasanpaolo.com/scriptIsir0/isInvestor/ita/newsletter/ita_newsletter_n3.jsp (28 luglio 2010).
49 Più esaustivamente: «omnem in morum genere veritatem possidere». Cfr. «Cum autem venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem. Ioan. XVI, 13», citato anche nelle Osservazioni, in nota al capitolo III.
50 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., p. 50. Amerio commentava: «Il M. riprova espressamente la dottrina giansenistica che fa dipendere dalla grazia ogni lume morale (prop. 41-48 di Quesnel e 36-37 di Baio), e perciò asserisce alla religione non già un dominio esclusivo sulla morale, giusta l’accusa del Sismondi, sibbene un dominio totale, che su una parte si esercita in condominio colla ragione, ma oltre a ciò abbraccia la totalità del sistema» (corsivo nostro).
51 La vostra presenza, Allocuzione di S.S. Pio XI ai vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli profughi dalla Spagna, 14 settembre 1936, http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/speeches/documents/hf_p-xi_spe_19360914_vostra-presenza_it.html (28 luglio 2010).
52 Siamo ancora, Allocuzione di S.S. Pio XI in occasione dell’inaugurazione dell’esposizione mondiale della stampa cattolica, 12 maggio 1936, http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/speeches/documents/hf_p-xi_spe_19360512_siamo-ancora_it.html (28 luglio 2010).
53 Cfr. A. Guasco, Un termine e le sue declinazioni: chiesa cattolica e totalitarismi tra bibliografia e ricerca, in Pius XI: Keywords, International Conference Milan 2009, a cura di A. Guasco, R. Perin, 2009, pp. 91-106.
54 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di D. Susmel, E. Susmel, Appendice 1. Scritti, 1907-1945, Roma 1978, pp.129 seg. Il colloquio è molto interessante anche per i riferimenti al protestantesimo e all’ebraismo in Italia.
55 Su questi aspetti insiste P. Bouthillon, La naissance de la Mardité. Une théologie politique à l’âge totalitaire: Pie XI, 1922-1939, Strasbourg 2001.
56 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., II, p. 419.
57 R. Amerio, Iota unum. Studio sulle variazioni della chiesa cattolica nel secolo XX, Milano-Napoli 1985. Il titolo riecheggia il libro di Jacques Bénigne Bossuet dedicato alle «variazioni» delle chiese protestanti.
58 A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni, cit., p. 52.
59 Discorso al Senato del 24 maggio 1929, in P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari 1971, p. 211.
60 G. Spadolini, prefazione a A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni, cit., p. XVI.
61 Vedi le desolate considerazioni di G. Tourn, Italiani e protestantesimo. Un incontro impossibile?, Torino 1997, pp.125 segg.
62 F. Ruffini, La vita religiosa, cit., II, p. 173.
63 Ibidem, pp. 454 seg.
64 A.C. Jemolo, introduzione a F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia di un’idea, Milano 1991, con la postafazione di F. Margiotta Broglio, p. XXXI.
65 Questo è il passo cui ci si riferisce: «Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa», Promessi sposi, cap. XXII; non è ancora così in Fermo e Lucia.
66 A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, VII, 2, Milano 1970, lettera 444, p. 36.
67 Pensiamo a quanto T. Gallarati Scotti suggeriva in Una pagina ignorata della gioventù del Manzoni, in La giovinezza del Manzoni, cit., pp. 283 seg.
68 A.G. Roncalli-Giovanni XXIII, Edizione nazionale dei diari, a cura di A. Melloni, L. Butturini, M. Faggioli et al., VI, 2, Pace e Vangelo 1956-1968, a cura di E. Galavotti, p. 770. Il passo è ripreso molte volte da Angelo Roncalli, a partire dal 1936.
69 A. Manzoni, Opere morali, a cura di F. Ghisalberti, cit., pp. 490 segg., anche se lo stesso Amerio parla dello «scarso sentimento che il Manzoni ebbe della vita che la verità prende dalla storia, e che non è soltanto vita degli uomini, ma anche vita, cioè aumento, della verità stessa», Osservazioni sulla morale, cit., III, p. CVII.
70 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., II, p. 539.
71 A. Manzoni, Adelchi, V, VIII. Vedi anche il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, cap. II, «[...] quello stato così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori, che crea tanti scopi, dei quali rende impossibile l’adempimento, che sopporta tutti i mali e tutti i rimedi, piuttosto che cessare un momento [...] quello stato che è un mistero di contradizioni in cui la mente si perde, se non lo considera come uno stato di prova e di preparazione a un’altra esistenza», e E. Raimondi, Romanzo senza idillio, Torino 1974, p. 68. Con intento diverso, descrittivo, Calvino si serviva efficacemente della nozione di «rapporti di forza»: I. Calvino, «I Promessi Sposi». Il romanzo dei rapporti di forza, in Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano 1995, pp. 338-341.
72 Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, cit., II, pp. 456-457.
73 Ibidem, p. 511. Amerio nel suo commento a questo passo protesta contro la frase «una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza». Interessanti le pagine dedicate da Piero Treves a Manzoni: P. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Napoli 1962, pp. 591 segg. C’è un «antigentilesimo» che ancora una volta divide Manzoni da Leopardi.
74 Su queste virtù complementari cfr. N. Bobbio, Elogio della mitezza, Milano 1910, p. 44. Altra cosa è propriamente la corrente del Pensiero religioso liberale, riprendendo la bella sintesi di R. Celada Ballanti, Pensiero religioso liberale. Lineamenti, figure, prospettive, Brescia 2009, che sentiamo del resto molto vicina, sottolineando l’importanza, in ogni caso, di tutto quel che comporta lo «star basso». Con buona pace della critica gramsciana, la cui polemica antimanzoniana (Manzoni opposto a Tolstoj) va inquadrata sull’uso cattolico e rattiano del «nostro Manzoni», Jemolo scriveva: «Se la passione di parte non accecasse, scorgerebbero che il compatimento di Manzoni non si arresta ai poveri, va agli uomini tutti. Più vecchio di Tolstoj di una generazione, lo anticipa e lo supera nel demolire i potenti: Dio solo è il fattore della storia», A.C. Jemolo, Il dramma del Manzoni, cit., p. 39.
75 Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, II, 2, a cura di M. Martelli, Firenze 1971, p. 162. Evidentemente è da considerare la dipendenza dei giudizi di Sismondi da Machiavelli.