Benessere, Stato del
di Maurizio Ferrera
Benessere, Stato del
sommario: 1. Le ragioni della crisi. 2. Una difficile ricalibratura. a) La ricalibratura funzionale. b) La ricalibratura distributiva. c) La ricalibratura normativa. d) La ricalibratura politico-istituzionale. 3. Traiettorie di riforma nelle 'quattro Europe sociali'. a) L'Europa del nord. b) Il Regno Unito. c) L'Europa continentale. d) L'Europa del sud. 4. Il nuovo ruolo dell'Unione Europea. □ Bibliografia.
1. Le ragioni della crisi
A partire dalla metà degli anni settanta, lo Stato del benessere è entrato in una lunga e travagliata crisi che ha richiesto profondi ripensamenti istituzionali in tutti i paesi. Un insieme di importanti trasformazioni ha minato le basi di quegli assetti di protezione sociale edificati negli anni d'oro (cinquanta e sessanta) del capitalismo keynesiano (v. Esping Andersen, 1990; v. Flora, 1986-1987), trasformandoli in strumenti organizzativi sempre più inadeguati sul piano funzionale. Quegli assetti poggiavano infatti su una serie di premesse socio-economiche e politico-istituzionali che sono più o meno improvvisamente venute meno nel corso dei traumatici anni settanta.
In primo luogo, lo Stato sociale keynesiano dava per scontata un'economia in rapida crescita, capace di produrre sostanziosi dividendi fiscali da ridistribuire sotto forma di prestazioni sociali, finanziando così in maniera quasi indolore gli ambiziosi impegni di spesa contratti con le vaste platee di 'assicurati'. A partire, appunto, dalla metà degli anni settanta, le economie occidentali hanno però registrato drammatici cali nei propri tassi di crescita: al posto dei dividendi fiscali sono in tal modo comparsi deficit e debiti pubblici, in buona misura proprio a causa delle dinamiche della spesa sociale, e ciò ha imposto scelte assai dolorose sul piano finanziario.
In secondo luogo, il Welfare State degli anni d'oro era stato tarato su economie prevalentemente industriali, imperniate sul paradigma fordista: produzione e consumo di massa, forza lavoro maschile essenzialmente occupata nelle grandi fabbriche, e così via. Proprio negli anni settanta, però, gran parte delle economie occidentali ha varcato i confini della società postindustriale, imperniata sui servizi e su nuovi modi di produzione: decentramento produttivo, consumi differenziati e flessibilità dei rapporti di lavoro. E la transizione al postfordismo si è notevolmente accelerata nel corso degli anni ottanta e novanta, anche in conseguenza della crisi economica originatasi nel decennio precedente.
La terza premessa era costituita dalla stabilità dell'istituto familiare, nonché dalla tradizionale divisione del lavoro tra i due generi, per cui gli uomini erano essenzialmente responsabili di una produzione coperta dalle assicurazioni e le donne di una riproduzione 'a carico'. Anche rispetto a questa premessa, tuttavia, gli anni settanta e ottanta hanno rappresentato un decennio di svolta, a seguito dei crescenti tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro (partecipazione favorita anche dall'espansione del welfare e dalla transizione al postindustrialismo), nonché della più generale ridefinizione dei rapporti di genere e dei diritti delle donne, con conseguenti ripercussioni sulla stabilità dei matrimoni e delle famiglie.
La quarta premessa era costituita da strutture demografiche relativamente equilibrate nella loro composizione interna, sia rispetto ai rapporti tra le varie fasce di età, sia rispetto ai saldi migratori. Negli ultimi due decenni del secolo scorso è diventato invece chiaro che il declino della natalità, di cui si era già avuto qualche segnale negli anni sessanta, era una tendenza strutturale e di lungo periodo. L'invecchiamento della popolazione che ne è conseguito (connesso anche alla crescita della speranza media di vita) ha profondamente alterato gli equilibri demografici sottostanti al Welfare State, aggravando i già acuti problemi di ordine finanziario. L'invecchiamento ha nel contempo generato nuovi bisogni sul piano sanitario e sociale (si pensi alla perdita dell'autosufficienza dovuta a patologie croniche e/o invalidanti) e dunque una domanda di nuove prestazioni (v. Guillemard, 2000). Alle tensioni demografiche di natura endogena si sono poi aggiunte (soprattutto nell'ultimo decennio) tensioni di natura esogena, connesse al crescente afflusso di emigrati dai paesi in via di sviluppo verso l'Europa.
La quinta premessa era di ordine socio-culturale: per quanto animato da propositi generosi, lo Stato sociale keynesiano presupponeva, per così dire, aspirazioni morigerate e stabili da parte dei suoi beneficiari, ossia congrue rispetto ai profili attuariali delle categorie professionali di appartenenza, oppure limitate a livelli di adeguatezza minima o di base. Già avviatasi durante gli anni sessanta, la 'rivoluzione delle aspettative crescenti' nei confronti delle provvidenze pubbliche ha dato prova di notevole persistenza anche nel corso dei decenni successivi, a dispetto degli sforzi di austerità imposti dalla crisi economica. Ne è conseguito un vero e proprio effetto di moltiplicazione, tanto sulle dinamiche di spesa quanto sulle stesse configurazioni istituzionali (aggiunta di schemi di protezione sociale, loro continuo miglioramento, e così via; v. Ferrera, 1998).
Infine, la sesta premessa su cui poggiavano gli assetti di welfare edificati durante gli anni d'oro era la solidità e la centralità dello Stato-nazione come bacino di riferimento sia ai fini della ridistribuzione, sia ai fini della giurisdizione. Nel corso degli ultimi venti anni, tuttavia, le dinamiche dell'interdipendenza economica e dell'integrazione politica internazionale o addirittura sovranazionale hanno gradualmente eroso anche questa premessa, soprattutto nell'area europea. Il Welfare State si è così trovato a essere minato nelle sue stesse fondamenta politico-istituzionali.
Come si è detto, la crisi iniziata negli anni settanta ha indotto un ampio ripensamento istituzionale, che ha cominciato a dare i suoi frutti in termini di riforme concrete soprattutto nel corso dell'ultimo decennio. Qual è stata la direzione generale del cambiamento? E quali le principali traiettorie di riforma riscontrabili nei paesi europei?
2. Una difficile ricalibratura
Forse il termine che meglio sintetizza la direzione generale del cambiamento nel corso dell'ultimo quindicennio è quello di 'ricalibratura' (v. Ferrera e Hemerijck, 2003; v. Pierson, 2001). Con questo termine indichiamo un insieme di interventi e riforme caratterizzati da tre elementi: 1) la presenza di vincoli, connessi alle sfide sopra illustrate (soprattutto quelle di natura finanziaria), che condizionano la scelta delle politiche pubbliche e la loro evoluzione; 2) l'interdipendenza tra addizioni (o miglioramenti) e sottrazioni (i cosiddetti 'tagli') nel processo di riforma, per effetto dei vincoli suddetti: ad esempio, si possono alzare gli assegni famigliari o elevare i sussidi di povertà solo a patto di ridurre le pensioni; 3) lo spostamento deliberato del peso attribuito ai diversi strumenti e obiettivi di politica sociale, sulla scia di complesse dinamiche di apprendimento sociale e istituzionale.
Così definito, il concetto di ricalibratura può essere ulteriormente articolato in quattro dimensioni più specifiche: funzionale, distributiva, normativa e politico-istituzionale.
a) La ricalibratura funzionale
Questo tipo di ricalibratura ha a che fare con i rischi sociali attorno ai quali i sistemi di welfare si sono sviluppati nel tempo e si riferisce a quegli interventi di ribilanciamento che possono essere effettuati sia entro che attraverso le funzioni tradizionali della protezione sociale. Casi tipici di ricalibratura funzionale sono il passaggio dalle misure compensative di tipo passivo alle forme di promozione attiva (ad esempio, nel campo degli interventi per l'occupazione e del sostegno agli invalidi), e soprattutto, da un lato, il contenimento della spesa per la protezione della vecchiaia e, dall'altro, la promozione di nuove prestazioni e servizi per i rischi tipici di altre fasi del ciclo di vita (quali perdita dell'autosufficienza, formazione professionale, cura dei figli e degli anziani, povertà ed esclusione sociale).
L'invecchiamento demografico rappresenta una sfida formidabile per i sistemi di welfare contemporanei. Il costo delle pensioni aumenterà significativamente nei prossimi tre decenni. Alcuni lievi cambiamenti nell'età di pensionamento, nel tasso di natalità e nelle dinamiche dell'immigrazione possono potenzialmente modificare la dimensione del problema, ma la direzione è chiara: vi è un urgente bisogno di riscrivere il contratto tra le generazioni.
L'invecchiamento della popolazione inserisce inoltre i temi dell'uguaglianza e dell'equità di genere tra le priorità dell'agenda delle riforme. Il rivoluzionario cambiamento del ruolo delle donne nel mercato del lavoro è probabilmente la dinamica principale che soggiace alla ricalibratura funzionale (v. Esping Andersen, 1999; v. Daly, 2000). Esso è inoltre il fattore determinante per la crescita dell'occupazione nel settore dei servizi, così come per l'emergenza di nuovi modelli famigliari e di nuove relazioni tra i generi: infatti, non solo le entrate generate da elevati (e auspicabilmente crescenti) tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro saranno cruciali per la sostenibilità finanziaria del Welfare State nel XXI secolo, ma la stessa sopravvivenza dei sistemi di protezione sociale europei dipenderà anche dalla disponibilità delle donne ad avere figli, riproducendo così le generazioni future. Questo doppio vincolo pone una grande sfida. Il declino della natalità, responsabile dell'invecchiamento demografico, è connesso in modi complessi alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Sebbene le famiglie con due redditi stiano diventando la norma, le donne continuano a sopportare gran parte del peso di dar vita alle nuove generazioni e di prendersi cura sia di queste ultime che di quelle più anziane. Dati recenti indicano comunque che alti tassi di natalità e di partecipazione al mercato del lavoro possono coesistere (v. Esping Andersen, 2002). La chiave per attivare tale circolo virtuoso risiede principalmente nella promozione di eguaglianza e di equità più ampie tra i generi. Da una parte, il conseguimento dell'eguaglianza di genere richiede politiche e incentivi che mirino a una ridistribuzione delle attività di cura all'interno delle famiglie (cioè tra uomini e donne) e tra queste e il settore pubblico; dall'altra, l'equità di genere richiede il riconoscimento e la compensazione delle persistenti differenze nell'allocazione di tali attività tra uomini e donne.
Per quanto concerne i nuovi rischi sociali, un problema che richiede maggiore attenzione è la povertà fra i minori, che - unitamente al fenomeno delle madri sole - è in aumento in molti paesi dell'Unione Europea. La povertà fra i minori, a differenza di quella in età adulta, comporta effetti negativi di lungo periodo, perché si traduce spesso in bassi livelli di istruzione e scarse capacità cognitive, con la probabile conseguenza di un basso reddito e un'alta vulnerabilità alla disoccupazione nella cosiddetta new economy (v. Esping Andersen, 2002).
Si deve porre inoltre l'accento sul fatto che la ricalibratura funzionale avviene sullo sfondo di una sempre più profonda integrazione internazionale del mercato sia dei beni che dei capitali. L'internazionalizzazione del mercato dei capitali impedisce in larga parte la predisposizione a livello nazionale di politiche monetarie e fiscali a sostegno della crescita dell'occupazione e della protezione sociale. Inoltre, la più intensa competizione internazionale sul mercato dei beni stimola la produttività richiedendo capacità professionali sempre più elevate, e questo tende a ridurre le opportunità di occupazione nei settori più esposti, in particolare per i gruppi a bassa specializzazione. Molto probabilmente le perdite di occupazione in tali settori potranno essere bilanciate soltanto da incrementi nel settore protetto dei servizi (v. Scharpf e Schmidt, 2000). Se i mercati del lavoro dovessero continuare ad ampliare le disuguaglianze di reddito e di capacità, ciò potrebbe portare a una nuova polarizzazione tra le famiglie e tra le classi sociali. Rispetto alle attuali politiche per l'occupazione centrate su programmi 'compensativi', le politiche di reintegrazione nel mercato del lavoro devono pertanto porre molta più attenzione allo sviluppo di capacità professionali.
b) La ricalibratura distributiva
La ricalibratura distributiva riguarda i gruppi sociali. Come è stato evidenziato da un ricco dibattito su questo tema, il modello sociale europeo è in larga misura caratterizzato da una sindrome di segmentazione del mercato del lavoro e dalla frattura tra i cosiddetti insiders (l'insieme delle categorie ben tutelate) e i cosiddetti outsiders (le categorie sottotutelate o non tutelate affatto; v. Pierson, 2001). In molti paesi vi sono prove evidenti di un eccesso di prestazioni assicurative per i lavoratori garantiti, che dispongono della 'quasi proprietà' del posto di lavoro (con spesso due o più di tali impieghi per famiglia), a fronte della mancanza di una protezione adeguata (se non di una protezione tout court) per coloro che sono occupati nei settori più periferici e deboli del mercato del lavoro (v. Ferrera, 1998). Le emergenti fratture dovute alle capacità professionali e connesse con la new economy stanno accelerando e rafforzando questa dinamica. In alcuni contesti nazionali sono evidenti marcate disuguaglianze distributive non soltanto tra gli insiders e gli outsiders, ma anche tra gli stessi insiders, cioè tra diverse categorie di assicurati. Molte prestazioni hanno infatti perso la loro motivazione originaria e sono diventate una nuova fonte di disuguaglianza. Pertanto, la ricalibratura distributiva consiste in quegli interventi di riforma che mirano, più o meno apertamente, a ribilanciare la protezione pubblica non tanto tra i diversi rischi, quanto tra i differenti beneficiari delle prestazioni sociali.
La ricalibratura distributiva ha inoltre una componente generazionale. Senza opportune contromisure, l'invecchiamento demografico potrebbe provocare un conflitto fra generazioni, con una spesa crescente per le pensioni - determinata dall'aumento del numero dei pensionati - che rischia di prosciugare le risorse per gli altri programmi sociali. Come distribuire, quindi, costi e benefici delle riforme, mentre i vari paesi effettuano la loro transizione verso una società anziana? I costi dell'invecchiamento devono ricadere sui contribuenti e i loro famigliari, sui pensionati, oppure dovrebbero essere suddivisi in qualche proporzione tra i due gruppi? Si tratta di dilemmi non facili da risolvere. La maggiore longevità e le migliori condizioni di salute dei lavoratori più anziani facilitano l'innalzamento e la flessibilizzazione dell'età pensionabile, ma le riforme in questa direzione spesso si scontrano con ostacoli di natura politica.
c) La ricalibratura normativa
Questo terzo tipo di ricalibratura si riferisce invece ai simboli, alle norme, ai valori e all'elaborazione di nuovi indirizzi pubblici sulla protezione sociale. I sistemi di welfare nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale si fondavano sull'obiettivo normativo di proteggere i più vulnerabili - gli anziani, i malati, i disoccupati - dalla povertà e dall'esclusione sociale e politica (v. Flora e Heidenheimer, 1981). Anche su questo fronte si può notare un'incongruenza degli attuali assetti europei di welfare: la corrispondenza tra le ampie premesse di valore che ispirarono la sua costruzione e le politiche che osserviamo oggi nella pratica è andata gradualmente erodendosi nel tempo, in gran parte a causa di fenomeni di inerzia istituzionale. In molti paesi si sono sviluppati vivaci dibattiti sulla necessità di ripensare i fondamenti morali degli assetti istituzionali esistenti. La ricalibratura normativa si riferisce perciò a quelle iniziative simboliche e a quelle nuove argomentazioni che affrontano i dilemmi funzionali e distributivi dello status quo, cercando di delineare le traiettorie delle politiche future (v. Scharpf e Schmidt, 2000). L'attuale dibattito normativo sulla ricalibratura del welfare in Europa non è più centrato esclusivamente su questioni di giustizia distributiva e di mantenimento del reddito, ma anche (e sempre più) su aspirazioni e valori connessi al lavoro, sullo spirito di imprenditorialità e sulla società dell'apprendimento, sulla divisione del lavoro tra uomini e donne all'interno e al di fuori della famiglia. Questi sviluppi sono in gran parte il risultato dell'accresciuta disponibilità delle donne a partecipare al mercato del lavoro. Ciò a sua volta riflette i più alti livelli di scolarizzazione, la maggiore importanza dell'indipendenza economica e la diffusa convinzione che partecipare al mercato del lavoro sia una dimostrazione di uguaglianza tra i generi. Le inchieste demoscopiche rivelano in modo abbastanza chiaro che oggi sia gli uomini che le donne desiderano accedere a un'occupazione regolare, non soltanto per guadagnarsi da vivere, ma per ragioni di status, prestigio, sicurezza, relazioni sociali e coinvolgimento in un'azione collettiva. Tuttavia, mentre le famiglie con due redditi stanno diventando la nuova norma, tale fenomeno può provocare una minore stabilità delle stesse famiglie e, forse, un indesiderabile equilibrio a bassa natalità. La sfida della ricalibratura normativa risiede, dunque, nell'elaborazione di nuove configurazioni simboliche e nell'articolazione di nuovi programmi pubblici in grado di presentare l'agenda delle riforme come un progetto a somma positiva, efficacemente giustificabile in base ai valori su cui si fonda.
L'elaborazione di questo nuovo framework è particolarmente urgente nel campo delle politiche per la vecchiaia. Gli andamenti demografici rendono improcrastinabile l'identificazione di un punto di riferimento normativo per riformare i sistemi pensionistici in modo equo ed equilibrato. Esso dovrebbe essere centrato su valori quali l'equità intergenerazionale e la giustizia intragenerazionale. La prima implica che i costi di transizione connessi all'invecchiamento della popolazione siano proporzionalmente suddivisi tra i giovani e gli anziani. La seconda fa invece riferimento al principio sostenuto da Rawls (v., 1971), secondo il quale qualsiasi cambiamento dello status quo dovrebbe andare a favore (ovvero meno a sfavore) dei più svantaggiati, sia tra i lavoratori che tra i pensionati (v. Esping Andersen, 2002).
d) La ricalibratura politico-istituzionale
Il quarto tipo di ricalibratura ha a che fare con i livelli decisionali e con gli attori che sono - o dovrebbero essere - coinvolti nel governo della protezione sociale. Come suggerisce la stessa espressione, uno degli elementi più caratteristici del Welfare State europeo è la sua natura pubblica: la responsabilità di assicurare la solidarietà sociale e la coesione spetta allo Stato - in ultima analisi al governo nazionale (cioè centrale). I fondi e gli schemi assicurativi pubblici di protezione, assieme alle burocrazie statali, sono stati tradizionalmente i pilastri portanti dell'edificio del welfare. Negli ultimi anni vari sviluppi hanno sfidato questo paradigma istituzionale. Da un lato, molti paesi (specialmente quelli di maggiori dimensioni) stanno sperimentando forme di decentramento delle competenze ai livelli sub-nazionali (regionali e locali) di governo in risposta a numerose pressioni - dall'accresciuta competizione internazionale al sovraccarico fiscale a livello statale-nazionale. Per molti aspetti, le arene sub-nazionali di policy si presentano come l'ambiente più adatto per sostenere la competitività e la solidarietà sociale attraverso soluzioni istituzionali e configurazioni organizzative innovative. Dall'altro lato, l'Unione Europea è andata gradualmente emergendo come un autonomo livello sovranazionale di regolazione sociale e, per certi versi, di ridistribuzione (attraverso i fondi strutturali), creando in questo modo un sistema complesso di interazioni multilivello che ha trasformato i sistemi di welfare nazionali da entità pienamente sovrane a entità semi-sovrane (v. Leibfried e Pierson, 1995). Il primo tipo di cambiamenti messi in luce dalla dimensione politico-istituzionale della ricalibratura è pertanto costituito da quelle riforme che riconfigurano la divisione delle competenze tra i differenti livelli di governo per quanto concerne le prestazioni di welfare e la promozione dell'occupazione.
Tuttavia, nella sfera della ricalibratura politico-istituzionale esiste un secondo aspetto importante, che riguarda gli attori coinvolti nel processo decisionale relativo alle politiche sociali all'interno del nuovo sistema di governance. Una ricca letteratura si è occupata negli ultimi anni dei potenziali meriti del dialogo e dei patti sociali a ogni livello istituzionale, nonché della desiderabilità di allargare il campo della negoziazione e del coordinamento tra gli attori (v. Fajertag e Pochet, 20002). Perciò, l'espressione 'ricalibratura politico-istituzionale' mira a identificare non soltanto i movimenti verso una più articolata governance multilivello delle politiche sociali europee, ma anche quei passi che vanno nella direzione di un più inclusivo (per quanto sempre coordinato) sistema di governo, fondato sulla presenza di molteplici attori e di 'reti' tra gli stessi (network governance), auspicabilmente aperto alla voce dei cosiddetti outsiders e capace di incoraggiare istanze di interesse generale da parte dei gruppi di interesse organizzati.
3. Traiettorie di riforma nelle 'quattro Europe sociali'
Ciascun paese europeo ha seguito un proprio individuale percorso di ricalibratura. È possibile, nondimeno, individuare alcuni tratti comuni all'interno delle quattro grandi famiglie di paesi, spesso definite le 'quattro Europe sociali': quella nordica, quella anglosassone, quella continentale e quella sudeuropea (v. Kuhnle, 2000; v. Ferrera e Rhodes, 2000). Queste varianti si differenziano in base ai seguenti fattori: la copertura dei rischi e i requisiti di accesso; la struttura delle prestazioni; i meccanismi di finanziamento e gli assetti organizzativi.
a) L'Europa del nord
Nel corso degli anni novanta i paesi nordici si sono trovati alle prese con le pressioni rivolte al contenimento dei costi, elevati e in costante crescita, dei loro generosi programmi di protezione sociale e alla riorganizzazione dei rispettivi mercati del lavoro, specialmente per sostenere la creazione di nuova domanda di occupazione nel settore privato. Considerato l'alto livello di sostegno popolare allo Stato sociale, l'agenda delle riforme è stata caratterizzata da un approccio pragmatico, orientato alla risoluzione dei problemi. L'obiettivo primario è stato il contenimento dei costi. I principî dell'universalismo (copertura uniforme per tutti i cittadini) non sono stati messi veramente in discussione, anche se in concreto sono stati introdotti tagli generalizzati ai tassi di sostituzione (ad esempio nelle indennità di malattia) o alle prestazioni di base (ad esempio gli assegni familiari in Svezia). Tuttavia, sono state compiute alcune mosse significative di impronta 'bismarckiana' (o europeo-continentale) nel settore delle pensioni: il legame tra contributi e prestazioni è stato rafforzato sia in Svezia che in Finlandia. Accanto al contenimento dei costi, un secondo motivo conduttore importante dell'agenda riformista in Scandinavia nel corso degli anni novanta è stato la cosiddetta 'attivazione', ossia la modifica delle formule delle prestazioni sociali, allo scopo di rafforzare gli incentivi al lavoro. Gli equilibri finanziari dei Welfare States nordici sono notevolmente migliorati negli ultimi anni e la disoccupazione è sensibilmente diminuita. Rimangono però alcuni seri problemi irrisolti, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo dell'occupazione nei servizi del settore privato, sviluppo ancora ostacolato da costi del lavoro troppo elevati e da politiche retributive troppo egualitarie.
b) Il Regno Unito
In questo paese (che rappresenta una seconda variante di Europa sociale) il Welfare State è caratterizzato da livelli di protezione comparativamente modesti, da incentivi rigorosamente improntati alla produttività del fattore lavoro e da un'erogazione means-tested, ossia filtrata da una verifica dei mezzi dei richiedenti. È vero che il valore aggregato della spesa sociale nel Regno Unito è superiore alla media dell'Unione Europea, che il National Health Service risponde alle esigenze sanitarie dell'intera popolazione e che la gamma di prestazioni esistenti (se non il loro ammontare) è comparativamente ampia. Ma la logica istituzionale dello Stato sociale britannico è distinta da quella delle altre varianti di Europa sociale. La struttura a somma fissa dei benefici e le lacune di copertura (dovute all'esistenza di soglie di esenzione dall'assicurazione obbligatoria) hanno consentito ai governi conservatori succedutisi negli anni ottanta di promuovere una strisciante 'residualizzazione' della protezione sociale e un'espansione dei posti di lavoro a basso salario e a basso contenuto professionale. Le misure di portata universale hanno registrato un processo di graduale erosione, le classi medie sono state incoraggiate a uscire dagli schemi pubblici (opting out) a favore di forme non statali di assicurazione (ad esempio nel campo delle pensioni) e i benefici means-tested, con verifica delle condizioni di bisogno, hanno registrato un netto incremento. Sono stati introdotti anche dei sussidi ai salari per integrare i redditi dei lavoratori con basse retribuzioni. L'erosione della protezione a vocazione universale ha consentito di contenere la crescita dei costi, evitando i problemi fiscali in cui sono incorsi altri paesi europei. Il sostegno ai salari tramite sussidi pubblici ha a sua volta favorito un'espansione dell'occupazione nell'economia privata, specialmente nel settore dei servizi. I problemi più seri sono collegati al marcato incremento della povertà e della diseguaglianza nel corso del tempo.
Con la vittoria dei laburisti guidati da Tony Blair, nel 1997, nel Regno Unito si è affermata una nuova agenda riformista, incentrata sui seguenti elementi: l'introduzione di maggiori incentivi a cercare un'occupazione remunerata, invece di dipendere dai sussidi pubblici; la lotta contro la povertà e l'esclusione; il miglioramento dei servizi sociali e sanitari e soprattutto del sistema di istruzione e formazione, allo scopo di rafforzare le competenze e le qualifiche dei lavoratori e ridurre così il numero di coloro che, pur lavorando, non riescono a sollevarsi al di sopra della soglia di povertà (i cosiddetti working poors).
c) L'Europa continentale
La sindrome che affligge i sistemi di welfare continentali affonda le proprie radici nella generosità delle prestazioni sostitutive del reddito erogate dagli schemi previdenziali, nella natura principalmente passiva o compensativa di queste prestazioni e nel loro finanziamento basato sui contributi sociali. La garanzia di diritti previdenziali generosi ha imposto elevati oneri sui salari dei lavoratori regolari, in presenza di sistemi di legislazione del lavoro molto protettivi. Ciò ha disincentivato le imprese dal continuare a offrire un'occupazione tradizionale di tipo fordista, generando allo stesso tempo pressioni a favore di un pensionamento anticipato sovvenzionato dallo Stato. Questa strategia ha ridotto i tassi di partecipazione al mercato del lavoro, con scarsissimi risultati sul piano della promozione di nuova occupazione. La presenza di minimi salariali e/o di trasferimenti sociali in caso di mancanza di lavoro ha disincentivato la creazione di posti di lavoro a bassa remunerazione, soprattutto nei servizi del settore privato, mentre il settore dei servizi pubblici non ha potuto creare nuova occupazione a causa dei vincoli di bilancio. La conseguenza è stata quella di un'ulteriore espansione degli schemi di sostegno passivo del reddito (indennità di disoccupazione, di malattia, di invalidità e programmi di pensionamento anticipato), che hanno a loro volta portato a ulteriori incrementi degli oneri sociali. I sistemi continentali non hanno mostrato alcuna efficacia nemmeno nella promozione di iniziative che consentissero alle donne di conciliare il lavoro con le responsabilità familiari. Si è così determinato un equilibrio negativo tra bassa occupazione femminile (in presenza di disoccupazione elevata) e bassa natalità, con tutte le relative conseguenze di natura fiscale.
Questa sindrome ha dato origine a una complessa agenda di riforme, i cui principali elementi sono stati e in larga misura sono tuttora: il contenimento delle dinamiche di espansione della previdenza sociale; la razionalizzazione della struttura della spesa sociale nel suo complesso, attraverso la riduzione delle pensioni e di tutti i trasferimenti di impostazione passiva, rafforzando al tempo stesso le politiche per la famiglia e gli incentivi al lavoro; la riforma della disciplina dei rapporti di lavoro allo scopo di superare la contrapposizione fra rapporti garantiti e non garantiti; la riduzione dell'incidenza degli oneri sociali. Progressi importanti in tutte queste direzioni sono stati compiuti in molti paesi durante gli anni novanta. In Olanda le riforme introdotte durante l'ultimo quindicennio hanno consentito di accrescere l'occupazione e controllare i costi. Il cosiddetto "miracolo olandese" mostra che uscire dalla sindrome del "fordismo congelato" (come è stato efficacemente definito il complesso dei problemi del welfare continentale) è possibile (v. Visser e Hemerijck, 1997). Ma in vari paesi le riforme hanno originato vistose turbolenze politico-sociali e molta strada resta ancora da percorrere, soprattutto nei due principali paesi di quest'area, ossia la Francia e la Germania.
d) L'Europa del sud
Lo Stato sociale nei paesi dell'Europa meridionale soffre di molti dei problemi che caratterizzano la 'famiglia' continentale, specialmente per quanto riguarda il mercato del lavoro, ma presenta anche aspetti specifici. In Spagna, Portogallo, Grecia e (in misura minore) Italia, lo Stato sociale si è sviluppato in epoca successiva rispetto all'Europa del nord e ha dovuto far fronte a contesti socio-economici più complessi. La protezione sociale è entrata nell'era della 'austerità permanente' (gli anni novanta) in condizioni di sottosviluppo istituzionale e finanziario e sotto l'effetto di squilibri interni. Le prestazioni sociali di questi paesi registrano vette estreme di generosità a favore di talune categorie occupazionali, a fianco di gravi carenze riguardanti altri gruppi. Chi sta 'dentro' e chi sta 'fuori' - sia rispetto al mercato del lavoro, sia al più generale accesso alla protezione sociale - sono separati da un solco profondo sotto il profilo delle garanzie e delle opportunità. L'economia sommersa è molto diffusa e pone seri problemi di efficienza e di equità. I servizi pubblici risultano essere tuttora distribuiti in modo difforme sul territorio nazionale e, in alcuni casi, sono insufficienti e/o inefficienti. Questi paesi sono stati perciò costretti a rimodulare la copertura e la generosità dei propri schemi, offrendo prestazioni meno consistenti per gli insiders e - per quanto consentito dai vincoli di bilancio - nuovi benefici e servizi per gli outsiders. La difficoltà intrinseca di un simile percorso è aggravata da andamenti demografici particolarmente sfavorevoli: le popolazioni dell'Europa meridionale (specialmente in Italia e Spagna) stanno invecchiando con un ritmo che è tra i più rapidi su scala mondiale.
Gli anni novanta hanno registrato anche nella quarta Europa sociale il delinearsi di un'agenda delle riforme incentrata sui seguenti provvedimenti: attenuazione delle tutele previste per i gruppi occupazionali storicamente privilegiati, come i dipendenti pubblici, e per i lavoratori dipendenti regolari, accompagnata dal miglioramento delle prestazioni minime e sociali; introduzione e consolidamento della rete minima di sicurezza, soprattutto attraverso schemi di reddito minimo garantito; adozione di misure di rafforzamento delle prestazioni e dei servizi sociali per le famiglie; razionalizzazione organizzativa e finanziaria dei servizi sanitari nazionali; politiche di contrasto all'economia sommersa e all'evasione fiscale e contributiva; riforma dei mercati del lavoro e delle prestazioni per la disoccupazione.
Questa agenda riformista ha trovato buona realizzazione nei due paesi iberici, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro e il consolidamento della rete minima di sicurezza. Le realizzazioni sono state molto più modeste in Grecia, che è forse oggi in Europa il paese di retroguardia in termini di modernizzazione della protezione sociale. In Italia sono stati compiuti significativi passi avanti in alcuni cruciali settori (v. Ferrera e Gualmini, 1999): pensiamo alle riforme pensionistiche del 1992, del 1995 (la cosiddetta 'riforma Dini') e del 1997; alla razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale (1999); alla riforma dell'assistenza (2000). La ricalibratura dello Stato sociale italiano è tuttavia lungi dall'essere completata: ulteriori riforme dovranno essere varate negli anni a venire.
4. Il nuovo ruolo dell'Unione Europea
Le riforme dell'ultimo quindicennio hanno inaugurato una nuova fase di sperimentazione nel settore della protezione sociale. Molti dei tradizionali strumenti sono stati sostituiti o ricalibrati e in alcuni settori gli stessi obiettivi di fondo del Welfare State sono stati ridefiniti: pensiamo al passaggio dalla logica del risarcimento dei danni a quella della promozione delle opportunità. Le riforme introdotte hanno cercato di bilanciare fra loro i vincoli di natura economico-finanziaria e quelli di natura politico-sociale. Per superare questi vincoli, si è a volte proceduto per passi successivi o attraverso sperimentazioni nel senso stretto del termine. Limitandoci al caso italiano, si pensi alla successione di ben tre riforme pensionistiche negli anni novanta, oppure all'introduzione sperimentale del cosiddetto 'reddito minimo di inserimento' (una nuova prestazione per le persone in condizione di estrema povertà) avviata nel 1998. Anche se il livello nazionale è stato quello più rilevante per l'innovazione istituzionale, un importante sviluppo verificatosi nell'ultimo quindicennio è rappresentato dal crescente ruolo dell'Unione Europea nel promuovere la modernizzazione del welfare. È auspicabile che tale ruolo si rafforzi ulteriormente in futuro: non in un'ottica di armonizzazione, ma di mutua stimolazione a riformare, traendo spunto dalle politiche e dalle pratiche che hanno dato miglior prova di sé.
I Trattati di Maastricht, di Amsterdam e di Nizza hanno conferito all'Unione nuovi poteri e competenze nel settore sociale. La cosiddetta 'strategia di Lisbona', avviata dal Consiglio dell'Unione nel marzo 2000, ha a sua volta indicato fra le priorità la coesione sociale.
Le maggiori promesse di innovazione sono connesse ai vari processi di coordinamento aperto nel campo delle politiche dell'occupazione, di inclusione sociale, delle pensioni e della sanità. In questi processi, l'Unione fissa alcuni grandi obiettivi strategici (l'aumento del tasso di occupazione, pensioni adeguate ma sostenibili, una rete di sicurezza per i più vulnerabili, una sanità accessibile a tutti, e così via), i paesi membri redigono e realizzano piani d'azione nazionale, e questi vengono poi valutati collettivamente al fine di individuare le politiche e le pratiche migliori. Tali processi di coordinamento a livello europeo sono 'aperti' in molti sensi: accessibili da parte di diversi partecipanti, trasparenti nelle procedure di discussione e valutazione, flessibili nell'identificazione degli obiettivi. Essi mirano non solo ad adattare i sistemi nazionali di protezione sociale alle mutate condizioni ambientali, ma anche a renderli strutturalmente più duttili, meno rigidi. Certo, il processo di ricalibratura continuerà a essere accompagnato da delicati dilemmi istituzionali e da tensioni politico-sociali: a meno di non aumentare le imposte (un'opzione che non compare nell'agenda di nessuna fra le principali famiglie politiche europee), le riforme comporteranno sottrazioni per qualcuno rispetto a qualche cosa. Ma grazie al nuovo ruolo dell'Unione Europea, la probabilità di trovare soluzioni ragionevoli e praticabili appare sicuramente più elevata.
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