Vedi Stati Uniti d'America dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Stati Uniti d’America
Sebbene gli Stati Uniti escano da un ventennio di supremazia solitaria e incontrastata a livello mondiale e mantengano sfere di potenza in cui la loro superiorità è ancora netta e non colmabile nel breve e medio periodo da alcun competitor, è sempre più d’attualità nel dibattito politico, mediatico e accademico una riflessione sull’imminenza del declino americano. Gli argomenti pro-declino o pro-stabilità si muovono su due piani differenti che è bene mantenere separati: da un lato quello della percezione del potere americano, dall’altro quello della valutazione delle sue basi materiali. Il primo attiene all’immagine e alla percezione che nel mondo si ha dell’egemonia americana a partire dal tipo di leadership che le diverse presidenze americane hanno deciso di perseguire, muovendosi secondo alcuni trade-off ricorrenti nella politica estera unipolare americana: interventismo o isolazionismo, multilateralismo o unilateralismo, pragmatismo o idealismo, apertura o contenimento, soltanto per citarne alcuni tra i più salienti. Le scelte fatte dagli inquilini della Casa Bianca in un senso o nell’altro hanno spesso condizionato il dibattito di cui sopra, specie in anni complessi come quelli di inizio millennio che hanno registrato per gli Stati Uniti l’emergere di sfide non solo di tipo convenzionale, come quelle rappresentate dalla repentina crescita di nuove potenze regionali, desiderose di revisionare i rapporti di prestigio e potere globali, ma anche di tipo non convenzionale, e quindi in primis dalla minaccia rappresentata dalle reti del terrorismo internazionale. Le due gravi crisi scoppiate nel corso dell’ultimo anno – il prolungato braccio di ferro tra la Russia e il mondo occidentale sul tavolo della guerra civile ucraina e il ritorno in auge del terrorismo fondamentalista per mano dell’Is (Stato islamico) – rappresentano due casi esemplari per comprendere la stretta connessione esistente tra il tipo di risposta scelta dagli Stati Uniti e la percezione che ne deriva, presso le cancellerie e l’opinione pubblica mondiali, dello stato di salute del loro primato internazionale. Il secondo piano su cui si concentra il dibattito su un possibile declino egemonico di Washington, come si è detto, è invece connesso alla valutazione delle sue basi materiali: e in questo senso va prima di tutto riconosciuto come le risorse di potere a disposizione degli Usa presentino elementi di forza e altrettanti di debolezza. Dal punto di vista economico, per esempio, gli Stati Uniti sono ancora di gran lunga la prima economia al mondo in termini di pil assoluto, raggiungono tassi di produttività altissimi, sono il principale centro finanziario del pianeta e possiedono il maggior settore terziario per estensione, livello di avanzamento e capacità di innovazione. Allo stesso tempo, però, gli Usa sono stati l’epicentro da cui si è diffusa la crisi economica e finanziaria internazionale del 2008, hanno un debito pubblico federale cresciuto notevolmente negli ultimi anni (arrivato intorno al 106% del pil) che li espone strutturalmente nei confronti dei paesi esteri detentori, e posseggono una valuta che, seppur ancora riferimento nei circuiti monetari internazionali, non ha più la forza e la tenuta dimostrata nei decenni passati. Se si guarda poi alla sfera militare, il divario tra Washington e il resto del mondo appare più marcato, non solo per quanto concerne la spesa militare, le dotazioni della difesa, la qualità e la quantità dei sistemi d’arma a disposizione, ma anche in ragione del fatto che gli Stati Uniti sono attualmente ancora l’unico paese in grado di proiettare la propria potenza a livello globale grazie al controllo dei tre cosiddetti spazi comuni: il cielo, lo spazio e il mare. A una superiorità difficilmente discutibile, fa tuttavia da contraltare la scarsa possibilità di utilizzare le risorse militari nel contesto internazionale attuale, tanto nel contrasto a minacce di tipo asimmetrico, come le reti del terrorismo e della criminalità internazionale, quanto in quegli interventi di stabilizzazione e di nation-building, come per esempio nella fase postbellica in Iraq e Afghanistan, dove va scontata una crescente indisponibilità dell’opinione pubblica americana a sopportarne gli inevitabili costi in termini di vite umane. Allo stesso tempo pesa in prospettiva un dilemma strategico che gli Usa dovranno riuscire a risolvere trovando un difficile compromesso tra due esigenze contrastanti. La prima è quella di ridurre il budget della difesa, più che raddoppiato dal 2001 in avanti. La seconda è rappresentata dalla necessità di rispondere alla rapida crescita militare di diverse potenze emergenti, Cina in primis, impegnate non solo a modernizzare i propri apparati, ma anche a sviluppare quella tecnologia ‘anti-accesso’ finalizzata proprio a rendere più costoso un eventuale intervento esterno nelle rispettive regioni d’appartenenza e quindi a minare uno dei fondamentali cardini su cui si è potuta fin qui edificare la supremazia internazionale americana. Per completare il quadro della potenza statunitense occorre, da ultimo, rivolgere l’attenzione anche ai suoi aspetti immateriali, ovvero al suo cosiddetto soft power. Anche in questa sfera la forza attrattiva del modello americano – con i suoi valori, la sua tradizione politica democratica e liberale, la sua industria culturale e il suo primato scientifico – se ha storicamente rappresentato un formidabile strumento di influenza nelle mani di Washington, sembra tuttavia aver subìto un processo di forte opacizzazione durante il primo decennio del Duemila. Il fenomeno si è reso più evidente da quando l’unilateralismo post 11 settembre 2001 ha messo in discussione la legittimità della politica estera americana agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Una legittimità, d’altra parte, colpita duramente anche dal cosiddetto scandalo Datagate, scoppiato nel giugno 2013 con la rivelazione dell’esistenza di una vasta e prolungata attività di sorveglianza segreta e raccolta dati portata avanti dalla National Security Agency americana ai danni non solo di paesi rivali, ma anche di storici alleati e partner. Anche l’entusiasmo e le speranze suscitate in tutto il mondo dall’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama, il primo presidente afroamericano nella storia statunitense, sembrano oggi aver lasciato il campo ad un rinnovato scetticismo per una leadership che è apparsa, sotto diversi punti di vista, troppo timida e meno propensa al cambiamento rispetto alle aspettative che ne avevano accompagnato l’elezione. La nascita della potenza statunitense affonda le sue radici nel Diciannovesimo secolo, quando si sviluppò secondo due direttrici principali. In primis, dopo l’indipendenza, il paese estese il proprio territorio verso ovest, assecondando così gli assunti del cosiddetto ‘destino manifesto’ e quindi della convinzione, ben radicata nella cultura politica americana ottocentesca, dell’inevitabilità dell’espansione territoriale e valoriale della nuova Federazione statunitense. In secondo luogo, tramite l’affermazione dalla ‘dottrina Monroe’ del 1823, che sosteneva l’esigenza di consolidare una sorta di zona di influenza politica esclusiva sul continente americano, optando allo stesso tempo per una politica di non coinvolgimento rispetto alle dinamiche politiche internazionali, prime tra tutte quelle europee. Fu l’impegno nella Seconda guerra mondiale a sancire il definitivo protagonismo degli Stati Uniti nella politica mondiale, già avviato con il primo conflitto mondiale. Unica delle potenze alleate vincitrici a non dover affrontare un processo di ricostruzione post-bellica e forte di un’economia già all’epoca prima al mondo, gli Usa si misero allora alla testa del nascente blocco occidentale, dando vita alla creazione di una fitta rete di istituzioni internazionali e favorendo lo sviluppo di alleanze e partnership bilaterali in tutti e cinque i continenti. Cardini del nuovo ordine post-bellico a guida statunitense furono, sul versante politico e militare, l’Alleanza atlantica (Nato) e quindi l’organizzazione di difesa tramite cui Washington realizzò un ombrello protettivo per i paesi membri. Sul versante economico, le istituzioni di Bretton Woods (tra cui il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale), create insieme al Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) con l’obiettivo di liberalizzare l’economia e il commercio internazionale, stabilizzare i circuiti monetari e favorire la cooperazione economica tra i paesi aderenti. Era la cosiddetta ‘Pax americana’ vigente per tutti i paesi occidentali e opposta al blocco sovietico composto dall’Urss e dai paesi suoi satelliti, all’interno di quella contrapposizione politica, ideologica e militare conosciuta come Guerra fredda.
Nei lunghi decenni che separano il 1945 dal 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, le relazioni tra i due blocchi non furono sempre uguali, ma subirono evoluzioni significative. Fino al termine degli anni Sessanta, per esempio, prevalse la strategia del containment, che aveva l’obiettivo di isolare il comunismo sovietico, arginandone ogni possibile espansione fuori dai confini del suo blocco. Il containment si tradusse in termini pratici tanto nell’appoggio statunitense a tutti quei regimi che nel mondo potevano rappresentare un freno all’espansionismo politico e ideologico dell’Unione Sovietica, quanto nell’intervento militare in quei conflitti, seppur secondari e di carattere locale, in cui una vittoria comunista avrebbe potuto innescare un processo di ‘contagio regionale’, secondo quanto previsto dalla teoria del domino. La guerra di Corea del 1950-53 e quella del Vietnam ne sono due tipici esempi. Gli anni Settanta, invece, furono caratterizzati da un processo di distensione e di pacifica coesistenza con l’Unione Sovietica: il nuovo disgelo produsse l’avvio di accordi sulla riduzione delle armi strategiche, fece leva sul riavvicinamento americano alla Cina comunista (mossa che costrinse Mosca al dialogo per evitare l’isolamento diplomatico) e più in generale si pose l’obiettivo di abbattere gli elevatissimi costi per il mantenimento della posizione internazionale ricoperta fino ad allora da Washington. Architrave del bipolarismo divenne così la cosiddetta dottrina della Mad (acronimo di Mutually Assured Destruction), con le due superpotenze impegnate a non sviluppare tecnologia difensiva anti-balistica per instaurare un regime di deterrenza efficace, visto il rischio assicurato di reciproco annientamento in caso di scoppio del conflitto nucleare. Gli anni Ottanta, sotto l’amministrazione di Ronald Reagan, rappresentarono una significativa ripresa sia della corsa agli armamenti, sia della competizione politica e ideologica tra le due superpotenze. Fu il 1989 a rappresentare il vero punto di svolta per gli equilibri politici mondiali e in primis per gli Stati Uniti.
La caduta del Muro di Berlino aprì a Washington la possibilità di estendere la propria egemonia anche al di fuori del blocco occidentale e di perseguire i suoi nuovi, e in parte mutati, interessi, potendo beneficiare della maggiore concentrazione di potenza mai registrata in precedenza nella storia moderna e contemporanea. Esistono una serie di costanti che, in maniera trasversale tra le amministrazioni che dal 1989 a oggi si sono avvicendate alla Casa Bianca, hanno rappresentato i nuovi capisaldi della politica estera americana unipolare. In primo luogo, prevenire l’emergere di potenziali sfidanti su scala globale, mantenendo il più possibile inalterato il differenziale di risorse rispetto alle altre potenze mondiali. In secondo luogo, agire da ‘bilanciatori esterni’ per contrastare l’affermazione di egemonie regionali ostili in regioni strategiche. In terzo luogo, mantenere l’economia internazionale aperta e, infine, continuare a garantirsi l’accesso alle principali risorse energetiche mondiali. Alla costanza di questi obiettivi non ha tuttavia corrisposto un’analoga continuità nelle modalità di perseguimento. Nello specifico, se le amministrazioni democratiche di Bill Clinton e di Barack Obama hanno in genere privilegiato la via multilaterale per trovare consenso e legittimità internazionali al loro operato, quelle repubblicane del doppio mandato di George W. Bush hanno piuttosto preferito una politica estera unilaterale e più assertiva, specie nell’ambito della guerra al terrorismo globale, lanciata all’indomani degli attentati qaidisti dell’11 settembre. È stata questa strategia, uno dei capisaldi della ‘filosofia neocon’, a condurre al tanto controverso intervento militare in Iraq nel 2003.
La natura globale degli interessi egemonici degli Stati Uniti determina una politica estera multi-vettoriale, caratterizzata da direttrici che si spingono in tutte le regioni del mondo.
La prima e più naturale è rivolta ai paesi confinanti e al resto del continente americano. Con Canada e Messico, rispettivamente ai suoi confini settentrionali e meridionali, Washington intrattiene i maggiori rapporti commerciali in assoluto, specie da quando, nel gennaio del 1994, è entrato in vigore il Nafta (North American Free Trade Agreement), il trattato di libero scambio che ha imposto la progressiva eliminazione delle barriere doganali. I due paesi, del resto, costituiscono la spina dorsale dell’approvvigionamento petrolifero statunitense e rappresentano due partner politici privilegiati con cui gli Usa cooperano in numerosi campi: dalla sicurezza all’ambiente, passando per la tutela del lavoro e il controllo transfrontaliero.
Il subcontinente latinoamericano è stato invece storicamente percepito dagli Stati Uniti come un ‘cortile di casa’, e quindi come un’area sulla quale poter esercitare la propria influenza in maniera più esclusiva e diretta. A differenza che nel resto del continente americano, in questa regione sono molto più evidenti i sintomi di una maggiore volontà di autonomia, quando non proprio di contrapposizione, rispetto alle politiche statunitensi. In particolare, l’emergere di una potenza come il Brasile, che aspira a ricoprire un ruolo egemonico sulla regione, si pone potenzialmente in contrasto con la politica e gli interessi di Washington. In aggiunta, va registrata negli ultimi anni la diffusione di un’ideologia fortemente intrisa di elementi anti-statunitensi e anti-capitalisti, il cui simbolo è stato il Venezuela di Hugo Chávez (oggi guidato da Nicolás Maduro), ma alla quale aderiscono anche l’Ecuador e la Bolivia. Anche per contrastare tali tendenze, Washington ha individuato nella Colombia liberale di Álvaro Uribe, prima, e di Juan Manuel Santos, dopo, un alleato strategico dell’area, cui non a caso destina una parte rilevante dei propri aiuti economici e militari.
La seconda tradizionale direttrice della politica estera statunitense è rappresentata dalla rete dei rapporti transatlantici. Qui gli Usa intrattengono quella che può essere definita storicamente la loro più importante relazione bilaterale: la special relationship con il Regno Unito. Per affinità storiche, linguistiche e culturali, i due paesi condividono molti interessi comuni e hanno dato vita ad un’alleanza strategica, nel cuore del mondo occidentale, capace di riconfermarsi e rinnovarsi in risposta a tutte le principali sfide emerse nel corso del Novecento, dalle due guerre mondiali alla Guerra fredda, per arrivare alla lotta contro il terrorismo globale. In diverse occasioni e su differenti questioni internazionali, Londra si è rivelata molto più vicina alle politiche statunitensi che a quelle dell’Unione Europea (Eu), di cui pure fa parte dal 1973.
Proprio quest’ultima organizzazione, all’interno della quale gli Stati Uniti mantengono tanto rapporti privilegiati con alcuni membri, quanto relazioni più altalenanti con altri, rappresenta una controparte complessa per Washington. Se da un lato gli Stati Uniti condividono la maggior parte delle politiche e dei valori fondanti dell’Eu, dall’altro non solo competono economicamente con l’Unione (che in aggregato ha una forza economica maggiore), ma nell’ultimo decennio hanno assunto posizioni divergenti su importanti questioni di politica internazionale, come per esempio sull’istituzione del Tribunale penale internazionale o sui negoziati per l’attuazione del Protocollo di Kyoto. Il fatto che le potenzialità europee non si siano ancora tradotte in una visione politica compiutamente unitaria, d’altra parte, ha costituito un vantaggio per gli Usa in termini di capacità di influenza politica sugli altri teatri regionali. Gli Stati Uniti continuano a mantenere importanti rapporti bilaterali non solo con i maggiori paesi europei, ma anche con quei paesi della cosiddetta ‘nuova Europa’ (su tutti Polonia, Repubblica Ceca e Romania) che hanno trovato nei rapporti transatlantici una nuova collocazione strategica e politica, in grado di garantire loro un’adeguata copertura dall’influenza e dalle pressioni derivanti dalla vicina Federazione Russa.
Dalla fine della Guerra fredda la politica degli Usa verso la Russia post-comunista è stata caratterizzata tanto dalla propensione a integrare l’ex rivale nell’ordine economico e strategico occidentale, quanto dalla tentazione di sfruttarne il momento di debolezza e consolidare la nuova superiorità. Per un verso, con Mosca sono stati conclusi tutta una serie di trattati per la limitazione dei rispettivi armamenti nucleari (l’ultimo dei quali, il New Start, firmato nel 2010); è stato creato un forum di dialogo strategico in ambito Nato e si sono progressivamente intensificati i rapporti economici e commerciali. Per l’altro, invece, sono state non poche le scelte e le politiche intraprese da Washington che hanno sfidato gli interessi della nuova Federazione: dall’allargamento della membership della Nato e delle partnership bilaterali e atlantiche in tutto lo spazio post-sovietico eurasiatico, al controverso progetto di scudo anti-missilistico (oggi in fase di realizzazione sotto iniziativa Nato), passando per il supporto finanziario e politico a tutte quelle infrastrutture energetiche alternative alla rete russa e quindi in grado di attenuare il monopolio di Mosca nella fornitura di gas in Europa.
Se l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama aveva poi coinciso con il tentativo di reset diplomatico, per azzerare le tante incomprensioni registrate negli ultimi anni di presidenza Bush (su tutto, la tensione scaturita dalla Guerra russo-georgiana del 2008), il biennio 2013-14 ha fatto segnare il ritorno a un clima di marcata contrapposizione in almeno tre occasioni. La prima è stata il braccio di ferro diplomatico su un possibile intervento militare in Siria, promosso da Obama per sanzionare il presunto utilizzo di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, ma disinnescato da Vladimir Putin grazie a un accordo raggiunto in extremis con il rais siriano per la distruzione del proprio arsenale. La seconda, invece, si è avuta con lo strappo diplomatico portato avanti dal Cremlino con la concessione dell’asilo politico temporaneo a Edward Snowden, l’ex analista della Cia che ha dato inizio al caso Datagate e che Washington vorrebbe processare per tradimento. La terza, infine, si è consumata sul delicato nodo dell’indipendenza dell’Ucraina dall’influenza russa, con il pugno di ferro adottato da Putin nel reagire alla deposizione del presidente filo-russo Janukovic, a seguito di settimane di violente proteste di piazza di stampo filo-occidentale. Una reazione che ha visto Mosca non solo annettere di fatto la regione della Crimea, a maggioranza russa e sede della fondamentale base navale di Sebastopoli, ma anche appoggiare i ribelli filo-russi nella guerra civile scoppiata tra il nuovo governo di Kiev e le regioni orientali ucraine. Il tutto in un clima di crescente tensione con un ‘fronte’ occidentale (composto da Eu e Stati Uniti) che, al netto di una risposta che pure ha registrato sanzioni economiche e toni da Guerra fredda, è sembrato sostanzialmente impotente, oltre che diviso al suo interno, di fronte alla strategia messa in atto dal Cremlino.
Altra area da sempre geopoliticamente rilevante per gli Stati Uniti è il Medio Oriente: anche in questo teatro Washington ha alleati storici, sui quali basa e costruisce la propria politica regionale. Primo tra tutti lo stato d’Israele, rispetto alla cui sicurezza gli Usa sono impegnati in maniera perentoria fin dalla sua fondazione. Consolidatasi in virtù di dinamiche strategiche tipiche della Guerra fredda già dalla metà degli anni Sessanta, l’alleanza israelo-statunitense – da più parti descritta come l’altra vera special relationship americana – è andata progressivamente intensificandosi anche nel post-1989. Tel Aviv può contare su una completa copertura diplomatica da parte di Washington e beneficia di una notevole serie di primati qualitativi e quantitativi nell’assistenza militare americana, tarati per garantirgli il cosiddetto qualitative military edge, ovvero un costante margine di superiorità tecnologica e militare nella regione mediorientale.
Sebbene il sostegno degli Usa ad Israele continui a dimostrarsi praticamente incondizionato, non sono mancate negli ultimi anni forti incomprensioni e tensioni tra le due rispettive leadership: dalla condanna ripetuta di Obama in merito al prosieguo della colonizzazione israeliana della West Bank, al rilancio per mano americana dei negoziati di pace con i Palestinesi, mal digerito da Netanyahu e sostanzialmente affossato con l’intervento armato a Gaza nei mesi di luglio e agosto, passando per la delicata questione del nucleare iraniano, su cui la tensione tra Washington e Tel Aviv ha raggiunto livelli probabilmente mai toccati negli ultimi decenni.
Anche la partnership con l’Arabia Saudita ha radici antiche che affondano nel secondo conflitto mondiale. L’alleanza ha subìto una prima ridefinizione alla fine degli anni Settanta, quando Riyadh ha ulteriormente stretto la propria intesa con Washington: beneficiario di protezione e aiuti militari statunitensi, creditore (attraverso i petrodollari) degli Usa e garante del basso prezzo del petrolio. In tempi più recenti la relazione è stata prevalentemente funzionale a contrastare le politiche dell’Iran, e quindi del paese con cui gli Usa hanno i rapporti più tesi nella regione.
La politica estera assertiva intrapresa da Teheran, i suoi contatti con Hezbollah e Hamas e la sua volontà di non interrompere il programma nucleare hanno reso l’Iran, al tempo dello shah un solido alleato, una delle principali preoccupazioni nell’agenda di politica estera statunitense. Ma proprio l’accordo provvisorio sul nucleare iraniano, raggiunto il 24 novembre 2013 tra Teheran e il cosiddetto Gruppo dei 5+1, sta lentamente aprendo nuovi scenari, non solo nelle relazioni bilaterali tra Usa e Iran, ma anche nei più ampi equilibri geopolitici mediorientali.
In particolare, se storicamente le dinamiche della regione sono state determinate in misura rilevante dalle posizioni di Washington, attraverso il suo tradizionale patto di ferro con l’asse arabo-sunnita (Arabia Saudita, Giordania ed Egitto, ma anche Emirati Arabi e Bahrain) e la sua partnership speciale con lo stato d’Israele, dallo scoppio nel 2011 delle Primavere arabe la regione è attraversata da una fase di profonda e travagliata transizione politica che di fatto sfugge a qualsiasi intervento esterno. E non è certo un caso che l’amministrazione Obama abbia scelto una politica mediorientale essenzialmente dettata dalla prudenza, optando per un ruolo che diversi analisti hanno descritto come una leadership from behind. Dall’Egitto, dove la Casa Bianca ha preferito non interferire, tanto nella caduta dello storico alleato Hosni Mubarak, quanto nella successiva deposizione, a opera dell’esercito egiziano, del presidente Mohammed Mursi, legato ai Fratelli musulmani; alla Libia, dove all’intervento militare che ha portato alla fine del regime di Mu’ammar Gheddafi non è seguito un impegno di stabilizzazione e ricostruzione post-bellica da parte americana. Si arriva quindi alla Siria, dal 2011 insanguinata da una guerra civile da cui gli Americani hanno sostanzialmente preferito restare fuori, a parte l’escalation rischiata nell’estate del 2013 dopo il presunto utilizzo di gas chimici da parte dell’esercito siriano.
L’aggravarsi della minaccia terroristica per mano dei jihadisti dell’Is – che nel giro di pochi mesi sono entrati in controllo di parti dell’Iraq e della Siria e hanno scioccato la comunità internazionale attraverso una serie di efferate decapitazioni di ostaggi occidentali – ha tuttavia costretto Obama a dover derogare da quella volontà di chiudere con la stagione interventista in Medio Oriente che ha rappresentato uno dei più fermi capisaldi della sua strategia globale di sicurezza. A capo di una coalizione che può contare sulla collaborazione di diversi alleati occidentali e di non pochi paesi arabi – impegnati in forme e misure differenti – gli Usa sono stati infatti costretti ad avviare nel settembre 2014 una nuova campagna militare, da un lato bombardando le postazioni e le roccaforti controllate dal Califfato islamico, dall’altro incrementando la fornitura di armi e assistenza a tutte quelle forze e quei gruppi di guerriglieri moderati impegnati sul campo nel contrasto all’Is (dal nuovo esercito iracheno, ai Peshmerga curdi, passando per il Libero esercito siriano).
L’ultima direttrice della politica estera statunitense – quella su cui da qualche anno, al netto della rinnovata emergenza terroristica, la Casa Bianca sembra concentrare gran parte del proprio interesse – va invece dall’Asia meridionale fino al Pacifico. Il subcontinente indiano, soprattutto il Pakistan, rappresenta una delle maggiori sfide per gli Stati Uniti e per la lotta al terrorismo globale. I rapporti con Islamabad sono fondamentali per la definizione degli equilibri in Afghanistan, paese ancora molto instabile e dal quale gli Stati Uniti, dopo dieci anni di significativa presenza militare, si avviano a ritirarsi definitivamente. Il Pakistan è risultato essere una retroguardia degli insorti afghani e Washington ha quindi puntato a rafforzarne la stabilità, non solo in considerazione del suo ruolo imprescindibile nell’equazione afghana, ma anche per scongiurare il rischio di un’affermazione di gruppi fondamentalisti all’interno di un paese in cui vigono precarie dinamiche politiche e che è dotato di armamenti nucleari. Negli ultimissimi anni le relazioni tra Washington e Islamabad si sono tuttavia complicate. A far crescere risentimento e diffidenza reciproca sono stati, da un parte, il disappunto americano per la scoperta che il nascondiglio del leader di al-Qaida Osama Bin Laden si trovasse non lontano dalla capitale militare pakistana, dall’altra l’incremento degli attacchi con droni nelle regioni di confine tra Pakistan e Afghanistan condotti unilateralmente dagli Usa senza il consenso di Islamabad. Con l’India, il più rilevante stato dell’Asia meridionale e la più grande democrazia al mondo, i rapporti sono invece in progressivo avvicinamento da almeno un decennio, in virtù del fatto che Nuova Delhi si è rivelata una sponda ideale per Washington, sia sotto il profilo commerciale, considerando le potenzialità di una economia in forte ascesa come quella indiana, sia sotto quello strategico, considerando il comune impegno contro il fondamentalismo islamico e la comune volontà di controbilanciare l’ascesa della Cina nell’Asia continentale e pacifica.
Quella cinese, d’altra parte, è la maggiore sfida attualmente all’ordine del giorno degli strateghi del Pentagono e del Dipartimento di stato. In considerazione della potenza raggiunta da Pechino e della possibilità che decida di perseguire un’agenda regionale revisionista in contrasto con gli interessi di Washington e dei suoi alleati nella regione, l’evoluzione della relazione sino-americana ha assunto negli ultimi anni un’assoluta centralità nella strategia egemonica statunitense. Gli Stati Uniti hanno fino a ora dimostrato un chiaro interesse a mantenere rapporti stabili, specie considerando l’altissimo livello di interdipendenza economica che lega i due paesi: gli Usa restano il maggiore mercato di approdo per le esportazioni cinesi e la Cina è diventata il primo detentore del debito statunitense. La compresenza di competizione e convergenza economica spinge in questo senso gli Stati Uniti a non esacerbare le possibili fonti di tensione politica, che pure negli ultimi anni sono aumentate. Si va dalla posizione nei confronti del Dalai Lama ai ricorrenti richiami di Washington sul mancato rispetto dei diritti umani da parte della Cina, arrivando infine alla storica disputa sullo status di Taiwan e a quella più recente sulla sovranità sulle isole Senkaku/ Diaoyu, che vedono gli Usa opporsi alle rivendicazioni cinesi e schierarsi al fianco, rispettivamente, di Taipei e Tokyo.
Dall’altro lato, e in chiara funzione di contro-bilanciamento della preponderanza cinese, da qualche anno gli Stati Uniti hanno avviato il cosiddetto Pacific pivot, e quindi una strategia di rafforzamento del proprio ruolo e della propria presenza nella regione dell’Asia-Pacifico. Presenza che d’altra parte non è certo nuova, ma che, al contrario, risale al secondo dopoguerra, quando gli Usa scelsero di stabilire in Asia orientale una serie di alleanze bilaterali, secondo un sistema di tipo hub and spoke (a ruota, con un perno centrale e i raggi). La nuova centralità assunta oggi dalla regione vede dunque accrescere l’importanza di questa rete di partnership: su tutte quella con il Giappone, la ‘portaerei inaffondabile’ americana che, sebbene già dagli anni Cinquanta rappresenti il principale cardine della strategia di sicurezza americana in Asia, oggi più che mai è chiamato a rivestire un ruolo sempre più attivo e cruciale nell’evoluzione degli equilibri politico-strategici regionali. Un obiettivo, quello di un maggiore attivismo di Tokyo nella regione asiatica, che è fortemente voluto da Washington ed è stato sposato in pieno dal premier giapponese Shinzo Abe, impegnato sul fronte domestico nel difficile tentativo di revisionare limiti e vincoli che il pacifismo costituzionale impone al Giappone in materia di politica estera e di difesa.
Gli Stati Uniti sono caratterizzati da uno dei sistemi politici interni più funzionanti e stabili di tutto il mondo, che vanta una tradizione plurisecolare. Il sistema di stato e di governo è organizzato secondo il modello di una repubblica presidenziale a struttura federale. Gli Stati Uniti costituiscono il più antico sistema federale vigente. La Costituzione regola i rapporti tra il governo centrale e ognuno dei 50 stati federati. Al suo interno, ogni stato ha un proprio governo e un parlamento bicamerale (fatta eccezione per lo stato del Nebraska, in cui vi è un parlamento unicamerale), che esercita il potere legislativo all’interno dei propri confini. L’autonomia di cui godono i singoli governi statali, al cui capo vi è un governatore (eletto direttamente dalla popolazione dello stato di appartenenza e al quale è affidato il potere esecutivo), è abbastanza ampia, soprattutto in materie come l’istruzione, il diritto al lavoro, le imprese e la proprietà, tutti ambiti in cui vi sono differenze evidenti tra i singoli stati. La Costituzione stabilisce, altresì, che tutte le leggi emanate dai governi statali non debbano essere in contraddizione con la carta fondamentale stessa e con le leggi emanate dal governo federale. Quest’ultimo rappresenta la massima autorità politica e regola le questioni di rilevanza strategica e di interesse nazionale, come la politica estera, le politiche di sicurezza, il commercio internazionale e la riscossione delle imposte. Alla guida del governo federale vi è il presidente degli Stati Uniti, che esercita il potere esecutivo ed è al contempo il capo di stato, di governo e il Commander in chief delle forze armate. La seconda autorità del paese è il vicepresidente, che subentra al presidente in caso di impeachment o di morte prima della fine del mandato. Il presidente è eletto ogni quattro anni e ha un limite di due mandati. Tecnicamente è eletto secondo un meccanismo indiretto: il popolo americano è chiamato a eleggere delegati, detti ‘grandi elettori’, che a loro volta esprimono il loro parere per uno dei due candidati presidenziali. I due candidati finali per la presidenza sono stati in precedenza scelti all’interno, rispettivamente, dei partiti repubblicano e democratico, tramite un sistema di elezioni primarie che avviene attraverso un complicato processo di selezione. A livello federale, gli Stati Uniti hanno un parlamento, il Congresso, composto da due camere: la Camera dei rappresentanti e il Senato. La prima conta 435 membri, che vengono eletti in ogni stato, con una rappresentanza numerica che varia da stato a stato in misura proporzionale alla popolazione, rilevata con censimento decennale. Il Senato è invece composto da cento membri, due per ogni stato federato. I deputati della Camera dei rappresentanti sono eletti ogni due anni, mentre quelli del Senato restano in carica sei anni, con un ricambio biennale di un terzo del loro totale. Questo sistema elettivo fa sì che il rinnovo di parte del Congresso (Camera dei rappresentanti più un terzo dei senatori) avvenga, oltre che in corrispondenza delle elezioni presidenziali, anche nel periodo a cavallo tra queste, nelle cosiddette elezioni di metà mandato o midterm elections, quando cioè l’ultimo presidente eletto è in carica da due anni. Ciò può determinare, come accaduto spesso nella storia politica statunitense, che la presidenza in carica possa trovarsi a dover interagire, in una o in entrambe le camere, con una maggioranza non in forza al suo partito. In questi casi il presidente e la sua amministrazione ricercano generalmente una mediazione tra la propria attività di governo e l’appoggio che le proposte legislative devono riscuotere in entrambi i rami del parlamento per essere approvate, così come prescritto da un sistema istituzionale ispirato al principio dei checks and balances, controllo e bilanciamento reciproco, che d’altro canto affida proprio alla presidenza il potere di veto sulle leggi già licenziate dal Congresso. Al tempo stesso il Congresso, come avviene in tutti i sistemi presidenziali, non ha la prerogativa di sfiduciare il presidente, ma può attivare un procedimento di impeachment (‘atto di accusa’) nei suoi confronti, in caso di attentato alla Costituzione. Tale procedimento, che ha natura giudiziaria e non politica, è stato tentato solo due volte nel secondo dopoguerra: la prima con Richard Nixon, senza tuttavia giungere al voto del Senato perché il presidente si dimise prima; la seconda con Bill Clinton, quando l’atto fu respinto dal Senato poiché non raggiunse i due terzi necessari per la sua approvazione.
Il bipartitismo, che è una caratteristica del sistema politico statunitense, specie dal Novecento in poi, ha garantito l’alternanza di governo tra i due maggiori partiti della nazione: il Democratic Party e il Republican Party. L’elettorato statunitense si è storicamente dimostrato eterogeneo nelle sue preferenze, dal momento che non si è mai verificato nel secondo dopoguerra che uno stesso partito abbia conquistato la presidenza per più di tre mandati consecutivi, cosa peraltro accaduta solo dopo il periodo 1981-93, quando alla doppia presidenza repubblicana di Reagan (1981-89) e alla prima di George Bush (1989-93) seguì la vittoria del democratico Bill Clinton.
In seguito alle ultime elezioni presidenziali, tenutesi nel novembre 2012, Barack Obama è stato riconfermato alla guida del paese per quattro anni. Nei primi due, il presidente si è dovuto confrontare con una Camera dei rappresentanti a maggioranza repubblicana, guidata dallo speaker John Boehner e un Senato dove invece poteva contare su una, seppur ristretta, maggioranza democratica.
Proprio la spaccatura tra i due rami del Congresso – associata a un’intransigenza negoziale tra i due partiti, anomala rispetto alla celebre tradizione bipartisan – ha permesso che un prolungato braccio di ferro in materia di fiscalità e spesa federale degenerasse in tre gravi crisi di stallo politico nel corso del 2013. Il cosiddetto fiscal cliff di inizio anno, e quindi il rischio, scongiurato solo in extremis, di cadere nel ‘baratro fiscale’ dovuto alla coincidenza tra un aumento previsto delle tasse e la scadenza di una serie di esenzioni fiscali; il sequester e quindi l’automatico scatto di ingenti tagli lineari su istruzione, difesa e servizi sociali calendarizzato a marzo; e infine lo shutdown, la chiusura di tutte le attività federali non essenziali, firmato da Obama nelle prime due settimane di ottobre a causa del mancato accordo tra Camera e Senato sulla legge di bilancio 2013.
Se il 2014 – con i due partiti impegnati nella caccia al voto moderato in vista delle elezioni di midterm – si è rivelato un anno meno turbolento sotto il profilo della stabilità politica domestica, proprio l’esito disastroso per i democratici di questa competizione, che ha consegnato ai repubblicani la maggioranza in entrambe le Camere, fa ipotizzare che gli ultimi due anni di presidenza Obama saranno di nuovo caratterizzati da un prolungato muro contro muro tra Congresso e governo federale.
Con più di 300 milioni di abitanti gli Stati Uniti sono, dopo Cina e India, il paese più popoloso al mondo; un dato che in parte contribuisce a determinare la potenza di Washington, specie per quanto riguarda le potenzialità economiche interne. A differenza di gran parte dei paesi economicamente più sviluppati e anche grazie ai continui flussi di immigrazione, gli Stati Uniti registrano un tasso di crescita demografica relativamente alto (intorno all’1% l’anno), che assicura una crescita costante anche da questo punto di vista. Inoltre la grande maggioranza della popolazione, l’83%, è urbanizzata, indice dello sviluppo sostenuto, tipico dei paesi più industrializzati. A livello etnico, la popolazione risulta essere molto composita, per effetto delle ondate migratorie che si sono succedute nel corso dei secoli. Vi sono importanti comunità di origine tedesca, irlandese, olandese e italiana, retaggio dei movimenti migratori dell’Ottocento. Le minoranze più numerose, comunque, sono quella ispanoamericana, quella afroamericana e quella asiatica (in gran parte Cinesi e Filippini). In generale: i bambini bianchi sotto i cinque anni erano il 50% nel 2012 e si prevede che saranno in minoranza entro la fine del 2014. Di conseguenza, entro il 2043, si stima che l’intera popolazione bianca sarà minoritaria.
In particolar modo, la tendenza degli ultimi anni vede crescere sempre di più la minoranza ispanoamericana, di cui oltre il 60% ha origini messicane. Si pensi che tra il 2000 e il 2010 il tasso di crescita degli ispanici è stato del 43%, mentre le altre comunità sono cresciute in media di circa il 5%. Ciò è dovuto sia al fenomeno dell’immigrazione attraverso la frontiera messicana, sia al più alto tasso di fecondità che si registra all’interno di questa comunità.
La questione migratoria, del resto, continua a rappresentare una sfida per la politica statunitense: si stima che il numero di immigrati irregolari nel paese, in maggioranza provenienti da Messico, Cina, India e Filippine, superi gli 11 milioni di persone. Gli Stati Uniti non hanno, a livello federale, una lingua che per Costituzione sia stata definita ufficiale, sebbene di fatto la lingua parlata sia l’inglese. Il 12% della popolazione parla però spagnolo. Alcuni stati federati hanno adottato nella propria Carta costituzionale l’inglese come lingua ufficiale, mentre altri, viste le loro specificità, hanno improntato il proprio sistema educativo sulla base del bilinguismo. È il caso, per esempio, della Louisiana, in cui accanto all’inglese è usato il francese, o del New Mexico, in cui la seconda lingua usata è lo spagnolo. Alle Hawaii, l’altra lingua ufficiale è l’hawaiano. Riguardo l’appartenenza religiosa, invece, il paese è più omogeneo: circa l’80% della popolazione appartiene alle fedi cristiane, soprattutto Chiese protestanti (il 50% di tutti i cristiani) e Chiesa cattolica (23%), con una grande diffusione di sette minori. Vi è una minoranza ebraica di circa l’1,7%, mentre i musulmani non superano lo 0,6%.
Gli Stati Uniti possono vantare uno dei sistemi democratici più funzionanti e trasparenti al mondo. La lunga tradizione di libertà politiche e civili ha fatto del paese uno dei modelli culturali e politici di riferimento per la gran parte delle democrazie del mondo, soprattutto durante il periodo della Guerra fredda. Tuttavia non sono mancati e non mancano punti critici e debolezze. La società statunitense si è sempre dimostrata molto aperta. Storicamente ha offerto reali opportunità di crescita economica e sociale a tutti i suoi cittadini. Gli Stati Uniti proteggono per Costituzione tutte le minoranze, siano esse linguistiche, etniche o religiose. Il fatto che non vi siano formazioni politiche espressione di specifiche comunità etniche è dovuto al particolare sistema rappresentativo ed elettorale: laddove vi è una selezione della classe politica e dirigente su base maggioritaria, le minoranze vengono disincentivate a organizzarsi autonomamente. Di contro, tradizionalmente i due maggiori partiti politici hanno saputo rappresentare e farsi carico delle istanze dei diversi gruppi minoritari, etnici o religiosi.
La comunità cristiana più conservatrice, per esempio, fa riferimento solitamente al Republican Party, mentre le minoranze ispaniche e nere guardano maggiormente al Democratic Party, sebbene questa differenziazione non sia da considerarsi automatica. Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nella rielezione di Barack Obama, in accordo con la maggiore sensibilità dei democratici alle istanze femminili.
La libertà di culto è ampiamente rispettata e alcune comunità religiose si occupano spesso direttamente di questioni pubbliche e di natura politica, come il matrimonio egualitario, l’aborto e le leggi sull’immigrazione. La stampa è libera e la libertà di espressione è garantita dalla Costituzione. Allo stesso modo negli Stati Uniti è rispettata la libera associazione e sono presenti e attive le organizzazioni sindacali, benché soltanto l’8% di tutti i lavoratori in ambito privato ne risulti iscritto, coerentemente con la marcata tendenza all’individualismo che da sempre caratterizza la società statunitense. Un tratto, quest’ultimo, riscontrabile anche nella storica garanzia della proprietà privata nel paese, che rappresenta uno dei simboli più autentici dello stile di vita. Negli Stati Uniti, inoltre, si registra una diffusa intolleranza, presso l’elettorato e il sistema dei media, nei riguardi di episodi di corruzione, soprattutto se i responsabili sono figure di primo piano della vita pubblica. Ciò rende il paese ‘naturalmente’ più trasparente rispetto ad altre realtà occidentali, nonostante il sistema delle lobby, altro tratto tipico in un paese caratterizzato da una tradizionale apertura nel rapporto tra società civile e sistema politico, generi spesso sospetti nei cittadini circa l’effettiva limpidezza dei processi istituzionali.
In ambito giudiziario, se da un lato vi è da sottolineare l’indipendenza degli organi preposti al rispetto della legge, dall’altro vanno segnalati alcuni aspetti critici. In particolar modo, ancora oggi molte associazioni denunciano come la maggior parte dei processi riguardanti stupri, rapine e altri reati connessi siano soprattutto a carico delle minoranze nere e ispaniche.
La persistenza negli Stati Uniti di una discriminazione di fatto a sfondo razziale, d’altra parte, è tornato un tema di strettissima attualità a seguito delle violente proteste scoppiate nello stato del Missouri, dopo che nell’agosto 2014 un agente di polizia bianco ha sparato e ucciso Michael Brown, un ragazzo afroamericano disarmato. Le notizie, le immagini e le parole d’ordine della protesta di Ferguson hanno ben presto fatto il giro del mondo, facendo emergere la contraddizione che esiste in un paese capace di eleggere e riconfermare il suo primo presidente afroamericano, ma allo stesso tempo di riscoprirsi ancora attraversato da profonde tensioni razziali. Altro aspetto problematico riguarda le carceri: gli Stati Uniti sono il paese al mondo con il più alto tasso di detenuti per numero di abitanti (più di 2 milioni in totale, vale a dire più di 700 ogni 100.000 abitanti). Un’altra questione oggetto di costante dibattito, poi, riguarda il ricorso previsto in alcuni stati alla pena di morte per punire i reati più gravi. Nel 2011 gli Usa sono stati il paese democratico con il più alto tasso al mondo di esecuzioni, il quinto in assoluto dopo Cina, Iran, Iraq e Arabia Saudita. Nonostante il paese sia virtuoso nella maggior parte delle questioni rilevanti circa il rispetto dei diritti civili e politici, il sistema presenta alcuni punti critici.
Nello specifico si deve registrare come la povertà sia ancora molto diffusa, a fronte di una società molto dinamica e in grado di offrire opportunità di affermazione sociale ai suoi cittadini, oltre che concrete possibilità di integrazione per le comunità immigrate. Vi è una classe di persone che vive letteralmente ai margini della vita economica e sociale del paese. Secondo le statistiche ufficiali del governo federale, nel 2010 più del 15% della popolazione statunitense, equivalente a più di 43 milioni di abitanti, viveva sotto la soglia di povertà. Una percentuale che si è dimostrata in leggera crescita anche per gli anni successivi, tanto che il 2013 ha fatto registrare dati allarmanti per la prima potenza economica al mondo: dallo stato di povertà in cui vive il 20% dei bambini americani (l’ultimo dato simile risaliva al 1975), per arrivare alla questione della disuguaglianza interna che per esempio registra, su un tema cruciale come quello dell’istruzione, il 40% dei bianchi tra i 25 e i 29 anni avere una laurea, contro il 15% dei latinos e il 23% degli afroamericani.
Anche le esigenze dettate dalla sicurezza interna, soprattutto dopo l’adozione di misure anti-terroristiche all’indomani dell’11 settembre 2001 (come quelle previste nel Patriot Act), si sono rivelate spesso incompatibili con le tradizionali libertà politiche e civili democratiche. La tensione tra le esigenze di sicurezza e quelle in termini di diritti è stata ed è tutt’oggi oggetto di dibattito politico interno. Nel corso del suo primo mandato, Obama ha mantenuto una linea di continuità con il suo predecessore, prorogando il Patriot Act, con l’approvazione del Congresso, fino al 2015.
L’economia rappresenta un pilastro della potenza statunitense e della sua proiezione internazionale. In termini assoluti, gli Stati Uniti hanno il pil più elevato a livello globale e un sistema economico che risulta essere, da decenni, uno dei più sviluppati al mondo. Washington basa la sua economia sul settore terziario, nettamente il più importante in termini percentuali nella formazione del pil (pari al 78,6%). In particolar modo pesano i settori bancario e delle assicurazioni, così come il comparto finanziario, che produce da solo circa l’8% del pil nazionale e impiega circa 5 milioni di persone, pari al 5% di tutta la forza lavoro attiva. Gli Stati Uniti sono il primo mercato finanziario a livello internazionale. La piazza principale è rappresentata dalla Borsa di New York, di gran lunga la prima al mondo per volume di scambi e capitalizzazione totale. I servizi sono notevolmente sviluppati anche per ciò che riguarda il commercio, il settore immobiliare e i trasporti. Negli ultimi decenni, poi, la cosiddetta new economy è cresciuta notevolmente, guidata dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazione (Ict). I colossi mondiali informatici e del web come Microsoft, Apple, Hewlett-Packard, Oracle, Google o Facebook, sono tutti statunitensi e in genere hanno il loro quartier generale nella Silicon Valley, che dagli anni Cinquanta è il più importante polo di attrazione mondiale per migliaia di aziende di computer, di produttori di software e servizi in rete. Anche nel comparto industriale gli Stati Uniti si presentano come il paese leader in termini di produzione. A guidare il settore secondario vi sono l’industria delle automobili, dell’alta tecnologia (soprattutto informatica ed elettronica), delle telecomunicazioni e l’industria aerospaziale. Notevoli sono anche l’industria farmaceutica e quella chimica, settore quest’ultimo in cui Washington contribuisce a più del 30% di tutta la produzione mondiale. L’industria ha trainato l’economia statunitense per molti decenni e ancora negli anni Novanta, quando il paese è stato protagonista di una rilevante crescita economica, l’alta produttività è stata uno dei fattori decisivi nel contribuire a tale tendenza. L’agricoltura, infine, pur costituendo solo l’1% del pil nazionale, ha una produttività eccezionale: gli Stati Uniti sono il primo esportatore al mondo di beni alimentari e, da soli, producono il 40% di tutto il mais e la soia mondiali. Washington risulta essere autosufficiente per ciò che concerne la produzione e il consumo di quasi tutte le materie prime, eccezion fatta per il petrolio, e figura ai primi posti internazionali anche per produzione di carbone, sale, rame e oro. La ricchezza del paese è concentrata prevalentemente nel nord-est, ma prima della crisi del 2008 anche gli stati meridionali e occidentali hanno registrato tassi di crescita elevati. Nel perseguire la propria politica economica, a partire dalla fine degli anni Sessanta, Washington ha sistematicamente incrementato i deficit di bilancio. Per rispondere alla crisi economica del 2008 e favorire la ripresa, per esempio, Obama ha adottato una politica economica interventista (la Obamanomics), basata essenzialmente su stimoli federali che hanno incrementato in misura considerevole il debito pubblico federale. Dal 2009 al 2011 il deficit di bilancio annuo è cresciuto in media del 9,2%. Ciò ha fatto sì che l’economia statunitense divenisse con il tempo sempre più dipendente da altri attori e, in particolar modo, dalla Cina, che, tra gli investitori esteri, possiede la quota più ampia di debito del paese. Ciò ha creato squilibri con Pechino e, allo stesso tempo, costituisce nel medio-lungo periodo una debolezza strutturale del sistema economico, che si va a sommare agli effetti della recessione economica causata dalla crisi finanziaria del 2008 e terminata solo con la ripresa fatta segnare dal 2010. Una ripresa confermata dai tassi di crescita relativi al quadriennio 2010-13, rispettivamente del 2,5%, dell’1,8%, dell’2,8% e dell’1,9%, oltre che dalle positive previsioni di crescita per i prossimi anni stimate intorno al 2,5%. Stessa conferma anche per quanto riguarda i dati sul lavoro, che vedono la disoccupazione scesa intorno a quota 6%: una soglia che, significativamente, viene in genere considerata fisiologica e quindi coincidente con una situazione di piena occupazione. La necessità di correggere in maniera organica i cronici passivi del bilancio federale è stata d’altra parte costantemente al centro del dibattito politico statunitense degli ultimi anni, tanto nell’agenda di governo dell’amministrazione Obama, che già nel bilancio del 2011 ha inserito una serie di ingenti tagli alla spesa federale per il decennio successivo, quanto nel prolungato scontro tra repubblicani e democratici sui termini di una riforma generale della fiscalità americana e su quelli dell’innalzamento del tetto del debito pubblico federale. Le correzioni adottate a seguito di questi prolungati negoziati - tagli di spesa da un lato e aumento di tasse per alcuni settori di popolazione dall’altro - stanno effettivamente producendo risultati incoraggianti, tanto che nel 2013, per la prima volta negli ultimi anni, il rapporto debito/pil americano ha fatto segnare una riduzione di quasi due punti percentuali.
Dal punto di vista commerciale gli Stati Uniti presentano storicamente una bilancia commerciale in negativo, come confermato anche dal dato del 2013, che pure, come si è visto, è stato un anno di crescita economica (750 miliardi di dollari di passivo). Il mercato più importante per i prodotti esportati è il vicino Canada, anche per effetto dell’istituzione nel 1994 del Nafta. Sempre per effetto del medesimo accordo, il Messico è diventato il secondo partner commerciale per esportazioni e il terzo per importazioni. Primo paese d’origine per le merci importate è invece la Cina (il 20% dell’import totale), dato che testimonia ulteriormente il livello di interdipendenza economica raggiunto da Washington e Pechino. Subito dopo, i più importanti paesi con cui gli Stati Uniti intrattengono rapporti commerciali sono il Giappone e, tra i paesi dell’Unione Europea, Germania e Regno Unito.
Per oltre settant’anni e fino al 2009 gli Stati Uniti sono stati il primo produttore e consumatore di energia al mondo. Dal 2010, tuttavia, il primato nei consumi è passato alla Cina. Gli Usa, divenuti negli ultimi anni il primo produttore al mondo di biocarburanti, sono ancora in larga parte dipendenti dai consumi di petrolio, pari al 36% del mix energetico nel 2011. La massima parte dei giacimenti petroliferi statunitensi è in fase di declino produttivo e, ai ritmi di estrazione del 2009 (circa 7 milioni di barili al giorno), le riserve del paese sono destinate a esaurirsi entro un decennio. Gli Stati Uniti rimangono comunque il terzo produttore di greggio al mondo (dietro all’Arabia Saudita e alla Russia) e il primo consumatore mondiale di tale risorsa energetica, con una percentuale del 20% circa sul totale della produzione. Le importazioni di greggio sono molto diversificate: nel 2010 più della metà proveniva da stati del continente americano, mentre meno del 20% giungeva dai paesi che si affacciano sul Golfo Persico. Per quanto riguarda il metano, seconda fonte di energia, le riserve accertate di gas convenzionale consentirebbero di estrarlo, ai ritmi attuali, per soli altri dodici anni. Nel 2009 gli Usa consumavano inoltre 647 Gmc/a, importando il necessario principalmente dal Canada. Tuttavia, dal 2007 le importazioni dall’estero registrano una netta diminuzione. Ciò è dovuto al fatto che il sottosuolo nasconde vastissime riserve di gas non convenzionale (in prevalenza shale gas, gas intrappolato all’interno di rocce di scisto) che è divenuto conveniente liberare attraverso nuovi metodi di estrazione. Le riserve ammonterebbero a oltre dieci volte quelle di gas convenzionale. Considerando l’accelerazione prevista nella produzione, a fronte degli ingenti investimenti già stanziati, dal futuro sfruttamento dello shale gas ci si attende un vero boom energetico, capace di rendere gli Usa autosufficienti e di trasformarli in un esportatore netto. Sebbene permangano alcuni nodi ambientali (dall’ingente utilizzo di acqua durante la fase estrattiva, all’alta tossicità dei composti chimici utilizzati per fratturare le rocce e liberare il gas racchiuso), gli addetti ai lavori, e non solo, considerano comunque il bilanciamento tra i rischi geologici e il ritorno economico atteso in attivo.
Gli Stati Uniti dispongono di ingenti riserve di carbone, sufficienti per più di due secoli agli attuali livelli di produzione. Il paese, secondo produttore al mondo (dopo la Cina), ne è esportatore, mentre destina circa il 90% dei consumi interni di carbone alla generazione di energia elettrica. Quasi un quarto dell’elettricità prodotta dagli Stati Uniti è generata tramite impianti nucleari. Gli Stati Uniti sono il primo produttore al mondo di elettricità da nucleare (intorno al 30% della generazione mondiale), attraverso 65 impianti che nel 2011 ospitavano 104 reattori funzionanti. Sotto il profilo della conservazione ambientale, l’Agenzia federale per la protezione dell’ambiente (Epa) è stata fondata nel 1970 e ha allargato le sue competenze fino a giungere a impiegare più di 17.000 persone. La legislazione ambientale federale ha preso le mosse dalla fine degli anni Quaranta e ha conosciuto un notevole sviluppo, soprattutto a partire dagli anni Settanta. Molti sono i problemi che restano ancora irrisolti: oltre alle preoccupazioni per lo sfruttamento dei giacimenti di gas non convenzionale, si devono registrare i maggiori rischi legati all’estrazione di petrolio da giacimenti in acque profonde rispetto a quella da pozzi tradizionali, come confermato dal grave incidente alla piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum, che tra aprile e luglio del 2010 ha provocato lo sversamento nel Golfo del Messico di quasi 5 milioni di barili di petrolio. Completano il quadro dei problemi ambientali l’alto utilizzo di fertilizzanti, che causa la dispersione di molti agenti chimici nell’aria e nel suolo, la deforestazione, che ha già privato gli Stati Uniti di circa un quarto della loro originaria copertura boschiva e, infine, gli alti livelli di anidride carbonica emessi. Benché gli Stati Uniti siano al secondo posto per emissioni di CO2, dopo la Cina, è da sottolineare come il livello, dopo un notevole incremento durato tutto l’arco del Novecento, si sia stabilizzato nell’ultimo decennio e abbia segnato una contrazione di quasi il 10% tra il 2007 e il 2009, a seguito della crisi produttiva legata alla recessione economica.
La sfera militare è quella in cui la supremazia degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo e ai suoi potenziali competitori si fa più netta. Se si esclude la dimensione numerica, rispetto alla quale l’esercito della Repubblica Popolare Cinese supera i numeri del personale militare attivo negli Usa (rispettivamente quasi 2,3 milioni contro circa un milione e mezzo), tutti gli altri indicatori evidenziano come nelle mani del Pentagono si concentri una quantità di risorse militari senza eguali, spesso in grado di bilanciare anche i dati aggregati relativi alle altre grandi potenze internazionali: dalla spesa militare assoluta, passando alla composizione della flotta aerea e di quella navale, agli equipaggiamenti e alle dotazioni dell’esercito, e ancora alle spese per la ricerca militare, al numero di satelliti dislocati nello spazio o alle dotazioni di armi nucleari e di vettori strategici.
A questo primato, di natura quantitativa, va poi aggiunto anche quello di tipo qualitativo, che attiene dunque al tipo di risorse a disposizione: la difesa statunitense è l’unica ad aver compiuto un processo di radicale modernizzazione tecnologica, conosciuto come ‘Rivoluzione degli affari militari’ (Rma). Grazie allo sviluppo dei più moderni satelliti di riconoscimento e comunicazione e all’impiego della migliore tecnologia elettronica, il Pentagono ha raggiunto una capacità operativa unica al mondo, specie per ciò che riguarda i processi di raccolta, elaborazione e smistamento delle informazioni, il coordinamento tra i centri decisionali e le unità operative e ancora il comando a distanza di armi ad alta precisione e l’identificazione di bersagli. Al più tradizionale dominio del mare e dell’aria, garantito dal possesso di una marina e un’aviazione senza pari – che possono inoltre contare su una serie di basi militari dislocate in numerosi punti strategici nel pianeta – si aggiunge inoltre anche una netta supremazia nello spazio extraterrestre conseguita grazie al maggior network di satelliti a livello mondiale. Il ‘Full Spectrum Dominance’, da intendersi come insieme di deterrenza, controllo e capacità di proiezione militare unilaterale in tutti i possibili campi di battaglia (non solo terra, aria, mare, ma anche spazio e reti informatiche), è il concetto strategico che esprime la volontà statunitense di conseguire e mantenere una tale superiorità, elaborato nelle dottrine militari adottate dagli strateghi del Pentagono dall’inizio dell’era unipolare. A un apparato di difesa tanto esteso e tecnologizzato corrispondono spese e costi elevatissimi che, seppur diminuiti percentualmente rispetto agli anni della Guerra fredda e finiti sotto un’ingente revisione dal 2011, rimangono di gran lunga i più alti al mondo. Gli ultimi vent’anni di unipolarismo hanno d’altra parte coinciso con un ricorso molto frequente allo strumento militare. Ciò testimonia come il potere internazionale statunitense sia fondato anche sulla possibilità di impiego della forza e quindi sulla necessità di mantenere inalterata la superiorità dell’apparato militare. Le priorità strategiche della difesa sotto la presidenza Obama si sono dunque confermate sostanzialmente in continuità con quelle delle due precedenti amministrazioni repubblicane.
La guerra in Afghanistan, in primis, nella quale proprio Obama nel 2009 ha voluto coinvolgere ulteriori 30.000 soldati per intensificare le operazioni contro le roccaforti dei talebani e porre condizioni più favorevoli per un’exit strategy, fissata tra il 2014 e il 2015. Dopo due anni, soprattutto a seguito dell’uccisione di Osama Bin Landen nel maggio 2011, Obama ha poi proceduto a ritirare interamente i soldati ‘eccedenti’ del surge, riportando così il numero delle truppe ai livelli del 2008. In secondo luogo la ferma continuazione della lotta alle reti del terrorismo globale, che tuttavia - pur restando prioritaria per il Pentagono, specie a fronte del ritorno in auge della minaccia fondamentalista ad opera dell’Is - si è declinata in maniera meno ideologica. L’amministrazione Obama, specialmente in un’ottica di contenimento dei costi, ha piuttosto privilegiato l’uso dei droni (velivoli senza pilota) per colpire esponenti di al-Qaida, soprattutto al confine tra Afghanistan e Pakistan, in Somalia e nello Yemen. La preferenza per la soluzione aerea anziché terrestre, d’altra parte, è stata confermata anche con la ripresa dei bombardamenti tra Iraq e Siria contro il Califfato Islamico. In terzo luogo vanno segnalati le novità strategiche connesse agli aspetti militari del Pacific pivot, e quindi quell’opera di revisione del posizionamento delle forze armate statunitensi nel mondo già intavolata nel secondo mandato di George Bush, ma fortemente accelerata dalla nuova amministrazione democratica: un ripensamento che non è escluso possa registrare, a fronte dell’aumento della presenza e della cooperazione nella regione pacifica, un corrispondente disinvestimento in altri teatri, come in quello mediorientale e in quello europeo.
Oltre che sulle proprie capacità, la difesa americana può contare su una complessa rete di partnership e alleanze che rispecchiano il carattere globale degli interessi statunitensi. La Nato, innanzi tutto, è la principale alleanza di difesa di cui Washington fa parte e al cui interno è netta la sua predominanza tanto dal punto di vista delle risorse messe a disposizione dell’organizzazione, quanto da quello della capacità di influenzarne e determinarne le decisioni e le attività. Oltre che con gli altri 27 membri dell’Alleanza atlantica, gli Stati Uniti hanno stretto molte altre alleanze formali con diversi paesi sudamericani. Hanno poi legami consolidati con Giappone, Corea del Sud, Filippine, Thailandia, Australia, Liberia e alcuni piccoli stati del Pacifico. Con molti paesi esiste una forte partnership politica e militare, che ricade nella categoria di ‘Major non-Nato Allies’ (Mnna), istituita alla fine degli anni Ottanta per facilitare la fornitura e la vendita di armi e tecnologie militari a quegli stati che vengono riconosciuti come partner strategici nelle iniziative della difesa statunitense. Sono paesi Mnna della prima ora Egitto, Israele, Australia e Corea del Sud (1989), a cui sono seguiti Giordania, Nuova Zelanda, Argentina – designati dall’amministrazione Clinton (1996-97) – e Pakistan, Marocco, Bahrain, Thailandia, Filippine e Kuwait (2003-04), tutti impegnati nella lotta contro il terrorismo globale lanciata da Bush. Ultimo ad essere designato come Mnna è stato l’Afghanistan (2012). Alle partnership militari corrispondono in genere notevoli flussi di esportazioni di armi, destinate d’altra parte anche ad altri stati con cui non esistono alleanze bilaterali, e regolate dall’Arms Export Control Act del 1976, che dà al presidente l’autorità di controllare il commercio di prodotti e attrezzature di difesa. L’industria bellica è di gran lunga prima nel mondo per produzione ed export.
L’elezione nel giugno del 2013 del nuovo presidente iraniano Hassan Rouhani, figura più moderata rispetto al suo predecessore Mahmoud Ahmadinejad, ha aperto una finestra di opportunità nei rapporti tra Teheran e il mondo occidentale che l’amministrazione Obama non ha mancato di cogliere. Il primo risultato è andato in scena il 24 novembre dello stesso anno a Ginevra, con la firma di uno storico accordo, seppur a carattere provvisorio e temporaneo, sul programma nucleare iraniano. I termini dell’intesa raggiunta hanno visto la Repubblica islamica impegnarsi a non arricchire altro uranio oltre il 5%, a neutralizzare le scorte di quello già arricchito al 20% e a bloccare l’installazione di altre nuove centrifughe, permettendo al contempo le visite degli ispettori dell’Iaea. Dal canto loro, il cosiddetto Gruppo dei 5+1 (i membri permanenti dell’Un, più la Germania) si è impegnato ad alleggerire le sanzioni economiche contro Teheran, senza approvarne di nuove, e a sbloccare una parte dei proventi petroliferi iraniani attualmente congelati in banche estere.
Sebbene prudenza e tatticismo continuino a dominare tanto sul fronte iraniano, quanto su quello statunitense, così come non mancano divergenze sull’interpretazione stessa del testo siglato, l’accordo ha avuto potenziale portata storica e sta aprendo uno scenario radicalmente nuovo sulla scena mediorientale, segnando la fine dell’isolamento dell’Iran e sancendo di fatto il potenziale inizio di una nuova stagione nelle relazioni tra Teheran e Washington, ufficialmente interrotte dal 1979.
Per gli statunitensi, in caso di successo finale e quindi di definitiva rinuncia iraniana al nucleare militare, sarebbe il colpo più riuscito sul versante diplomatico negli ultimi anni, anche al netto delle ricadute negative che pure si sono registrate rispetto ai tradizionali rapporti di alleanza nella regione. Ne è segno il gelo che sulla questione è calato nell’alleanza speciale con Israele, con Tel Aviv continuamente impegnata a far naufragare l’intesa, agitando il rischio di un bluff da parte di Teheran. Così come l’indebolimento del tradizionale patto di ferro tra Washington e i sauditi, che osteggiano qualsiasi riabilitazione internazionale del rivale sciita.
Nel luglio 2014, a ridosso della scadenza dell’accordo provvisorio siglato nel novembre precedente, le parti impegnate nel negoziato hanno deciso di prolungarne la validità fino a novembre. Anche a novembre, però, di fronte all’impossibilità di raggiungere un accordo, si è optato per un rinvio: la nuova scadenza per le trattative è stata fissata al 30 giugno 2015. Restano sul tavolo le profonde divergenze sul nodo cruciale della capacità iraniana di arricchimento d’uranio a scopo civile e sull’impianto di sanzioni voluto dal Congresso degli Usa.
Come ampiamente annunciato da tutte le previsioni della vigilia, le elezioni di metà mandato del 4 novembre 2014 si sono rivelate una sconfitta senza appello non solo per il Partito democratico americano in generale, rispetto quindi ai suoi tanti candidati usciti sconfitti in tutti e tre i livelli istituzionali coinvolti, ma in particolar modo per il presidente Barack Obama.
Tradizionalmente referendum pro o contro la presidenza in carica, infatti, mai come in questa occasione l’esito delle midterm pare essere stato determinato dalla netta bocciatura che l’elettorato americano ha voluto infliggere a Obama, alle sue politiche più significative e al particolare stile della sua presidenza.
Molteplici paiono i fattori che hanno giocato a sfavore di un’amministrazione che pure dal 2009 in avanti non aveva mancato di centrare diversi obiettivi - specie sul piano economico, considerando la ripresa della crescita, la riduzione del deficit e l’abbassamento della disoccupazione raggiunti - e che soltanto due anni fa era stata capace di farsi promuovere con formula piena per un altro mandato. Dalle troppe incertezze legate al varo della contestatissima riforma sanitaria, passando per un’economia reale che, sebbene in netta ripresa, fatica a farsi sentire nelle tasche della middle class americana, per arrivare ad una politica estera percepita come troppo cauta e pragmatica, in linea con uno stile presidenziale che, a fronte delle altissime speranze e aspettative di cambiamento suscitate alla vigilia, non sembra essere mai davvero riuscito ad entrare in empatia con la pancia dell’America più profonda.
Quella dei repubblicani, d’altra parte, è stata una vittoria a valanga che probabilmente va anche oltre i ‘demeriti’ degli avversari, a testimonianza di come il Grand Old Party sembri essere riuscito non solo a quadrare il cerchio dopo sei anni di minorità elettorale principalmente dovuta all’incapacità di dialogare con nuovi settori cruciali dell’elettorato americano – come le minoranze nere e ispaniche, i giovani e le donne – ma anche a risolvere quelle profonde frizioni interne, tra un establishment più moderato (dalle cui file proviene la quasi unanimità dei candidati vincitori) e l’ala radicale dei Tea Party, che fino ad oggi ne avevano condizionato la linearità e la credibilità della strategia politica.
Contro un Partito democratico che puntava a contenere la sconfitta annunciata, il Partito repubblicano ha dunque serrato le sua fila, puntando principalmente su candidati moderati, ed è riuscito non solo ad allargare la sua maggioranza nella Camera dei Rappresentanti, ma anche a strappare dalle mani dei democratici ben otto seggi senatoriali, raggiungendo così quota 52 su 100 e condannando il presidente Obama a vivere i suoi ultimi due anni di mandato in una condizione che gli analisti politici americani paragonano enfaticamente a quella di un’anatra zoppa (lame duck).
L’analisi del voto più dettagliata racconta che il Gop è stato in grado di riprendersi tanto quegli stati dove i democratici erano in difficoltà, come Montana, West Virginia, South Dakota, Arkansas e Alaska, quanto stati come l’Iowa, il North Carolina e il Colorado, che Obama era riuscito per ben due volte a trasformare in stati blu (il colore dei democratici), puntando proprio su quei nuovi settori di elettorato che oggi sembrano avergli voltato le spalle. Con una geografia elettorale uscita rivoluzionata da queste midterm, dunque, la corsa per le presidenziali 2016 sembra essere già essere partita: i repubblicani dovranno essere capaci di trovare un candidato credibile per sfruttare l’onda lunga di questa vittoria; ai democratici (e in primis ad Hillary Clinton che pure si è spesa in prima persona in questa sfortunata tornata e che sembra in pole position per lanciare la sua candidatura) toccherà invece studiare una nuova strategia per riconquistare i tanti delusi e scontenti dai sei anni della loro amministrazione.
Il presidente Obama, infine, dovrà essere in grado di continuare a governare da una posizione di grande debolezza, specie per portare a termine con successo alcune delle questioni su cui ha costruito la sua Presidenza: dalla difesa dell’Obamacare e dal varo di una riforma sull’immigrazione per quanto riguarda il piano domestico, al rinnovo del negoziato sul nucleare iraniano, all’ennesimo tentativo di rilancio di quello israelo-palestinese e alla chiusura della Trans Pacific Partnership per quanto riguarda quello internazionale.
Per evitare il sistematico muro contro muro tra Congresso e presidenza, con le inevitabili ricadute negative a questo connesse – le crisi del 2013 sono in questo senso un monito chiarissimo per tutti – servirà pragmatismo e capacità di compromesso: due caratteristiche che Obama ha dimostrato di possedere e che, questa volta, potrebbero rivelarsi un’arma preziosa per tentare di chiudere in crescendo la sua presidenza.
Quando il 10 agosto 2014 un centinaio di persone della comunità afroamericana di Ferguson hanno assediato il palazzo della polizia cittadina al grido di ‘Siamo tutti Michael Brown’, difficilmente era prevedibile la portata dirompente, tanto in termini materiali quanto in quelli simbolici, che la loro protesta avrebbe raggiunto nei mesi successivi.
Da un lato, infatti, alle manifestazioni pacifiche si sono ben presto accompagnati scontri e saccheggi, alimentando una spirale di azioni e risposte tra manifestanti e forze di polizia che ha costretto il governatore del Missouri Jay Nixon, dopo neanche una settimana dall’omicidio del giovane afroamericano per mano di un agente di polizia bianco, a dichiarare lo stato di emergenza e a imporre il coprifuoco su tutta la città.
Dall’altro, la protesta nata nel piccolo sobborgo della città di St. Louis ha ben presto travalicato tanto la sua causa scatenante, quanto la sua dimensione locale, andando a toccare alcuni dei nervi maggiormente scoperti della società americana.
In primis, chiaramente, l’esistenza al suo interno di tensioni razziali mai sopite, spesso associate anche a profonde diseguaglianze economiche: significativo, in questo senso, il fatto che le proteste siano sfociate anche in saccheggi di grandi magazzini, boutique di lusso, negozi di beni tecnologici ecc. In secondo luogo la persistenza di episodi in cui gli apparati di sicurezza e di giustizia americani sembrano avere doppi standard di funzionamento: i fatti di Ferguson hanno richiamato immediatamente alla memoria il caso di Trayvon Martin, un altro giovane afroamericano ucciso da un vigilante, poi assolto dall’accusa di omicidio volontario da una controversa sentenza accolta da veementi proteste in tutto il paese. Da ultimo, la conferma dell’alto potenziale di instabilità esistente in tutte quelle zone degli Stati Uniti in cui, esattamente come a Ferguson, si registrano tassi di popolazione a maggioranza nera o ispanica a fronte di un apparato di polizia, tra l’altro sempre più militarizzato nei metodi e nelle dotazioni, composto per la quasi totalità da bianchi.
La forza simbolica e politica della protesta di Ferguson ha ‘meritato’ il ripetuto interessamento in prima persona di Barack Obama, sollecitato forse più di chiunque altro non solo dalla naturale esigenza di contenere una situazione problematica sul piano della sicurezza interna e scomoda su quello dell’immagine internazionale degli Stati Uniti, ma anche dalla volontà di intervenire direttamente in una contraddizione che per certi versi interessa la sua carica e la sua biografia: l’essere cioè il primo presidente afroamericano di un paese in cui il cammino verso una piena integrazione è ancora lontano dal potersi considerare concluso. A soffiare ulteriormente sul fuoco, è inoltre venuta la decisione di non processare il poliziotto che ha sparato a Michael Brown, nel novembre del 2014.
1989-1990, Panamá: nell’ambito dell’operazione Just Cause, truppe statunitensi invadono Panamá per catturare il generale e dittatore panamense Manuel Noriega.
1991, Prima guerra del Golfo: con la missione Desert Storm gli Stati Uniti, sotto mandato delle Nazioni Unite e alla testa di un’ampia coalizione di stati, invadono l’Iraq di Saddam Hussein per costringerlo a ritirarsi dal Kuwait.
1991-1996, Iraq: nell’operazione Provide Comfort, gli Stati Uniti e gli alleati nella Guerra del Golfo si pongono a difesa della comunità curda irachena contro eventuali ritorsioni del regime di Saddam Hussein.
1992-2003, Iraq: le due operazioni Northern Watch e Southern Watch, promosse da Stati Uniti e Regno Unito, impongono una no-fly zone sui territori del Kurdistan iracheno e su quelli a maggioranza sciita, nel Sud dell’Iraq. Nell’ambito di tali operazioni vengono effettuati anche bombardamenti.
1992-1995, Somalia: l’operazione Restore Hope vede la presenza di truppe statunitensi nell’ambito della guerra civile somala e in risposta a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’operazione termina nel maggio del 1993, ma le truppe di Washington restano nel paese nell’ambito della successiva missione Unosom II (United Nations Operation in Somalia).
1994-1995, Haiti: con la missione Uphold Democracy, navi della marina statunitense impongono un embargo contro Haiti e oltre 20.000 soldati depongono la giunta militare, al potere da tre anni.
1995, Bosnia: con l’operazione Deliberate Force la Nato, sotto spinta statunitense, bombarda le postazioni dei serbo-bosniaci nel contesto della guerra civile in Bosnia-Erzegovina.
1998, Iraq: forze aeree statunitensi bombardano per quattro giorni obiettivi iracheni, nell’ambito dell’operazione Desert Fox.
1998, Afghanistan e Sudan: in risposta agli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, gli Usa lanciano l’operazione Infinite Reach, nell’ambito della quale bombardano sospetti campi di addestramento di al-Qaida in Afghanistan e un sito ritenuto la sede di una fabbrica di armi chimiche nel Sudan.
1999, Serbia: bombardamenti Nato contro la Serbia durante il conflitto in Kosovo.
2001, Guerra in Afghanistan: dopo l’attacco terroristico subito l’11 settembre alle Twin Towers, gli Stati Uniti entrano in guerra (con l’avallo delle Nazioni Unite) contro il regime talebano in Afghanistan (operazione Enduring Freedom), colpevole di proteggere i terroristi della rete di al-Qaida. Nell’ambito delle operazioni militari in Afghanistan, dal 2004 Washington ha effettuato diversi attacchi in territorio pakistano con i droni, ai danni di sospetti obiettivi talebani. Moltissime le vittime civili.
2003-10, Seconda guerra del Golfo: Gli Stati Uniti guidano una cosiddetta coalizione di volenterosi (composta principalmente da Regno Unito, Australia e Polonia e con il contributo minore di diversi altri alleati statunitensi) contro l’Iraq di Saddam Hussein.
2011, Libia: per effetto della risoluzione numero 1973 delle Nazioni Unite viene lanciata l’operazione Odyssey Dawn, sotto cornice Nato ma guidata principalmente da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, per l’imposizione di una no-fly zone sullo spazio aereo libico e la distruzione di obiettivi militari delle forze del colonnello Mu’ammar Gheddafi.
2014, Iraq e Siria: bombardamenti americani, inglesi e francesi contro le postazioni e le roccaforti controllate dall’Is (operazione Inherent Resolve), organizzazione terroristica attiva in Siria e Iraq sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi.