Stato nazionale
Stato e nazione non sono concetti coestensivi, il primo facendo riferimento a uno spazio di legislazione e di politica comuni senza nulla implicare riguardo alle caratteristiche delle persone che popolano lo Stato, e il secondo, invece, facendo coincidere lo Stato con una ‘particolare’ popolazione, identificata da una comunità di lingua, cultura, storia, quando non addirittura di religione e di etnia. Nell’Ottocento e in parte del Novecento, la mancanza di libertà in molti Stati europei fece ritenere che gli Stati dovessero essere ‘nazionali’ per poter dar voce al popolo e dunque ci furono diffuse lotte di ‘liberazione’ basate sull’idea di Stato nazionale.
Molti degli economisti italiani parteciparono attivamente a questo movimento, contribuendo a delineare il destino di riscatto economico che il desiderato Stato nazionale italiano avrebbe dovuto perseguire, un riscatto economico che doveva tornare a vantaggio di tutti attraverso la realizzazione di una via ‘nazionale’ alla politica economica. Come ha scritto Roberto Romani:
L’economia politica raffigurava l’Italia come avrebbe dovuto essere – libera politicamente, percorsa da ferrovie e canali, fecondata da capitali di rischio, aperta al commercio col resto dell’Europa – diventando così vessillo di battaglia, sapere in sé moderno (Romani 1994, p. 196).
Il fatto stesso che alcuni fra i principali attori dell’unificazione italiana fossero economisti – Cavour, Antonio Scialoja, Marco Minghetti, Luigi Luzzatti, per non citare che i più importanti – dimostra quanto detto senza ombra di dubbio.
Lo Stato moderno nato dal machiavellismo e dal contrattualismo comprendeva già un paio di importanti dimensioni economiche: in primo luogo la fiscalità e in secondo luogo le regole di funzionamento del mercato. Non si può esercitare alcuna sovranità senza un adeguato sistema fiscale che permetta ai governi di disporre di una potenza militare e di costruire le infrastrutture di base (porti e strade) per l’ordinato svolgersi dei commerci. Questa fiscalità diventò un grave argomento di tensione fra potere politico e sudditi, con l’Inghilterra fortemente orientata a farne oggetto di condivisione del potere tra monarca e parlamento (no taxation without representation), non senza passi indietro e rivolte, mentre gli Stati continentali furono molto più assolutisti fino alla Rivoluzione francese, che ebbe origine proprio da un tentativo dei re francesi di alzare unilateralmente la tassazione senza approvazione da parte del Terzo Stato. Quanto alle regole di funzionamento del mercato, la tendenza era a piegarle alla ‘ragion di Stato’, con il mercantilismo, generando un movimento contrario a partire dalla seconda metà del Settecento, quando l’Illuminismo diffuse i principi della sovranità popolare e dell’industrialismo. Il welfare non era all’epoca una dimensione dello Stato, bensì veniva esercitato direttamente dalla società civile organizzata, con le numerose istituzioni finanziate e amministrate da associazioni e opere pie; solo in qualche caso vi era un diretto interessamento delle amministrazioni locali (come nelle Poor laws inglesi).
Nel 18° sec. il concetto di nazione verrà ampiamente accreditato come caratteristica superiore dello Stato a seguito della diffusione delle idee del conte di Shaftesbury, Edmund Burke, Jean-Jacques Rousseau, Friedrich Karl Möser e Johann Gottfried von Herder, ma incominciò ad assumere un’espressione politica con la rivoluzione olandese (anni Ottanta) e con i rivolgimenti politici portati dalle armate napoleoniche in varie parti dell’Europa.
Lo Stato nazionale aggiunge al concetto di Stato sovrano un significato culturale, linguistico, di storia e tradizioni condivise, talora (ma non sempre) di religione comune, con la ‘etnia o razza’ in un sottofondo popolato spesso di fantasmi. Anche la ‘coscienza’ di essere nazione e/o la ‘volontà’ di esserlo vengono ritenuti elementi soggettivi qualificanti dello Stato nazionale. Le molte contraddizioni che un simile concetto di Stato viene ad assumere quando si scontra con popolazioni ‘nazionali’ abitanti territori non contigui, con minoranze sparse qua e là e con storie che presentano una mancanza di linearità non possono essere qui trattate.
Quello che ci interessa è vedere quali sono le dimensioni economiche che un tale concetto di Stato nazionale aggiunge rispetto a quello di Stato tout court. Almeno tre sono le dimensioni significative: libertà e autodeterminazione dei ‘popoli nazionali’, con il loro seguito di volontà di unificazione e di affermazione economica; l’anelito a diffondere il progresso nelle classi popolari; la ricerca delle vie ‘nazionali’ alla prosperità economica (ricerca dell’identità, anche in economia). Ciò che cercheremo di illustrare è come il pensiero economico italiano abbia interpretato queste nuove dimensioni dello Stato nazionale, senza escludere osservazioni anche sui più consolidati ruoli economici che uno Stato moderno deve giocare.
L’Italia rappresenta un caso assai interessante di come la dimensione statuale non abbia coinciso con quella ‘nazionale’ per molti secoli. Inizialmente, la repubblica, poi impero, dei romani comprendeva assai più dei popoli ‘latini’ che la fondarono. Dopo il disfacimento dell’impero, ciò che risorse dalle sue ceneri fu la civiltà di città gelose della propria libertà e autonomia al punto da contrastare a lungo qualunque forma di collaborazione/coordinamento fra di loro. I conflitti finirono con il coinvolgere alleanze con potenze straniere che talora assoggettarono i territori italiani al loro dominio, producendo un forte arretramento politico e civile e un mosaico di staterelli dall’economia asfittica e dal dubbio futuro politico.
Fu così che, con poche eccezioni, tutti i migliori economisti italiani a partire dalla fine del 18° sec. furono a favore dell’unificazione nazionale e della formazione di uno ‘stato nazionale’. Da Pietro Custodi, che raccolse i testi dei maggiori autori italiani di economia politica con l’intento di incoraggiare la rinascita economica nazionale, al conte Giuseppe Pecchio, che coniò una definizione ripresa anche da Francesco Ferrara secondo cui «l’economia pubblica è per così dire la scienza dell’amor patrio», l’economia politica «gloria dell’intelligenza italiana, apparve ai contemporanei indivisibile dalle lotte per la libertà e l’indipendenza» (Romani 1994, p. 19).
Nel confronto con gli economisti inglesi, quelli italiani chiarivano che nel loro caso il fine primo era di acquisire quella libertà che gli inglesi davano per scontata, come base per una nuova prosperità economica. Per diffondere le loro idee, gli economisti italiani collaborarono con riviste dalla vita spesso travagliata da censure e chiusure da parte delle autorità politiche che si sentivano minacciate dalla propaganda nazionalista in esse condotta, come fu il caso del «Giornale degli Amici della libertà e dell’uguaglianza» e del «Monitore italiano». Fra le più durature, ci furono «Il Conciliatore» (1818-19), gli «Annali universali di statistica» (con diverse denominazioni 1824-1871), «Il Politecnico» (1839-1844), «L’Antologia» (1821-33, poi «Nuova Antologia», 1866-), «Biblioteca dell’economista» (1850-1868).
Si può affermare che l’idea di economia come scienza autonoma dalla morale nacque proprio con la dottrina dello Stato di Machiavelli, in quanto era lo Stato a porsi mire di potenza e di ricchezza, in termini demografici, produttivi e monetari. Ecco come Giovanni Botero sosteneva questo punto di vista (anche se ancora usa la parola città in luogo di Stato):
Non è cosa che importi più per accrescere una città, e per renderla e numerosa d’habitanti e doviziosa d’ogni bene, che l’industria degli uomini, e la moltitudine delle arti; delle quali alcune sono necessarie; altre commode alla vita civile; altre si desiderano per pompa, e per ornamento; altre per delicatezza, e per trattenimento delle persone otiose: onde ne segue concorso e di denaro e di gente, che o lavora o traffica il lavorato, o somministra materia a’ lavoranti: compravende, trasporta da un luogo all’altro gli artificiosi parti dell’ingegno e della mano dell’uomo (Della ragion di Stato, 1589, pp. 201-02).
La riflessione degli economisti italiani si rivolse dunque a determinare il ‘buon governo’ degli Stati che portava alla prosperità economica e alla ‘pubblica felicità’, un buon governo capace di coniugare lo Stato con il commercio, precedentemente collegato invece direttamente con la morale. Antonio Genovesi fu l’economista che meglio interpretò questo snodo, ma anche Pietro Verri, quando definì l’economia come parte integrante della scienza di governo.
L’economia come scienza del buon governo portò però alla crisi dell’assolutismo illuminato, quando ci si rese conto che i governi assoluti presenti in Italia erano ben distanti dall’ideale tratteggiato dagli economisti. S’impose allora come unica via pervia al raggiungimento del buon governo il passaggio al liberalismo politico, con la sua implicazione della rivendicazione di uno Stato nazionale anche per l’Italia. L’economia politica svolse un ruolo non solo ‘modernizzatore’ del sapere, ma si presentò come background culturale dei patrioti di tutta la penisola, con notevole capacità unificatrice, anche perché molti esiliati soggiornarono in quella Torino che fu la culla del Risorgimento italiano, il vero e proprio laboratorio italiano di economia politica degli anni preunitari.
Sempre alla concezione dell’economia come scienza del buon governo si rifanno tutti gli economisti italiani che si occuparono di statistica in quanto arte che doveva fornire gli strumenti per il buon governo. Vincenzo Cuoco e Melchiorre Gioia furono i fondatori di questa ‘scuola statistica’, che aveva visto degli anticipatori nel Settecento, come quel Pompeo Neri messo da Maria Teresa a capo dell’ufficio del censimento, che presiedette alla redazione del famoso catasto teresiano. La consapevolezza dell’importanza della statistica era basata sulla constatazione che con il progresso economico ‘il popolo’ veniva ad assumere un rilievo senza precedenti e dunque i suoi comportamenti e le sue realizzazioni dovevano trovare adeguata rappresentazione, appunto attraverso la rilevazione statistica. Non che Gioia avesse una considerazione positiva del popolo, che anzi riteneva prono ai sentimenti piuttosto che alla ragione, materialista e litigioso, indolente e riottoso, ma l’economia politica basata sulla statistica doveva servire per istruirlo e avviarlo verso il progresso. La scuola di statistica contò vari rappresentanti, da Nord a Sud del Paese, fra cui Giovanni Tamassia (1776-1839), Luca De Samuele Cagnazzi (1764-1852) e Giovanni Scopoli (1774-1854). In seguito, la statistica venne messa dagli economisti italiani alla base di ogni suggerimento di politica economica – come dimostrato, fra gli altri, dalla prassi di governo di Antonio Scialoja o di Luigi Luzzatti, che diede fra l’altro avvio all’Inchiesta industriale (1870-74) – e l’Italia continuò ad avere una scuola di statistica di rilevanza internazionale.
Le grandi inchieste dell’Italia liberale (fra cui quella sulla condizione delle classi agricole in Italia, 1877-1885, presieduta da Stefano Jacini), fonti preziose per l’indagine storico-economica, erano mosse proprio da questa radice ‘statistica’, ossia dalla volontà di conoscere i fenomeni prima di intervenire legislativamente. Emilio Morpurgo riteneva che le grandi controversie nelle scienze sociali fossero determinate da un’insufficiente conoscenza dei fatti e che la statistica andava considerata come lo strumento per conoscere le condizioni morali, politiche ed economiche degli Stati. Scrivendo delle difficoltà dei governi italiani immediatamente dopo l’unificazione, osservò:
al governo mancò per lunga pezza uno strumento valido di azione; gli fecero difetto le notizie più necessarie a determinare il vero stato dell’amministrazione […] Varietà infinite di sistemi, di leggi, di abitudini gli si presentava da ogni parte, e lo costringeva a muoversi (come chi va brancolando fra le ombre) in mezzo a condizioni non omogenee, mal certe e tuttora grandemente perturbate (La finanza. Studii di economia pubblica e di statistica comparata, 1877, p. 11).
Il liberalismo abbracciato dagli economisti italiani del Risorgimento era in generale un liberalismo ‘moderato’ dal suo radicamento nell’alveo dell’idea di ‘bene comune’ e ‘felicità pubblica’, che portava a non eliminare del tutto l’intervento dello Stato, ritenuto utile e necessario, sia pur in funzione ‘sussidiaria’, un concetto già chiarito da Matteo De Augustinis (1833-1836; cfr. Barucci 2009, pp. 238 e 273). Anche l’industrialismo subì la stessa sorte, tra l’entusiasmo per le sue realizzazioni tecnologiche e l’avversione per la proletarizzazione della forza lavoro. Già Gioia aveva rilevato che nell’industria la creatività umana:
vasta come l’immaginazione, mobile e feconda come essa, non trova limiti che in quelli del genio, da cui riceve ciascun giorno nuovo splendore, e può crescere come la civilizzazione, le scienza, la navigazione (in Opere minori, 2° vol., 1834, p. 94).
Sempre Gioia sosteneva che anche in agricoltura si dovesse adottare il medesimo approccio produttivista ed efficientista nell’utilizzo della forza lavoro che era tipico dell’industria (un punto di vista condiviso da altri fra cui Gerolamo Boccardo e Carlo Cattaneo), mentre riteneva cruciale la figura dell’«intraprenditore» con qualità previsionali, di flessibilità e di costanza (endurance).
Ma fu Cattaneo ‘l’industrialista’ per eccellenza, anche se non mancava di spendere parole di lode per l’avanzata agricoltura lombarda, specie quella legata alla produzione di seta. Egli non vedeva tuttavia nell’industria una specificità rivoluzionaria, ma solo l’ultimo atto di una lunga storia di progresso, come si evince molto bene dal seguente passo:
la presente floridezza dell’Europa scaturisce da molte e remote fonti, quali sono l’ordine della famiglia, la libera possidenza, i municipj, i giurati, i giudicj pubblici, l’alfabeto, il calendario, l’orologio, la bussola, la stampa, le poste, i giornali, i pesi, le misure, le monete, le pubbliche discussioni, le società studiose e mercantili (Dell’economia nazionale di Federico List, 1843, in Scritti economici, a cura di A. Vertolino, 2° vol., 1956, p. 366).
Chiaro gli era comunque che ai suoi tempi «il principio civile cammina[va] dietro il commercio e l’industria, lasciando dietro qual monumento l’agricoltura» (p. 366).
Anche per Scialoja il progresso dell’industria era da considerarsi l’unica strada per garantire l’agiatezza dei popoli, ma egli non mancava di notare che «la ricchezza mal compartita non è ricchezza ben goduta; è ricchezza cui manca qualcosa per essere ricchezza sociale» (I principi della economia sociale esposti in ordine ideologico, 1846, p. 148).
Carlo Ignazio Giulio (1805-1859), che riconosceva fra l’altro la necessità dell’ingrandimento delle imprese come altri economisti italiani fra cui lo stesso Gioia, fu un grande sostenitore, come tutti gli industrialisti, della necessità di diffondere l’istruzione tecnica. Egli fu promotore della Scuola torinese di meccanica e chimica applicate alle arti, che aprì i battenti nel 1845, mentre la Società di incoraggiamento arti e mestieri (SIAM) di Milano, fondata nel 1838 da vari imprenditori fra cui Heinrich Mylius, aveva iniziato le sue attività nel 1841 (nel 1845 venne coinvolto anche Cattaneo).
Persino Cavour era su questa linea, fino ad appoggiare una maggiore tassazione dei ricchi «per istruire, per educare le classi povere». Da qui deriva la famosa legge Casati del 1859, pilone portante del sistema italiano di istruzione pubblica, che tanto spazio aveva dato all’istruzione tecnica a tutti i livelli.
L’economia moderna aveva tradotto la concezione medioevale di bene comune in quella di felicità pubblica, alla quale erano sì essenziali lo sviluppo dei mercati e delle manifatture, ma anche il coinvolgimento di tutti nei frutti dell’attività economica perché, come scrisse Genovesi, «È legge dell’universo che non si può fare la nostra felicità senza far quella degli altri» (Autobiografia e lettere, a cura di G. Savarese, 1962). La preoccupazione di allargare i benefici di una rinascita economica dell’Italia a una platea più vasta possibile di cittadini ha percorso l’elaborazione di molti degli economisti italiani dell’Ottocento.
Da un’antica famiglia toscana proveniva quel Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismóndi (1773-1842) che, nato e cresciuto in Svizzera, si trasferì a metà degli anni Novanta proprio nella Toscana dei suoi avi. Si deve all’opera di Sismóndi il recupero del ruolo centrale giocato dalle città italiane medioevali nel rilancio della civiltà europea dopo le invasioni barbariche, un recupero che rese la causa italiana di liberazione dallo ‘straniero’ e di unificazione più degna di appoggio da parte dell’intellettualità europea (Lyttelton 2012). Sismóndi contrastò anche un liberismo senza limiti, sostenendo che si dovesse «regolare il progresso del benessere» per evitare che esso andasse a danno dei più poveri. Egli riteneva infatti che
la massa degli inglesi sembra[va] dimenticare, al pari dei filosofi, che l’aumento delle ricchezze non è lo scopo dell’economia politica, ma il mezzo di cui essa dispone per procurare la felicità a tutti (Nuovi principi di economia politica, 1819, p. 9).
Sismóndi non credeva nelle capacità autoregolatrici del mercato e scrisse che si doveva giudicare pericolosa la «teoria che ritiene che l’equilibrio sia raggiunto automaticamente. Un certo tipo di equilibrio è sì raggiunto in un lungo periodo, ma dopo una lunga sofferenza» (p. 20).
Il suo pensiero influenzò molti degli studiosi italiani che si mostrarono attenti alla questione sociale sollevata dal progredire dell’industrializzazione. Ecco, per es., che cosa scriveva Lodovico Bianchini:
se per ricchezze intendonsi la sola produzione ed il cumulo dei materiali beni che gli uomini ammassano per loro individuale interesse, senza norme di vantaggio comune, allora questa ricchezza […], rendendo l’uomo egoista, è causa di malessere nel generale o di maggiore sproporzione di fortune, e quindi la civiltà non progredisce, o diminuisce. Se invece alle idee della ricchezza si uniscono quelle della migliore distribuzione di beni e di occupazione fra gli uomini, come altresì degli agi e de’ comodi più sparsi, allora ne deriva che mentre la civiltà ne è uno degli effetti, ne diviene medesimamente causa (Principi della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati, 1855, p. 11).
Tutti si rifacevano alla necessità di appropriati interventi dello Stato con lo scopo, come aveva scritto sempre Bianchini, «non solo di impedire il male, ma di procurare il bene» (p. 7). Ma l’intervento dello Stato veniva visto come supporto a una società civile, di cui non si contestava il primato, e non certo come espressione di un governo assoluto. Giuseppe Pecchio contrapponeva all’economia politica inglese «scienza d’arricchire le nazioni», quella italiana che si occupava di cercare «non solo la ricchezza, ma anche il ben stare del maggior numero possibile» (La storia dell’economia pubblica in Italia, 1829, pp. 215, 218). Romagnosi credeva in una giustizia distributiva. Il progresso economico, infatti, doveva sortire benefici per molti:
Non si tratta né di incatenare le proprietà in alcuni pochissimi, né di straricchire una parte facendo servire gli altri moltissimi come il bue e il cavallo, ma bensì di fare equamente partecipare alle cose godevoli il maggiore numero possibile di individui di una nazione (G. Romagnosi, Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento, 1832, p. 278).
Molti altri studiosi meno noti si collocarono su questa linea, fra cui Giovanni Arrivabene (1787-1881), che scrisse un opuscolo Dei mezzi propri a migliorare la sorte degli operai (1832), e Pietro Sbarbaro (1838-1893), che pubblicò, nel 1868, Degli operai nel secolo XIX.
Da queste premesse derivò l’elaborazione di Giuseppe Mazzini di una via collaborativa fra lavoro e capitale da realizzarsi attraverso il mutualismo e la cooperazione, primo esempio di quella corrente di pensiero che predicò le virtù dell’impresa cooperativa in Italia contando, fra gli altri, nomi come Luzzatti, l’apostolo delle Banche popolari, Ugo Rabbeno (1863-1897), allievo di Luigi Cossa, che pubblicò nel 1886 il volume La cooperazione in Italia. Saggio di sociologia economica; Francesco Viganò (1807-1891), che nel 1873 diede alle stampe il volume La fratellanza umana ossia le società di mutuo aiuto cooperazione e partecipazione ed i municipi cooperativi.
Sempre dalla radice ‘inclusiva’ del pensiero economico italiano derivò la grande attenzione dei cattolici al sociale, prima a livello pratico con l’Opera dei Congressi (fondata nel 1874) e poi con il lavoro teorico di Giuseppe Toniolo, che culminò nell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, e dei tanti che lo affiancarono nelle sue numerose intraprese culturali e istituzionali.
Il pensiero economico italiano, che ha attraversato ben otto secoli, non può non contenere una grande varietà di accenti, contando fra l’altro su un Cesare Beccaria, anticipatore di quell’utilitarismo che avrà grande fortuna nel mondo anglosassone, su un Francesco Ferrara, rigoroso rappresentante del liberismo, e su Vilfredo Pareto, fra i più noti rappresentanti del marginalismo, come anche in seguito su studiosi di fede marxista. Ma non si può non ammettere che almeno fra Settecento e fine Ottocento in esso si potesse riconoscere una ‘Scuola italiana’ la cui radice affondava nella concezione di incivilimento, che Custodi poneva alla base dei suoi quarantotto volumi di Scrittori classici italiani di economia politica editati tra 1803 e 1805 (altri due volumi seguirono nel 1816) e offerti a quegli «Italiani che si sentono ancora stimolo d’onore e fervida brama di giovare alla comune lor patria».
L’unica voce dissonante, che negava l’esistenza di una Scuola italiana, fu quella di Ferrara, la cui grande attività pubblicistica servì a ricordare l’eccentricità della tradizione italiana rispetto agli sviluppi anglosassoni, ma non a frenarne l’influenza intellettuale e politica, com’è dimostrato fra l’altro dalla sua critica all’operato di Cavour e a quello di coloro che condividevano il cosiddetto germanesimo economico.
La gran parte degli economisti italiani era in realtà critica verso l’economia anglosassone in quanto dimentica dell’indispensabile equilibrio fra le varie istanze che rendono una comunità ‘civile’. Gioia stabiliva un nesso stretto tra ricchezza e virtù, e fra miseria e vizio:
Ora siccome la povertà per lo più è figlia dell’inerzia, dello stravizzo, della mancanza delle forze; siccome la ricchezza per lo più dalla perspicacia ci è data, dall’attività e dall’industria, quindi dir si dovrebbe frequentemente ricchezza onorevole, rarissime volte, onorevole povertà (Discussione economica sul Dipartimento di Olona, 1803, p. 131).
Romagnosi, erede delle elaborazioni dell’Illuminismo italiano sull’economia politica che dovevano insegnare ai governanti come perseguire la «pubblica felicità», contrapponeva «l’idiotismo economico inglese» alla Scuola italiana, che propagandava la libertà, la proprietà diffusa, la dignità del lavoro. È sua la definizione più completa di «incivilimento», come
perfezionamento economico, morale e politico […] [di uno Stato capace di] procurare alla universalità di un dato popolo uomini che possano procacciarsi e prestare una soddisfacente sussistenza; uomini impegnati in una utile operosità che prestino ed esigano un giusto rispetto e che si ricambino una affettuosa cordialità; uomini finalmente che godano di un’equa libertà e di somma sicurezza rispetto alle cose, alle persone ed alle azioni sì dentro che fuori dello Stato (Questioni sopra l’ordinamento delle statistiche civili, 1827-1830, p. 1157).
Angelo Messedaglia, uno dei padri della metodologia statistica in Italia, scriveva che
l’economia politica è la scienza del pane in società; essa è, lo ripetiamo, la fisica della ricchezza, la teoria del bene materiale, e nulla più. La ricchezza, il benessere non sono ancor tutto nel mondo; essi non sono né il genio, né la perfezione morale, e nemmanco la felicità (Della necessità di un insegnamento speciale politico-amministrativo, 1851, in Opere scelte di economia e altri scritti, 1° vol., 1920, p. 278).
Per Messedaglia e i tanti altri che ne condividevano l’impostazione, esistono scienze gerarchicamente superiori all’economia, ossia la morale e il diritto, e quindi è l’«onesto» che detta legge all’«utile». Ma la sua visione non vedeva grandi contrasti fra questi ambiti:
Si avverta bene, al conflitto possibile fra l’utile e l’onesto in casi particolari, succede invece una stupenda armonia ove si guardi ai rapporti universali del tempo e del’umanità: armonia che è l’espressione di quell’ordine supremo secondo cui tutto si regge e si governa con unità di intenti … alla virtù morale può dirsi rispondere anche un aspetto utile economico, e di ricambio dai progressi economici potere, in generale andar giovata la moralità (Note di economia politica, 1865-1866, p. 19).
Pellegrino Rossi sosteneva che l’uomo dev’essere sempre considerato un fine e non un mezzo, anche dall’economia; facendo l’esempio del lavoro infantile prolungato, egli ribadiva che, quando il precetto dell’economia «è contrario ad uno scopo più elevato che non la produzione della ricchezza, non bisogna applicarlo» (Cours d’économie politique, 1840-1841; trad. it. 1855, p. 17).
Anche Scialoja, pur con qualche contorsione, scriveva che: «La morale dirige, rettifica, spiritualizza […] l’idea d’utilità, conformandola alla idea di virtù; l’economia se ne compiace, e partesi sempre dall’idea di utilità per ispiegare i suoi fenomeni» (I principi della economia sociale, 1846, p. 322). Marco Minghetti, della cui attività tanto si giovò la finanza pubblica dell’Italia unificata nel suo primo decennio, aveva pubblicato nel 1858 un’opera dal titolo inequivocabile Dell’economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto. Si trattava di una tradizione spiritualista e umanitaria, antiutilitarista e antimaterialista. Come scriveva Cattaneo:
non v’è lavoro, non v’è capitale che non cominci come un atto di intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza (Scritti economici, 3° vol., 1956, p. 355).
La linea prevalente degli economisti italiani risorgimentali fu quella dell’apertura al nuovo (liberalismo, industrialismo, unificazione nazionale) senza venir meno alle radici culturali precedenti che collocavano l’economia all’interno della ricerca della «vita buona» (con forti legami con le virtù), insistendo sulla giusta distribuzione dei frutti del progresso, sull’importanza della conoscenza dei fatti rispetto alla teorizzazione astratta e sulla necessità dell’intervento dello Stato in funzione regolativa e promozionale. Questo predispose gli economisti italiani a essere protagonisti della nascita nel Paese di uno ‘Stato nazionale’ proprio perché interpreti delle tradizioni culturali italiane precedenti, ma li tenne nel contempo al margine dell’ascesa del pensiero economico anglosassone, con poche eccezioni. Se lo sviluppo economico dell’Italia unificata è stato tanto difforme dal modello anglosassone, forse se ne può rintracciare qualche nesso significativo con il diverso percorso del pensiero economico.
G. Botero, Della ragion di Stato, Venezia 1589.
M. Gioia, Discussione economica sul Dipartimento d’Olona, Milano 1803.
J.-Ch.-L. Simonde de Sismondi, Nuovi principi di economia politica, Milano 1819.
G. Pecchio, La storia dell’economia pubblica in Italia, ossia Epilogo critico degli economisti italiani, Lugano 1829.
M. Gioia, Opere minori, 2° vol., Lugano 1834.
G.D. Romagnosi, Questioni sopra l’ordinamento delle statistiche civili (1827-30), in Id., Opere, a cura di A. De Giorgi, Milano 1845.
G.D. Romagnosi, Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia (1832), in Id., Opere, a cura di A. De Giorgi, Milano 1845.
A. Scialoja, I principi della economia sociale esposti in ordine ideologico, Torino 1846.
L. Bianchini, Principi della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati, Napoli 1855.
P. Rossi, Corso di economia politica, «Biblioteca dell’economista», s. I, Trattati generali, 9, 1855.
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R. Romani, L’economia politica del Risorgimento italiano, Torino 1994.
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P. Barucci, Sul pensiero economico italiano (1750-1900), Napoli 2009.
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Lo Stato moderno e le sue rappresentazioni, a cura di L. Barletta, G. Galasso, San Marino 2011.
A. Lyttelton, Sismondi, the republic and liberty: between Italy and England, the city and the nation, «Journal of modern Italian studies», 2012, 17, 2, pp. 168-82.