Vedi Stati Uniti d'America dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Stati Uniti d’America
Sebbene gli Usa, dopo vent’anni di supremazia solitaria e incontrastata, mantengano sfere di potenza in cui confermano una netta superiorità di risorse sia per qualità che per quantità, la repentina crescita di nuove potenze regionali e la parabola negativa che l’economia americana sembra aver imboccato negli ultimi anni hanno spinto diversi osservatori a interrogarsi sull’imminenza di un declino statunitense. Tanto le ragioni che danno forza alle cosiddette tesi del declino, che descrivono gli Stati Uniti come incapaci di sostenere nel medio-lungo periodo il potere e gli impegni internazionali, quanto quelle che, al contrario, sostengono la tenuta e la stabilità della supremazia americana derivano sostanzialmente dal riconoscimento che le principali risorse di potere a disposizione di Washington presentano elementi di forza e altrettanti elementi di debolezza.
Dal punto di vista economico, per esempio, gli Stati Uniti sono ancora di gran lunga la prima economia al mondo in termini di pil assoluto, raggiungono tassi di produttività altissimi, sono il principale centro finanziario del pianeta e possiedono il maggior settore terziario per estensione, livello di avanzamento e capacità di innovazione. Allo stesso tempo, però, gli Usa sono stati l’epicentro da cui si è diffusa la crisi economica e finanziaria internazionale del 2008, hanno un debito pubblico federale in costante crescita (arrivato intorno al 108% del pil) che li espone strutturalmente nei confronti dei paesi esteri detentori, e posseggono una valuta che, seppur ancora riferimento nei circuiti monetari internazionali, non ha più la forza e la tenuta dimostrata nei decenni passati. In compenso, il tasso di crescita del pil Usa del 4,1% nel terzo trimestre 2013 lascia intravedere una nuova espansione, con un’Europa ancora in affanno, anche senza considerare il declassamento dalla tripla A imposto a fine 2013 dall’agenzia di valutazione dei debitori Standard & Poor’s di New York.
Se si guarda poi alla sfera militare, il divario tra Washington e il resto del mondo appare più marcato, non solo per quanto concerne la spesa militare, le dotazioni della difesa, la qualità e la quantità dei sistemi d’arma a disposizione (di tipo convenzionale e non), ma anche in ragione del fatto che gli Stati Uniti sono attualmente ancora l’unico paese in grado di proiettare la propria potenza a livello globale grazie al controllo dei tre cosiddetti spazi comuni: il cielo, lo spazio e il mare. A una superiorità difficilmente discutibile, oltre che non colmabile nel breve e medio termine, fa tuttavia da contraltare la scarsa possibilità di utilizzare le risorse militari nel contesto internazionale attuale, tanto nel contrasto a minacce di tipo non convenzionale, come le reti del terrorismo e della criminalità internazionale, quanto negli interventi di stabilizzazione e di nation-building, come quelli della fase postbellica in Iraq e Afghanistan. Allo stesso tempo pesa in prospettiva un dilemma strategico che gli Usa dovranno risolvere con un difficile compromesso tra due esigenze contrastanti. La prima è quella di ridurre il budget della difesa, più che raddoppiato dal 2001 in avanti. La seconda, di rispondere alla rapida crescita militare di diverse potenze emergenti, Cina in primis, impegnate non solo a modernizzare i propri apparati, ma anche a sviluppare quella tecnologia ‘anti-accesso’ finalizzata proprio a rendere più costoso un eventuale intervento esterno nelle rispettive regioni d’appartenenza.
Per completare il quadro della potenza statunitense occorre rivolgere l’attenzione anche ai suoi aspetti immateriali, ovvero al suo cosiddetto soft power. Anche in questa sfera la forza attrattiva del modello americano – con i suoi valori, la sua tradizione politica democratica e liberale, la sua industria culturale e il suo primato scientifico –, se ha rappresentato dal secondo dopoguerra un formidabile strumento di influenza nelle mani di Washington, sembra tuttavia aver subito un processo di forte opacizzazione durante il primo decennio del Duemila. Il fenomeno si è reso più evidente da quando l’unilateralismo post attentato dell’11 settembre 2001 ha messo in discussione la legittimità della politica estera americana agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Una legittimità, d’altra parte, colpita duramente anche dal cosiddetto scandalo Datagate che, dalle prime rivelazioni del quotidiano britannico «The Guardian», nel giugno 2013, ha rivelato l’esistenza di una vasta e prolungata attività di sorveglianza segreta e raccolta dati portata avanti dalla National Security Agency americana ai danni non solo di paesi rivali, ma anche di storici alleati e partner.
La nascita della potenza statunitense affonda le sue radici nel 19° secolo, quando si sviluppò secondo due direttrici principali. In primis, dopo l’indipendenza, il paese estese il proprio territorio verso ovest, assecondando così gli assunti del cosiddetto ‘destino manifesto’ e quindi della convinzione, ben radicata nella cultura politica americana ottocentesca, dell’inevitabilità dell’espansione territoriale e valoriale della nuova Federazione statunitense. In secondo luogo, tramite l’affermazione dalla ‘dottrina Monroe’ del 1823, che sosteneva l’esigenza di consolidare una sorta di zona di influenza politica esclusiva sul continente americano, optando allo stesso tempo per una politica di non coinvolgimento rispetto alle dinamiche politiche internazionali, prime tra tutte quelle europee. Fu l’impegno nella Seconda guerra mondiale a sancire il definitivo protagonismo degli Stati Uniti nella politica mondiale, già avviato con il primo conflitto mondiale. Unica delle potenze alleate vincitrici a non dover affrontare un processo di ricostruzione postbellica e forte di un’economia già all’epoca prima al mondo, gli Usa si misero allora alla testa del nascente blocco occidentale, dando vita alla creazione di una fitta rete di istituzioni internazionali e favorendo lo sviluppo di alleanze e partnership bilaterali in tutti e cinque i continenti. Cardini del nuovo ordine post bellico a guida statunitense furono, sul versante politico e militare, l’Alleanza atlantica (Nato) e quindi l’organizzazione di difesa tramite cui Washington realizzò un ombrello protettivo per i paesi membri. Sul versante economico, le istituzioni di Bretton Woods (tra cui il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale), create insieme al Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) con l’obiettivo di liberalizzare l’economia e il commercio internazionale, stabilizzare i circuiti monetari e favorire la cooperazione economica tra i paesi aderenti. Era la cosiddetta ‘Pax americana’ vigente per tutti i paesi occidentali e opposta al blocco sovietico composto dall’Urss e dai paesi suoi satelliti, all’interno di quella contrapposizione politica, ideologica e militare conosciuta come Guerra fredda.
Nei lunghi decenni che separano il 1945 dal 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, le relazioni tra i due blocchi non furono sempre uguali, ma subirono evoluzioni significative. Fino al termine degli anni Sessanta, per esempio, prevalse la strategia del containment, che aveva l’obiettivo di isolare il comunismo sovietico, arginandone ogni possibile espansione fuori dai confini del suo blocco. Il containment si tradusse in termini pratici tanto nell’appoggio statunitense a tutti quei regimi che nel mondo potevano rappresentare un freno all’espansionismo politico e ideologico dell’Unione Sovietica, quanto nell’intervento militare in quei conflitti, seppur secondari e di carattere locale, in cui una vittoria comunista avrebbe potuto innescare un processo di ‘contagio regionale’, secondo quanto previsto dalla teoria del domino. La guerra di Corea del 1950-53 e quella del Vietnam ne sono due tipici esempi. Gli anni Settanta, invece, furono caratterizzati da un processo di distensione e di pacifica coesistenza con l’Unione Sovietica: il nuovo disgelo produsse l’avvio di accordi sulla riduzione delle armi strategiche, fece leva sul riavvicinamento americano alla Cina comunista (mossa che costrinse Mosca al dialogo per evitare l’isolamento diplomatico) e più in generale si pose l’obiettivo di abbattere gli elevatissimi costi per il mantenimento della posizione internazionale ricoperta fino ad allora da Washington. Architrave del bipolarismo divenne così la cosiddetta dottrina della Mad (acronimo di mutually assured destruction), con le due superpotenze impegnate a non sviluppare tecnologia difensiva antibalistica per instaurare un regime di deterrenza efficace, visto il rischio assicurato di reciproco annientamento in caso di scoppio del conflitto nucleare. Gli anni Ottanta, sotto l’amministrazione di Ronald Reagan, rappresentarono una significativa ripresa sia della corsa agli armamenti, sia della competizione politica e ideologica tra le due superpotenze. Fu il 1989 a rappresentare il vero punto di svolta per gli equilibri politici mondiali e in primis per gli Stati Uniti. La caduta del Muro di Berlino aprì a Washington la possibilità di estendere la propria egemonia anche al di fuori del blocco occidentale e di perseguire i suoi nuovi, e in parte mutati, interessi, potendo beneficiare della maggiore concentrazione di potenza mai registrata in precedenza nella storia moderna e contemporanea. Esiste una serie di costanti che, in maniera trasversale tra le amministrazioni che dal 1989 a oggi si sono avvicendate alla Casa Bianca, hanno rappresentato i nuovi capisaldi della politica estera americana unipolare. In primo luogo, prevenire l’emergere di potenziali sfidanti su scala globale, mantenendo il più possibile inalterato il differenziale di risorse rispetto alle altre potenze mondiali. In secondo luogo, agire da ‘bilanciatori esterni’ per contrastare l’affermazione di egemonie regionali ostili in regioni strategiche. In terzo luogo, mantenere l’economia internazionale aperta e, infine, continuare a garantirsi l’accesso alle principali risorse energetiche mondiali.
Alla costanza di questi obiettivi non ha tuttavia corrisposto un’analoga continuità nelle modalità di perseguimento. Nello specifico, se le amministrazioni democratiche di Bill Clinton e di Barack Obama hanno in genere privilegiato la via multilaterale per trovare consenso e legittimità internazionali al loro operato, quelle repubblicane, sotto il doppio mandato di George W. Bush, e fortemente influenzate dalla ‘filosofia neocon’, hanno piuttosto preferito una politica estera unilaterale e più assertiva, specie nell’ambito della guerra al terrorismo globale, lanciata all’indomani degli attentati qaidisti dell’11 settembre. È stata questa strategia a condurre al tanto controverso intervento militare in Iraq nel 2003.
La natura globale degli interessi egemonici degli Stati Uniti determina una politica estera multi-vettoriale, caratterizzata da direttrici che si spingono in tutte le regioni del mondo.
La prima e più naturale è rivolta ai paesi confinanti e al resto del continente americano. Con Canada e Messico, rispettivamente ai suoi confini settentrionali e meridionali, Washington intrattiene i maggiori rapporti commerciali in assoluto, specie da quando, nel gennaio del 1994, è entrato in vigore il Nafta (North American Free Trade Agreement), il trattato di libero scambio che ha imposto la progressiva eliminazione delle barriere doganali. I due paesi, del resto, costituiscono la spina dorsale dell’approvvigionamento petrolifero statunitense e rappresentano due partner politici privilegiati con cui gli Usa cooperano in numerosi campi: dalla sicurezza all’ambiente, passando per la tutela del lavoro e il controllo transfrontaliero. Il subcontinente latinoamericano è stato invece storicamente percepito dagli Stati Uniti come un ‘cortile di casa’, e quindi come un’area sulla quale poter esercitare la propria influenza in maniera più esclusiva e diretta. A differenza che nel resto del continente americano, in questa regione sono molto più evidenti i sintomi di una maggiore volontà di autonomia, quando non proprio di contrapposizione, rispetto alle politiche statunitensi. In particolare, l’emergere di una potenza come il Brasile, che aspira a ricoprire un ruolo egemonico sulla regione, si pone potenzialmente in contrasto con la politica e gli interessi di Washington. In aggiunta, va registrata negli ultimi anni la diffusione di un’ideologia fortemente intrisa di elementi antistatunitensi e anticapitalisti, il cui paese-simbolo è stato il Venezuela di Hugo Chávez (oggi guidato da Nicolás Maduro), ma alla quale aderiscono anche l’Ecuador e la Bolivia. Anche per contrastare tali tendenze, Washington ha individuato nella Colombia liberale di Álvaro Uribe, prima, e di Juan Manuel Santos, dopo, un alleato strategico dell’area, cui non a caso destina una parte rilevante dei propri aiuti economici e militari.
La seconda tradizionale direttrice della politica estera statunitense è rappresentata dalla rete dei rapporti transatlantici. Qui gli Usa intrattengono quella che può essere definita storicamente la loro più importante relazione bilaterale: la special relationship con il Regno Unito. Per affinità storiche, linguistiche e culturali, i due paesi condividono molti interessi comuni e hanno dato vita ad un’alleanza strategica, nel cuore del mondo occidentale, capace di riconfermarsi e rinnovarsi in risposta a tutte le principali sfide emerse nel corso del Novecento, dalle due guerre mondiali alla Guerra fredda, per arrivare alla lotta contro il terrorismo globale. In diverse occasioni e su differenti questioni internazionali, Londra si è rivelata molto più vicina alle politiche statunitensi che a quelle dell’Unione Europea (Eu), di cui pure fa parte dal 1973. Proprio quest’ultima organizzazione, all’interno della quale gli Stati Uniti mantengono tanto rapporti privilegiati con alcuni membri, quanto relazioni più altalenanti con altri, rappresenta una controparte complessa per Washington. Se da un lato gli Stati Uniti condividono la maggior parte delle politiche e dei valori fondanti dell’Eu, dall’altro non solo competono economicamente con l’Unione (che in aggregato ha una forza economica maggiore), ma nell’ultimo decennio hanno assunto posizioni divergenti su importanti questioni di politica internazionale, come l’istituzione del Tribunale penale internazionale o i negoziati per l’attuazione del Protocollo di Kyoto. Il fatto che le potenzialità europee non si siano ancora tradotte in una visione politica compiutamente unitaria, d’altra parte, ha costituito un vantaggio per gli Usa in termini di capacità di influenza politica sugli altri teatri regionali. Gli Stati Uniti continuano a mantenere importanti rapporti bilaterali non solo con i maggiori paesi europei, ma anche con quei paesi della cosiddetta ‘nuova Europa’ (su tutti Polonia, Repubblica Ceca e Romania) che hanno trovato nei rapporti transatlantici una nuova collocazione strategica e politica, in grado di garantire loro un’adeguata copertura dall’influenza e dalle pressioni derivanti dalla vicina Federazione Russa.
Dalla fine della Guerra fredda la politica degli Usa verso la Russia postcomunista è stata caratterizzata tanto dalla propensione a integrare l’ex rivale nell’ordine economico e strategico occidentale, quanto dalla tentazione di sfruttarne il momento di debolezza e consolidare la nuova superiorità. Per un verso, con Mosca sono stati conclusi tutta una serie di trattati per la limitazione dei rispettivi armamenti nucleari (l’ultimo dei quali, il New Start, firmato nel 2010); è stato creato un forum di dialogo strategico in ambito Nato e si sono progressivamente intensificati i rapporti economici e commerciali. Per l’altro, invece, sono state non poche le scelte e le politiche intraprese da Washington che hanno sfidato apertamente gli interessi della nuova Federazione: dall’allargamento della membership della Nato e delle partnerships bilaterali e atlantiche in tutto lo spazio post-sovietico eurasiatico, al controverso progetto di scudo antimissilistico (oggi in fase di realizzazione sotto iniziativa Nato), passando per il supporto finanziario e politico a tutte quelle infrastrutture energetiche alternative alla rete russa e quindi in grado di attenuare il monopolio di Mosca nella fornitura di gas in Europa.
Se l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama aveva poi coinciso con il tentativo di reset diplomatico, per azzerare le tante incomprensioni registrate negli ultimi anni di presidenza Bush (su tutto, la tensione scaturita dalla Guerra russo-georgiana del 2008), il 2013 ha fatto segnare il ritorno a un clima di marcata contrapposizione in almeno due episodi. Il primo è stato il braccio di ferro diplomatico sull’intervento militare in Siria, promosso da Obama per sanzionare il presunto utilizzo di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, ma disinnescato da Vladimir Putin grazie a un accordo raggiunto in extremis con il rais siriano per la distruzione del proprio arsenale.
In secondo invece è stato lo strappo diplomatico consumato dal Cremlino con la concessione dell’asilo politico temporaneo a Edward Snowden, l’ex analista della Cia che ha dato inizio al caso Datagate e che Washington vorrebbe processare per tradimento.
Altra area, da sempre geopoliticamente rilevante per gli Stati Uniti, è il Medio Oriente: anche in questo teatro Washington ha alleati storici, sui quali basa e costruisce la propria politica regionale. Primo tra tutti lo stato d’Israele, rispetto alla cui sicurezza gli Usa sono impegnati in maniera stabile fin dalla sua fondazione. Consolidatasi in virtù di dinamiche strategiche tipiche della Guerra fredda già dalla metà degli anni Sessanta, l’alleanza israelo-statunitense – da più parti descritta come l’altra vera special relationship americana – è andata progressivamente intensificandosi anche nel post-1989. Tel Aviv può contare su una completa copertura diplomatica da parte di Washington e beneficia di una notevole serie di primati qualitativi e quantitativi nell’assistenza militare americana. Da registrare, dopo quattro anni di sostanziale inazione e in coincidenza con l’inizio del secondo mandato di Obama (20 gennaio 2009), è invece il rinnovo di un forte impegno diplomatico da parte americana (declinato nella celebre shuttle diplomacy) per il rilancio dei negoziati di pace tra Israeliani e Palestinesi.
Anche la partnership con l’Arabia Saudita ha radici antiche che affondano nel secondo conflitto mondiale. L’alleanza ha subito una prima ridefinizione alla fine degli anni Settanta, quando Riyadh ha ulteriormente stretto la propria intesa con Washington: beneficiario di protezione e aiuti militari statunitensi, creditore (attraverso i petrodollari) degli Usa e garante del basso prezzo del petrolio.
In tempi più recenti la relazione è stata prevalentemente funzionale a contrastare le politiche dell’Iran, e quindi del paese con cui attualmente gli Usa hanno i rapporti più tesi nella regione.
La politica estera assertiva intrapresa da Teheran, i suoi contatti con Hezbollah e Hamas e la sua volontà di non interrompere il programma nucleare hanno reso l’Iran, al tempo dello shah un solido alleato, una delle principali preoccupazioni nell’agenda di politica estera statunitense. Ma proprio l’accordo provvisorio sul nucleare iraniano, raggiunto il 24 novembre 2013 tra Teheran e il cosiddetto Gruppo dei 5+1, potrebbe aprire scenari radicalmente nuovi, non solo nelle relazioni bilaterali tra Usa e Iran, ma anche negli equilibri geopolitici mediorientali.
In particolare gli equilibri mediorientali, in passato determinati dalle posizioni di Washington, specie attraverso il suo tradizionale patto di ferro con l’asse arabo-sunnita moderato (Arabia Saudita, Giordania ed Egitto, ma anche Emirati Arabi e Bahrain), stanno vivendo una fase di profonda evoluzione. Oltre al nuovo spiraglio apertosi con il disgelo con l’Iran, la regione è ancora in piena transizione a seguito allo scoppio nel 2011 delle Primavere arabe. Nello specifico Washington ha seguito la strada della prudenza, optando per un ruolo che diversi analisti hanno descritto come una leadership from behind. Dall’Egitto, dove l’amministrazione Obama ha preferito non interferire, tanto nella caduta dello storico alleato Hosni Mubarak, quanto nella successiva deposizione, a opera dell’esercito egiziano, del presidente Mohammed Mursi, legato ai Fratelli musulmani; alla Libia, dove all’intervento militare che ha portato alla fine del regime di Mu’ammar Gheddafi non è seguito un impegno di stabilizzazione e ricostruzione postbellica da parte americana. Si arriva quindi alla Siria, da due anni insanguinata da una guerra civile da cui gli Americani hanno sostanzialmente preferito restare fuori, a parte l’escalation rischiata nell’estate del 2013 dopo il presunto utilizzo di gas chimici da parte dell’esercito siriano.
L’ultima direttrice nella politica estera statunitense – quella in cui da qualche anno la Casa Bianca sembra concentrare gran parte del proprio interesse – va invece dall’Asia meridionale fino al Pacifico. Il subcontinente indiano, soprattutto il Pakistan, rappresenta una delle maggiori sfide per gli Stati Uniti e per la lotta al terrorismo globale. I rapporti con Islamabad sono fondamentali per la definizione degli equilibri in Afghanistan, paese ancora molto instabile e dal quale gli Stati Uniti, dopo dieci anni di significativa presenza militare, si avviano a ritirarsi. Il Pakistan è risultato essere una retroguardia degli insorti afghani e Washington ha quindi puntato a sostenerne la stabilità, non solo in considerazione del suo ruolo imprescindibile nell’equazione afghana, ma anche per scongiurare il rischio di un’affermazione di gruppi fondamentalisti all’interno di un paese in cui vigono precarie dinamiche politiche e che è dotato di armamenti nucleari. Negli ultimissimi anni le relazioni tra Washington e Islamabad si sono tuttavia complicate. A far crescere risentimento e diffidenza reciproca sono stati, da un parte, il disappunto americano per la scoperta che il nascondiglio del leader di al-Qaida Osama Bin Laden si trovasse non lontano dalla capitale militare pakistana, dall’altra l’incremento degli attacchi con droni nelle regioni di confine tra Pakistan e Afghanistan condotti unilateralmente dagli Usa senza il consenso di Islamabad.
Con l’India, il più rilevante stato dell’Asia meridionale e la più grande democrazia al mondo, i rapporti sono invece in progressivo avvicinamento da almeno un decennio, in virtù del fatto che Nuova Delhi si è rivelata una sponda ideale per Washington, sia sotto il profilo commerciale, considerando le potenzialità di una economia in forte ascesa come quella indiana, sia sotto quello strategico, considerando il comune impegno contro il fondamentalismo islamico e la comune volontà di controbilanciare l’ascesa della Cina nell’Asia continentale e pacifica.
Quella cinese è la maggiore sfida attualmente all’ordine del giorno degli strateghi del Pentagono e del dipartimento di stato. In considerazione della potenza raggiunta da Pechino e della possibilità che decida di perseguire un’agenda regionale revisionista in contrasto con gli interessi di Washington e dei suoi alleati nella regione, l’evoluzione della relazione sino-americana ha assunto negli ultimi anni un’assoluta centralità nella strategia egemonica statunitense. Gli Stati Uniti hanno fino a ora dimostrato il chiaro interesse a mantenere rapporti stabili, specie considerando l’altissimo livello di interdipendenza economica che lega i due paesi: gli Usa restano il maggiore mercato di approdo per le esportazioni cinesi e la Cina è diventata il primo detentore del debito statunitense. La compresenza di competizione e convergenza economica spinge in questo senso gli Stati Uniti a non esacerbare le possibili fonti di tensione politica, che pure negli ultimi anni sono aumentate. Si va dalla posizione nei confronti del Dalai Lama ai ricorrenti richiami di Washington sul mancato rispetto dei diritti umani da parte della Cina, arrivando infine alla storica disputa sullo status di Taiwan e a quella più recente sulla sovranità sulle isole Senkaku/Diaoyu, che vedono gli Usa opporsi alle rivendicazioni cinesi e schierarsi al fianco, rispettivamente, di Taipei e Tokyo.
Dall’altro lato, e in chiara funzione di controbilanciamento della preponderanza cinese, da qualche anno gli Stati Uniti hanno dato avvio al cosiddetto Pacific pivot, e quindi a una strategia di rafforzamento del proprio ruolo e della propria presenza nella regione dell’Asia-Pacifico. Presenza che d’altra parte non è certo nuova, ma che, al contrario, risale al secondo dopoguerra, quando gli Usa scelsero di stabilire in Asia orientale una serie di alleanze bilaterali, secondo un sistema di tipo hub and spoke (a ruota, con un perno centrale e i raggi). La nuova centralità assunta oggi dalla regione vede dunque accrescere l’importanza di questo network di partnership: su tutte quella con il Giappone, la ‘portaerei inaffondabile’ americana, che, sebbene già dagli anni Cinquanta rappresenti il principale cardine della strategia di sicurezza americana in Asia, oggi più che mai è chiamato a rivestire un ruolo sempre più attivo e cruciale nell’evoluzione degli equilibri politico-strategici regionali.
Gli Stati Uniti sono caratterizzati da uno dei sistemi politici interni più funzionanti e stabili di tutto il mondo, che vanta una tradizione plurisecolare. Il sistema di stato e di governo è organizzato secondo il modello di una repubblica presidenziale a struttura federale. Gli Stati Uniti costituiscono il più antico sistema federale vigente. La Costituzione regola i rapporti tra il governo centrale e ognuno dei 50 stati federati. Al suo interno, ogni stato ha un proprio governo e un parlamento bicamerale (fatta eccezione per lo stato del Nebraska, in cui vi è un parlamento unicamerale), che esercita il potere legislativo all’interno dei propri confini. L’autonomia di cui godono i singoli governi statali, al cui capo vi è un governatore (eletto direttamente dalla popolazione dello stato di appartenenza e al quale è affidato il potere esecutivo), è abbastanza ampia, soprattutto in materie come l’istruzione, il diritto al lavoro, le imprese e la proprietà, tutti ambiti in cui vi sono differenze evidenti tra i singoli stati. La Costituzione stabilisce, altresì, che tutte le leggi emanate dai governi statali non debbano essere in contraddizione con la carta fondamentale stessa e con le leggi emanate dal governo federale. Quest’ultimo rappresenta la massima autorità politica e regola le questioni di rilevanza strategica e di interesse nazionale, come la politica estera, le politiche di sicurezza, il commercio internazionale e la riscossione delle imposte. Alla guida del governo federale vi è il presidente degli Stati Uniti, che esercita il potere esecutivo ed è al contempo il capo di stato, di governo e il Commander in chief delle forze armate. La seconda autorità del paese è il vicepresidente, che subentra al presidente in caso di impeachment o di morte prima della fine del mandato. Il presidente è eletto ogni quattro anni e ha un limite di due mandati. Tecnicamente è eletto secondo un meccanismo indiretto: il popolo americano è chiamato a eleggere delegati, detti ‘grandi elettori’, che a loro volta esprimono il loro parere per uno dei due candidati presidenziali. I due candidati finali per la presidenza sono stati in precedenza scelti all’interno, rispettivamente, dei partiti repubblicano e democratico, tramite un sistema di elezioni primarie che avviene attraverso un complicato processo di selezione. A livello federale, gli Stati Uniti hanno un parlamento, il Congresso, composto da due camere: la Camera dei rappresentanti e il Senato. La prima conta 435 membri, che vengono eletti in ogni stato, con una rappresentanza numerica che varia da stato a stato in misura proporzionale alla popolazione, rilevata con censimento decennale. Il Senato è invece composto da cento membri, due per ogni stato federato. I deputati della Camera dei rappresentanti sono eletti ogni due anni, mentre quelli del Senato restano in carica sei anni, con un ricambio biennale di un terzo del loro totale. Questo sistema elettivo fa sì che il rinnovo di parte del Congresso (Camera dei rappresentanti più un terzo dei senatori) avvenga, oltre che in corrispondenza delle elezioni presidenziali, anche nel periodo a cavallo tra queste, nelle cosiddette elezioni di metà mandato o midterm elections, quando cioè l’ultimo presidente eletto è in carica da due anni. Ciò può determinare, come accaduto spesso nella storia politica statunitense, che la presidenza in carica possa trovarsi a dover interagire, in una o in entrambe le camere, con una maggioranza non in forza al suo partito. In questi casi il presidente e la sua amministrazione ricercano generalmente una mediazione tra la propria attività di governo e l’appoggio che le proposte legislative devono riscuotere in entrambi i rami del parlamento per essere approvate, così come prescritto da un sistema istituzionale ispirato al principio dei checks and balances, controllo e bilanciamento reciproco, che d’altro canto affida proprio alla presidenza il potere di veto sulle leggi già licenziate dal Congresso. Al tempo stesso il Congresso, come avviene in tutti i sistemi presidenziali, non ha la prerogativa di sfiduciare il presidente, ma può attivare un procedimento di impeachment (‘atto di accusa’) nei suoi confronti, in caso di attentato alla Costituzione. Tale procedimento, che ha natura giudiziaria e non politica, è stato tentato solo due volte nel secondo dopoguerra la prima con Richard Nixon, senza tuttavia giungere al voto del Senato perché il presidente si dimise prima; poi con Bill Clinton, quando l’atto fu respinto dal Senato poiché non raggiunse i due terzi necessari per la sua approvazione.
Il bipartitismo, che è una caratteristica del sistema politico statunitense, specie dal Novecento in poi, ha garantito l’alternanza di governo tra i due maggiori partiti della nazione: il Democratic Party e il Republican Party. L’elettorato statunitense si è storicamente dimostrato eterogeneo nelle sue preferenze, dal momento che non si è mai verificato nel secondo dopoguerra che uno stesso partito abbia conquistato la presidenza per più di tre mandati consecutivi, cosa peraltro possibile solo dopo il periodo 1981-93, quando alla doppia presidenza repubblicana di Reagan (1981-89) e alla prima di George Bush (1989-93) seguì la vittoria del democratico Bill Clinton.
In seguito alle ultime elezioni presidenziali, tenutesi nel novembre 2012, Barack Obama è stato riconfermato alla guida del paese per quattro anni. Fino alle elezioni di midterm, che si tengono nel 2014, il presidente deve confrontarsi con una Camera dei Deputati a maggioranza repubblicana, guidata dallo speaker John Boehner. Al Senato, viceversa, il presidente può contare su una, seppur ristretta, maggioranza democratica.
Proprio l’attuale spaccatura tra le i due rami del Congresso – associata a un’intransigenza negoziale tra i due partiti, anomala rispetto alla celebre tradizione bipartisan americana – ha permesso che un prolungato braccio di ferro in materia di fiscalità e spesa federale degenerassein tre gravi crisi di stallo politico nel corso del 2013. Dal cosiddetto fiscal cliff di inizio anno, e quindi il rischio, scongiurato solo in extremis, di cadere nel ‘baratro fiscale’ dovuto alla coincidenza tra un aumento previsto delle tasse e la scadenza di tutta una serie di esenzioni fiscali; al sequester e quindi l’automatico scatto di ingenti tagli lineari su istruzione, difesa e servizi sociali calendarizzato nel mese di marzo; fino ad arrivare allo shutdown, la chiusura cioè di tutte le attività federali non essenziali, firmato da Obama nelle prime due settimane di ottobre a causa del mancato accordo tra Camera e Senato sulla legge di bilancio 2013.
Con più di 300 milioni di abitanti gli Stati Uniti sono, dopo Cina e India, il paese più popoloso al mondo; un dato che in parte contribuisce a determinare la potenza di Washington, specie per quanto riguarda le potenzialità economiche interne. A differenza di gran parte dei paesi economicamente più sviluppati e anche grazie ai continui flussi di immigrazione, gli Stati Uniti registrano un tasso di crescita demografica relativamente alto (intorno all’1% l’anno), che assicura una crescita costante anche da questo punto di vista. Inoltre la grande maggioranza della popolazione, l’82%, è urbanizzata, indice dello sviluppo sostenuto, tipico dei paesi più industrializzati. A livello etnico, la popolazione risulta essere molto composita, per effetto delle ondate migratorie che si sono succedute nel corso dei secoli. Vi sono importanti comunità di origine tedesca, irlandese, olandese e italiana, retaggio dei movimenti migratori dell’Ottocento. Le minoranze più numerose, comunque, sono quella ispanoamericana, quella afroamericana e quella asiatica (in gran parte Cinesi e Filippini). In generale: i bambini bianchi sotto i cinque anni erano il 49,9% nel 2012 e si prevede che saranno in minoranza entro il 2014. Di conseguenza, entro il 2043, si stima che l’intera popolazione bianca sarà minoritaria.
In particolar modo, la tendenza degli ultimi anni vede crescere sempre di più la minoranza ispanoamericana, di cui oltre il 60% ha origini messicane. Si pensi che tra il 2000 e il 2010 il tasso di crescita degli ispanici è stato del 43%, mentre le altre comunità sono cresciute in media di circa il 5%. Ciò è dovuto sia al fenomeno dell’immigrazione attraverso la frontiera messicana, sia al più alto tasso di fecondità chesi registra all’interno di questa comunità.
La questione migratoria, del resto, continua a rappresentare una sfida alla politica statunitense: si stima che il numero di immigrati irregolari nel paese, in maggioranza provenienti da Messico, Cina, India e Filippine, superi gli 11 milioni di persone. Gli Stati Uniti non hanno, a livello federale, una lingua che per Costituzione sia stata definita ufficiale, sebbene di fatto la lingua parlata sia l’inglese. Il 12% della popolazione parla però spagnolo. Alcuni stati federati hanno adottato nella propria carta costituzionale l’inglese come lingua ufficiale, mentre altri, viste le loro specificità, hanno improntato il proprio sistema educativo sulla base del bilinguismo. È il caso, per esempio, della Louisiana, in cui accanto all’inglese è usato il francese, o del New Mexico, in cui la seconda lingua usata è lo spagnolo. Alle Hawaii, l’altra lingua ufficiale è l’hawaiano. Riguardo l’appartenenza religiosa, invece, il paese è più omogeneo: l’80% della popolazione appartenente alle fedi cristiane, soprattutto Chiese protestanti (il 50% di tutti i cristiani) e Chiesa cattolica (23%), con una grande diffusione di sette minori. Vi è una minoranza ebraica di circa l’1,7%, mentre i musulmani non superano lo 0,6%.
Gli Stati Uniti possono vantare uno dei sistemi democratici più funzionanti e trasparenti al mondo. La lunga tradizione di libertà politiche e civili ha fatto del paese uno dei modelli culturali e politici di riferimento per la gran parte delle democrazie del mondo, soprattutto durante il periodo della Guerra fredda. Tuttavia non sono mancati e non mancano punti critici e debolezze.
La società statunitense si è dimostrata molto aperta. Storicamente ha offerto reali opportunità di crescita economica e sociale a tutti i suoi cittadini. Gli Stati Uniti proteggono per Costituzione tutte le minoranze, siano esse linguistiche, etniche o religiose. Il fatto che non vi siano formazioni politiche espressione di specifiche comunità etniche è dovuto al particolare sistema rappresentativo ed elettorale: laddove vi è una selezione della classe politica e dirigente su base maggioritaria, le minoranze vengano disincentivate a organizzarsi autonomamente. Di contro, tradizionalmente i due
maggiori partiti politici del paese hanno saputo rappresentare e farsi carico delle istanze dei diversi gruppi minoritari, etnici o religiosi.
La comunità cristiana più conservatrice, per esempio, fa riferimento solitamente al Republican Party, mentre le minoranze ispaniche e nere guardano maggiormente al Democratic Party, sebbene questa differenziazione non sia da considerarsi automatica. Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nella rielezione di Barack Obama, in accordo con la maggiore sensibilità dei democratici alle istanze femminili. La libertà di culto è ampliamente rispettata e alcune comunità religiose si occupano spesso direttamente di questioni pubbliche e di natura politica, come i matrimoni omosessuali, l’aborto e le leggi sull’immigrazione. La stampa è libera e la libertà di espressione è garantita dalla Costituzione. Allo stesso modo negli Stati Uniti è rispettata la libera associazione e sono presenti e attive le organizzazioni sindacali, benché soltanto l’8% di tutti i lavoratori in ambito privato ne risulti iscritto, coerentemente con la marcata tendenza all’individualismo che da sempre caratterizza la società statunitense. Un tratto, quest’ultimo, riscontrabile anche nella storica garanzia della proprietà privata nel paese, che rappresenta uno dei simboli più autentici dello stile di vita. Negli Stati Uniti, inoltre, si registra una diffusa intolleranza, presso l’elettorato e il sistema dei media, nei riguardi di episodi di corruzione, soprattutto se i responsabili sono figure di primo piano della vita pubblica. Ciò rende il paese ‘naturalmente’ più trasparente rispetto ad altre realtà occidentali, nonostante il sistema delle lobbies, altro tratto tipico in un paese caratterizzato da una tradizionale apertura nel rapporto tra società civile e sistema politico, generi spesso sospetti nei cittadini circa l’effettiva limpidezza dei processi istituzionali.
In ambito giudiziario, se da un lato vi è da sottolineare l’effettiva indipendenza degli organi preposti al rispetto della legge, dall’altro vanno segnalati alcuni aspetti critici. In particolar modo, ancora oggi molte associazioni denunciano come la maggior parte dei processi riguardanti stupri, rapine e altri reati connessi siano soprattutto a carico delle minoranze nere e ispaniche, il che implica una persistente discriminazione.
Altro aspetto problematico riguarda le carceri: gli Stati Uniti sono il paese al mondo con il più alto tasso di detenuti per ogni abitante (più di 2 milioni, vale a dire più di 700 ogni 100.000 abitanti). Un’altra questione oggetto di costante dibattito, poi, riguarda il ricorso previsto in alcuni stati alla pena di morte per punire i reati più gravi. Nel 2011 gli Usa sono stati il paese democratico con il più alto tasso al mondo di esecuzioni, il quinto in assoluto dopo Cina, Iran, Iraq e Arabia Saudita. Nonostante il paese sia virtuoso nella maggior parte delle questioni rilevanti circa il rispetto dei diritti civili e politici, il sistema presenta alcuni punti critici. Nello specifico si deve registrare come la povertà sia ancora molto diffusa, a fronte di una società molto dinamica e in grado di offrire opportunità di affermazione sociale ai suoi cittadini, oltre che concrete possibilità di integrazione per le comunità immigrate. Vi è una classe di persone che vive letteralmente ai margini della vita economica e sociale del paese. Secondo le statistiche ufficiali del governo federale, nel 2010 più del 15% della popolazione statunitense, equivalente a più di 43 milioni di abitanti, viveva sotto la soglia di povertà. La percentuale era leggermente salita, tanto che nel 2013 risultava che il 20% dei bambini viveva in povertà: l’ultimo dato simile risaliva al 1975. Il 57%, inoltre, viveva in famiglie a basso reddito o nullo. Ancora nel 2013, il 40% dei bianchi tra i 25 e i 29 aveva una laurea contro il 15% dei latinos e il 23% dei neri.
Anche le esigenze dettate dalla sicurezza interna, soprattutto dopo l’adozione di misure antiterroristiche all’indomani dell’11 settembre 2001 (come quelle previste nel Patriot Act), si sono rivelate spesso incompatibili con le tradizionali libertà politiche e civili democratiche. La tensione tra le esigenze di sicurezza e quelle in termini di diritti è stata ed è tutt’oggi oggetto di dibattito politico interno. Nel corso del suo primo mandato, Obama ha mantenuto una linea di continuità con il suo predecessore, prorogando il Patriot Act, con l’approvazione del Congresso, fino al 2015.
L’economia rappresenta un pilastro della potenza statunitense e della sua proiezione internazionale. In termini assoluti, gli Stati Uniti hanno il pil più elevato a livello globale e un sistema economico che risulta essere, da decenni, uno dei più sviluppati al mondo. Washington basa la sua economia sul settore terziario, nettamente il più importante in termini percentuali nella formazione del pil (circa il 79%). In particolar modo pesano i settori bancario e delle assicurazioni, così come il comparto finanziario, che produce da solo circa l’8% del pil nazionale e impiega circa 5 milioni di persone, pari al 5% di tutta la forza lavoro attiva. Gli Stati Uniti sono il primo mercato finanziario a livello internazionale. La piazza principale è rappresentata dalla Borsa di New York, di gran lunga la prima al mondo per volume di scambi e capitalizzazione totale. I servizi sono notevolmente sviluppati anche per ciò che riguarda il commercio, il settore immobiliare e i trasporti. Negli ultimi decenni, poi, la cosiddetta new economy è cresciuta notevolmente, guidata dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazione (Ict). I colossi mondiali informatici e del web come Microsoft, Apple, Hewlett-Packard, Oracle, Google o Facebook, sono tutti statunitensi e in genere hanno il loro quartier generale nella Silicon Valley, che dagli anni Cinquanta è il più importante polo di attrazione mondiale per migliaia di aziende di computer, di produttori di software e servizi in rete. Anche nel comparto industriale gli Stati Uniti si presentano come il paese leader in termini di produzione. A guidare il settore secondario vi sono l’industria delle automobili, dell’alta tecnologia (soprattutto informatica ed elettronica), delle telecomunicazioni e l’industria aerospaziale. Notevoli sono anche l’industria farmaceutica e quella chimica, settore quest’ultimo in cui Washington contribuisce a più del 30% di tutta la produzione mondiale. L’industria ha trainato l’economia statunitense per molti decenni e ancora negli anni Novanta, quando il paese è stato protagonista di una rilevante crescita economica, l’alta produttività è stata uno dei fattori decisivi nel contribuire a tale trend. L’agricoltura, infine, pur costituendo solo l’1% del pil nazionale, ha una produttività eccezionale: gli Stati Uniti sono il primo esportatore al mondo di beni alimentari e, da soli, producono il 40% di tutto il mais e la soia mondiali. Washington risulta essere autosufficiente per ciò che concerne la produzione e il consumo di quasi tutte le materie prime, eccezion fatta per il petrolio, e figura ai primi posti internazionali anche per produzione di carbone, sale, rame e oro. La ricchezza del paese è concentrata prevalentemente nel nord-est, ma prima della crisi del 2008 anche gli stati meridionali e occidentali hanno registrato tassi di crescita più alti. Nel perseguire la propria politica economica, a partire dalla fine degli anni Sessanta, Washington ha sistematicamente incrementato i deficit di bilancio. Per rispondere alla crisi economica del 2008 e favorire la ripresa, per esempio, Obama ha adottato una politica economica interventista (la Obamanomics), basata essenzialmente su stimoli federali che hanno incrementato in misura considerevole il debito pubblico federale. Dal 2009 al 2011 il deficit di bilancio annuo è cresciuto in media del 9,2%. Ciò ha fatto sì che l’economia statunitense divenisse con il tempo sempre più dipendente da altri attori e, in particolar modo, dalla Cina, che, tra gli investitori esteri, possiede la quota più ampia di tutto il debito del paese. Ciò ha creato squilibri con Pechino e, allo stesso tempo, costituisce nel medio-lungo periodo una debolezza strutturale del sistema economico, che si va a sommare agli effetti della recessione economica causata dalla crisi finanziaria del 2008, terminata solo con la ripresa fatta segnare nel 2010. Una ripresa confermata dai tassi di crescita relativi al triennio 2010-12, rispettivamente del 2,4%, dell’1,7% e dell’1,6%, oltre che dalle positive previsioni di crescita per il prossimo quinquennio, stimate intorno al 2,5% e già superate dai ben più incoraggianti risultati dell’ultimo trimestre del 2013. La necessità di correggere in maniera organica i cronici passivi del bilancio federale è stata ed è tutt’ora al centro del dibattito politico statunitense, tanto nell’agenda di governo dell’amministrazione Obama, che già nel bilancio del 2011 ha inserito una serie di ingenti tagli alla spesa federale per il decennio successivo, quanto nel prolungato scontro tra repubblicani e democratici sui termini di una riforma generale della fiscalità americana e su quelli dell’innalzamento del tetto del debito pubblico federale.
Significativi segnali di ripresa sono evidenti anche nella bilancia commerciale statunitense, che – sebbene nel 2012 abbia fatto segnare un passivo pari a 568 miliardi di dollari, con le esportazioni equivalenti ancora solo al 13% del pil nazionale – si attesta in netta diminuzione (170 miliardi) rispetto all’anno precedente. Il mercato più importante per i prodotti esportati è il vicino Canada, anche per effetto dell’istituzione nel 1994 del Nafta. Sempre per effetto del medesimo accordo, il Messico è diventato il secondo partner commerciale per esportazioni e il terzo per importazioni. Primo paese d’origine per le merci importate è invece la Cina (quasi il 20% dell’import totale), dato che testimonia ulteriormente il livello di interdipendenza economica raggiunto da Washington e Pechino. Subito dopo, i più importanti paesi con cui gli Stati Uniti intrattengono rapporti commerciali sono il Giappone e, tra i paesi dell’Unione Europea, Germania e Regno Unito.
Per oltre settant’anni e fino al 2009 gli Stati Uniti sono stati il primo produttore e consumatore mondiale di energia al mondo. Dal 2010, tuttavia, il primato nei consumi è passato alla Cina. Gli Usa, divenuti negli ultimi anni il primo produttore al mondo di biocarburanti, sono ancora in larga parte dipendenti dai consumi di petrolio (36% del mix energetico nel 2011). La massima parte dei giacimenti petroliferi statunitensi è in fase di declino produttivo e, ai ritmi di estrazione del 2009 (circa 7 milioni di barili al giorno), le riserve del paese sono destinate a esaurirsi entro un decennio. Gli Stati Uniti rimangono comunque il terzo produttore di greggio al mondo (dietro all’Arabia Saudita e alla Russia) e il primo consumatore mondiale di tale risorsa energetica, con una percentuale del 20% circa sul totale della produzione. Le importazioni di greggio sono molto diversificate: nel 2010 più della metà proveniva da stati del continente americano, mentre meno del 20% giungeva dai paesi che si affacciano sul Golfo Persico. Per quanto riguarda il metano, seconda fonte di energia, le riserve accertate di gas convenzionale consentirebbero di estrarlo, ai ritmi attuali, per soli altri dodici anni. Nel 2009 gli Usa consumavano inoltre 647 Gmc/a, importando il necessario principalmente dal Canada. Tuttavia, dal 2007 le importazioni dall’estero registrano una netta diminuzione. Ciò è dovuto al che il sottosuolo nasconde vastissime riserve di gas non convenzionale (in prevalenza shale gas, gas intrappolato all’interno di rocce di scisto) che è divenuto conveniente liberare attraverso nuovi metodi di estrazione. Le riserve ammonterebbero ad oltre dieci volte quelle di gas convenzionale. Considerando l’accelerazione prevista nella sua produzione, a fronte degli ingenti investimenti già stanziati, quello che ci si attende dal futuro sfruttamento dello shale gas è un vero boom energetico, capace non solo di rendere gli Usa autosufficienti dal punto di vista energetico, ma anche di trasformarli in un esportatore netto. Sebbene permangano alcuni nodi ambientali (dall’ingente utilizzo di acqua durante la fase estrattiva, all’alta tossicità dei composti chimici utilizzati per fratturare le rocce e liberare il gas racchiuso), gli addetti ai lavori, e non solo, considerano la bilancia tra i rischi geologici e il ritorno economico atteso in attivo.
Gli Stati Uniti dispongono di ingenti riserve di carbone, sufficienti per più di due secoli agli attuali livelli di produzione. Il paese, secondo produttore al mondo (dopo la Cina), ne è esportatore, mentre destina circa il 90% dei consumi interni di carbone alla generazione di energia elettrica. Quasi un quarto dell’elettricità prodotta dagli Stati Uniti è generata tramite impianti nucleari. Gli Stati Uniti sono il primo produttore al mondo di elettricità da nucleare (intorno al 30% della generazione mondiale), attraverso 65 impianti che nel 2011 ospitavano 104 reattori funzionanti. Sotto il profilo della conservazione ambientale, l’Agenzia federale per la protezione dell’ambiente (Epa) è stata fondata nel 1970 e ha allargato le sue competenze fino a giungere a impiegare più di 17.000 persone. La legislazione ambientale federale ha preso le mosse dalla fine degli anni Quaranta e ha conosciuto un notevole sviluppo, soprattutto a partire dagli anni Settanta.
Molti sono i problemi che restano ancora irrisolti: oltre alle preoccupazioni per lo sfruttamento dei giacimenti di gas non convenzionale, si devono registrare i maggiori rischi legati all’estrazione di petrolio da giacimenti in acque profonde rispetto a quella da pozzi tradizionali, come confermato dal grave incidente alla piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum, che tra aprile e luglio del 2010 ha provocato lo sversamento nel Golfo del Messico di quasi 5 milioni di barili di petrolio. Completano il quadro dei problemi ambientali l’alto utilizzo di fertilizzanti, che causa la dispersione di molti agenti chimici nell’aria e nel suolo, la deforestazione, che ha già privato gli Stati Uniti di circa un quarto della loro originaria copertura boschiva e, infine, gli alti livelli di anidride carbonica emessi. Benché gli Stati Uniti siano al secondo posto per emissioni di CO2, dopo la Cina, è da sottolineare come il livello, dopo un notevole incremento durato tutto l’arco del Novecento, si sia stabilizzato nell’ultimo decennio e abbia segnato una contrazione di quasi il 10% tra il 2007 e il 2009, a seguito della crisi produttiva legata alla recessione economica.
La sfera militare è quella in cui la supremazia degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo e ai suoi potenziali competitori si fa più netta. Se si esclude la dimensione numerica, rispetto alla quale l’esercito della Repubblica Popolare Cinese supera i numeri del personale militare attivo negli Usa (rispettivamente quasi 2,3 milioni contro poco più di un milione e mezzo), tutti gli altri indicatori evidenziano come nelle mani del Pentagono si concentri una quantità di risorse militari senza eguali, spesso in grado di bilanciare anche i dati aggregati relativi alle altre grandi potenze internazionali: dalla spesa miliare assoluta, passando alla composizione della flotta aerea e di quella navale, agli equipaggiamenti e alle dotazioni dell’esercito, e ancora alle spese per la ricerca militare, al numero di satelliti dislocati nello spazio o alle dotazioni di armi nucleari e di vettori strategici.
A questo primato, di natura quantitativa, va poi aggiunto anche quello di tipo qualitativo, che attiene dunque al tipo di risorse a disposizione: la difesa statunitense è l’unica ad aver compiuto un processo di radicale modernizzazione tecnologica, conosciuto come ‘Rivoluzione degli affari militari’ (Rma). Grazie allo sviluppo dei più moderni satelliti di riconoscimento e comunicazione e all’impiego della migliore tecnologia elettronica, il Pentagono ha raggiunto una capacità operativa unica al mondo, specie per ciò che riguarda i processi di raccolta, elaborazione e smistamento delle informazioni, il coordinamento tra i centri decisionali e le unità operative e ancora il comando a distanza di armi ad alta precisione e l’identificazione di bersagli. Al più tradizionale dominio del mare e dell’aria, garantito dal possesso di una marina e un’aviazione senza pari – che possono contare su una serie di basi militari dislocate in numerosi punti strategici nel pianeta –, si aggiunge inoltre anche una netta supremazia nello spazio extraterrestre, conseguita grazie al maggior network di satelliti a livello mondiale. Il ‘Full Spectrum Dominance’, da intendersi come insieme di deterrenza, controllo e capacità di proiezione militare unilaterale in tutti i possibili campi di battaglia (non solo terra, aria, mare, ma anche spazio e reti informatiche), è il concetto strategico che esprime la volontà statunitense di conseguire e mantenere una tale superiorità, elaborato nelle dottrine militari adottate dagli strateghi del Pentagono dall’inizio dell’era unipolare. A un apparato di difesa tanto esteso e tecnologizzato corrispondono spese e costi elevatissimi che, seppur diminuiti percentualmente rispetto agli anni della Guerra fredda e finiti sotto un’ingente revisione dal 2011 in avanti, rimangono di gran lunga i più alti al mondo. Gli ultimi vent’anni di unipolarismo hanno d’altra parte coinciso con un ricorso molto frequente allo strumento militare da parte degli Usa. Ciò testimonia come il potere internazionale statunitense sia fondato anche sulla possibilità di impiego della forza e quindi sulla necessità di mantenere inalterata la superiorità dell’apparato militare. Le priorità strategiche della difesa sotto la presidenza Obama si confermano in continuità con quelle delle due precedenti amministrazioni repubblicane. La guerra in Afghanistan, in primis, nella quale proprio Obama nel 2009 ha voluto coinvolgere ulteriori 30.000 soldati per intensificare le operazioni contro le roccaforti dei talebani e porre condizioni più favorevoli per un’exit strategy, fissata tra il 2014 e il 2015. Dopo due anni, soprattutto a seguito dell’uccisione di Osama Bin Landen nel maggio 2011, Obama ha poi proceduto a ritirare interamente i soldati ‘eccedenti’ del surge, riportando così il numero delle truppe ai livelli del 2008. La lotta alle reti del terrorismo globale, se da una parte continua a essere prioritaria per il Pentagono, dall’altro sembra declinarsi in maniera meno ideologica. L’amministrazione Obama, specialmente in un’ottica di contenimento dei costi, ha privilegiato l’uso dei droni (velivoli senza pilota) per colpire esponenti di al-Qaida, soprattutto al confine tra Afghanistan e Pakistan, in Somalia e nello Yemen.
In terzo luogo vanno segnalati le novità strategiche connesse agli aspetti militari del Pacific pivot, e quindi quell’opera di revisione, voluta da Obama, del posizionamento delle forze armate statunitensi nel mondo: un ripensamento che non è escluso possa registrare, a fronte dell’aumento della presenza e della cooperazione nella regione pacifica, un corrispondente disinvestimento in altri teatri, come il Medio Oriente e l’Europa.
Oltre che sulle proprie capacità, la difesa americana può contare su una complessa rete di partnership e alleanze che rispecchiano il carattere globale degli interessi statunitensi. La Nato, innanzi tutto, è la principale alleanza di difesa di cui Washington fa parte e al cui interno è netta la sua predominanza tanto dal punto di vista delle risorse messe a disposizione dell’organizzazione, quanto da quello della capacità di influenzarne e determinarne le decisioni e le attività. Oltre che con gli altri 27 membri dell’Alleanza atlantica, gli Stati Uniti hanno stretto molte altre alleanze formali con diversi paesi sudamericani. Hanno poi legami consolidati con il Giappone, la Corea del Sud, le Filippine, la Thailandia, l’Australia, la Liberia e alcuni piccoli stati del Pacifico. Con molti paesi esiste una forte partnership politica e militare, che ricade nella categoria di ‘Major non-Nato Allies’ (Mnna), istituita alla fine degli anni Ottanta per facilitare la fornitura e la vendita di armi e tecnologie militari a quegli stati che vengono riconosciuti come partner strategici nelle iniziative della difesa statunitense. Sono paesi Mnna Egitto, Israele, Australia, Corea del Sud (1989), a cui sono seguiti Giordania, Nuova Zelanda, Argentina – designati dall’amministrazione Clinton (1996-97) e infine Pakistan, Marocco, Bahrain, Thailandia, Filippine e Kuwait (2003-04), tutti impegnati a supporto della lotta contro il terrorismo globale lanciata da Bush. Alle tante partnership militari corrispondono in genere notevoli flussi di esportazioni di armi, destinate d’altra parte anche a numerosi altri paesi, con cui pure non esistono alleanze bilaterali, e regolate dall’Arms Export Control Act del 1976, che dà al presidente l’autorità di controllare il commercio di prodotti e attrezzature di difesa. L’industria bellica statunitense è di gran lunga prima nel mondo per produzione ed export.
L’elezione del nuovo premier iraniano Hassan Rohani, figura più moderata rispetto a Mahmoud Ahmadinejad, ha aperto una finestra di opportunità nei rapporti tra Teheran e il mondo occidentale che l’amministrazione Obama non ha mancato di sfruttare. Il primo risultato è andato in scena il 24 novembre 2013 a Ginevra, con la firma di uno storico accordo, seppur ancora provvisorio e temporaneo, sul programma nucleare iraniano. I termini dell’intesa raggiunta vedono la Repubblica Islamica impegnarsi a non arricchire altro uranio oltre il 5%, a neutralizzare le scorte di quello già arricchito al 20% e a bloccare l’installazione di altre nuove centrifughe, permettendo al contempo le visite degli ispettori dell’IAEA. In cambio il cosiddetto Gruppo dei 5 + 1 (i membri permanenti dell’UN, più la Germania) alleggerirà le sanzioni economiche contro Teheran, senza approvarne di nuove e sbloccando 4,2 miliardi di dollari di proventi petroliferi attualmente congelati in banche estere. Sebbene la prudenza domini e non manchino già divergenze sulla stessa interpretazione del testo siglato (per esempio sul riconoscimento del diritto dell’Iran all’arricchimento), l’accordo ha una potenziale portata storica e apre uno scenario radicalmente nuovo sulla scena mediorientale, segnando la fine dell’isolamento dell’Iran e sancendo di fatto l’inizio di una nuova stagione nelle relazioni tra Teheran e Washington, ufficialmente interrotte dal 1979. Per gli statunitensi, in caso di successo finale e quindi di definitiva rinuncia iraniana al nucleare militare, sarebbe il colpo più riuscito sul versante diplomatico negli ultimi anni, anche al netto delle ricadute negative che potrebbe produrre sui tradizionali rapporti di alleanza nella regione. Ne è segno il gelo calato sull’alleanza speciale con Israele, che già si è opposto in tutti i modi a questa intesa, richiamando il precedente nordcoreano e quindi ammonendo le diplomazie occidentali rispetto al rischio di un bluff da parte di Teheran. Si è anche indebolito il patto di ferro con i Sauditi, che osteggiano qualsiasi riabilitazione internazionale del rivale sciita. Il patto con le monarchie petrolifere sunnite, d’altra parte, nel prossimo futuro potrebbe essere sempre meno indispensabile agli USA, grazie alle prospettive di indipendenza energetica che si sono aperte per Washington con le nuove opportunità estrattive del gas non convenzionale.
Il concetto di soft power si è ormai affermato tanto nella teoria delle relazioni internazionali quanto nella pratica del linguaggio politico quotidiano: fu coniato nel 1990 da Joseph Nye, professore statunitense d’ispirazione liberale, per indicare che la potenza di un attore internazionale non si compone solo dei più tradizionali aspetti materiali, come quelli rappresentati dalle risorse economiche e militari a sua disposizione, ma anche di quelli immateriali, legati per esempio alla cultura e agli ideali che questa incarna. Letteralmente ‘potere morbido’, il soft power diventa capacità di saper spingere gli altri attori a tenere condotte conformi ai desideri di chi lo possiede, in virtù della forza attrattiva dei suoi valori, dei suoi modelli culturali e delle sue pratiche politiche, senza il bisogno di impiegare né la forza, né puntuali incentivi economici. In altre parole, seduzione al posto di coercizione e ricompensa, o ancora influenza contro ‘bastoni e carote’. In questo senso il concetto fu riutilizzato da Nye, all’indomani del lancio della guerra al terrorismo globale nel 2001, come un esplicito monito rivolto ai suoi connazionali e all’allora amministrazione Bush. Il soft power di un soggetto, infatti, trae linfa vitale dalla legittimità delle sue azioni e per questo motivo il professore di Harvard poteva denunciare come la scelta di un corso di politica estera unilaterale da parte di Washington – spesso in deroga al diritto internazionale e all’avallo delle organizzazioni multilaterali – avrebbe potuto dilapidare la credibilità, il favore e l’ammirazione accumulati dagli USA, nel primo decennio post Guerra fredda, presso buona parte dell’opinione pubblica mondiale.
Lanciato a cavallo tra il 2011 e il 2012, il cosiddetto ‘pivot verso il Pacifico’ (detto anche riequilibrio verso l’Asia) rappresenta la strategia americana che vede gli USA impegnati nel rafforzamento del loro ruolo e del peso nella regione dell’Asia-Pacifico. Un rafforzamento multidimensionale che, seguendo uno schema tracciato da Hillary Clinton in un articolo emblematicamente intitolato America’s Pacific Century, dovrebbe declinarsi nei prossimi decenni in un maggiore investimento diplomatico, economico e militare nella regione, oltre che nell’approfondimento delle partnerships asiatiche degli USA, tanto quelle tradizionali quanto quelle più recenti. Nonostante la presenza statunitense in questo teatro non rappresenti affatto una novità, ma sia piuttosto una costante della politica estera di Washington dal 1945 in avanti, l’enfasi accordata al lancio di questa strategia, tramite una serie di iniziative di alto profilo (viaggi, discorsi e documenti da parte del presidente o di altri importanti membri dell’amministrazione), autorizza a considerarla la principale novità strategica della presidenza Obama. Si consideri come abbia coinciso con la fine delle concomitanti missioni in Iraq e Afghanistan e quindi idealmente chiuda con la centralità del Grande Medio Oriente nell’orizzonte strategico americano, per assegnarla invece alla regione dell’Asia-Pacifico. Non a caso si tratta della regione che tutti i principali indicatori individuano come il nuovo vero motore della crescita economica mondiale e dove si registra l’emergere di una potenza come la Cina, da più parti indicata come l’unico accreditato potenziale sfidante per l’egemonia statunitense. Rispetto alla Cina, il nuovo pivot opera in evidente funzione di contenimento. Sebbene fino a ora lo shift strategico verso l’Asia sia stato più superficiale e dibattuto che effettivamente messo in pratica, una prima serie di iniziative sembra incasellarsi in maniera coerente con i suoi obiettivi dichiarati. In primis un incremento dell’attività diplomatica nella regione, esemplificato nell’accesso di Washington all’East Asia Summit e nella forte promozione, presso suoi tradizionali partner (Giappone, Corea del Sud e Australia), di una maggiore cooperazione regionale. In ambito economico vanno poi registrate, a livello bilaterale, la definitiva stipulazione con Seoul di un accordo di libero scambio, e a livello multilaterale l’intensificazione dei negoziati della Trans-Pacific Partnership, un progetto di liberalizzazione commerciale, fortemente sponsorizzato dagli USA, che al momento conta la partecipazione di ben dodici nazioni tra le due sponde del Pacifico e che non coinvolge la Cina. In terzo luogo, nella sfera militare, sono da segnalare tanto il rafforzamento delle intese e delle attività militari con due storici alleati come Giappone e Australia (ma anche con Singapore, rispetto a un maggiore dispiegamento navale americano), quanto l’avvio di negoziati per estendere il campo della cooperazione di sicurezza sia con partner più datati come le Filippine, la Nuova Zelanda e la Thailandia, sia con partner più recenti come l’Indonesia e il Vietnam. Gli ultimi documenti di pianificazione strategica americana, inoltre, confermano in diversi punti la centralità di questa strategia e di questa regione: dal rafforzamento della marina, fondamentale per la proiezione di potenza nel teatro pacifico, a fronte invece di un disinvestimento dall’esercito e dall’aviazione; all’ampliamento della presenza e delle funzioni della base americana di Guam, centrale nello scacchiere dell’Asia sudorientale; all’investimento, infine, in tutte quelle tecnologie in grado di contrastare la cosiddetta strategia anti-accesso cinese, su cui Pechino ha indirizzato il programma di modernizzazione del suo settore di difesa.
Il 23 marzo del 2010 il Congresso ha approvato la storica riforma del sistema sanitario statunitense.
L’azione riformatrice in questo campo del welfare, tentata nella storia più volte da altri presidenti ma fallita sempre prima del 2010, era una delle sfide maggiori che Barack Obama aveva lanciato nel corso della sua campagna elettorale. I suoi aspetti più innovativi riguardano prima di tutto le polizze assicurative, dal momento che si vieta alle assicurazioni di rescindere la polizza in caso di malattie del paziente, si eliminano i tetti massimi di spesa entro i quali scatta il risarcimento assicurativo e si rende illegale la pratica di non assicurare bambini, sulla base di malattie preesistenti. La riforma, inoltre, estende il numero delle persone assistite dal programma federale sanitario Medicaid, previsto per le famiglie a basso reddito, e stanzia degli incentivi per le piccole imprese affinché provvedano ad assicurare i loro dipendenti. La sua effettiva entrata in vigore, in calendario per l’ottobre del 2013, ha registrato una pesante battuta d’arresto, dal momento che il sito web a essa collegato (Healthcare.gov), tramite cui gli utenti avrebbero dovuto poter scegliere una polizza, conoscendo l’ammontare degli aiuti finanziari pubblici previsti per la loro fascia di reddito, è andato in tilt per problemi tecnici. Il disastroso fallimento del lancio della riforma, così atteso, non solo è costato un suo ulteriore rinvio, ma ha anche rinfocolato lo scontro politico sulla questione su cui Obama e il Partito democratico si stanno giocando una buona fetta di credibilità, e che continua a restare il principale tema di trincea dell’opposizione politica dei repubblicani.
1989-1990, Panamá: nell’ambito dell’operazione Just Cause, truppe statunitensi invadono Panamá per catturare il generale e dittatore panamense Manuel Noriega.
1991, Prima guerra del Golfo: con la missione Desert Storm gli Stati Uniti, sotto mandato delle Nazioni Unite e alla testa di un’ampia coalizione di stati, invadono l’Iraq di Saddam Hussein per costringerlo a ritirarsi dal Kuwait.
1991-1996, Iraq: nell’operazione Provide Comfort, gli Stati Uniti e gli alleati nella Guerra del Golfo si pongono a difesa della comunità curda irachena contro eventuali ritorsioni del regime di Saddam Hussein.
1992-2003, Iraq: le due operazioni Northern Watch e Southern Watch, promosse da Stati Uniti e Regno Unito, impongono una no fly zone sui territori del Kurdistan iracheno e su quelli a maggioranza sciita, nel Sud dell’Iraq. Nell’ambito di tali operazioni vengono effettuati anche bombardamenti.
1992-1995, Somalia: l’operazione Restore Hope vede la presenza di truppe statunitensi nell’ambito della guerra civile somala e in risposta a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’operazione termina nel maggio del 1993, ma le truppe di Washington restano nel paese nell’ambito della successiva missione UNOSOMII (United Nations Operation in Somalia).
1994-1995, Haiti: con la missione Uphold Democracy, navi della marina statunitense impongono un embargo contro Haiti e oltre 20.000 soldati depongono la giunta militare, al potere da tre anni.
1995, Bosnia: con l’operazione Deliberate Force la NATO, sotto spinta statunitense, bombarda le postazioni dei serbo-bosniaci nel contesto della guerra civile in Bosnia-Erzegovina.
1998, Iraq: forze aeree statunitensi bombardano per quattro giorni obiettivi iracheni, nell’ambito dell’operazione Desert Fox.
1998, Afghanistan e Sudan: in risposta agli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, gli USA lanciano l’operazione Infinite Reach, nell’ambito della quale bombardano sospetti campi di addestramento di al-Qaida in Afghanistan e un sito ritenuto la sede di una fabbrica di armi chimiche nel Sudan.
1999, Serbia: bombardamenti NATO contro la Serbia durante il conflitto in Kosovo.
2001, Guerra in Afghanistan: dopo l’attacco terroristico subito l’11 settembre alle Twin Towers, gli Stati Uniti entrano in guerra (con l’avallo delle Nazioni Unite) contro il regime talebano in Afghanistan (operazione Enduring Freedom), colpevole di protegge i terroristi della rete di al-Qaida. Nell’ambito delle operazioni militari in Afghanistan, dal 2004 Washington ha effettuato diversi attacchi in territorio pakistano con i droni, ai danni di sospetti obiettivi talebani. Moltissime le vittime civili.
2003-10, Seconda guerra del Golfo: Gli Stati Uniti guidano una cosiddetta coalizione di volenterosi (composta principalmente da Regno Unito, Australia e Polonia e con il contributo minore di diversi altri alleati statunitensi) contro l’Iraq di Saddam Hussein.
2011, Libia: per effetto della risoluzione numero 1973 delle Nazioni Unite viene lanciata l’operazione Odyssey Dawn, sotto cornice NATO ma guidata principalmente da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, per l’imposizione di una no fly zone sullo spazio aereo libico e la distruzione di obiettivi militari delle forze del colonnello Mu’ammar Gheddafi.
Nonostante l’ampio margine di vantaggio (332 voti presidenziali contro 206 e il 51,1% del voto popolare contro il 47,2%) che nel novembre 2012 ne ha assicurato la rielezione contro lo sfidante repubblicano Mitt Romney, il 2013 è stato un anno complesso per Barack Obama. La prevedibile ostilità della Camera dei rappresentanti (a maggioranza repubblicana), da una parte ha costretto il presidente a rivedere le sue priorità riguardo alla nomina dei responsabili di alcune posizioni chiave dell’amministrazione (ad esempio, quella al Dipartimento di stato dell’ex ambasciatore alle Nazioni Unite e ora consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice), dall’altra ha obbligato i candidati a sottostare a procedure di conferma talora lunghe e travagliate, come accaduto per il nuovo segretario alla difesa, Chuck Hagel. Essa ha inoltre condizionato l’azione dell’esecutivo sia sul piano interno, sia su quello internazionale, accentuando il tratto ondivago di certe scelte ed enfatizzando il senso di incertezza dimostrato in alcune occasioni.
Per impatto mediatico e ricadute complessive, il passaggio più eclatante del confronto fra presidente e Congresso è stato, senza dubbio, il mancato accordo sul tetto del deficit federale, che fra il 1° e il 16 ottobre ha portato alla sospensione delle attività correnti dell’amministrazione pubblica. La vicenda – in parte legata alle controversie sull’applicazione della legge di riforma del sistema sanitario (Affordable Care Act, 2010) – ha rappresentato il culmine di un braccio di ferro che si prolungava da oltre tre anni, e si è chiusa definitivamente in dicembre, con la stipula del ‘Ryan-Murray Budget Deal’, dopo che un accordo transitorio (Reid-McConnell Bill) aveva permesso, il 17 ottobre, il riavvio della macchina pubblica. Gli effetti della vicenda sulle prossime elezioni di medio termine (novembre 2014) rischiano, tuttavia, di essere rilevanti e di trasformarsi in un boomerang politico soprattutto per i destini dei candidati repubblicani, percepiti da una larga fetta dell’opinione pubblica come i primi responsabili dello shutdown.
Le scelte internazionali dell’amministrazione sono state fonte di altre difficoltà. In particolare, intorno al ruolo degli Stati Uniti nella crisi siriana si è assistito – nella fasi di maggiore tensione, fra la fine di agosto e gli inizi di settembre – al delinearsi di un inedito avvicinamento fra esponenti del cosiddetto ‘interventismo umanitario’ e componenti repubblicane e neo-conservatrici favorevoli a un’azione armata in funzione anti-Assad. Agli occhi dei suoi critici, questa convergenza avrebbe messo in luce la posizione ambigua dell’amministrazione sia rispetto al problema dei futuri assetti mediorientali, sia rispetto a quello (assai sensibile per il presidente e il suo entourage) della tutela dei diritti umani. Su questo punto, sono da rilevare le prese di posizione del vicepresidente Biden (che sul tema ha spesso assunto una condotta solo in parte allineata a quella di Obama), che anche di recente ha sottolineato la necessità di un intervento deciso da parte degli Stati Uniti davanti all’uso ‘indubbio’ di armi chimiche da parte del governo di Damasco.
Anche in questo ambito, tuttavia, la prospettiva delle prossime elezioni di medio termine sembra avere contribuito a favorire un riallineamento delle posizioni. L’appuntamento elettorale, infatti, ha già avviato un processo di ‘convergenza verso il centro’ sia all’interno dello schieramento repubblicano, sia all’interno di quello democratico, di cui il già citato ‘Ryan-Murray Budget Deal’ costituisce, in larga misura, il frutto. La stessa amministrazione sembra, negli ultimi mesi, essersi adeguata a questa dinamica e – pur senza abbandonare alcuni dei tradizionali cavalli di battaglia democratici (in primo luogo la difesa del sinora problematico programma ‘Obamacare’) – avere scelto di declinare il proprio ruolo in forme più consensuali, così da intercettare, oltre ai voti del proprio bacino di riferimento, quelli ‘liberati’ dell’elettorato repubblicano moderato, preoccupato da ciò che percepisce come l’irrigidimento dogmatico del Grand Old Party e dal peso assunto, in seno a quest’ultimo, dalle frange estreme legate al movimento del Tea Party.
Le possibilità di successo di questa strategia restano da valutare. La politica ‘del bastone e della carota’ adottata nei confronti di Teheran dopo la firma a Ginevra, il 24 novembre, dell’accordo provvisorio sul nucleare iraniano potrebbe esserne parte; lo stesso vale per quello che appare il rinnovato interesse dell’amministrazione per le vicende siriane. In un caso e nell’altro, tuttavia, le scelte di Obama non sono sfuggite a critiche da parte dello stesso establishment democratico, che ra apparso profondamente diviso già all’epoca delle primarie che, nel 2009, ne avevano fatto il candidato del partito alla successione di George W. Bush. Ancora una volta, le dinamiche politiche, a Washington, sembrano dunque sfuggire a facili categorizzazioni. Ciò che sembra certo è invece il perdurare, almeno fino alla prossima prova elettorale, di una situazione di incertezza che potrà essere forse sbloccata, da una parte, dall’insediamento del nuovo Congresso, dall’altra dall’avvio della corsa che porterà, nel 2016, alle nuove elezioni presidenziali.