Stato corporativo
Attraverso l’ordinamento corporativo si tentò, come noto, di disciplinare stabilmente la relazione tra lo Stato e le forze economico-sociali: ostentata come uno fra gli aspetti più qualificanti di quella palingenesi della vita italiana di cui il fascismo volle essere l’alfiere storico, l’organizzazione corporativa avrebbe dovuto opporre alla disordinata proliferazione di interventi contingenti ed estemporanei la risolutiva presenza di un complesso di regole, organi e procedure, chiamati, appunto, a dare compiuta sistemazione ad alcuni dei più rilevanti fenomeni del Novecento. Così, mentre la prima fase della costruzione di questo nuovo ordinamento doveva occuparsi, e si occupò, della disciplina delle relazioni sindacali e del lavoro, la tappa successiva – quella propriamente corporativa – non avrebbe dovuto soltanto garantire che il rispetto della proprietà e della iniziativa privata si accompagnasse alla previsione di diverse tipologie di intervento pubblico in materia economica (la cosiddetta terza via), ma avrebbe dovuto consacrare, più in generale, l’affermazione di un asse pubblico-istituzionale radicalmente diverso rispetto al passato e di cui facessero parte, oltre alle forze sindacali e della produzione, il Partito nazionale fascista e quella congerie di enti e organizzazioni sorti per plasmare la nuova società voluta dal regime.
E se sul problema della incidenza effettiva che ebbe il progetto corporativo si tornerà in seguito, per il momento basta dire che il promesso avvento di questa nuova stagione dette vita a un dibattito, anche giuridico, di notevole spessore teorico. E fu un dibattito nel quale il tema dello Stato occupò un posto di assoluta centralità. Pronunciarsi sulle caratteristiche che avrebbe dovuto o potuto avere il nuovo Stato corporativo costituì infatti un importante terreno di confronto per l’intera cultura giuridica del tempo, per i giusprivatisti non meno che per i giuspubblicisti, per coloro che guardarono con fiducia alla proposta corporativa come per coloro che viceversa manifestarono verso di essa scetticismi e perplessità.
Oggetto di attenzione, lo Stato, per il cultore del diritto pubblico, tenuto a confrontarsi con la proliferazione degli interessi sociali organizzati e con la capacità, mostrata da questa nuova società dei partiti, dei sindacati, delle concentrazioni economiche, di produrre poteri eccedenti la sfera dei rapporti meramente interprivati e di corrodere, per questa via, la stessa sovranità dello Stato (cfr. Ornaghi 1984). Ma oggetto di attenzione, lo Stato, anche per il cultore del diritto privato, chiamato a fare i conti con il volto di un potere che, a partire dalla guerra, era massicciamente intervenuto sul terreno economico, violando gli stessi sacrari – la proprietà e il contratto – dell’individualismo liberale ottocentesco. Senza considerare che il diritto privato, al pari del pubblico, era messo in crisi anche dalla rilevanza assunta dagli interessi sociali organizzati dal momento che essi sembravano assorbire l’individuo e la sua autonomia rischiando di fare dell’appartenenza – l’appartenenza al gruppo, all’organizzazione – il requisito per conseguire una soggettività giuridica compiuta, piena.
E fu proprio la diffusa denuncia della crisi, di una crisi che rendeva difficile tracciare, al modo tradizionale, i confini tra sfera privata e sfera pubblica e, più in generale, quelli tra diritto, politica ed economia, a imporre alla scienza giuridica di pronunciarsi sul problema cruciale del tipo di relazione che si sarebbe dovuta instaurare tra le diverse dimensioni della convivenza novecentesca. E che le impose, di conseguenza, di valutare se e a quali condizioni l’ipotesi corporativa avrebbe potuto costituire una soluzione capace di segnare la traiettoria di sviluppo degli ordinamenti.
Le risposte furono, come immaginabile, assai differenti: in ogni caso, però, lo Stato rimase non solo un orizzonte imprescindibile dell’ordine giuridico, ma l’orizzonte cui tuttora si chiedeva di esprimere un’autorità che poteva intrattenere i più svariati rapporti con le forze espresse dalla società e dal mercato ma che doveva sapersi mantenere immune dall’assalto di particolarismi e interessi sezionari, confermando, in tal modo, il legame necessario, costitutivo, tra lo Stato e l’interesse generale. Confermando, per dire meglio, il legame costitutivo tra lo Stato e le diverse strade reputate idonee a rendere possibile, anche nella mutata temperie storica, l’identificazione di un interesse qualificabile come generale.
Ricostruire, sia pur sinteticamente, il tenore di queste diverse risposte rappresenta, come è evidente, il modo per privilegiare il momento del dibattito e per restituire al discorso sul corporativismo, alle sue molte articolazioni interne, autonomo spessore storiografico. È questa la scelta di un taglio non dettata soltanto dall’esigenza di ripercorrere, coerentemente con le finalità del volume, un segmento rilevante di storia della cultura giuridica nostrana. A determinare questa scelta stanno piuttosto le caratteristiche di una vicenda teorica che, nelle sue espressioni, si mostrò tendenzialmente indipendente dal timbro degli atti e provvedimenti ufficiali che disegnarono i tratti del nuovo ordinamento. La stessa centralità riconosciuta al momento statual-autoritativo fu solo parzialmente frutto delle norme che, dal 1926 al 1939, dalla legge sindacale alla istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, dettero forma al sistema corporativo; indubbiamente tali norme riconobbero allo Stato un ruolo decisivo, ma la loro lettura fu costantemente condizionata, anche in coloro che continuarono a ritenere che nell’esegesi dello ius positum si esaurisse il compito del giurista, dal differente bagaglio di aspettative (o di apprensioni) riposto nella prospettiva di una revisione in senso corporativo della dinamica sociopolitica.
Quello corporativo fu infatti un versante sul quale si produssero immagini profondamente distanti dell’ordine novecentesco e della stessa statualità a seconda che alla nuova proposta istituzionale si riconoscesse la capacità di rinnovare le coordinate della giuridicità ovvero che le si attribuisse l’opposta attitudine a proiettare anche sul 20° sec. l’unica idea di convivenza ritenuta possibile perché incardinata sulla coesistenza non conflittuale tra lo Stato e (la società degli) individui.
Fu questa, come noto, la posizione su cui si assestò la maggioranza della scienza del diritto e che per molto tempo è stata l’unica a esser rilevata: sostenere che ogni questione potesse essere affrontata e risolta rimanendo legati al metodo tradizionale (V.E. Orlando, Lo Stato sindacale nella letteratura giuridica contemporanea, «Rivista di diritto pubblico», 1924; S. Pugliatti, Dalla obbligazione in solido alla rappresentanza sindacale, «Il diritto del lavoro», 1931, 5) rappresentò infatti l’argomento con cui si investì il corporativismo, e in genere il Novecento, del compito di perpetuare un’idea di convivenza racchiusa e conclusa nella alternativa secca tra il momento privato-contrattuale e quello pubblico-autoritativo, concepiti a loro volta come momenti reciprocamente non interferenti, definiti a priori nella loro irriducibile diversità.
Non che fosse necessario negare in radice la novità corporativa; l’importante però era riuscire a riportarne le più rilevanti manifestazioni nel solco della tradizionale concezione individualistica dell’ordine giuridico; si doveva, in specie, evitare che le 'zone di confine', le zone di commistione tra privato e pubblico, riuscissero a dar vita a un tertium genus, a una dimensione del diritto, quella collettiva, capace di alterare anche l’identità degli estremi noti – l’assolutamente privato e l’assolutamente pubblico – della dinamica giuridica (L. Barassi, Le zone di confine nelle singole branche del diritto, in Studi dedicati alla memoria di Pier Paolo Zanzucchi, 1927, p. 153). Emblematiche, in tal senso, furono le letture della legge sindacale del ’26 – la cosiddetta legge Rocco – legge di cui pure fu apertamente sottolineato il carattere «totalitario» (A. Rocco, Legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, 1925, in Id., La trasformazione dello Stato, 1927, p. 368) ma, nella quale privatisti e pubblicisti continuarono, il più delle volte, a cercare i segni di un intervento statuale capace di aumentare la quantità di disciplina normativa senza tuttavia modificare la qualità del rapporto tra i poteri, privati e pubblici, che popolavano il territorio giuridico (Stolzi 2007, pp. 55-56, p. 243 e segg., p. 276).
Ma non tutte le interpretazioni del corporativismo andarono in questa direzione; vi fu infatti una parte non trascurabile della riflessione giuridica che scorse nella proposta corporativa il varco teorico che le avrebbe permesso di prendere congedo dallo strumentario ottocentesco e di mettere a fuoco i contorni di una nuova statualità. Da un lato, gli assertori della soluzione totalitaria, convinti che quella corporativa potesse rappresentare la leva ideale per dar vita a uno Stato nuovo, a uno Stato finalmente capace di serrare nei propri ranghi l’intero fascio delle energie sociali, politiche ed economiche; dall’altro lato, la posizione di quei giuristi che respinsero l’idea di una irreggimentazione autoritaria dell’intera dinamica giuridica e che videro nell’edificando ordine corporativo il congegno istituzionale chiamato a far sì che il nuovo volto interventista dello Stato non coincidesse con la totale mortificazione dell’autonomia privato-sociale.
Si trattò di fronti teorici non solo speculari, ma anche – lo si vedrà tra un attimo – assai compositi al loro interno; tuttavia, a dispetto di tale diversità, alcuni assunti di fondo furono condivisi. Anzitutto fu comune la convinzione che il potere dello Stato potesse essere rifondato solo accettando il confronto con quella moltiplicazione degli enti e delle organizzazioni che caratterizzavano la realtà sociale del 20° sec., solo cercando le strade che avrebbero permesso di elevare il nuovo e variegato tessuto delle organizzazioni sociali a momento fondativo e non turbativo della convivenza novecentesca.
Allo stesso tempo si ritenne – questo è un secondo punto di contatto – che la nuova strutturazione del sociale, lasciata a se stessa, non manifestasse alcuna tendenza spontanea all’ordine, alla composizione ordinata dei conflitti e degli antagonismi – tra gruppi, tra individui e gruppi, tra questi e lo Stato – che inevitabilmente la percorrevano. Anche se, è bene sottolinearlo, non fu solo la scoperta della società di massa come realtà conflittuale a sancire l’ingresso sulla scena giuspolitica dello Stato, del nuovo Stato corporativo: mai raffigurato come mera istanza arbitrale, incaricata di moderare la competizione tra le diverse forze sociali, allo Stato si chiese al contrario di esprimere una «sovranità sempre più attiva» (C. Arena, I principi corporativi di trasformazione del diritto del lavoro, «Il diritto del lavoro», 1935, 9, p. 288), dal momento che la presenza di uno Stato che «comand[asse] e non tratta[sse]» (A. Rocco, Fallimento, 1920, in Id., Scritti e discorsi politici, 1938, p. 625] parve a entrambi gli schieramenti teorici la risorsa capace di portare gli ordinamenti oltre la crisi.
E un simile risultato si ritenne conseguibile accettando l’idea che l’ordine, nel Novecento, potesse scaturire soltanto dall'identificazione di un patrimonio di valori e di obiettivi assunti come propri di una certa esperienza storica, valori e obiettivi chiamati a riscrivere i contorni del privato e del pubblico e insieme a determinare le modalità del loro (ormai inevitabile) legame. Il senso della partita che si stava giocando attraverso l’insegna corporativa stava tutto qui, nella convinzione che la nuova macchina istituzionale avrebbe potuto realizzare questa necessaria corrispondenza tra l’«ordinamento dei poteri costituzionali» e il «principio organizzativo degli elementi sociali» (C. Mortati, L'ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano (1931), 2000, p. 73) e che l’avrebbe potuta realizzare proprio spostando sul piano dei fini la relazione tra l’individuale, il sociale e lo statuale. Ben oltre la disciplina delle relazioni sindacali e produttive, quello corporativo doveva dunque diventare il «potere dei poteri dello Stato» (S. Panunzio, Leggi costituzionali del regime, 1932, in Id., Il fondamento giuridico del fascismo, introduzione di F. Perfetti, 1987, p. 243), il momento a partire dal quale il potere si faceva indirizzo, sceglieva e progettava i contenuti della propria azione riuscendo così a distendere anche sul futuro la propria autorità.
Vedere nel corporativismo la risposta istituzionale incaricata di colmare il difetto di «contenuto sociale» dello Stato moderno (G. Bottai, Stato corporativo e democrazia. 1930, in Id., Esperienza corporativa, 19342, p. 126), rappresentò la comune premessa per tracciare i contorni di un potere nuovo e nuovo perché totalitario, perché ritenuto capace di legare stabilmente a sé la società lasciandosi alle spalle (quelle che apparivano) le irresolutezze dei vecchi statalismi. Se infatti la nuova società di massa trovava nella scansione in gruppi e sottogruppi un proprio, e distintivo, tratto identitario, e se la salvezza dello Stato risiedeva in gran parte nella capacità di governare la convivenza sottoposta alla sua autorità, bisognava che lo Stato riuscisse a ergersi a supremo organizzatore del momento sociale. Certo, perché partito e sindacato (necessariamente unici), insieme alla pletora di enti chiamati a forgiare la società (ri)generata dal fascismo, costituissero altrettanti momenti del processo, totalitario, di rifondazione dell’autorità dello Stato, era indispensabile evitare un doppio ordine di inconvenienti.
Per un verso, cioè, era necessario che le diverse organizzazioni sociali non figurassero, nella nuova mappa dei poteri, né come il frutto di un moto aggregativo libero e spontaneo, né come dimensioni capaci di condizionare la traiettoria di azione del potere statuale. Per l’altro verso, però, era indispensabile distanziare la nuova statualità dalle precedenti forme di accentramento amministrativo e in genere di controllo pubblico sulla vita sociale. In particolare, all'idea, sorpassata, della vigilanza, del controllo esterno, doveva subentrare l’idea di una presenza statuale capace di convertire tutti gli enti e le organizzazioni in altrettanti «fecondi ausiliari dello Stato» (G. Bottai, intervento del 31 maggio 1928 al Senato del Regno, in Id., Esperienza corporativa, 1929, p. 398), in altrettanti strumenti di coltura attiva del nuovo protagonismo pubblico. Poi si poteva discutere – e molto si discusse – sulle modalità ritenute più adeguate a conseguire un simile ordine di risultati; ma da Alfredo Rocco a Giuseppe Bottai, da Sergio Panunzio agli esponenti della riflessione idealistica, a emergere furono in ogni caso letture che videro nel fenomeno dell'organizzazione del sociale un capitolo decisivo per ripensare la stessa autorità dello Stato totale (Stolzi 2007, pp. 25-200).
A essere cercate, in particolare, furono le strade che avrebbero permesso di realizzare una catalogazione a tappeto della società nelle diverse organizzazioni sociali, politiche ed economiche (il cosiddetto inquadramento corporativo) senza tuttavia ricorrere (o senza ricorrervi troppo massicciamente) al reclutamento forzato degli individui nelle organizzazioni medesime. Inutile dire che la propaganda, diventava, in simili contesti argomentativi, un'importante risorsa di governo: mai confusa con il generico tributo ai fasti del regime, l’educazione alla condivisione di un identico patrimonio ideale diventava lo strumento incaricato di garantire quell’indispensabile idem sentire tra masse e Stato che solo avrebbe permesso di distanziare la rivoluzione corporativa dagli autoritarismi del passato e dalla loro vocazione semplicemente accentratrice. Con alcune importanti conseguenze sulle quali conviene rapidamente soffermarsi.
Prima conseguenza: il diritto sociale, che pure rimase un’espressione ampiamente circolante nel lessico totalitario, non poteva designare il diritto delle organizzazioni sociali, il diritto che esse erano legittimate a darsi per regolare la propria vita interna e le proprie relazioni verso l’esterno; «diritto sociale» poteva essere soltanto il «diritto pubblico dello Stato» (G. Bottai, Il diritto della rivoluzione, «Il diritto del lavoro», 1927, 1, p. 2), il diritto di uno Stato capace di creare e governare le diverse scansioni del sociale in modo che ognuna si muovesse nel rispetto dello spazio e dei fini assegnati ex alto. Analogamente, i frequenti richiami a una strutturazione gerarchica delle relazioni sociali non servivano a celebrare i vantaggi di un ordine capace di prodursi spontaneamente muovendo dalle naturali diseguaglianze degli uomini e delle loro funzioni, ma a segnalare l’esigenza di realizzare un'autentica continuità progettuale tra Stato, formazioni sociali e individui. O la gerarchia riusciva cioè a diventare lo strumento chiamato a far sì che la sussunzione del sociale nell’orbita del potere pubblico avvenisse sul piano dei contenuti, della capillare propagazione del sistema di fini e di valori prescelto in sede autoritaria, o non c’era alcuna garanzia di lasciarsi alle spalle la vieta e fragile immagine di un’autorità lontana dal sociale e perciò destinata a perire.
Altra conseguenza: l’ambizione a pervenire a un'organizzazione integrale del momento sociale, l’ambizione a vedere nelle diverse scansioni della società un capitolo rilevante della nuova vocazione demiurgica del potere statuale finiva per rendere obsoleti, irrimediabilmente legati al mondo passato, i riferimenti all’autonomia e ai diritti degli individui (oltre che dei gruppi, ovviamente). Non più protetti da quella idea di progresso che aveva consentito allo statualismo liberale di vedere nella storia una dimensione incrementale, votata, in virtù della sua intrinseca e irresistibile forza, a imporre allo stesso Stato il rispetto delle conquiste raggiunte, diritti e libertà comparivano, nelle pagine degli assertori del corporativismo totalitario, come portati revocabili dell’evoluzione storica, frutto di un passato che non poteva ipotecare quella corsa al futuro vagheggiata dal fascismo e possibile solo a patto di ripudiare ogni scomodo vincolo di continuità. Per dire meglio: il fascismo poteva anche costruire la propria identità totalitaria inneggiando alla gloria di un passato remoto – si pensi a tutta la retorica sulla romanità imperiale – che attendeva di poter rivivere attraverso il regime. Oppure poteva anche trovare antenati più prossimi: è nota, per es., la lettura bottaiana della Rivoluzione francese, di una rivoluzione che, a suo dire, aveva lasciato ai posteri un valore supremo e duraturo, di cui lo stesso fascismo poteva dichiararsi erede e costituito dalla affermazione della sovranità dello Stato (G. Bottai, Dalla rivoluzione francese alla rivoluzione fascista, 1930, in Id., Esperienza corporativa, 19342, pp. 569-71).
E benché sia fondato il sospetto che simili letture si originassero dal bisogno di ostentare, soprattutto nei confronti degli osservatori stranieri, un legame del regime con uno dei più rilevanti capitoli della comune storia europea, a essere espressa fu comunque la convinzione che si trattasse di un'eredità non lineare, di un'eredità, cioè, che poteva essere conseguita solo a partire da uno scatto palingenetico, solo muovendosi sul fronte, inedito, della costruzione dell’ordine e della invenzione di risposte istituzionali lontane da quelle immaginate e sperimentate dagli statualismi del passato. A sostenere simili letture stava infatti l’idea che il nuovo Stato totale non dovesse limitarsi a espungere dai propri orizzonti il riferimento ai diritti individuali: quel riferimento, che rappresentava il frutto più caduco della Rivoluzione francese, poteva essere relegato tra le anticaglie del passato solo perseguendo un progetto di organizzazione del tessuto sociale e politico chiamato a elidere quella distanza tra Stato e società che aveva determinato il declino delle precedenti forme di statualità.
Per tale motivo – agli occhi di questo lato della discussione sul corporativismo – dimostrava di non aver colto nel segno il pur fascistissimo Carlo Costamagna quando sosteneva che «sarebbe stato possibile concepire un ordine nazionale […] senza alcun assetto sindacale e corporativo» (I principii dell’economia fascista, L’indipendenza economica italiana, a cura di L. Lojacono, 1937, p. 56) dal momento che era proprio la postulata presenza di enti intermedi, incaricati di «saldare» l’individuo allo Stato (A. Volpicelli, Santi Romano, «Nuovi studi di diritto, economia, politica», 1929, 3, p. 8), la risorsa che avrebbe permesso di realizzare una irreggimentazione attiva, partecipata, e non meramente passivo-trascrittiva dei soggetti nella nuova totalità statuale.
Ed è in questo stesso solco concettuale che vanno collocati e spiegati i ricorrenti richiami alla nazione, alla nuova nazione corporativa, che non descriveva mai – al modo di tanta letteratura risorgimentale – un'entità precedente allo Stato, un'originaria comunanza (di lingua, di temperamento ecc.) di cui si asseriva, non importa quanto veridicamente, l’esistenza e che allo Stato poi spettava di sublimare e di realizzare compiutamente. La nazione veniva al contrario presentata come l’esito, e non la premessa, del complesso progetto di organizzazione statuale della società; il nesso Stato-nazione restava dunque fortissimo, solo che l'indiscussa centralità dello Stato finiva per diventare una sorta di riprova della capacità mostrata dal nuovo Stato nell’organizzare la società, nel renderla, cioè, compiutamente nazione. Nulla vietava peraltro di scorgere nel fascismo – secondo la nota interpretazione di Giovanni Gentile – il compimento autentico del Risorgimento e della mazziniana sintesi di pensiero e azione, purché fosse chiaro che non potesse trattarsi, anche in questo caso, di uno svolgimento automaticamente generato dal corso degli eventi, ma di uno svolgimento subordinato alla riuscita del progetto statuale di organizzazione dello spazio sociale, progetto che, non a caso, imponeva di valorizzare il ruolo «del partito e di tutte le istituzioni di propaganda», insieme alla «funzione educativa e moralizzatrice» svolta dal sindacato (G. Gentile, Fascismo identità di stato e individuo, 1927, in Fascismo. Antologia di scritti critici, a cura di C. Casucci, 1982, p. 275).
L’esigenza di ripensare il volto dello Stato fu centrale anche nella riflessione di quei giuristi convinti che il corporativismo non dovesse coincidere con la fine dell’autonomia privato-sociale. Accerchiato dall’intervento sempre più massiccio dello Stato nell’arena economica non meno che dalla proliferazione delle organizzazioni collettive, la tutela dello spazio privato del diritto sembrava poter scaturire solo dalla composizione di due motivi a prima vista contraddittori. Per un verso, infatti, l’incremento di presenza statuale nel gioco economico sembrava sollecitare istanze di difesa da un potere pubblico che invadeva zone ritenute per molto tempo riservate alla libera interazione delle forze sociali; per l’altro verso, però, la progressiva prevalenza dell’orizzonte collettivo su quello individuale, tendeva a tradursi in un appello allo Stato, a uno Stato di cui si invocava l’intervento perché riuscisse a temperare la forza dei gruppi sociali rinnovando, così, l’idea di un interesse generale che era tale in quanto sensibile al valore dello spazio soggettivo.
Anche se – forse vale la pena sottolinearlo – il timore della fine della privatezza fu un’apprensione circolante oltre la ristretta cerchia dei giusprivatisti, dal momento che la scomparsa di un certo individuo – dell’individuo soggetto astratto – trainava con sé, inevitabilmente, la scomparsa di un certo Stato, di quello Stato che ugualmente si era immaginato astratto dalle sottostanti dinamiche sociali e che per questo si era reputato capace di perpetuare ad aeternum la propria e indiscutibile sostanza sovrana. Lo sottolineò con estrema puntualità Santi Romano al secondo convegno di studi sindacali e corporativi: nel replicare alla dirompente visione di Arnaldo Volpicelli, che scorgeva nell'immedesimazione tra individuo e Stato il quid proprium della proposta corporativa, Romano ritenne di dover appuntare le proprie critiche, più che sulla lettura volpicelliana della sua teoria pluriordinamentale, sulla diversa pretesa, fatta propria dallo stesso Volpicelli, di vedere «in ogni manifestazione giuridica soggettiva […] una manifestazione dello Stato» (S. Romano, in Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, 5-8 maggio 1932, 3° vol., 1932, p. 96). A esser contestata dall’esimio pubblicista fu dunque quella auspicata trasformazione degli individui in altrettanti organi dello Stato, trasformazione che avrebbe finito per rendere irriconoscibile lo Stato e, con esso, l’idea di uno spazio pubblico-sovrano non integralmente sovrapponibile allo spazio privato-sociale.
Certo, quella di Romano fu, per molti aspetti, una voce singolare che mirò a conciliare la perdurante, indiscussa, sovranità dello Stato con il riconoscimento della natura ordinamentale, cioè intrinsecamente giuridica, delle formazioni sociali, conciliazione che diventava possibile, dal suo osservatorio, ammettendo una distinzione tra la natura propria di un ordinamento e la sua qualificazione a opera dell’ordinamento superiore (S. Romano, L'ordinamento giuridico, 1918, p. 198). Vedere nello Stato il soggetto della qualificazione giuridica, il soggetto chiamato a decidere le condizioni di cittadinanza degli altri ordinamenti esistenti nel suo seno, costituì dunque il tratto qualificante di una riflessione interessata a riaffermare congiuntamente sé stessa e la centralità dello Stato. Sostenere che il diritto non fosse tutto racchiuso nella superficie delle norme consentiva infatti a Romano di emanciparsi da quella distinzione tra giuridico e sociale che finiva per compromettere le capacità di integrazione autoritaria dello Stato e per dimezzare, a un tempo, l’agenda di lavoro del giurista, di un giurista che rischiava di rimaner sprovvisto di risorse interpretative adeguate dinanzi ai rilevanti mutamenti offerti dal panorama novecentesco.
Non sorprende, quindi, che Romano, con la sua teoria pluriordinamentale, abbia rappresentato un importante interlocutore teorico per quel lato della scienza del diritto che contestò l’ipotesi di un'integrale pubblicizzazione della dinamica giuridica, arrivando, per questa via, a pronunciarsi sul problema cruciale dello Stato e sul ruolo che all’autorità sarebbe dovuto spettare nel 20° secolo. Si trattò di profili intellettuali assai distanti per temperamento, formazione, appartenenza disciplinare; i nomi sono quelli – per limitarsi ai maggiori – di Paolo Greco, Aldo Grechi; e poi soprattutto: Widar Cesarini Sforza, Enrico Finzi, Lorenzo Mossa. Non si è dunque di fronte all’espressione compatta di una scuola, piuttosto all’affiorare sparso di sensibilità accomunate da una identica insofferenza per quella ipostatizzazione del modello liberale di convivenza, ipostatizzazione che sembrava ostacolare, nella maggioranza dei contemporanei, non solo l’esatta comprensione del ciclo storico che si era aperto all’indomani della Prima guerra mondiale, ma soprattutto la possibilità di contribuire a orientarne le direzioni di sviluppo.
In un simile quadro, il riferimento romaniano all'origine sociale del diritto, di un diritto che poteva essere colto anche dietro e oltre le forme legislative, consentiva di vedere nella statualità del giure un portato della storia, magari necessario o anche condivisibile, ma non appartenente all'ontologia del fenomeno giuridico. Serviva, soprattutto, a prendere contatto con quella orchestrazione su base organizzata della società sulla quale Romano aveva richiamato l’attenzione fin dal discorso inaugurale del 1909 su Lo Stato moderno e la sua crisi: perché infatti la dimensione, collettiva, degli interessi organizzati, poteva diventare il fulcro di un'imponente scommessa ordinante attraverso la quale riscrivere i contorni abituali del privato e del pubblico, rivendicando, allo stesso tempo, la piena attualità di quella distinzione.
Che si trattasse di un sindacato, di un'impresa o di un partito, a emergere era infatti l’identica immagine di un'organizzazione sorta e strutturata per il raggiungimento degli obiettivi identificati come comuni dal gruppo, l’immagine di una convivenza lontana dai lidi individualistici della mera coordinazione intersubiettiva e capace di coniugare, rispetto agli appartenenti, facoltà e diritti, doveri e responsabilità. A risultare non era dunque un cumulo di posizioni e interessi individuali, posizioni e interessi fortificati per effetto dell’unione con altri interessi analoghi secondo la logica, ugualmente individualistica, de ‘l’unione che fa la forza’; a risultare era una terza dimensione del diritto, quella collettiva appunto, che nel suo essere «più che privat[a] e meno che pubblic[a]», mostrava di coniugare inscindibilmente, al proprio interno, autonomia ed eteronomia (Cesarini Sforza,Preliminari sul diritto collettivo, 1936, in Id., Il corporativismo come esperienza giuridica, 1942, p. 189).
Gli ordinamenti collettivi apparivano infatti come ordinamenti sorti per definire «unitariamente» gli interessi del gruppo, se necessario «ponendo limiti alla libertà di decisione del singolo in nome dell’interesse della categoria» di riferimento (W. Cesarini Sforza, Gli accordi economici nell’economia corporativa, 1939, in Id., Il corporativismo come esperienza giuridica, 1942, p. 223); tuttavia, in essi, non si riscontrava quella «assoluta contraddizione tra l’interesse dello Stato e l’interesse del singolo individuo, che caratterizza[va] i rapporti di diritto pubblico» (W. Cesarini Sforza, Il libro del lavoro e il nuovo diritto civile, 1941, in Id., Il corporativismo come esperienza giuridica, cit., p. 274). Si trattava, appunto, di ordinamenti strutturalmente incardinati sul concorso necessario tra autonomia ed eteronomia, concorso che consentiva di ripensare i contorni dello stesso diritto privato ma anche – ed è questo che qui interessa – di identificare le caratteristiche che l’edificando Stato corporativo avrebbe dovuto avere.
Pur nella sensibile diversità degli itinerari teorici, a essere espressa fu infatti l'identica convinzione che lo Stato, lo Stato del 20° sec., non avrebbe potuto né calpestare, né limitarsi a trascrivere, a registrare, le soluzioni organizzative messe a frutto dalla società novecentesca. Non le avrebbe potute calpestare, proprio perché la progressiva strutturazione del sociale intorno a nuclei di interessi organizzati costituiva un portato difficilmente revocabile della evoluzione storica. Ma non le avrebbe neppure potute incorporare determinando un'integrale pubblicizzazione della dinamica sociogiuridica perché la distinzione tra privato e pubblico appariva un'indiscutibile conquista di civiltà da preservare, in quanto tale, dalle insidie autoritarie del presente.
Ben si poteva condannare la fragilità egocentrica dell’homo oeconomicus, e riconoscere, per es., nell’impresa, in questa creatura di cui si iniziavano a delineare i contorni giuridici, un importante crocevia di interessi privati e pubblici capace di creare, in capo all’imprenditore, non solo diritti ma anche doveri. Nessuna difficoltà, dunque, a riconoscere la supremazia dell’orizzonte oggettivo della organizzazione (della produzione) su quello soggettivo della volontà, a patto, però, che questo non coincidesse con la scomparsa della privatezza (Stolzi 2007, pp. 378 e segg.). Fu, non a caso, il terreno dei rapporti economici quello incaricato di dimostrare la validità di una simile interpretazione del corporativismo, per varie ragioni: perché avevano origine o comunque si legavano a finalità prevalentemente economiche molte delle nuove formazioni sociali (imprese e sindacati in testa); ma soprattutto perché la dimensione economica, più di altre, sembrava capace di rinnovare, anche per il futuro, la necessità di quella dialettica tra autonomia ed eteronomia che doveva costituire non solo la legge di vita interna ai diversi gruppi sociali, ma anche, e ancor più, il nuovo criterio della relazione tra universo privato-sociale e universo pubblico-autoritativo. In simili contesti argomentativi, l’interesse della produzione diventava una declinazione rilevante dello stesso interesse generale proprio perché anch’esso si presentava – rectius: doveva presentarsi – come interesse risultante dal concorso necessario tra l'iniziativa economica privata e l’intervento dello Stato, tra l’autonomia di cui la società economica doveva continuare a disporre e che continuava a costituire il principale volano di sviluppo di una nazione, e l’altrettanto necessario aspetto dell’intervento dello Stato nell’arena economica.
Lo Stato continuava infatti ad apparire come l’unico potere capace di conferire alla convivenza «una finalità cosciente e ordinata» (G. Capograssi, La nuova democrazia diretta, 1922, in Id., Opere, 1959, 1° vol., p. 445), l’unico potere capace di definire un interesse qualificabile come generale. Per questo lo Stato, come non poteva calpestare le intuizioni del sociale, non poteva neppure limitarsi a trascrivere, a registrare le nuove forme organizzate prodotte dal gioco economico, visto che esse, lasciate a se stesse, tendevano a sprigionare – nei confronti dei singoli, degli altri gruppi, e dello stesso potere statuale – un'aggressività prevaricante che avrebbe sancito il trionfo degli interessi sezionari e un'inevitabile degenerazione oligopolistica della dinamica socioeconomica. Sostenere che il corporativismo non dovesse costituire un'ipotesi di «autoritarismo economico» (W. Cesarini Sforza, Gli accordi economici nell’economia corporativa, 1939, in Id., Il corporativismo come esperienza giuridica, cit., p. 257), postulando, non di meno, la presenza di uno «Stato forte» (W. Cesarini Sforza, Corso di diritto corporativo, 1935, p. 35), fu dunque il modo con cui questo lato della scienza giuridica mirò a conciliare il motivo della strutturale limitatezza del potere statuale con quello del maggiore (e auspicato) intervento pubblico nel gioco economico.
Lo stesso riferimento, che tanta parte ebbe nella retorica del regime, alla civiltà dei produttori, a una civiltà che il corporativismo prometteva di realizzare e che avrebbe (finalmente) superato le abituali distinzioni di classe per collocare il discrimine tra cittadini attivi e passivi sulla base del diverso contributo apportato alla produzione nazionale, non costituì né l’argomento utilizzato per corroborare la nuova veste totalitaria dello Stato, né la risorsa per proiettare sul 20° sec. la tradizionale insofferenza della società economica per vincoli sociali o pubblici. I richiami al produttore non furono quindi spesi per marcare la distanza tra il civis liberale «titolare di diritti innati, intangibili e inalienabili» (quasi una «sovranità privata contrapposta alla sovranità dello Stato») e il cittadino fascista, viceversa descritto e identificato non tramite i diritti, ma tramite «il vincolo organico che l[o] congiunge ai componenti della comunità nazionale, giuridicamente organizzata per fini superiori agl’interessi dei singoli» (G. Bottai, L’idea corporativa nella riforma dei codici, «Il diritto del lavoro», 1943, 17, p. 66), né fu speso, quel riferimento, per confermare la curvatura volontaristico-potestativa dei diritti individuali; esso servì piuttosto a elevare la «legge di interdipendenza» (P. Greco, Aspetti e tendenze odierne del diritto commerciale, «Rivista del diritto commerciale», 1934, 37, p. 352) a principio informatore dell'intera macchina corporativa. Servì, cioè, a cogliere il soggetto nella sua nuova e necessaria veste relazionale, nel suo legame con i gruppi sociali e con lo Stato; ma soprattutto servì, quel richiamo, a legare la legittimità dello Stato alla capacità, che esso doveva saper dimostrare, di garantire e promuovere quell’«ingranarsi» necessario di determinazioni autonome ed eteronome che avrebbe dovuto trovare nelle fonti del nuovo ordinamento – dal contratto collettivo, alla ordinanza corporativa – il suo principale canale di realizzazione (L. Mossa, Nozione e presupposti e scopo del diritto dell’economia, saggio riunito con altri sotto il titolo Principii del diritto economico, in Id., L'impresa nell'ordine corporativo, 1935, p. 95).
Senza dubbio, le risposte, sul piano della riuscita istituzionale, se non furono irrilevanti (Cassese 2010; Gagliardi 2010), non si mostrarono conformi alle aspettative di rinnovamento dichiarate anche dalla cultura giuridica; lo sottolinearono con forza gli assertori della soluzione totalitaria, denunciando le indecisioni di un sistema che era riuscito a produrre solo l’ennesima superfetazione burocratica dello Stato italiano, di uno Stato che non si era rivelato all’altezza dei nuovi compiti di direzione politica delle masse, rimanendo terreno di conquista per le più diverse consorterie, in parte ereditate dal precedente Stato, in parte allevate in proprio. Ma la denuncia del fallimento non fu meno forte da parte di quei giuristi che avevano ritenuto di poter scorgere nel corporativismo il congegno istituzionale chiamato a comporre autorità e autonomia, a fare incontrare società e Stato su basi diverse da quelle del liberalismo ottocentesco. Occasione persa, dunque, il corporativismo; e occasione persa non solo per gli ordinamenti ma anche, e ancor più, per la cultura giuridica, per quella parte, maggioritaria, della cultura giuridica che non seppe o non volle immaginare ipotesi di relazione tra privato e pubblico diverse da quelle proprie dell’individualismo ottocentesco.
Che nel corporativismo si fosse vista una modalità meramente confermativa dell’ordine tradizionale (v. supra, Le ragioni di una centralità), o che in esso si fosse rintracciato uno dei segni della progressiva e tendenzialmente inarrestabile violazione della naturale «estrastatualità» del diritto privato (F. Vassalli, Estrastatualità del diritto civile, 1951, in Id., Studi giuridici, cit., 3° vol., pp. 753 e segg.), in ogni caso queste letture si erano nutrite del riferimento o del rimpianto per un modo ‘altro’ di concepire la relazione tra privato e pubblico, limitando, così, la stessa possibilità, per la scienza del diritto, di contribuire a progettare la storia avvenire. Di una storia che mostrava di affidare una parte decisiva della propria identità democratica alla ossatura di una Costituzione, come quella del 1948, che ambiva a racchiudere in un quadro normativo fortemente programmatico i molteplici aspetti di cui si componeva la convivenza – il politico, l’economico, il giuridico; l’individuale, il sociale, lo statuale – vedendo in essi dimensioni necessariamente connesse e necessariamente coinvolte nella realizzazione degli obiettivi assunti come propri della nuova convivenza repubblicana.
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A. Rocco, La trasformazione dello Stato. Dallo Stato liberale allo Stato fascista, Roma 1927.
G. Bottai, Esperienza corporativa, Roma 1929, Firenze 19342.
Atti del primo convegno di studi sindacali e corporativi, Roma (2-3 maggio 1930), Roma 1930.
C. Mortati, L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano (1931), Milano 2000 (rist. inalterata).
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P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 6° vol., L’età dei totalitarismi e della democrazia, Roma-Bari 2001.
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