Individuo, Stato e società in Gentile
Nelle opere di Gentile non è presente l’interesse per la storia del pensiero politico che caratterizza invece la riflessione di altri autori italiani a lui contemporanei, da Gaetano Mosca a Vilfredo Pareto e Piero Gobetti, che a più riprese si occupano specificamente dei concetti (Stato, partito, costituzione, legge ecc.) e dei classici della tradizione politica (Niccolò Machiavelli, John Locke, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, Jean-Jacques Rousseau ecc.).
Naturalmente ciò non significa che nel pensiero filosofico di Gentile non siano presenti temi politici – tra i quali, in particolare, «individuo», «Stato» e «società» –, che vengono discussi a partire da una prospettiva principalmente ‘teoretica’, la quale non esclude però la dimensione ‘pratica’, come risulta evidente dal più generale impianto del suo attualismo. L’analisi gentiliana del rapporto tra individuo, società e Stato non è dunque di tipo strettamente politologico o giuridico, perché è parte del suo più ampio sistema filosofico, che nega ogni assolutismo (sia esso trascendente o naturalistico) in nome di un’identificazione della filosofia con la storia, del pensiero con l’azione, del sapere con il fare, del soggetto con l’oggetto. La politica è infatti parte centrale del sistema filosofico gentiliano, in cui emerge una concezione dello spirito come autocreazione libera e immanente. Per questo motivo la conoscenza non è contemplazione della realtà, bensì produzione di essa nel divenire storico: il soggetto conoscente non è spettatore passivo di un assoluto preesistente, perché ciò che è vero è ciò che è fatto dall’uomo. Verum et factum convertuntur: conoscere è fare, pensare è agire. Superare la scissione tra la filosofia e la vita, tra la scienza e l’azione, tra la realtà e la verità: questo è l’intento dell’attualismo gentiliano, contrario a ogni forma di dogmatismo astorico (sia esso positivistico o empiristico, materialistico o spiritualistico, idealistico o religioso) e sostenitore del metodo dell’immanenza:
Il metodo dell’immanenza consiste nel concetto della concretezza assoluta del reale nell’atto del pensiero, o nella storia: atto che si trascende quando si comincia a porre qualche cosa (Dio, natura, legge logica, legge morale, realtà storica come insieme di fatti, categorie spirituali o psichiche di là dall’attualità della coscienza) che non sia lo stesso Io come posizione di sé o, come Kant diceva, l’Io penso. Il metodo dell’immanenza è il punto di vista e la legge dell’idealismo attuale; e non ha a che fare col metodo omonimo di quella filosofia dell’azione che crede di poter muovere bensì dall’atto spirituale, ma nel supposto che la realtà sia fuori di esso (La riforma della dialettica hegeliana, 1913, 19963, p. 232).
L’immanenza è la dimensione in cui si realizza l’atto, in cui lo spirito si fa realtà. Se il pensiero è cosciente di se stesso e della sua attività e dei suoi fini, la filosofia si svolge e si rinnova con la vita pratica, tanto che il suo progresso storico riflette il cammino degli uomini, con le loro esperienze e i loro desideri, i loro successi e le loro crisi, senza però rimanere sul piano della mera molteplicità (I fondamenti della filosofia del diritto, 1916, 19874, pp. 54 e segg.; La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 174 e segg.). Nella sua «attualità» il pensiero si rinnova continuamente, ponendo nuovi problemi, nuovi valori, nuovi istituti, per ripensarli appena li ha posti, trasformandoli o negandoli, mantenendo in relazione l’unità e la differenza.
Tutto ciò rende possibile l’identità di filosofia e politica, intesa da Gentile non solo nel senso che la politica ha bisogno di chiarire se stessa attraverso il rigore della filosofia, o non solo nel senso che la politica è pensiero; ma anche nel senso che non è più possibile una filosofia che non si accompagni alle questioni politiche, riflettendone in sé gli interessi e i fini e mirando a risolverne «processualmente» (ma sempre provvisoriamente) le contraddizioni. In Gentile la filosofia non è il concetto di una realtà presupposta, separata e «anteriore» (come vorrebbe Georg Wilhelm Friedrich Hegel), bensì il concetto di una realtà che si realizza mentre si comprende nella sua totalità. La filosofia è politica perché la filosofia è nesso indissolubile tra teoria e prassi:
La filosofia non conosce più un oggetto che le preesista; ossia non conosce più una natura, né può conoscere una realtà spirituale che non sia quella stessa che essa costruisce. E se chi dice realtà spirituale dice storia, che si configura come processo comune (interindividuale), governato da una volontà unica che informa di sé tutto il processo e stringe gli individui molteplici in una superiore individualità spirituale, la filosofia, oggi, non conosce il suo oggetto se non come storia e vita dello Stato (Dopo la vittoria. Nuovi frammenti politici, 1920, p. 188).
La filosofia gentiliana non muove dall’oggetto, bensì dal pensiero, o dal soggetto, per far ritorno all’oggetto; non da una realtà immutabile, perfetta e inaccessibile, bensì dall’uomo come soggetto operante che realizza il progresso storico. La verità non è ciò che è, ma ciò che si fa nella storia. È la volontà umana a plasmare la realtà, proprio perché il pensiero è pensiero in atto che realizza se stesso nel proprio «svolgimento», che è il reale processo dello spirito indirizzato a realizzare la propria finalità immanente attraverso il passaggio all’interno del «negativo». Nonostante la loro distinzione logica ed empirica, unità e molteplicità, o universale e particolare, sono pertanto da comprendere insieme, visto che l’uno presuppone l’altro, e viceversa:
Nella storia d’un singolo il presupposto della rappresentazione del suo svolgimento è l’unità costante del singolo; nella storia d’un gruppo sociale, l’unità costante di quel gruppo; e nella storia universale l’unità costante dell’umanità civile. Ci vuole la molteplicità e la differenza; ma ci vuole anche l’uno e l’identico. Non si progredisce ricominciando sempre da capo. Il passato non deve passare, ma restare; il morto deve vivere e perpetuarsi, affinché il presente sia davvero il presente (La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 177-78).
Se il passato deve sopravvivere nel presente e nella creazione del futuro, allora la storia è il processo dello spirito che crea se medesimo. Su questo punto Gentile sottolinea la distanza del proprio idealismo immanente non solo dal meccanicismo e dal materialismo (filosofie nelle quali o non è presente l’unità del reale a partire dalla molteplicità sensibile, o tale unità è presente ma senza svolgimento storico), ma anche dall’idealismo platonico e dalla dialettica hegeliana. Infatti, le filosofie platoniche pongono le idee e il vero essere fuori dalla storia e dall’effettualità del reale, rendendo pertanto impossibile pensare lo «svolgimento». Hegel invece non riesce a liberarsi della contingenza e tratta le categorie come concetti da comprendere, non come concetti da realizzare: il suo errore fondamentale consiste nel cercare il pensiero e la realtà fuori dall’atto del pensiero, mentre per Gentile è proprio nell’attualità che si realizza il principio costitutivo del pensiero (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 39 e segg., 47 e segg.; La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 196 e segg., 225 e segg.). Gentile sostituisce dunque a una dialettica del pensiero pensato una dialettica del pensiero pensante, allo scopo di interpretare la realtà non come intuizione bensì come produzione soggettiva e sensibile dell’uomo. Considerato nella sua attualità, il pensiero non è separabile nel pensare e nel pensato, nella coscienza e nell’oggetto della coscienza; allo stesso modo la filosofia non può essere separata dalla storia e dalla politica, e viceversa.
La filosofia gentiliana dell’atto mira a definire lo statuto del soggetto che, sul piano filosofico-politico, equivale all’«individualità». L’individualità non coincide con l’individuo privato, ma con il soggetto del pensiero e dell’azione: individualità è dunque anche la famiglia, la società e lo Stato in quanto soggetti dell’atto. Prima di parlare delle concrete individualità politiche (in particolare di individuo, società, Stato) è pertanto necessario definire lo statuto filosofico del soggetto gentiliano, inteso come fondamento dell’intera realtà che non ha bisogno né di un fondamento divino, né di un fondamento materiale. Il soggetto in Gentile è il soggetto spirituale che esclude ogni differenza di pensiero e volontà, che è libertà infinita in quanto potenza creatrice del mondo: esso è soggetto-oggetto, pensiero che realizza la realtà nell’unione di teoria e prassi, di essere e conoscere, di sapere e fare, di realtà e verità.
Il problema fondamentale dell’attualismo gentiliano è il superamento delle concezioni dualistiche della realtà (sia idealistiche sia materialistiche), in particolare il superamento dei dualismi tra spirito e natura, tra ideale e reale, tra soggetto e oggetto presenti nell’intero arco della storia della filosofia, da Platone a David Hume, da René Descartes a Baruch Spinoza, da Gottfried Wilhelm Leibniz a Immanuel Kant. La soluzione del problema viene individuata da Gentile nel concetto di «sintesi a priori» dell’atto spirituale, o unità dialettica degli opposti (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, 19987, pp. 8-10, 16, 22-24, 30, 39 e segg., 90-93, 97-100; Sistema di logica come teoria del conoscere, 1° vol., 1917, 20033, pp. 97 e segg., 111 e segg.).
L’atto puro si scinde dialetticamente nel proprio opposto (natura/spirito, ideale/reale, soggetto/oggetto) senza, tuttavia, perdere la propria unità originaria. Tutta la realtà è infatti idea, spirito, atto puro o «concreto», ossia attività di posizione e creazione di ciò che è altro dallo spirito: fuori dall’atto non si dà nulla perché anche la «natura» è un concetto, un momento dialettico necessario dello spirito, posto e creato da esso. Nel sistema gentiliano l’unità concreta che risolve il problema del dualismo è l’atto spirituale che «pone» la natura, cioè che crea il suo opposto in un processo che produce l’intera realtà: in questo senso l’unità concreta di natura e spirito è sintesi a priori, cioè una sintesi che precede i termini della relazione tra i due opposti, che sono reali solo nella relazione.
Tutto ciò risulta evidente dalla riforma gentiliana della dialettica hegeliana (cfr. l’omonimo saggio del 1913): in Gentile la dialettica – intesa da Hegel come mediazione delle opposizioni in vista di un’unità superiore – diventa unità a priori che lascia esistere le differenze come esteriorità non a priori, bensì a posteriori, cioè come manifestazioni dell’atto, l’unica realtà esistente. La sintesi a priori è la relazione originaria, antecedente e fondante i termini della relazione: l’oggetto, la verità, il fatto non preesistono al soggetto, alla conoscenza, all’atto. Lo spirito è processo, o atto, e non sostanza, così come la filosofia è azione, o politica, non contemplazione. L’oggetto è posto dall’attività del soggetto: lo spirito è infatti creazione di sé e, allo stesso tempo, della natura. La molteplicità mostra la realtà e la vita dell’unità, che appunto non è (una sostanza, un’essenza ecc.), ma diviene, formandosi nell’«attualità». Il concetto dialettico dello spirito non solo non esclude, ma addirittura richiede la molteplicità spirituale come nota essenziale al concetto dell’unità infinita dello spirito, che è allo stesso tempo infinita moltiplicazione dell’uno e unificazione del molteplice. L’essere del pensiero è unità di idea e realtà perché il pensiero è mediazione dialettica. L’atto puro che crea il fatto, il soggetto che pone l’oggetto non è l’io empirico: l’atto puro ha carattere trascendentale ed è il presupposto di ogni coscienza empirica.
L’atto non è fatto: uno di quei fatti di cui lo spirito sente il bisogno di indagare il significato. Tutti i fatti presuppongono questo atto, che è l’Io, senza il quale non si costituiscono come oggetti del pensiero e di indagine. Se l’atto stesso costitutivo dell’Io viene abbassato a fatto, ciò è possibile per il noto sdoppiamento di Io trascendentale e Io empirico, il primo dei quali, producendo il secondo, questo, opposto quindi a sé come il prodotto si oppone al suo principio, considera come fatto: ma come fatto che ha la sua condizione efficiente in esso, che rimane, e rimarrà sempre, atto. Atto, in verità, che è l’atto: atto senza plurale, perché la molteplicità dei soggetti dell’esperienza è essa stessa un oggetto di esperienza: e suppone quindi un’esperienza unica e un soggetto egualmente unico di questa esperienza. Unità, dunque, immoltiplicabile (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., 1923, 20035, p. 77).
L’unità dello spirito di cui tratta il sistema gentiliano non consiste nella realizzazione dell’idea soltanto quando questa sia l’atto del pensiero nel suo svolgimento, nel suo processo costruttivo: l’unità si verifica nello svolgimento, nella concretezza dell’attività spirituale in quanto unificazione di essere e non-essere. Il soggetto e l’oggetto non preesistono all’atto del conoscere: l’atto è l’unità distintiva di realtà e idea, di soggetto che acquista coscienza di sé e che si pone come oggetto del conoscere. L’atto di Gentile, dunque, è sempre «in atto» e per questo si sottrae a ogni oggettivazione. L’atto è pensiero che pensa nell’atto di questo pensare, è il centro extratemporale di ogni temporalità presente in cui il soggetto coincide con l’oggetto, in cui lo spirito non ha passato né futuro bensì continua «attualità» di teoria e prassi: il pensiero non è, nel suo atto, pensiero individuale o pensiero «di tutti», bensì libertà e universalità. Il pensiero concreto dell’Io non è la somma dei pensieri concreti, ciascuno dei quali può essere trasceso nella sua individualità: il pensiero dell’Io è sempre uno perché è tutto il pensiero pensabile, cioè l’unico pensiero possibile.
Posto il pensabile, esso è; né è possibile che alcuna determinazione estrinseca acceda all’essere, perché ogni determinazione è «posizione di essere». La libertà dell’atto è dunque possibile perché non esiste niente che possa condizionare il suo «inizio assoluto» o che possa condizionare l’esito dell’«attualità» assolutamente incondizionata dello spirito, che non conosce altra realtà fuori di sé. Allo stesso tempo, la verità dell’atto non è verità in quanto conforme a una legge o a un «fatto», ma perché è il pensiero che è legge a se stesso, avente in sé la propria misura: l’atto è norma sui. La logica dell’attualismo gentiliano riposa non nel concetto, ma nell’«autoconcetto» e culmina così nella superiorità del fieri sull’esse, del «fare» sul «fatto» o su «ciò che sarà fatto»: il vero spirito non è quello che risolve l’inquietudine del divenire nel conseguimento della meta (che è allo stesso tempo un limite), ma quello che risolve l’inquietudine del divenire nel continuo atto del conseguire. Lo spirito non fu in principio e non sarà alla fine: il suo essere consiste nel suo divenire. Con l’idea di atto puro, o concreto, Gentile prospetta dunque l’essere nella forma del divenire, la filosofia nella forma della politica.
I concetti di individuo, società e Stato – così come le loro reciproche relazioni – vengono da Gentile trattati soprattutto nelle opere I fondamenti della filosofia del diritto (la cui prima edizione, come sopra accennato, è del 1916) e Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica (scritto tra l’agosto e il settembre del 1943, ma pubblicato postumo nel 1946), in una prospettiva teorica che rimane sostanzialmente immutata nell’intero arco della sua carriera filosofica.
Nella tradizione filosofico-politica moderna – da Thomas Hobbes a John Stuart Mill – prevale una concezione individualistica secondo cui la società è solo un aggregato di individui (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 73 e segg., 105-107; Genesi e struttura della società, rist. 1994, pp. 12 e segg., 33 e segg., 61 e segg.). Secondo questa tradizione – di orientamento prevalentemente liberale –, ogni individuo è autonomo e autosufficiente poiché trova in sé tutto ciò che è essenziale alla natura umana (ragione, morale, arte ecc.): il diritto naturale individuale è infatti anteriore alla società (e anche alla storia, che si presenta come una serie di avvenimenti estrinseci e accidentali). Tale posizione, secondo Gentile, è però autocontraddittoria. Questo individualismo non può infatti collocare il principio spirituale all’interno dell’individuo, perché quest’ultimo viene concepito in modo puramente materialistico: nel mondo materiale dell’individualismo moderno la molteplicità esclude l’unità, perché essa è solo mera molteplicità incapace di comporre il particolare e l’universale.
La posizione antiliberale di Gentile, elaborata da una prospettiva di ‘destra’, non è unica nel panorama filosofico europeo tra le due guerre – basta ricordare qui, oltre alle posizioni di Francesco Ercole, Delio Cantimori e Ugo Spirito, le teorie di Ernst Jünger e Carl Schmitt e le ideologie irrazionalistiche della Volks-gemeinschaft – ma originale è il fondamento filosofico di tale critica, che mira a individuare le contraddizioni teoretiche interne ai rapporti tra individuo, società e Stato presenti nel liberalismo e condensate nella categoria dell’«astrattezza» (una categoria che, in verità, viene utilizzata, in funzione anticapitalistica, da pensatori marxisti quali Antonio Gramsci, Max Horkheimer e György Lukács e, in funzione antiborghese, da pensatori ‘comunitaristi’ quali Georges Bataille e Roger Caillois). Agli occhi di Gentile, infatti, solo con Hegel si afferma una concezione concreta dell’individuo fondata sull’autocoscienza, cioè sulla sua essenza spirituale, che sottrae l’individualità alle angustie della rappresentazione materialistica:
Nella Fenomenologia dello spirito si dimostra che la forma più elementare della coscienza sensibile reca in sé un intrinseco germe di autocritica e di autosuperamento in un processo dialettico che eleva la coscienza all’autocoscienza e questa fino allo spirito (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 107).
In questa prospettiva l’individuo è unione di particolare e universale: una tale realizzazione di sé equivale al processo di umanizzazione dell’uomo che si sviluppa nella storia, che in questo modo non è più un’appendice estrinseca alla realtà spirituale bensì è tutt’uno con essa. Nel processo di realizzazione di sé descritto da Hegel, l’autocoscienza – intesa come unione di sapere e volere – attua la sua universalità e la sua libertà in primo luogo nella famiglia, poi nella società civile, infine nello Stato. In questo modo l’individualità è certamente autocoscienza, ma senza alcunché di «naturale» e di «immediato»: essa è spirito perché conquista il proprio essere in quanto si sviluppa dialetticamente.
Nonostante la sua ammirazione per il filosofo della Fenomenologia dello spirito, Gentile non segue pedissequamente la lezione hegeliana, nemmeno intorno alla definizione dell’individuo e al suo rapporto con la società, poiché «il soggetto non può mai concepirsi in una forma così soggettiva che non contenga l’oggetto» (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 117-18): il soggetto è tale perché pone l’oggetto non come astratto oggetto immediato, ma come unità della sintesi di soggetto-oggetto, cioè come atto o unità sintetica a priori. Senza l’identità di Io e non-Io, di soggetto e oggetto, l’oggetto sarebbe una «cosa» impenetrabile al soggetto e il soggetto sarebbe isolato, chiuso in se stesso. Il soggetto gentiliano, infatti, non appartiene alla sfera hegeliana dello spirito soggettivo e pertanto non deve estraniarsi da sé nel mondo dei rapporti oggettivi per poi ritornare a se stesso – come vorrebbe di nuovo Hegel – superando tutta la sfera del mondo sociale per iniziare a elevarsi allo spirito assoluto, in un percorso che però, di fatto, fagocita l’individuo all’interno del procedere necessario dello spirito assoluto, ipostatizzato e trascendente (Genesi e struttura della società, cit., pp. 20 e segg.).
La «triade» hegeliana, che conduce lo spirito dalla dimensione del soggettivo a quella dell’oggettivo e infine a quella dell’assoluto, è dunque, secondo Gentile, faticosa, fittizia e arbitraria, tanto che alla distinzione hegeliana tra la moralità e l’eticità egli sostituisce l’unione di morale ed etica: l’atto spirituale è sempre un atto morale attraverso cui l’Io si fa Io facendosi non-Io, costruendo il sé concreto mentre costruisce l’alterità reale. L’individuo contiene sempre in sé il contrasto tra la particolarità della sua natura e l’universalità del suo giudizio, ma tale contrasto – che esiste solo sul piano empirico, non su quello spirituale – non può nascondere che l’individuo concreto è autocoscienza universale, in quanto non è un essere della natura, o un oggetto dello spirito, bensì è soggetto dello spirito. La concretezza dell’individuo non è quella dell’esistenza sensibile nello spazio e nel tempo, ma quella dell’essere che esiste nello spirito, nell’atto, come autocoscienza «infinita», cioè particolare e universale allo stesso tempo, che supera la pura soggettività del soggetto. L’individuo si forma e prende coscienza di sé «individuandosi», cioè nell’attualità dell’atto. Egli è dunque il processo del proprio universalizzarsi che giunge a una piena risoluzione di sé nella società: «L’individuo è massima particolarità in quanto è massima universalità. Più è lui, e più è tutti» (Genesi e struttura della società, cit., p. 19).
L’individuo di Gentile è un «individuo sociale» (la cui essenza rappresenta anche la dimensione ‘comunitaria’ del fascismo italiano): infatti l’Io non è né Io immediato, né immediato non-Io, perché non esiste Io che non abbia in se stesso un alter, che è il suo essenziale socius (pp. 33-43). Ogni Io è Noi, e viceversa, perché in ogni individuo è presente e operante la comunità e perché la comunità non è un dato preesistente all’atto: l’Io e il Noi hanno luogo insieme nell’atto. La vita spirituale è dialettica, cioè vita della volontà che non può vivere se non risolvendo, in un processo sempre rinnovato, le forme inesauribili del conflitto immanente (sia interno all’individuo sia tra gli individui) che rende possibile la realizzazione dell’atto. La volontà è sempre concordia discors e la discordia è un momento della concordia. Tale processo dialettico di concordia e discordia non ha mai termine: è l’opposizione perenne e sempre rinnovata degli interessi e delle aspirazioni – cioè delle volontà – ad alimentare l’unità dinamica di ogni costituzione sociale.
Questa opposizione è però spirituale, non materiale (come vorrebbe il liberalismo classico), perché non dipende da individui isolati, ma da «individui universali» che sono in rapporto reciproco, in una continua sintesi di opposizione e identità. La società è pertanto «la realtà del volere nel suo processo» (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 75). Essa non è dunque inter homines, bensì in interiore homine, perché sul piano spirituale tutti gli uomini sono un unico uomo: «L’individuo umano non è atomo. Immanente al concetto di individuo è il concetto di società» (Genesi e struttura della società, cit., p. 33). La società non è il luogo del disordine insensato, della negazione determinata o del lavoro materiale, bensì il luogo della soppressione del particolare in favore della costruzione di una cooperazione tra gli individui intesi come unione di particolare e universale, perché «in fondo all’Io c’è un Noi; che è la comunità a cui egli appartiene, e che è la base della sua spirituale esistenza, e parla per sua bocca, sente col suo cuore, pensa col suo cervello» (p. 15). La società ha dunque un’origine «ideale» o «trascendentale», non materiale o empirica, visto che nasce dalla dialettica immanente dell’atto spirituale come sintesi «pratica» di soggetto e oggetto che devono opporsi per potersi identificare, e viceversa: la società è prodotta dal nesso dialettico dell’alter con l’ipse.
La distinzione radicale tra individuo e Stato – elemento centrale del giusnaturalismo e del contrattualismo, dell’illuminismo e del positivismo – rappresenta per Gentile soltanto un’illusione dell’intelletto astratto (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 11 e segg., 22 e segg.): non esiste infatti l’individuo, da un lato, e lo Stato, dall’altro, perché l’uomo e lo Stato sono unum e idem. Naturalmente ciò non significa che tale identità sia «immediata», come vorrebbe il pensiero greco (pp. 57 e segg.), o «completa», come vorrebbe la logica hegeliana (La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 3 e segg., 20 e segg., 69 e segg.): Gentile considera infatti che tale identità si realizzi nell’atto attraverso il nesso tra teoria e prassi, e tra soggetto e oggetto, visto che la comprensione del reale significa l’azione sul reale, come già affermato da Karl Marx contro tutte le forme ingenuamente idealistiche e materialistiche di interpretazione della realtà (La filosofia di Marx. Studi critici, 1899, rist. 1959, pp. 65 segg., 72 e segg., 82 e segg.). L’atto, cioè il soggetto-oggetto, si concretizza come Stato, che è universale concreto, o unità a priori delle differenze. Lo Stato non è pertanto esterno all’individuo (se non empiricamente) perché entrambi sono attualità dello spirito che diviene:
Quando l’idealista dice individuo = Stato, non intende che sia un’identità immediata; perché è bensì vero che, secondo la logica idealistica, non c’è individuo che sia fuori dello Stato; ma è anche vero, secondo la stessa logica, che lo Stato con cui l’individuo fa tutt’uno, esso stesso, come sostanza etica spirituale, non è nulla d’immediato. Non c’è, si realizza. E in questo processo di realizzazione dello Stato, l’individuo, propriamente parlando, non è, ma diventa Stato. L’identità di cui si parla è essa stessa qualche cosa di reale in quanto si realizza. Il che vuol dire che lo Stato è sempre e non mai quello Stato che dev’essere; né ci potrà mai essere un giorno in cui, compiuto il processo, l’individuo si sia risoluto completamente nello Stato; poiché quel giorno non vi sarebbe più individuo, ma non vi sarebbe neanche Stato. Per non sbagliare, pertanto, bisognerebbe parlare non d’identità, ma di identificazione, che è risoluzione infinita dell’individuo nello Stato (Individuo e Stato, «Giornale critico della filosofia italiana», 1932, 10, p. 297, poi in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 2° vol., 1991, p. 76).
Secondo Gentile – che qui elabora uno dei principi fondamentali della politica del fascismo – non esiste opposizione tra libertà e legge, cioè tra cittadino e Stato, e non esiste la libertà senza l’autorità politica: la libertà fuori dalla legge è infatti una mera astrazione, così come un’astrazione è l’individuo isolato (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 70 e segg., 111 e segg.; Genesi e struttura della società, cit., pp. 59-60). La vera individualità è quella che riesce ad attingere il fondo comune in cui tutti sono espressione particolare di un’unica individualità universale e sono dotati di un’autocoscienza che è, allo stesso tempo, sapere e volere. Questo risultato è reso possibile dalla coincidenza di azione e pensiero, che determina l’identificazione della sfera etica e di quella morale: l’atto spirituale è sempre un atto morale che, realizzando lo spirito, è libertà.
Il bersaglio polemico della filosofia politica di Gentile è il liberalismo moderno, considerato l’espressione politica del meccanicismo e del naturalismo: nell’intero arco della sua produzione filosofica emerge la critica dell’individuo-cittadino che, chiuso nei suoi desideri egoistici, è il prodotto della società liberale teorizzata dalla tradizione giusnaturalistica e contrattualistica in cui solo l’individuo – e non lo Stato – ha coscienza di sé e in cui l’individuo è un assoluto prius rispetto allo Stato (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 103 e segg.; Libertà e liberalismo (Conferenza tenuta all’Università fascista di Bologna il 9 marzo 1925), in Politica e cultura, 1° vol., 1990, pp. 61 e segg.).
Per Gentile questo liberalismo «atomistico» e «materialistico» fondato sul concetto di diritto naturale ha assolto un ruolo importante nell’Europa moderna, quello di rivendicare e difendere i diritti individuali contro le prerogative del potere assoluto e dispotico. Tuttavia i suoi limiti sono risultati evidenti: esso non è riuscito storicamente, politicamente o filosoficamente a costruire una nuova unità politica, giungendo a produrre una società meccanica, e non organica, in cui il diritto è interamente fondato sull’individuo, tanto da fornire argomenti teorici a giustificazione non dell’eticità dello Stato bensì dell’anarchismo. Da Johannes Althusius a Locke, da Montesquieu a Kant, infatti, secondo Gentile viene affermata la priorità logica, ontologica, etica e politica dell’individuo sullo Stato: quest’ultimo è solo un mezzo per la realizzazione della libertà e della realtà spirituale dell’individuo. Nella sfera morale dell’individuo inizia e termina il processo costruttivo e la ragion d’essere dello Stato, che diventa pertanto una «macchina» senz’anima esterna all’individuo.
La critica gentiliana del liberalismo moderno non comporta una critica tout court dell’idea di libertà. Nell’Ottocento, sostiene infatti Gentile, è sorto in Europa un altro tipo di liberalismo politico, reso possibile dalla critica dell’idealismo tedesco – in particolare di Hegel – al materialismo e al razionalismo: questo liberalismo non oppone l’individuo allo Stato, perché considera che la libertà reale si dia solo all’interno di un ordine politico, non in un astratto «stato di natura». La libertà non è pertanto attributo dell’individuo astratto, ma del popolo inteso come individuo concreto: libero è solo l’individuo che vive in una libera comunità politica. Un liberalismo senza Stato è per Gentile un liberalismo senza libertà: da un lato, infatti, il diritto si configura come norma agendi, in quanto non ha un’essenza autonoma ed è ricompreso all’interno della morale e dello Stato; dall’altro lato, la libertà della comunità politica procede di pari passo con la libertà del singolo, e viceversa (come insegna la tradizione politica dell’Umanesimo, del Rinascimento e del Risorgimento). Per Gentile lo Stato promuove dunque lo sviluppo della libertà considerandola come ideale morale da attuare, non come diritto naturale da garantire.
Questa concezione politica (che a Gentile ricorda la lezione di Giuseppe Mazzini) è l’antitesi delle differenziazioni dell’individualismo liberale, in quanto concepisce la libertà come attributo insieme del popolo e del singolo, che non ha valore se non in quanto concorre con tutto se stesso – perfino con la morte – alla vita dello Stato nazionale cui appartiene: «Lo Stato non è tra gli individui, ma nell’individuo» (Genesi e struttura della società, cit., p. 66). Lo Stato risponde dunque alle tendenze e ai bisogni dell’individuo, che non sono quelli puramente materialistici sottolineati dall’individualismo illuministico o dall’edonismo utilitaristico, ma quelli grazie ai quali la vita dell’individuo si unisce alla vita dello spirito. In Gentile il rapporto tra l’Io e il Noi non esprime una somma aritmetica ma la dimensione dell’atto eternamente presente a se stesso e la dimensione dello spirito oggettivo: lo Stato, in quanto epifania dell’atto, è comunità proprio perché è totalità, insieme indifferenziato dell’Io e del Noi, del pubblico e del privato, della politica e della morale.
Da questa considerazione della libertà come ideale da attuare emerge uno dei caratteri dello Stato gentiliano inteso come sostanza morale consapevole di sé: lo Stato – caratterizzato da un volere unico e universale – non intende annullare l’individuo ma, al contrario, intende valorizzarlo quale parte centrale e «primo motore» dell’unità politica. Tale valorizzazione non riguarda però l’individuo o gli individui in quanto singoli, ma l’individuo e gli individui in quanto compresi e trasfigurati nell’entità collettiva che è il popolo, o la nazione, caratterizzata da un’unica missione culturale e morale. Lo Stato è una realtà spirituale, non uno strumento o un apparato burocratico utile per il controllo della vita collettiva, né un «limite» negativo per la libertà individuale. Per Gentile l’unità politica è infatti organica, o unificata, non atomistica, o dissociata, perché lo Stato rappresenta l’essenza della vita morale e spirituale. Lo Stato, in quanto unità delle differenze, è un «individuale concreto» la cui volontà è diritto: lo Stato è l’individuo particolare nella sua universalità e con esso condivide l’esito dell’attualità del suo volere, cioè la sua moralità (pp. 58-60, 66-70).
Così come non esiste una distinzione radicale tra individuo e Stato, allo stesso modo in Gentile non esiste una distinzione radicale tra società e Stato, anzi la società si identifica tout court con lo Stato: non esiste infatti società se non in uno Stato, che è la sorgente e il fine del diritto, oltre che dei doveri e dei diritti del cittadino e della moralità della famiglia. In una prospettiva antihegeliana (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 114 e segg.; La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 183 e segg.) Gentile rifiuta dunque la distinzione triadica tra famiglia, società civile e Stato, perché nel suo sistema non è pensabile una realtà autonoma, esterna e particolare rispetto all’atto, e dunque allo Stato. Infatti, nonostante l’innegabile progresso nella concezione dell’eticità dello Stato compiuto da Hegel rispetto alle teorie giusnaturalistiche, per Gentile anche la posizione del filosofo tedesco mostra evidenti limiti sia nel metodo sia nel merito della sua teoria dello Stato.
Sul piano del merito, o dei contenuti, della teoria hegeliana dello Stato, Gentile sottolinea che lo Stato hegeliano non è «infinito», come invece sarebbe necessario che fosse, una volta che è stato individuato – contro il liberalismo – il suo carattere etico e spirituale. Lo Stato hegeliano non è «infinito», e anzi è «particolare», perché esso è limitato dalla presenza empirica degli altri Stati, dal suo appartenere alla sfera dello spirito oggettivo (e non a quella dello spirito assoluto) e dal suo essere dipendente dalla famiglia e dalla società civile. Nel metodo hegeliano è inoltre assente il nesso tra idealismo e immanenza, a favore di un’analisi empirica, cioè non speculativa, dello Stato che separa soggetto e oggetto: in questo modo la posizione del pensiero verso l’oggetto da conoscere continua a essere quello dello spettatore esterno.
Per Gentile invece lo Stato, nella sua realtà spirituale, non è ciò che si chiama Stato nel mondo dell’esperienza: non bisogna infatti confondere gli oggetti di una conoscenza astrattamente teorica – in questo caso, gli Stati altri rispetto al nostro – con i concreti oggetti dell’esperienza personale e individuale – in questo caso, il nostro Stato – perché esiste un nesso diretto tra la specifica realtà morale in cui nasce lo Stato e l’atteggiamento spirituale del cittadino. Nella loro comune moralità – indipendentemente dalle differenze sul piano empirico – famiglia, società e Stato sono dunque identiche in quanto fondamento e prodotto della stessa sostanza:
La famiglia, al pari della società civile, è un’entità solo empiricamente distinguibile dallo Stato, come forma di sviluppo e organizzazione dell’autocoscienza. E l’empirica distinzione è resa possibile dal considerare queste entità sullo stesso piano d’osservazione, dall’esterno, in quanto intellettualisticamente opponendo a sé codeste entità le spoglia del loro proprio valore pratico, concreto, reale, per ridurle a mere idee del logo astratto. Che se la famiglia è quella interiore realtà etica che conosce chi la vive, e insomma se essa veramente è una forma dell’autocoscienza e cioè dello spirito nel suo effettuale esistere, essa non è più la famiglia oltre la quale c’è lo Stato, ma è la famiglia in cui si esaurisce tutto il mondo etico […]. Lo Stato, nella sua essenziale eticità, non è qualche cosa di superiore ed esterno che l’individuo debba conquistare, poiché egli l’ha già in sé originariamente. Così nell’effettiva realtà umana non c’è atto economico che non sia etico, e quindi politico; non c’è società civile che non sia anche Stato (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 119-20).
Famiglia, società e Stato non sono istituzioni «naturali», bensì forme dello spirito in cui l’autocoscienza è libera e infinita, in grado di unificare interessi spirituali e materiali altrimenti contrastanti. Per questo motivo la sfera economica costituisce solo una parte della sfera sociale e politica: nell’agire economico non si realizza l’incontro di particolare e universale, perché rimane in una sfera subumana che non ha una sua autonomia, ma deve ricondursi alla volontà «totale» dello Stato, l’unica realtà assoluta riconosciuta da Gentile, nel quale può essere superato, «eticizzato», spiritualizzato e trasfigurato il dato empirico in favore della moralità.
Lo Stato – soprattutto lo Stato fascista – è pertanto il soggetto-oggetto morale e politico par excellence. Infatti, così come non esiste società senza Stato, allo stesso modo non esiste nazione senza Stato. La nazione non è costituita solo dal territorio e dalla comunanza di lingua, costumi e religione: tutto ciò è la materia della nazione, che non è tale se non ha la coscienza di questa materia nella costruzione della propria essenza spirituale (Genesi e struttura della società, cit., pp. 17-19, 57). Lo Stato crea la nazione perché esso è volontà nella sua concreta attualità che – come un nuovo Leviatano «spirituale» – riassume in sé l’individuo, la famiglia, la società. Lo Stato è presente come «legge interna» all’individuo e nella vox populi trova la sintesi a priori della dialettica tra individuale e universale:
C’è una vox populi che è ratio essendi della verità. Questa […] è l’essenziale e la sola che possa veramente ascoltarsi come norma della vita dell’individuo: voce di un popolo ideale immanente all’individuo e che gli parla senza essere interrogata, senza indugi o esitanze; essa lo conforta a parlare e agire e vivere, essa lo sostiene di dentro come la sua forza: quella ideale chiesa che ogni credente ha in sé medesimo e fa tutt’uno con la sua anima (p. 18).
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