Stato, Chiesa, questione sociale
Tutti ricordano la famosa battuta di Massimo d’Azeglio: ora che è fatta l’Italia, occorre fare gli italiani. Ma, formatosi lo Stato nazionale, il primo problema da affrontare era quello di riformare, o costituire ex novo, i nuovi ‘organismi’ ‒ a cominciare da quelli culturali e scientifici ‒ entro i quali avrebbe dovuto scorrere la vita dello Stato unitario.
Di questo era consapevolissimo Francesco De Sanctis, il quale nel 1860 – nominato direttore dell’Istruzione ‒ iniziò subito a riformare l’Università di Napoli, chiamandovi personalità di primissimo piano come, tra gli altri, Bertrando Spaventa (che diede avvio al suo insegnamento con la famosa prolusione del 1861), Paolo Emilio Imbriani, Luigi Settembrini.
Una riforma radicale, destinata a dare frutti. Né si trattava per De Sanctis di un impegno eccezionale o estemporaneo: nel 1861, nominato da Camillo Benso di Cavour ministro della Pubblica istruzione, si impegnò a fondo in questo incarico e nel 1878, per iniziativa di Benedetto Cairoli, riassunse nuovamente la direzione di quel dicastero, facendo varare dal Parlamento riforme di grande importanza e contribuendo a promuovere iniziative scientifiche di altissimo rilievo. Il primo volume dell’Edizione nazionale delle opere di Giordano Bruno, pubblicato nel 1879 e curato da Francesco Fiorentino, è dedicato «a Francesco De Sanctis che, scrittore e ministro, non si è mai dimenticato di Giordano Bruno».
Ma proprio quella pubblicazione – e il nome del suo curatore ‒ contribuisce a gettare luce su un altro problema che coinvolse direttamente i maggiori esponenti della classe dirigente del nuovo Stato, a cominciare, in modo speciale, dai filosofi. Detto in termini essenziali: costituito lo Stato nazionale, si trattava di individuare il fondamento sul quale esso doveva poggiare, l’ethos che si doveva incarnare nei suoi istituti e, in generale, nella vita civile e spirituale dell’Italia. E questo non poteva non implicare uno scontro diretto, e frontale, con la Chiesa di Roma e con i valori dei quali essa era stata, e continuava a essere, custode.
La discussione esplosa intorno a Bruno, proprio negli anni in cui cominciava a essere pubblicata l’edizione delle sue opere, era un momento centrale di questo scontro, come testimoniano con chiarezza, da un lato, le prese di posizione dei maggiori rappresentanti dell’Italia ‘laica’ (a cominciare da Spaventa e da Antonio Labriola), dall’altro, le reazioni di autorevoli esponenti della Chiesa di Roma contro quella che venne chiamata la «brunomania», di cui si comprendevano, oltre a quelle politiche, le implicazioni ideologiche e perfino religiose. Proprio il monumento a Giordano Bruno eretto in Campo de’ Fiori e inaugurato il 9 giugno del 1889 fu l’occasione di durissime prese di posizione da entrambe le parti.
Il gran moto che è nato in Italia intorno al nome di Giordano Bruno, e le solenni commemorazioni che ne furono fatte con grande concordia di sentimenti, sono segno sicuro di quanto sia potente nell’animo dei giovani il pensiero antichiesastico
scrive Labriola il 27 aprile 1888 al Comitato universitario di Pisa per le onoranze a Bruno (A. Labriola, Scritti politici 1866-1904, a cura di V. Gerratana, 1970, p. 155).
Come si vede sia dal carattere degli interlocutori sia delle sedi in cui si sviluppava il dibattito, non si trattava di una questione solamente filosofica, o strettamente scientifica: erano infatti in discussione il fondamento etico e la fisionomia spirituale del nuovo Stato, che i più eminenti rappresentanti della nuova classe dirigente volevano al passo dei tempi ‘moderni’ ‒ cioè coerente con le più avanzate correnti spirituali e scientifiche contemporanee, in contrasto con le posizioni della Chiesa romana. La presa di Roma nel 1871 ‒ e il trasferimento della capitale del Regno da Firenze alla ‘città eterna’ ‒ acutizzò al massimo i contrasti, e fu l’occasione di un’appassionata discussione sulla nuova missione di Roma come centro mondiale della scienza, in aperto contrasto con la Chiesa:
Noblesse oblige; e in Roma vi è un formidabile retaggio di nobiltà. Io non so esprimere quello che sento in me davanti a questo nome. Non è soltanto per portarvi dei travet che siamo venuti in Roma. […] Io sono certo che in fondo dei vostri animi vi sono pensieri assai più elevati.
Così dice Quintino Sella il 21 giugno del 1876, e il 19 ottobre 1880, precisando ulteriormente il suo pensiero, ribadisce:
La lotta per la verità contro l’ignoranza, contro il pregiudizio e contro l’errore, suscita la stessa unanimità che si trova nei giorni di combattimento per la difesa della patria (cit. in F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, 1° vol., 1965, pp. 230-31).
Si capisce che, in questo contesto – nel quale si intrecciavano, in modo profondo, motivi spirituali e problemi politici ‒, fosse centrale la questione della libertà della scienza, cui era strettamente connesso il problema della libertà dell’insegnamento.
Si trattava di una questione assai grave, che aveva accompagnato, fin dall’inizio, il processo di formazione dello Stato unitario, coinvolgendo filosofi e intellettuali di primo piano come Spaventa, uno dei protagonisti in quel periodo – e va sottolineato, per cogliere l’intreccio dei problemi ‒ della fortuna di Bruno. Discutendo nel 1851 – in una situazione quindi assai diversa ‒ «con due nobili paladini del libero insegnamento ad ogni costo», egli sostiene, con forte realismo, di volere la libertà; «ma la cosa, non il nome vano».
Noi – scrive ‒ vogliamo la libertà assoluta in tutte le sfere di sviluppamento dell’individuo; noi stimiamo che, essendo essa riposta nella essenza stessa dello spirito, che è pur cosa divina, anzi la divinità stessa nella coscienza umana, restringerla in qualunque maniera è il medesimo che attentare alla maestà di Dio (B. Spaventa, La libertà d’insegnamento. Una polemica di settant’anni fa, introduzione, appendice e note di G. Gentile, 1920, p. 45).
Ma, ribadito questo, che per lui era un punto centrale, subito precisa, mettendo a fuoco le differenze insuperabili con i suoi interlocutori:
Voi volete la libertà d’insegnamento; noi la libertà d’insegnamento, la libertà di religione, la libertà di culto e la libertà di coscienza. Voi la libertà d’insegnamento; noi la libertà d’insegnamento e l’uguaglianza, fondamento di libertà. Voi la libertà di insegnamento come effetto; noi la libertà d’insegnamento come effetto, e l’uguaglianza come cagione. Voi la libertà equivoca, noi la libertà sincera (p. 79).
È, come si è detto, un testo del 1851; ma il problema resta aperto, anzi si inasprisce con la costituzione dello Stato nazionale e la necessità di individuare un fondamento etico-politico e anche religioso del nuovo Stato alternativo alla Chiesa cattolica. Questo è, in effetti, l’avversario che già allora spinge Spaventa a considerare con attenzione il problema della libertà d’insegnamento, guardando alla sostanza della cosa, senza
conceder piazza franca a un nemico protetto dalle leggi che lo mantengono in posizione privilegiata, a un nemico implacabile, contro il quale non vi ponno valere né le armi della ragione, né lo schermo della coscienza, né le voci della natura, perché ei condanna la ragione come ribelle, tiene le coscienze degli uomini come suddite, e le rifiuta come natura corrotta (B. Spaventa, La libertà d’insegnamento. Una polemica di settant’anni fa, cit., p. 61).
Sono temi e problemi che attraversano a lungo tutta la vita dello Stato nazionale – da Spaventa a Giovanni Gentile, che ne ripubblica gli articoli, settant’anni dopo, nella collana La nostra scuola di Ernesto Codignola, considerandoli ancora attuali e utili per la sua battaglia ‘riformatrice’ iniziata ai primi del Novecento.
Una verifica dell’attualità del tema è costituita dal discorso tenuto da Labriola il 14 novembre del 1896 su L’università e la libertà della scienza, in una situazione ormai assai diversa da quella in cui Spaventa aveva scritto i suoi articoli. Per quanto misurato nelle parole, Labriola aveva rivendicato energicamente la «libertà incondizionata» della ricerca come un frutto diretto della scienza moderna, sottolineando che «l’università […] è essa stessa un riflesso ed un risultato della vita sociale» e che la scienza non può mai diventare «un ente politico, un attributo burocratico, o una funzione diretta del governo»; e aveva criticato il fatto che negli ultimi tre anni la «libertà scientifica dell’insegnamento» fosse «di nuovo diventata argomento, non di critica soltanto, ma di sfiducia e di sospetto» (A. Labriola, L’università e la libertà della scienza, 1968, pp. 24-25, 27, 31).
Tutti argomenti che toccavano nervi scoperti del nuovo Stato, come è dimostrato dalla reazione del ministro della Pubblica istruzione, Emanuele Gianturco, il quale ammonì subito Labriola per alcune frasi contenute nel suo discorso. Né si sarebbe dovuto aspettare molto per capire cosa si stesse muovendo nel profondo della società italiana: di lì a due anni ‒ nel 1898 ‒ sarebbero esplose prima le agitazioni in Puglia, poi i moti di Milano, innescando una serie di durissime reazioni da parte del governo, da cui sarebbe infine scaturita una profonda svolta nella vita del Paese con la costituzione del governo Zanardelli e Giovanni Giolitti al ministero degli Interni.
Quella che era infine risalita in superficie era la ‘questione sociale’, di cui la ‘questione meridionale’ era parte integrante. Ma è interessante rilevare ‒ anche qui a testimonianza di un carattere strutturale della ‘tradizione’ italiana ‒ che sia stato proprio un eminente storico, un notevole pensatore ‒ Pasquale Villari (destinato anche lui a diventare nel 1891, come De Sanctis, ministro della Pubblica istruzione) ‒ a sottolinearne con forza il rilievo fin dagli anni Settanta, pubblicando le Lettere meridionali:
La questione sociale – aveva scritto ‒ piglia forme diverse nei popoli diversi. In Italia essa è principalmente una questione agraria […]. Non ci parlate di progresso, di libertà, di produzione aumentata. Noi vi inciteremmo a cercare le province più civili d’Italia. Trovereste nelle pianure lombarde la terra fertile, l’irrigazione ammirabile, l’agricoltura eccellente, i prodotti ricchissimi, e il contadino ripiegato dalla fatica, consumato dagli stenti, assalito dalla febbre e dalla pellagra, cacciato nell’ospedale dei pazzi (P. Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, 1878, 18852, p. 315).
È qui che affondano le radici della protesta sociale che attraversa il Paese, sfociando nella costituzione, nel 1895, del Partito socialista italiano e nella presenza, per la prima volta, di un forte e originale orientamento filosofico di tipo marxista in Italia, di cui proprio Labriola fu il massimo rappresentante. Autore di quattro Saggi sul pensiero di Karl Marx eccezionali per acutezza e profondità, al passo della ricerca europea più avanzata, Labriola si sforzò, in ogni modo, di realizzare – ed è questo il punto essenziale ‒ un nesso organico tra socialismo e marxismo, mantenendo un atteggiamento critico anche nei confronti dello stesso Marx. Fu ‘sconfitto’, come in genere si ripete quando si fa riferimento alla sua esperienza; ma, come riconobbe lo stesso Benedetto Croce ‒ che se ne considerava, al tempo stesso, scolaro e ‘superatore’ (gli dedicò Materialismo storico ed economia marxistica, uscito nel 1900) ‒, sia il suo insegnamento che, in genere, il marxismo lasciarono una traccia assai profonda nella cultura e nella società italiana: era stato il «socialismo marxistico» a consegnare al passato, «in Europa e in Italia», il «socialismo egalitario ed ottimistico»; a contenere «ogni conato di reazione»; a porre un freno alle guerre europee; a favorire la legislazione del lavoro; a migliorare la vita della classe operaia, elevandone anche il livello intellettuale; a contribuire «al risveglio filosofico e alla eliminazione del goffo positivismo», intensificando «gli studi e la cultura economica» e guardando «in modo nuovo alcune parti della storia» (B. Croce, La morte del socialismo, in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 19553, pp. 158-59). Non sono affermazioni da sottovalutare, tenendo anche conto che risalgono al 1911, cioè a uno dei periodi di maggiore chiusura di Croce sul piano politico e ideologico.
Non erano, del resto, casuali: nel primo saggio Sulla concezione materialistica della storia (1896) raccolto in Materialismo storico ed economia marxistica aveva affermato, a differenza di Gentile, che
il materialismo storico non è, e non può essere, una nuova filosofia della storia, né un nuovo metodo, ma è, e dev’essere, proprio questo: una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico (Materialismo storico ed economia marxistica, 1968, p. 9).
Nel libro sulla Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono (1921) aveva poi sostenuto che la storiografia economico-giuridica è una «derivazione del materialismo storico» (B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., 1964, p. 142); infine, nella Storia d’Italia aveva scritto che era stato il «materialismo storico con la sua dialettica» ad assestare «rudi colpi» alla dottrina positivistica, precisando però, subito, che
concorsero poi ad accelerarne la fine il crescente ridestamento delle tradizioni speculative nazionali e il bisogno di andare a fondo dei problemi trattati male o non trattati punto dal positivismo o dal filologico storicismo; l’efficacia di pensatori stranieri, come quelli tedeschi che ricominciavano a speculare intorno ai concetti di ‘valore’, i francesi e gl’inglesi che si erano istruiti nella classica filosofia germanica o ne avevano risentito l’influsso (B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, 196413, p. 260).
Ai quali si erano aggiunti, e su questo era chiaro dal lessico usato quale fosse il giudizio di Croce,
i cultori di scienze che venivano introducendo una gnoseologia delle scienze affine a quella abbozzata già dall’idealismo intorno all’‘intelletto astratto’, e con ciò negavano l’onnipotenza dei metodi naturalistici (p. 260).
Infine, aveva inciso, e anche questo era un motivo tipico della polemica crociana,
un certo diffuso spirito tra romantico e mistico, che rendeva intollerabile il grossolano semplicismo positivistico, particolarmente nelle cose delicate dell’arte, della religione e della coscienza morale, e intollerabile, potrebbe dirsi, lo stesso suo stile o gergo (p. 260).
È un quadro assai compatto, delineato nel 1928, quando quel mondo appariva ormai lontano e la vittoria delle posizioni di cui Croce (e anche Gentile) si era fatto sostenitore netta e totale. Non è così, come stanno dimostrando le ricerche storiografiche più recenti intorno allo stesso Gentile, per fare un esempio. Ma come è noto, si tratta di una valutazione critica – assai parziale, in verità ‒ destinata a pesare a lungo nella cultura, e anche nella storiografia, italiane.
A rendersi conto della sostanza del discorso di Croce, e degli obiettivi che il suo ‘scolaro’ si era proposto, fu proprio Labriola, il quale ‒ consapevole che si trattava di un fenomeno europeo e non solo italiano ‒ nelle lettere che gli scrisse poco prima di morire espose con durezza il proprio dissenso, nel quale si coagulava una diversa idea della filosofia e del rapporto tra scienza e filosofia:
In tutta Europa corre una reazione contro lo storicismo, il positivismo, il Darwinismo, l’evoluzionismo etc. etc. e a ciò si mescola lo spirito borghese decadente, il cattolicesimo rinato, e una feroce neoscolastica e neosofistica. Per tale contesto storico il cosiddetto Idealismo (la qual parola in genere è applicabile ad ogni filosofia) vuol dire l’antistorico, l’antidivenire etc. È un arresto dello spirito scientifico, è un regresso
gli scrisse il 7 settembre del 1903; e, a scanso di equivoci, ribadì il suo punto di vista in una lunga lettera del 2 gennaio del 1904:
Non potresti tu per il primo far contento il Gentile convertendoti alla filosofia di Hegel? Sei molto lontano…, più lontano certo di tutti quegli scolari [?] dello Spaventa che il Gentile tartassa. Ma la conversione tua sarebbe appunto più interessante e meritoria. Perché – e qui specificava il motivo della prima lettera ‒ tu sei l’antidivenire, l’antistoria, l’antievoluzione, l’antiempirico, l’antigenesi, l’antisecolodecimonono… per eccellenza (A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, a cura di L. Croce, 1975, pp. 366-67, 375).
Neppure il richiamo a Gentile era accidentale o secondario; anzi, dopo averne in un primo momento apprezzato il lavoro – e specie il riconoscimento della «filosofia» di Marx ‒ Labriola si espresse su di lui in termini addirittura sprezzanti, scrivendo a Croce nella sua ultima lettera del 5 gennaio del 1904, in una sorta di sarcastico addio, degno di Giordano Bruno:
Di Gentile non m’importa d’approfondire più nulla. Faccia il comodo suo… e invochi il perdono di Hegel per gli spropositi che gli attribuisce… Giudizi analitici! È un modo di servirsi delle formule kantiane per ispiegarsi. E poi hai capito… perché neghi la comprensione filosofica della natura e della storia… E ti pare poco? Quello Spirito che non ha niente che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia che è la somma delle sue manifestazioni deve essere… un bel Mamozio. Mandamelo, come dono per la befana (A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, cit., p. 377).
Labriola aveva visto giusto, come si è detto; e a confermarlo basterebbe leggere la Logica di Croce e la distinzione ivi operata fra concetti puri e pseudoconcetti; ma per avere, in Italia, una valutazione equanime sul positivismo ‒ e il suo significato effettivo sia nella storia della filosofia che in quella della scienza – occorrerà attendere molti anni e, soprattutto, una diversa considerazione della scienza e della filosofia, della natura e della storia (il punto teorico su cui, in effetti, Labriola si era concentrato nelle sue lettere a Croce, contestandogli di avere ridotto il suo filosofare a «giudizi purissimi», senza tener alcun conto delle «disgregate e infinite cose della natura e del mondo sociale», p. 375).
Introducendo nel 1982 un importante volume su Scienza e filosofia nella cultura positivistica, Antonio Santucci osservava che il positivismo era diventato per un lungo tratto di tempo «un pezzo da museo» e che nel museo era restato anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale,
quando l’egemonia idealistica è in crisi e più acuto si fa lo scontro tra le varie tendenze, quando nuovi testi cominciano ad arrivare in Italia e la curiosità degli specialisti si rivolge, nella sua versione più aggiornata e formalmente attrezzata, al neo-positivismo o positivismo logico (Premessa, in Scienza e filosofia nella cultura positivistica, 1982, pp. 9-10).
Sul piano storiografico occorrerà attendere le ricerche di Eugenio Garin, di Ludovico Geymonat e anche i lavori promossi sulla «Rivista critica di storia della filosofia» ‒ quasi un secolo ‒ per riprendere a lavorare sul positivismo in generale, e anche su quello italiano, senza pregiudizi. Avevano pesato in questo atteggiamento, osservò Paolo Rossi nello stesso volume,
una visione schematica e riduttiva del marxismo, il peso esercitato dalla tradizione idealistica, la presenza in Italia di forti correnti di pensiero spiritualistico e neoscolastico (Considerazioni conclusive, in Scienza e filosofia nella cultura positivistica, cit., p. 446).
Eppure ‒ come aveva sottolineato Marvin Harris, citato da Rossi nel suo testo ‒ il trentennio 1860-1890 costituisce «una delle grandi epoche nell’approfondimento da parte dell’uomo occidentale della comprensione del proprio posto nella natura» (p. 455).
Ma proprio il volume nel quale furono pubblicati i saggi ora citati di Santucci e di Rossi testimonia, con efficacia, che il giudizio sulla cultura positivistica muta nella seconda metà del Novecento, contribuendo a gettare uno sguardo nuovo anche sull’esperienza italiana, rivalutandone gli aspetti e gli esponenti più significativi, a cominciare da Pasquale Villari.
La filosofia positiva – scrive nel 1866 ‒ rinuncia [...] alla conoscenza assoluta dell’uomo; anzi a tutte le conoscenze assolute, senza però negare l’esistenza di ciò che ignora. […] Non si ostina a studiare un uomo astratto, fuori dello spazio e del tempo, composto solo di pure categorie, e di vuote forme; ma un uomo vivente e reale, mutabile per mille guise, agitato da mille passioni, limitato per ogni dove, e pure pieno di aspirazioni all’infinito. […] I filosofi [...] invece di perdersi a scagliare vane accuse di materialismo e di scetticismo, […] dovrebbero in Machiavelli e Vico [...] riconoscere i primi germi di questo nuovo e inevitabile progresso, che ci porta al vero e non al materialismo o al dubbio. Dovrebbero ricordarsi che, se il cammino verso la verità non si poté, una volta, arrestare con la tortura e col rogo, non s’arresta oggi con frasi equivoche o minacciose (P. Villari, La filosofia positiva e il metodo storico, in Id., Saggi di storia, di critica e di politica, 1868, pp. 31-36).
È un testo assai intenso, nel quale confluiscono, saldandosi, sia i fili migliori del positivismo italiano, concepito come «un nuovo metodo» e non come «un nuovo sistema», sia le motivazioni etiche e le aspirazioni spirituali degli uomini migliori di quell’età. Quel riferimento alla «tortura» e al «rogo» aveva, infatti, un significato preciso; alludeva da un lato a Galileo Galilei, dall’altro a Giordano Bruno, martiri entrambi della libertà della ricerca e della scienza, capaci entrambi di contribuire, in modi diversi, a individuare le leggi secondo cui si succedono nel tempo sia i fenomeni della natura che i fatti dello spirito: nel che, per Villari, consisteva l’obiettivo fondamentale di ogni sapere.