Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La guerra di successione spagnola segna il tramonto del predominio della Spagna sull’Italia. Gli Asburgo d’Austria diventano la nuova forza egemonica, e nel panorama politico italiano si affermano il nuovo regno sabaudo e il Granducato di Toscana. Scompaiono dalla scena i Medici, i Gonzaga, i Farnese e gli Estensi; in declino sono pure le vecchie repubbliche e lo Stato pontificio. Alla fine del secolo le repubbliche giacobine ridisegnano, seppure in modo effimero, la geografia della penisola.
La fine del predominio spagnolo
Il trattato di Utrecht (1713) e il trattato di Rastatt (1714) mettono fine alla guerra di successione spagnola, ma soprattutto al predominio spagnolo inItalia. L’imperatore Carlo VI – che già nel 1708 aveva incamerato il Ducato di Mantova, deponendo l’ultimoGonzaga – ottiene gran parte dei domini che erano appartenuti allaSpagna in Italia: il Ducato di Milano, il Regno di Napoli e quello di Sardegna; la Sicilia, con il titolo regale, è attribuita invece a Vittorio Amedeo II di Savoia (che la scambierà nel 1720 con la Sardegna), cui vanno anche il Ducato del Monferrato, già dei Gonzaga, e alcuni territori del Ducato di Milano: l’Alessandrino, la Valsesia e parte della Lomellina.
Nuovi cambiamenti hanno luogo con la pace di Vienna (1738), che conclude la guerra di successione polacca. Il Regno di Napoli e di Sicilia è ceduto dall’Austria a Carlo III di Borbone, figlio di Filippo V, re di Spagna, a condizione che non vi sia mai unione di quelle corone. Carlo, infatti, abdicherà in favore del figlio Ferdinando quando, nel 1759, sarà chiamato a regnare in Spagna. Indirettamente, però, la casa d’Austria controlla dal 1737 – dopo la morte dell’ultimo Medici, Gian Gastone – il Granducato di Toscana, assegnato a Francesco d’Asburgo, marito di Maria Teresa d’Asburgo, figlia ed erede di Carlo VI, per compensarlo della perdita del suo ducato di origine, dato al re detronizzato di Polonia, Stanislao Leszczynski. Maria Teresa, nel 1738, governerà in nome del padre i Ducati di Parma e Piacenza, dove la dinastia dei Farnese si è estinta nel 1731. A questo dominio, però, dovrà rinunciare con la pace di Aquisgrana (1748), alla fine della guerra di successione austriaca: quei ducati passano allora a Filippo di Borbone, figlio dell’ultima Farnese, Elisabetta, e di Filippo V. Con lo stesso trattato Carlo Emanuele III di Savoia toglie alla Lombardia austriaca il Novarese, Vigevano e Voghera.
Questo assetto rimane immutato fino all’irruzione di Napoleone nel 1796. Con la pace di Parigi, Vittorio Amedeo III di Savoia è costretto a cedere alla Francia la Savoia e Nizza; subito dopo l’Austria è spogliata del suo dominio in Lombardia, dove viene costituita la Repubblica Transpadana, poi fusa con la Repubblica Cispadana (ducati estensi elegazioni pontificie di Bologna e Ferrara) per formare la Repubblica Cisalpina. Nell’ottobre del 1797, con la pace di Campoformio, l’Austria rinuncia a Milano, ma riceve in cambio Venezia, che vede così finire la sua millenaria libertà repubblicana. L’anno dopo verrà proclamata la Repubblica romana e nel 1799 la Repubblica partenopea, rapidamente travolta però dalla controffensivaborbonica guidata dal cardinale Ruffo di Calabria, appoggiato dalle bande di Fra’ Diavolo. In varie parti d’Italia, dopo i primi entusiasmi suscitati dall’arrivo degli eserciti della repubblica francese, salutati anche dai ceti borghesi sensibili alla cultura illuministica come liberatori, si diffonde soprattutto negli strati popolari il malcontento, sia per le violenze e le spoliazioni compiute dai nuovi invasori, sia per la politica di scristianizzazione. Nel nord vi sono così i moti delle Pasque veronesi, in Toscana e in Umbria il movimento dei Viva Maria, mentre nel Mezzogiorno le simpatie rivoluzionarie restano circoscritte a limitate élite intellettuali, facilmente sopraffatte dai sanfedisti.
Nel 1799 le forze alleate austro-russe occupano l’Italia settentrionale e centrale, ma dopo lavittoria di Napoleone a Marengo (14 giugno 1800) la situazione è nuovamente rovesciata: la pace di Lunéville (1801) vede il ripristino della Repubblica Cisalpina e della Repubblica ligure, mentre la Francia annette il Piemonte e il Ducato di Parma; la Toscana viene attribuita a Ludovico di Borbone, che assume il titolo di re d’Etruria.
Economia e demografia
Nei primi decenni del Settecento non appare ancora superata la stagnazione che aveva caratterizzato la vita economica italiana fin dagli inizi del XVII secolo. Da allora l’Italia era finita ai margini dell’economia europea, perdendo il ruolo centrale che, per le sue attività commerciali, industriali e finanziarie, aveva avuto fino al Cinquecento. Ormai le voci attive della sua economia sono quasi esclusivamente date dall’esportazione di prodotti agricoli alimentari (grano, olio e talvolta vino); in particolare colpisce che l’Italia – un tempo importatrice di filati di seta per le sue raffinate produzioni di tessuti pregiati – nel Settecento diventi invece esportatrice di seta semilavorata, soprattutto verso il nuovo grande centro tessile di Lione.
Se nell’area padana si scorgono forme più avanzate di conduzione e di coltivazione, tanto che in qualche zona si vanno delineando prodromi di sviluppi agrari capitalistici, più stazionaria resta la situazione nel resto del Paese: nell’Italia centrale è sempre dominante la mezzadria (tuttavia anche al nord la colonìa parziaria è il tipo di contratto più diffuso) e il Mezzogiorno è il regno del latifondo cerealicolo. Segni di progresso si notano a partire dalla metà del secolo, per nuove bonifiche (nelle terre della Maremma toscana) e per l’introduzione di coltivazioni specializzate: quella del riso si estende soprattutto in Piemonte e nel Veneto occidentale, e quella della canapa nelle campagne emiliane; fin dall’ultimo scorcio del Seicento comincia a penetrare dal Rovighese e a propagarsi nella Pianura Padana la coltura del mais, e nelle zone collinari piemontesi, lombarde e venete diventa una pianta sempre più diffusa il gelso, per l’allevamento del baco da seta.
Proprio questa attività dà luogo all’affermarsi del fenomeno che maggiormente rompe il panorama stazionario dell’economia italiana: se in varie zone del centro-nord si intravede il sorgere, soprattutto nelle campagne, di alcune forme di industria a domicilio, proprio la filatura della seta dà vita a un originale tessuto agro-manifatturiero, gettando le basi di un’attività destinata a caratterizzare le prime fasi del processo di modernizzazione italiano.
I ritmi di crescita della popolazione sono rivelatori dell’andamento dell’economia. Nel corso del Settecento la popolazione italiana passa da 13,5 milioni di abitanti a 17,8: un incremento inferiore a quello del resto d’Europa, che vede crescere la sua popolazione da circa 100 milioni di abitanti a 170. E significativamente l’aumento è più sensibile nella seconda metà del secolo.
Degno di nota è anche il fatto che mentre le antiche capitali – Milano, Genova, Venezia, Firenze, Roma – registrano incrementi modesti, Torino, capitale del nuovo Regno di Sardegna, passa da 40 a 80 mila abitanti e Napoli da 200 a più di 400 mila. In questo secondo caso il fenomeno va spiegato con la massicciaemigrazione dalle campagne provocata soprattutto dalle difficoltà economiche. Un fenomeno positivo è dato invece dall’incremento demografico di due città portuali legate a economie esterne alla penisola: Livorno, centro commerciale frequentato da Inglesi e Olandesi, vede crescere la sua popolazione da 16 a 53 mila abitanti e Trieste, sbocco sul mare dell’Impero asburgico, si trasforma in vera e propria città, passando da 6 a 25 mila abitanti.
La società
Durante il Seicento la società italiana aveva perso gran parte del dinamismo sociale che l’aveva caratterizzata in precedenza, anche a causa della lunga stagnazione economica che offriva minori possibilità di mobilità sociale; i ceti dirigenti si erano inoltre sempre più aristocratizzati.
Il predominio nobiliare si perpetua anche nel Settecento. Pur nell’avvicendarsi delle varie dominazioni, la nobiltà italiana dimostra una grande capacità di resistenza sia economica che politica. In tutti gli Stati italiani essa monopolizza le cariche politiche e le funzioni amministrative, giudiziarie, diplomatiche e militari. Naturalmente la nobiltà non costituisce un insieme compatto; tra i nobili vi sono grandi disparità di rango e di ricchezza, oltre che profonde differenze nell’origine e nelle prerogative – nobiltà di toga, patriziati urbani, nobiltà feudale.
La persistente egemonia sociale del ceto nobiliare deve però tenere conto della crescita delle istituzioni statali e del potere monarchico, che rivendica con sempre maggiore convinzione il proprio carattere assoluto. La nobiltà italiana risolve in modo diversificato, a seconda delle aree geografiche e delle compagini statali, il problema del suo ruolo in un contesto in mutamento. In Piemonte, ad esempio, la nobiltà ritrova una legittimazione elaborando un’ideologia di servizio al principe, analoga a quella sviluppata dall’aristocrazia prussiana. In Lombardia il patriziato riesce a conservare per gran parte del Settecento una notevole capacità di controllo e a garantire la propria autoperpetuazione sociale, che pure non esclude una prudente politica di apertura verso le famiglie emergenti. Anche nel Regno di Napoli la nobiltà – e soprattutto l’alta aristocrazia feudale – mantiene la sua forza, ma appare meno direttamente coinvolta rispetto ai patriziati dell’Italia centro-settentrionale nella gestione dello Stato.
Le riforme
La persistenza dell’egemonia nobiliare non deve però far pensare a un immobilismo della società italiana del Settecento, che è anzi un secolo contraddistinto da numerosi e profondi tentativi di riforma in molti degli Stati italiani. Il comune denominatore di questi tentativi riformistici, più o meno riusciti, è rappresentato dalla volontà di ampliamento e di razionalizzazione delle funzioni statali.
Nella prima parte del secolo si ricorda soprattutto l’opera di Vittorio Amedeo II di Savoia; egli attua una riforma giudiziaria che, pur non essendo una vera e propria codificazione, riordina la materia legislativa e crea un nuovo catasto. Nelle Regie Costituzioni emanate dal sovrano nel 1723 si raccoglie un compendio di norme per eliminare le contraddizioni della precedente legislazione e semplificare, spesso a favore dell’autorità regia, il confuso coacervo di leggi tramandate dalla tradizione.
Una riforma catastale viene avviata nel 1718 anche nella Lombardia austriaca.
Dopo la metà del Settecento si apre una nuova fase di riforme, che ancora una volta ha tra i suoi obiettivi i catasti; essi rappresentano uno strumento essenziale per ridurre le gravissime sperequazioni fiscali, mentre la pressione fiscale degli Stati è in continuo aumento e ciò per far fronte alle esigenze imposte dalla crescita degli apparati amministrativi e, soprattutto, militari.
L’esempio più riuscito è il catasto teresiano, realizzato in Lombardia dalla giunta guidata da Pompeo Neri. A partire dal 1740 vengono censite le proprietà fondiarie per impostare un catasto su cui poi varare una riforma fiscale. I provvedimenti di riforma, attuati con rigore da Neri, non hanno però un completo successo, in quanto entrano in conflitto con gli ordinamenti corporativi che costringono a mantenere una serie di esenzioni ecclesiastiche e il testatico (imposta personale gravante sui contadini). Si ha poi il catasto onciario nel Regno di Napoli che, nonostante sia un catasto descrittivo, poiché non prevede la mappatura dei luoghi, è uno strumento utile a eliminare i privilegi goduti dalle classi più abbienti che fanno gravare i tributi fiscali sempre sulle classi più umili. Si chiama onciario perché la valutazione dei patrimoni terrieri viene stimata in once, una misura di monete molto antica corrispondente a sei ducati. È chiaro come un meccanismo volutamente semplice possa assicurare un prelievo fiscale generalizzato e accertamenti molto rapidi. Infine anche lo Stato della Chiesa, limitatamente alla campagna bolognese, istituisce il suo catasto. Qui il legato pontificio di Bologna, Boncompagni, realizza nel 1789 un catasto ispirandosi ai modelli lombardi e modenesi: provvede a una misurazione diretta della terra, abolisce le esenzioni e calcola l’imposta sul valore potenziale della terra per stimolare interventi di miglioramento della produzione agricola.
Un altro aspetto importante dell’attività riformista sono le misure economiche in senso liberista e ispirate ai princípi fisiocratici introdotte in vari Stati, quali la Toscana dei Lorena e la Lombardia.
L’iniziativa riformista dei sovrani trova appoggio nei circoli influenzati dalle tendenze illuministiche provenienti dall’Europa del Nord. Milano è uno dei principali centri di irraggiamento della cultura illuministica in Italia grazie a personalità come i fratelli Verri e Cesare Beccaria e a esperienze come quella del “Caffè”. A Milano si realizza anche una stretta collaborazione fra intellettuali innovatori e potere politico.
Altro centro importante è Napoli, con le figure di Genovesi, Longano, Grimaldi; qui però la collaborazione fra illuministi e governo finisce con il non realizzarsi.
Il tentativo riformistico più coerente e profondo è comunque quello tentato in Lombardia da Giuseppe II di Asburgo, che cerca di uniformare la struttura politico-amministrativa del milanese a quella del resto dell’impero. Nel 1786 Giuseppe II abolisce tutte le istituzioni tradizionali del patriziato milanese, a cominciare dal senato, per sostituirle con un Consiglio di governo diviso in dipartimenti specializzati.
Il tentativo di Giuseppe II, rinnegato in parte dal successore, il fratello Leopoldo II, rappresenta l’estremo limite dell’assolutismo razionalizzatore settecentesco e il punto di rottura del compromesso con i ceti dirigenti tradizionali. Nell’azione di Giuseppe II e nei suoi esiti si manifestano quindi anche in Italia le contraddizioni sociali e ideologiche del riformismo illuminato.