Stato sociale
di Roberto Artoni
Stato sociale
sommario: 1. Introduzione. 2. Le giustificazioni analitiche. 3. Le aree di intervento e le dimensioni dello Stato sociale. 4. L'accesso alle prestazioni. 5. Gli effetti economici dello Stato sociale: a) Stato sociale, reddito pro capite e crescita economica; b) Stato sociale e risparmio; c) Stato sociale e partecipazione al mercato del lavoro; d) Stato sociale e assunzione dei rischi; e) Stato sociale e ridistribuzione. 6. Conclusioni: la crisi dello Stato sociale. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nelle società moderne lo 'Stato sociale' è costituito dagli istituti e dalle regole che perseguono due funzioni fondamentali: da un lato, erogare prestazioni monetarie o in natura a chi - per vecchiaia, invalidità, mancanza di lavoro o per particolari situazioni soggettive - non è in grado di ottenere un reddito adeguato; dall'altro, predisporre le condizioni perché tutti i cittadini possano accedere, sulla base di criteri distributivi appropriati, ad alcuni servizi di grande rilevanza sociale, quali l'istruzione e la sanità. In alternativa a 'Stato sociale' utilizzeremo anche le espressioni Welfare State e 'sistema di protezione sociale'.
Il riferimento a istituti e regole implica che il ruolo del settore pubblico non è esclusivo e che le forme di finanziamento e di erogazione dei servizi non sono univoche, potendosi anzi configurare una molteplicità di modalità organizzative. Lo Stato può essere erogatore delle prestazioni monetarie, finanziate con il prelievo tributario o contributivo; può, in alternativa, predisporre il quadro normativo, in genere associato a regimi fiscali agevolativi, entro il quale le prestazioni dello Stato sociale sono erogate, tipicamente in connessione al rapporto di lavoro. Il settore pubblico può essere produttore ed erogatore di servizi sociali, quali sanità e istruzione, oppure il compito produttivo può essere rimesso al settore privato, esaurendosi nella fase del finanziamento il compito dello Stato. Può essere previsto un regime di monopolio pubblico nella produzione e nell'erogazione di certi servizi, come possono essere ammesse o favorite forme di concorrenza fra strutture pubbliche e strutture private. Il riferimento dello Stato sociale, almeno in alcune sue componenti, può avere carattere universale, nel senso che tutti i cittadini possono beneficiare delle prestazioni, oppure selettivo, nel senso che può essere indirizzato esclusivamente alle fasce più povere della popolazione.
Nell'organizzazione e nello sviluppo dello Stato sociale si può riconoscere una molteplicità di obiettivi, diversamente rilevanti nelle specifiche circostanze storiche e non sempre compatibili fra di loro. Lo Stato sociale assicura gli individui contro una serie di rischi che trascendono la capacità individuale di copertura: a questo fine si pagano premi assicurativi, sotto forma di contributi sociali o di imposte, per assicurarsi contro il rischio di caduta del tenore di vita nella vecchiaia, oppure contro il rischio di disoccupazione o di invalidità. Lo Stato sociale svolge nello stesso tempo funzioni ridistributive, sia nel senso più ovvio di garantire a tutti il diritto alla sopravvivenza attraverso specifici interventi assistenziali, sia in quello più sottile di predisporre criteri di accesso ai servizi sociali che prescindano in linea generale dalla capacità di pagamento individuale, come accade nell'istruzione pubblica, dove l'accesso, dopo il ciclo obbligatorio, si basa su un principio in larga misura meritocratico. Lo Stato sociale ha anche il compito di favorire l'integrazione sociale, evitando fenomeni di esclusione e creando condizioni in cui le opportunità di ascesa sociale siano in linea generale aperte a tutti (v. Barr, 2001).
D'altro canto, il Welfare State è parte importante del quadro economico e sociale complessivo, essendo molteplici e non determinabili a priori i nessi causali che legano le forme di protezione sociale all'attività economica in senso stretto. Entro certe dimensioni e con opportune articolazioni al suo interno, lo Stato sociale può essere fattore di crescita economica; al di là di certi livelli e per la possibile deformazione di alcuni istituti, oltre che per le esigenze di finanziamento che possono superare i limiti di tollerabilità, lo Stato sociale può essere fattore di decadenza economica. Anche se le funzioni distributive in denaro e in natura sono perseguite in tutti i paesi sviluppati, la molteplicità degli obiettivi attribuiti allo Stato sociale spiega perché le soluzioni istituzionali, adottate in società anche simili per livello di sviluppo, possano essere diverse, e diverse siano anche le valutazioni degli effetti o delle esigenze di riforma degli istituti che rientrano nel sistema di protezione sociale.
Si possono trovare antecedenti del moderno Stato sociale nelle funzioni assistenziali tradizionalmente svolte dalle istituzioni religiose o nelle Poor laws del periodo elisabettiano. È tuttavia unanimemente riconosciuto che lo Stato sociale nell'accezione corrente è il risultato, oltre che della progressiva estensione dei diritti politici, dei processi di industrializzazione e di urbanizzazione che hanno caratterizzato il mondo occidentale a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
Insieme alle leggi sull'obbligo scolastico, nella storia dello Stato sociale tre momenti sono particolarmente significativi per gli effetti di diffusione e di imitazione che ne derivarono (v. Flora e Heidenheimer, 1981; v. Cutler e Johnson, 2001). In Germania dal 1881 venne avviata la creazione di un compiuto sistema di assicurazione sociale che copriva i rischi di vecchiaia, infortunio, malattia dei lavoratori dell'industria, contro il pagamento di contributi sociali a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori. Negli Stati Uniti il Social security act del 1935 introdusse, innovando rispetto ai sistemi vigenti, un sistema pensionistico a ripartizione. Infine, nel 1946 venne costituito nel Regno Unito un sistema sanitario nazionale che garantiva a tutti i cittadini piena assistenza medica, superando i principî assicurativi che avevano orientato la legislazione di ispirazione bismarckiana (v. Lund, 2002; v. Moss, 2002).
L'Italia adottò in tempi successivi, e dopo accesi confronti teorici e politici, i modelli indicati. L'assicurazione obbligatoria per invalidità e vecchiaia per i dipendenti privati (a eccezione degli impiegati al di sopra di un certo reddito) fu introdotta nel 1919, dopo che si erano rivelate inadeguate le forme di previdenza volontaria sperimentate nei decenni precedenti; tutti gli impiegati civili e militari dello Stato avevano peraltro diritto alla pensione dal 1864. Dopo l'introduzione delle pensioni di reversibilità a favore dei superstiti, nel 1939, il secondo dopoguerra fu caratterizzato dalla progressiva estensione della copertura pensionistica alle categorie non coperte, dagli impiegati del settore privato, ai coltivatori diretti, agli artigiani e ai commercianti, fino all'introduzione, nel 1969, delle pensioni sociali per i cittadini anziani indigenti. Nel corso degli anni, diverse categorie professionali hanno poi ottenuto il diritto a costituire, sotto l'egida legislativa, forme previdenziali autonome (v. Castellino, 1976; v. Cherubini, 1977; v. Artoni, 1985).
Il Sistema Sanitario Nazionale è stato introdotto nel 1978 al fine di garantire a tutti i cittadini cure mediche e ospedaliere finanziate con prelievo obbligatorio e gratuite per l'utente, superando le preesistenti strutture assistenziali e mutualistiche a base professionale. Si può ancora ricordare che le prime forme di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e contro la disoccupazione risalgono, rispettivamente, al 1898 e al 1919, e che durante il periodo fascista, oltre a un generale potenziamento di tutti gli istituti, furono introdotte significative provvidenze a favore della famiglia (v. Cherubini, 1977; v. Ciocca e Toniolo, 1999).
2. Le giustificazioni analitiche
Diversi ambiti disciplinari hanno analizzato le ragioni dell'esistenza e della crescita dello Stato sociale. Nell'ambito dell'economia politica le elaborazioni più significative si fondano sulla dimostrazione dell'ottimalità in senso paretiano di un sistema di mercato concorrenziale (è impossibile il miglioramento della posizione di una parte della collettività senza il simultaneo peggioramento del livello di utilità di almeno un individuo).
Il primo teorema dell'economia del benessere afferma che un meccanismo concorrenziale è in grado di determinare il raggiungimento di una configurazione ottimale nel senso di Pareto quando sono verificate alcune condizioni riguardanti la tecnologia (che non deve essere caratterizzata da rendimenti crescenti), l'assenza di esternalità (definita come ogni effetto che l'attività di un individuo determina sull'insieme di produzione e di consumo di un altro individuo, senza che l'effetto stesso sia incorporato nel sistema dei prezzi), l'informazione simmetrica (tutti gli agenti condividono lo stesso insieme di informazioni) e la completezza dei mercati (tutti i beni e i servizi che entrano nella funzione di utilità individuale sono oggetto di scambio sul mercato a un prezzo che rende uguali domanda e offerta). Quando una di queste condizioni non è verificata, il mercato non è in grado di raggiungere spontaneamente l'ottimalità paretiana e si giustifica un intervento correttivo e migliorativo da parte dell'autorità pubblica.
Per i nostri fini, è essenziale soffermarsi sulla condizione riguardante la completezza dei mercati. Se si assume che l'utilità marginale del reddito sia decrescente e che, quindi, l'individuo sia avverso al rischio, sono mercati rilevanti nella definizione di un ottimo paretiano quelli che permettono all'individuo di limitare l'assunzione del rischio, tutelandosi contro eventi futuri incerti e individualmente non controllabili: l'impossibilità di trasferire ad altri, contro il pagamento di un prezzo, i rischi di malattia e di indigenza per incapacità o impossibilità di lavorare influisce certamente sul livello di utilità individuale. L'inesistenza, o l'inadeguatezza, dei relativi mercati è causa di inefficienza nella visione degli economisti. Come si legge in un fondamentale saggio di Kenneth Arrow, che ha sostanzialmente posto le basi di tutti gli sviluppi successivi, "molte di queste merci, ossia la desiderata protezione contro molti rischi, semplicemente non sono disponibili" (v. Arrow, 1963, p. 945). Un'ampia classe di merci è quindi non commerciabile, e una precondizione fondamentale per l'ottimalità del meccanismo concorrenziale è insoddisfatta.
È infatti osservazione ampiamente condivisa che i mercati privati in cui si possa ottenere copertura dai grandi rischi sociali sono limitati o, in certi casi, inesistenti: in nessun paese del mondo le assicurazioni sanitarie private coprono l'intera popolazione; non esiste la possibilità di acquistare rendite per la vecchiaia perfettamente indicizzate all'inflazione; non esistono polizze private che assicurino l'individuo contro la perdita di lavoro per vicende macroeconomiche; in un contesto parzialmente diverso, i mercati del credito non permettono a un giovane di finanziare tutto il corso formativo dando a esclusiva garanzia i suoi redditi futuri, per definizione incerti nel loro effettivo ammontare.
Possono essere qui sinteticamente indicate le ragioni che spiegano perché non esistano mercati privati sufficientemente sviluppati capaci di assicurare i grandi rischi sociali di povertà, di malattia e di insufficiente sviluppo dei talenti naturali. Un mercato assicurativo privato richiede per la sua piena funzionalità che i rischi individuali siano indipendenti fra di loro (il che non accade per tutte le situazioni, quali inflazione e disoccupazione, in cui l'intera società è colpita dal cattivo andamento macroeconomico) e che la probabilità dell'evento negativo sia relativamente contenuta (il che non si verifica per l'assistenza sanitaria agli anziani, per i quali i premi assicurativi attuarialmente equi sono molto elevati); inoltre, l'impresa privata di assicurazione deve essere in grado di controllare le scelte individuali al fine di evitare comportamenti opportunistici. A questo riguardo un'ampia letteratura dimostra che in una situazione di informazione non simmetrica l'esito di mercato non è ottimale (v. Barr, 2001).
Tornando all'analisi di Arrow, all'incapacità del meccanismo di mercato di produrre soluzioni ottimali la società risponde con la creazione di istituzioni sociali non di mercato finalizzate nel nostro schema al superamento dell'incompletezza degli scambi. La nascita dello Stato sociale nella sua moderna articolazione ha quindi ragioni di efficienza e costituisce una risposta spiegabile, in un rigoroso ambito di teoria neoclassica, con l'inadeguatezza concreta del meccanismo concorrenziale.
Le finalità ridistributive o equitative dello Stato sociale, che si collocano logicamente in una posizione subordinata rispetto a quelle di efficienza, devono essere accuratamente interpretate. Gli assetti distributivi risultanti dalle prestazioni dello Stato sociale devono infatti essere valutati non tanto in termini di distribuzione ex post del reddito monetario, quanto piuttosto in relazione alle finalità tipiche di assicurazione o di ripartizione del rischio che giustificano l'esistenza dello Stato sociale.
In questo ambito le elaborazioni più rilevanti si possono cogliere nella letteratura filosofico-politica. A Thomas H. Marshall è attribuita la compiuta formulazione del concetto di diritto di cittadinanza. "Deve esistere una forma di uguaglianza umana fondamentalmente connessa con il concetto di appartenenza a una comunità che non contrasta con le disuguaglianze che distinguono i diversi livelli economici della società"; "le istituzioni che hanno i più stretti legami con l'elemento sociale della cittadinanza sono appunto il sistema scolastico e i servizi sociali", con la conseguenza che "le aspirazioni alla riduzione della disuguaglianza possono essere soddisfatte facendo entrare i diritti sociali nello stato della cittadinanza e creando così un diritto universale a un reddito reale non misurato dal valore di mercato del soggetto". Si aggiunga che "l'estensione dei servizi sociali non è un mezzo (sia pure indiretto) per livellare i redditi: in certi casi può portare a questo risultato; in altri no" (v. Marshall, 1950; tr. it., p. 39).
In modo ancora più esplicito Michael Walzer (v., 1983) afferma che in una società ordinata è inutile perseguire politiche indirizzate semplicemente a una ridistribuzione del reddito monetario. Si devono invece ricercare sfere di giustizia specificamente rilevanti o criteri distributivi appropriati in ogni area d'intervento, quali: la necessità di cura indipendentemente dalla capacità di pagamento personale, per la sanità; un tenore di vita appropriato e adeguato alla storia individuale, per il sistema previdenziale; il merito, per l'istruzione; un sostegno a chi è disoccupato, in un quadro che salvaguardi gli incentivi allo sforzo e alla valorizzazione individuale.
Dalle funzioni tipiche dello Stato sociale discende che larga parte delle spese di natura sociale ha lo scopo di fornire copertura assicurativa all'individuo e che gli interventi strettamente assistenziali hanno avuto storicamente, al di fuori di situazioni del tutto patologiche, una portata limitata. "Praticamente in nessun paese esiste un sistema di trasferimenti che abbia come suo obiettivo semplicemente il livellamento dei redditi. Pertanto l'ottimalità paretiana, in un contesto che prenda in considerazione la ripartizione del rischio, include larga parte degli interventi che, analizzati da un punto di vista più ristretto, sembrano motivati da finalità ridistributive (v. Arrow, 1963, p. 947).
3. Le aree di intervento e le dimensioni dello Stato sociale
Preliminarmente, è necessario definire i criteri con cui possono essere valutati sul piano allocativo e su quello distributivo gli interventi riconducibili alla nozione di Stato sociale.
Per quanto riguarda le aree di intervento possiamo fare riferimento alla definizione di social protection seguita da EUROSTAT nelle sue rilevazioni: "La protezione sociale comprende tutti gli interventi posti in essere da organismi pubblici e privati finalizzati a tutelare individui e famiglie da un predefinito insieme di rischi e di bisogni, a condizione che non siano previsti contestualmente né una contropartita né un contratto individuale. I rischi o i bisogni che possono dar luogo a interventi di protezione sociale sono convenzionalmente classificati nel modo seguente: 1. Malattia e assistenza sanitaria; 2. Invalidità; 3. Vecchiaia; 4. Superstiti; 5. Famiglia e infanzia; 6. Disoccupazione; 7. Abitazione; 8. Esclusione sociale, non altrimenti classificata" (v. EUROSTAT, 2000, p. 7). Alle prestazioni che rientrano negli ambiti indicati si possono aggiungere le spese per l'istruzione.
Nella definizione di EUROSTAT sono evidenziati i due problemi più ardui che devono essere affrontati quando si voglia rilevare l'estensione dello Stato sociale, in particolare a fini di analisi comparata: l'inserimento della componente erogata da organismi privati (che EUROSTAT ritiene debba essere inserita) e la rilevanza di alcune attività individuali (per le quali invece si opta per l'esclusione).
È opportuno a questo proposito ricollegarsi alla distinzione originariamente proposta da Richard M. Titmuss (v., 19763) fra welfare 'pubblico', welfare 'aziendale' e welfare 'fiscale'. Nell'accezione corrente, lo Stato sociale coincide con il welfare pubblico, costituito dalle erogazioni effettuate dalle amministrazioni pubbliche, siano esse servizi in natura o trasferimenti monetari. Nel welfare aziendale confluiscono tutte le provvidenze erogate direttamente o indirettamente dai datori di lavoro alla generalità dei dipendenti, in sostituzione di analoghi interventi pubblici o a seguito di accordi sindacali. Di norma il welfare aziendale si sovrappone al cosiddetto welfare fiscale. Le erogazioni dei datori di lavoro sono infatti tipicamente associate alle tax expenditures, che in questo contesto sono tutte le modifiche della struttura normale del sistema fiscale finalizzate ad agevolare lo sviluppo del sistema di protezione sociale. Esistono peraltro anche attività rientranti negli ambiti dello Stato sociale che sono il risultato di attività e di comportamenti individuali, non essendo mediati né dall'operatore pubblico, né da alcun datore di lavoro (dalla stipulazione di una polizza sanitaria, alla costituzione di una pensione integrativa individuale, all'iscrizione a una scuola privata): si deve comunque osservare che anche in questo caso la decisione individuale è spesso incentivata da specifiche agevolazioni fiscali.
Le precedenti considerazioni lasciano intendere che è praticamente impossibile fissare una linea di confine incontrovertibile fra gli interventi che all'interno di uno stesso settore rientrano nello Stato sociale e quelli che possono essere correttamente ignorati in quanto appartenenti a una sfera strettamente individuale. Un'analisi limitata alle spese dell'operatore pubblico non permette di valutare le conseguenze allocative dell'espansione complessiva delle attività che rientrano nello Stato sociale e mette in ombra i problemi distributivi connessi all'adozione di modelli istituzionali caratterizzati da una diversa composizione delle competenze private e pubbliche (come vedremo in seguito). È d'altra parte vero che la considerazione di tutte le attività rientranti nei settori di intervento dello Stato sociale conduce a dilatarne eccessivamente la portata.
Una corretta discriminazione deve essere fondata, a nostro giudizio, sull'esistenza e l'utilizzo di agevolazioni fiscali specifiche. Con questa impostazione si stabilisce un'equivalenza concettuale fra interventi diretti dell'operatore pubblico e azioni di sostegno a favore delle scelte e degli interventi privati, non essendo preclusa a priori un'analisi degli effetti distributivi, oltre che allocativi, dei diversi modelli istituzionali.
Una sintesi delle informazioni empiriche provenienti da diverse fonti ed elaborate sulla base delle precedenti osservazioni è contenuta nelle tabb. I e II. I dati, espressi in termini di prodotto interno, si riferiscono a sei paesi che dovrebbero rappresentare le tipologie fondamentali di Stato sociale esistenti in nazioni a elevato grado di sviluppo; nella tab. II, le spese sono ripartite in tre settori, istruzione, sanità e welfare, quest'ultimo comprendente tutti gli interventi che non rientrano nei due ambiti esplicitamente indicati.
La tab. I indica in primo luogo le spese di protezione sociale rilevate da EUROSTAT, sulla base della definizione prima riportata: in particolare, sono escluse tutte le spese per l'istruzione, le spese sanitarie private (anche se mediate da assicurazioni collettive) e le erogazioni pensionistiche individuali che hanno assunto rilievo nel Regno Unito. I dati, riferiti al 1998, indicano che in Europa la Svezia ha il sistema di protezione sociale più sviluppato (un terzo del prodotto interno) e l'Italia il meno esteso (un quarto del prodotto interno). La spesa del Regno Unito è superiore di un punto a quella dell'Italia, mentre Germania e Francia si collocano in una posizione intermedia.
A risultati sostanzialmente analoghi (l'oggetto di rilevazione non è del tutto coincidente) si giunge utilizzando il Social expenditure database dell'OECD (v., 2002), anche se in questo caso si inverte la posizione relativa di Italia e Regno Unito. La rilevazione dell'OECD consente di estendere l'analisi agli Stati Uniti, dove nel 1998 la spesa sociale è risultata pari a circa la metà di quella europea. La stessa fonte ci consente di individuare alcune componenti private della spesa totale, che in questa rilevazione sono circoscritte (il trattamento di fine rapporto in Italia, una parte del sistema pensionistico svedese comunque istituzionalizzato, alcune provvidenze aziendali in altri paesi, mentre le pensioni occupazionali inglesi sono inserite nel settore pubblico).
L'interpretazione alternativa dell'estensione dello Stato sociale inserisce nel quadro informativo anche le prestazioni che sono in linea generale associate al cosiddetto welfare fiscale. A questo riguardo altre indagini OECD (v., Education at…, e Social expenditure…, 2002) forniscono stime della spesa per l'istruzione, pubblica e privata, e della spesa sanitaria privata. È inoltre possibile integrare i dati OECD con i trasferimenti pensionistici personali del Regno Unito. Da queste elaborazioni (v. tab. II) emerge un quadro parzialmente diverso da quello precedentemente descritto: in particolare, le spese al lordo e al netto di quelle sostenute per l'istruzione negli Stati Uniti si avvicinano a quelle europee. Se poi si inseriscono le spese pensionistiche private degli Stati Uniti (utilizzando un'analisi della Social Security Administration, ferma per il momento al 1994, che considera sia le spese pubbliche che quelle private) si ottiene un dato che indica un'omogeneità dimensionale degli Stati Uniti con i principali paesi europei. Al netto delle spese per l'istruzione, la quota del prodotto interno statunitense destinata ai programmi di welfare è pari al 28%, inferiore di un punto a quella dell'Italia e del Regno Unito (nella versione comprensiva delle pensioni personali) e di tre punti a quella rilevata in Francia e Germania. Si segnala comunque la Svezia per il livello elevato di spesa.
Nelle analisi comparate delle dimensioni dello Stato sociale esistono altri elementi di ambiguità, che qui possiamo solo richiamare. Se è difficile paragonare le dimensioni dello Stato sociale anche in paesi simili per grado di sviluppo, ulteriori difficoltà emergono quando si vogliono effettuare analisi settoriali comparate: i criteri di classificazione degli interventi non sono infatti omogenei, essendoci in particolare forti sovrapposizioni fra gli interventi per vecchiaia, invalidità e disoccupazione (v. Artoni e Casarico, 2001).
Esistono poi problemi derivanti dalle interconnessioni difficilmente quantificabili fra sistema fiscale e interventi dello Stato sociale. Le prestazioni monetarie dello Stato sociale sono tipicamente rilevate al lordo dell'imposizione personale diretta: quando, come sempre accade, le aliquote nazionali sono diverse, gli effetti di benessere dello stesso ammontare di spesa pubblica sono significativamente diversi. Gli interventi a favore della famiglia possono consistere in erogazioni dirette (come gli assegni famigliari in Italia) oppure nella concessione di detrazioni e di deduzioni fiscali: nelle statistiche internazionali le erogazioni sono rilevate, contrariamente alle agevolazioni tributarie, che sono totalmente ignorate. Possiamo qui solo ricordare che l'analisi di Willem Adema (v., 2000) dimostra che al netto del prelievo fiscale le spese sociali in cinque dei sei paesi considerati sono comprese in un intervallo assai ristretto (v. tab. I, ultima colonna): per l'elevata pressione fiscale la spesa sociale netta della Svezia scende al 27%, contro il 26% del Regno Unito, il 24,5% degli Stati Uniti e una quota inferiore dell'Italia.
Come abbiamo già osservato, non esiste una soluzione pienamente soddisfacente che consenta di valutare in modo non ambiguo le dimensioni dello Stato sociale. È tuttavia certo che le dimensioni raggiunte in alcuni paesi dalla fornitura privata, ma fiscalmente agevolata, di prestazioni sociali impongono un ulteriore sviluppo dell'analisi: ci dobbiamo chiedere se il diverso ruolo delle componenti private e pubbliche, pur nella sostanziale omogeneità allocativa, produca effetti significativi in termini di accesso alle prestazioni.
4. L'accesso alle prestazioni
Gli effetti delle diverse modalità di fornitura dei servizi sociali in termini di accesso alle prestazioni possono essere individuati sulla base di ulteriori informazioni riguardanti sanità e sistema pensionistico.
Con riferimento alla sanità possono essere richiamati alcuni indicatori di bisogno, di dimensione degli interventi e di qualità dei cinque paesi europei da noi considerati (v. tab. III). I dati OECD indicano che la popolazione è relativamente più anziana e che la spesa pro capite è molto più bassa rispetto ai valori rilevati negli Stati Uniti; inoltre, sia la mortalità infantile, sia quella prematura degli adulti, specie degli uomini, sono inferiori in Europa.
Come sappiamo, il sistema sanitario degli Stati Uniti è caratterizzato, oltre che da un più elevato livello di spesa pro capite, anche dalla più alta componente di spesa privata. Un'analisi dettagliata delle modalità di copertura indica che una rilevante quota della popolazione americana (12%) non è assicurata e che la copertura assicurativa di gruppo è dominante (essendo quella individuale limitata ai lavoratori autonomi). Sul totale della spesa medica solo il 21% è a carico diretto dell'individuo (una percentuale probabilmente non lontana da quella riscontrabile in Europa), mentre la parte residua è a carico del governo federale o proviene da indennizzi assicurativi (v. Gruber, 2001). Dalle precedenti considerazioni emerge che nel settore sanitario l'area di tax expenditure è molto ampia; si commetterebbe quindi un significativo errore di valutazione se in un'analisi comparata si omettesse la spesa sanitaria fiscalmente incentivata (v. United States Congress, 2001).
La probabilità di non essere assicurati è poi correlata al reddito individuale: infatti, la percentuale di non assicurati discende rapidamente al crescere del reddito (il 35% dei redditieri nella fascia fra 10-15 mila dollari annui e l'8% quando il reddito è superiore a 50 mila dollari). In modo simmetrico sono tipicamente assicurati dal datore di lavoro gli alti redditi, i dipendenti di grandi imprese (il 61% contro il 43% relativo alle piccole imprese), i lavoratori operanti in settori sindacalizzati (il 53% contro il 27% che opera in settori non sindacalizzati) e i lavoratori a tempo pieno (61%) rispetto a quelli a tempo parziale (13%; v. United States Department of Labor, 2002). È ampiamente condivisa l'opinione che le agevolazioni fiscali connesse alle assicurazioni mediche, oltre a comportare una notevole caduta di gettito fiscale, siano anche concentrate a favore delle componenti privilegiate del lavoro dipendente.
Più in generale, si può affermare che un sistema sanitario di tipo assicurativo, oltre a comportare un elevato assorbimento di risorse e ad affidare all'intervento pubblico tutti i soggetti ad alto rischio per ragioni di età, non garantisce la copertura universale della popolazione. Non realizza, in altri termini, il criterio di giustizia distributiva afferente a questa specifica area dello Stato sociale.
Fra i paesi qui considerati, gli Stati Uniti e il Regno Unito sono caratterizzati dalla presenza di una rilevante componente di pensioni private, derivanti dalla sostituzione legislativamente regolata di componenti del sistema pubblico, o da accordi sindacali, oppure da accantonamenti individuali, in un contesto comunque di forte intervento normativo pubblico. Tutte le forme di previdenza privata, siano esse sostitutive di quella pubblica o a essa complementari, sono sostenute da consistenti agevolazioni fiscali, che si risolvono nell'esenzione degli accantonamenti e dei redditi ottenuti nella fase di accumulazione e nella tassazione delle prestazioni.
Negli Stati Uniti l'incidenza delle pensioni private sul totale delle prestazioni previdenziali è pari al 33% del totale (v. Munnell e Sunden, 2001). Con riferimento alla copertura, la distribuzione dei benefici pensionistici ricalca la partecipazione ai piani sanitari, concentrandosi su settori e su lavoratori relativamente privilegiati. Nel Regno Unito i dati indicano che i diversi tipi di pensioni private coprono circa il 50% dei dipendenti privati, con caratteristiche analoghe a quelle rilevate negli Stati Uniti (v. Artoni e Casarico, 2001). I dati relativi alla distribuzione di questi benefici indicano poi che i percettori si collocano nelle fasce a reddito più elevato, venendosi così a correggere in buona misura le caratteristiche ridistributive dei sistemi pubblici di sicurezza sociale che in entrambi i paesi premiano le classi più povere.
Possono essere formulate alcune osservazioni a conclusione di questo argomento. Per l'estensione delle agevolazioni fiscali non si può non tenere conto delle cosiddette componenti private di sanità e pensioni, la cui omissione comporta una distorsione del quadro sia allocativo, sia distributivo (v. Howard, 1997). Sul piano allocativo, come abbiamo già osservato nel capitolo precedente, non si rappresenta correttamente la dimensione effettiva dello Stato sociale; sul piano distributivo, i diversi assetti istituzionali portano a privilegiare in generale alcuni gruppi sociali, concentrando su di loro le provvidenze pubbliche. In alcuni casi il riferimento parziale del welfare aziendale deriva da un'insufficiente articolazione del sistema pubblico di prestazione sociale (si pensi a un sistema previdenziale pubblico che non realizza adeguatamente l'obiettivo di garantire un ragionevole mantenimento del tenore di vita nel periodo di pensionamento). In altri casi lo sviluppo delle componenti private può originare dall'inesistenza di un sistema pubblico di protezione, come accade là dove non operano sistemi sanitari nazionali.
I risultati ultimi in termini allocativi e distributivi possono essere così delineati: sul piano allocativo, può essere eccessiva l'attivazione di risorse indotte da generose agevolazioni fiscali; sul piano distributivo, quando solo una parte della popolazione beneficia dell'estensione dei meccanismi di protezione, si pongono, se non altro, problemi equitativi.
5. Gli effetti economici dello Stato sociale
Un'amplissima letteratura ha affrontato il problema dei nessi esistenti fra andamento economico e dimensioni e articolazione dello Stato sociale. Verranno qui esposte le principali linee di analisi.
a) Stato sociale, reddito pro capite e crescita economica
Una prima linea di ricerca ha studiato il problema degli effetti economici del Welfare State in termini macroeconomici, ponendo in relazione le dimensioni dello Stato sociale con il grado di sviluppo dei diversi paesi, misurato dal reddito pro capite o dal tasso di crescita (v. Atkinson, 1999).
I risultati ottenuti sono strettamente dipendenti dalla definizione di Stato sociale adottata. Se gli interventi rilevati coincidono con le spese a carico delle pubbliche amministrazioni, per i paesi europei è evidente l'associazione positiva fra estensione dello Stato sociale e reddito pro capite. La mancata considerazione delle spese di protezione sociale legate al rapporto di lavoro rende meno evidente la connessione per paesi come Stati Uniti, Giappone e, in misura minore, Regno Unito.
Altre analisi collegano invece il tasso di crescita di un sistema economico (o la sua competitività misurata dal costo del lavoro) con le dimensioni dello Stato sociale. In questo caso la connessione non è univoca, e comunque non immediatamente interpretabile: alcuni studi indicano infatti un nesso positivo, mentre da altri emerge che un alto tasso di sviluppo è correlato negativamente alla dimensione dei trasferimenti sociali. È facilmente intuibile che i risultati dipendono, oltre che dalle definizioni delle variabili rilevanti, anche dal periodo e dai paesi presi in esame.
Queste analisi, per il loro livello di aggregazione, sono comunque irrimediabilmente approssimative. Implicitamente, e al di là delle specifiche conclusioni, tendono inoltre a valutare la funzionalità dello Stato sociale solo in termini di crescita materiale dell'economia, quando invece il sistema di protezione sociale ha una molteplicità di funzioni non tutte riconducibili all'incremento del reddito pro capite.
Deve essere infine osservato che una correlazione positiva fra due variabili non implica alcun meccanismo causale: nel nostro caso si può legittimamente sostenere sia che un elevato reddito pro capite (o un alto tasso di sviluppo) è all'origine di un compiuto sistema di protezione sociale, sia che il Welfare State, per gli effetti di integrazione sociale e di miglioramento della qualità della forza lavoro, è esso stesso causa di un elevato tenore di vita.
b) Stato sociale e risparmio
A risultati potenzialmente più significativi, anche se, come vedremo, scarsamente conclusivi, conduce un'analisi degli effetti dello Stato sociale sull'offerta quantitativa di fattori produttivi, capitale e lavoro, e sullo sviluppo delle potenzialità di progresso tecnico, inserendo in questa variabile sia la propensione al rischio, sia la qualità della forza lavoro.
La dotazione di beni capitali è determinata dal risparmio passato e corrente di un paese. Pur essendo molti gli istituti dello Stato sociale che possono influire in un senso o nell'altro sul saggio di risparmio, il sistema pensionistico è la componente capace di produrre gli effetti più significativi.
La letteratura si è concentrata in particolare sugli effetti differenziali delle diverse tipologie di sistemi pensionistici, contrapponendo un sistema a ripartizione (in cui il gettito contributivo annuale è destinato al finanziamento delle prestazioni, senza alcuna costituzione di riserve finanziarie) a un sistema a capitalizzazione (in cui la prestazione individuale deriva dalla trasformazione in rendita di un montante accumulato con il versamento dei contributi e il loro investimento sui mercati finanziari).
Peter Diamond (v., 1965) ha dimostrato che l'introduzione di un sistema a capitalizzazione in un modello a generazioni sovrapposte non modifica il livello di risparmio individuale. Il rendimento conseguito con il risparmio previdenziale è pari a quello ottenibile da tutti gli altri impieghi, rimanendo quindi inalterata la posizione di equilibrio precedente l'introduzione del sistema pensionistico: l'accantonamento del contributo pensionistico implica, in altri termini, la sostituzione di altre forme di risparmio privato. Ne segue che è inalterata la dotazione di capitale pro capite e, quindi, il livello di reddito pro capite, dato il tasso di sviluppo di lungo periodo.
Al contrario, un sistema a ripartizione, in quanto raccoglie contributi dalle generazioni attive caratterizzate da una propensione al risparmio positiva ed eroga prestazioni nella fase d'avvio alle generazioni che non hanno versato contributi e che, secondo una funzione di risparmio life cycle, hanno una propensione al consumo pari all'unità, modifica la condizione di equilibrio del sistema originario. Si riduce infatti il tasso di risparmio, il capitale pro capite e, quindi, il reddito pro capite, pur non modificandosi nel tradizionale modello di Solow il tasso di crescita di lungo periodo.
Il risultato di Diamond discende da presupposti molto specifici. Il diverso effetto dei due tipi di sistema pensionistico dipende in particolare dalla funzione del risparmio di tipo life cycle, che esclude ogni forma di trasmissione ereditaria per altruismo intergenerazionale. Se l'introduzione di un sistema a ripartizione sostituisce altre forme di trasferimento intergenerazionale (com'è storicamente avvenuto) o comporta un incremento dei lasciti ereditari, non si producono effetti sul risparmio (v. Thompson, 1983; v. Blanchard e Fischer, 1989). Se poi si considerano congiuntamente le scelte di risparmio e di investimento in capitale umano e si introducono imperfezioni nel mercato dei capitali, viene meno il risultato secondo cui i sistemi a capitalizzazione sono sistemi neutrali che non hanno effetto sul risparmio e sulle altre variabili di scelta degli individui (v. Casarico, 1998).
I tentativi di stima degli effetti sul saggio di risparmio di un sistema pensionistico a ripartizione non hanno dato certamente risultati conclusivi. Alcuni autori, in particolare Martin Feldstein (per una sintesi dei suoi contributi, v. Feldstein e Liebman, 2002), hanno individuato effetti particolarmente consistenti; altri sono molto più cauti nelle loro conclusioni, quando non hanno ottenuto risultati negativi (per i riferimenti alla letteratura più recente, v. Barr, 2001). Rimane a nostro giudizio ancora valida la conclusione di Lawrence Thompson (v., 1983, p. 1445), per il quale la teoria economica non è in grado di determinare gli effetti sul risparmio del sistema pubblico di sicurezza e le ricerche empiriche effettuate forniscono scarso sostegno alla tesi secondo cui l'effetto riduttivo sarebbe stato sostanziale.
È comunque diffusa l'opinione che esista un problema di inadeguatezza del risparmio per la vecchiaia nei paesi anglosassoni, dove hanno trovato spazio, accanto alle pensioni pubbliche e a quelle occupazionali a beneficio definito, forme a capitalizzazione a base individuale. Le pensioni individuali sono state incentivate da trattamenti fiscali relativamente favorevoli, nella convinzione che l'elasticità del risparmio alla variazione del rendimento netto sia significativa (v. Bernheim, 2002).
Negli ultimi anni sono state esaminate, in sede politica, alcune proposte di ulteriore estensione delle pensioni individuali in sostituzione della componente pubblica a ripartizione. La base teorica di queste proposte è costituita dal modello di Diamond (v., 1965), cui abbiamo fatto riferimento. Si ritiene inoltre che il rendimento implicito dei contributi versati a un sistema a ripartizione (dato dalla somma del tasso di crescita dell'occupazione e della produttività del lavoro) sia sensibilmente inferiore a quello ottenibile con l'investimento degli accantonamenti previdenziali sui mercati finanziari; sarebbe in altri termini possibile ridurre il gettito contributivo, con i connessi effetti distorsivi propri di tutte le forme di prelievo obbligatorio, pur garantendo lo stesso reddito ai pensionati (per gli argomenti a favore di questa posizione, v. Feldstein e Liebman, 2002).
Le tesi appena ricordate non sono unanimemente condivise (v. Diamond, 1999 e 2002). Gli effetti delle agevolazioni sul risparmio sono ancora oggetto di ampia discussione (v. Bernheim, 2002), e occorre osservare, fra l'altro, che nell'ultimo decennio i paesi che hanno sviluppato la componente a capitalizzazione sono stati caratterizzati anche da un'elevata caduta del tasso di risparmio in termini assoluti e relativamente agli altri paesi (v. Lusardi e altri, 2001). Per quel che riguarda il maggior rendimento dei sistemi a capitalizzazione, l'evidenza empirica è molto più articolata di quanto si pensi correntemente. In primo luogo, gli investimenti sui mercati finanziari si caratterizzano per essere a elevato rischio; l'eventuale maggiore rendimento medio ha quindi la funzione di compensare la maggiore volatilità (v. Bosworth e Burtless, 2002). Inoltre, lungo un periodo esteso, e prescindendo dalle rilevanti fluttuazioni all'interno dell'intervallo considerato, solo il mercato azionario degli Stati Uniti sembra confermare la tesi di un superiore rendimento dei sistemi a capitalizzazione, al lordo dei rilevanti costi di gestione e non considerando la diffusa assenza di copertura dall'inflazione nel periodo successivo al pensionamento (v. Brugiavini e Peracchi, 1999; v. Diamond, 2000). Infine, si deve osservare che molte delle proposte di riforma sono state ispirate dallo straordinario andamento dei mercati azionari negli anni novanta, fino allo scoppio della bolla speculativa verificatasi a metà del 2000: negli ultimi anni i rendimenti del sistema a ripartizione e quelli di un ipotetico sistema a capitalizzazione si sono fortemente ravvicinati.
c) Stato sociale e partecipazione al mercato del lavoro
Numerosi istituti del sistema di protezione sociale influenzano l'offerta di lavoro, dai sussidi di disoccupazione alle indennità di malattia, ai presupposti per la concessione delle pensioni d'invalidità, all'organizzazione del sistema pensionistico che tipicamente collega l'erogazione dei benefici al raggiungimento di una certa età. Per alcuni di questi temi non possiamo che rinviare alla letteratura rilevante (per gli effetti dei sussidi di disoccupazione, v. Atkinson, 1999; v. Krueger e Meyer, 2002; per gli effetti dei programmi assistenziali, v. Moffitt, 2002); qui ci soffermeremo sui nessi esistenti fra sistema pensionistico e offerta di lavoro.
Lo sviluppo dei sistemi di previdenza sociale è stato storicamente collegato alla diminuzione del tasso di partecipazione alla forza lavoro delle fasce più anziane della popolazione. Dopo la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti, il tasso di partecipazione era di poco inferiore al 50% per la popolazione di età superiore ai 65 anni; nel 1990 questo tasso si collocava intorno al 20%. Negli ultimi decenni si è contratto in tutti i paesi sviluppati anche il tasso di attività dei lavoratori maschi nella fascia di età compresa fra i 55 e i 64 anni: nel 1995 si va dal 55% dell'Italia, al 64% della Germania, al 75% del Regno Unito e al 71% degli Stati Uniti, con una media OECD del 69% (v. Blöndal e Scarpetta, 1999; v. Gruber e Wise, 2002). Tutto ciò è il riflesso di un'età media di pensionamento che si colloca fra i 59 e i 60 anni nell'Europa continentale e fra i 62 e i 63 anni nei paesi anglosassoni (v. Blöndal e Scarpetta, 1999). Si deve comunque ricordare che negli Stati Uniti le pensioni private sono in linea generale corrisposte a un'età inferiore a quella cui si accede alle prestazioni della social security.
Per contrastare il ritiro prematuro dalla forza lavoro, che Gruber e Wise (v., 2002) definiscono unused productive capacity, è stato proposto di innalzare l'età minima cui sono corrisposte le pensioni pubbliche, oppure di introdurre meccanismi che incentivino la permanenza nella forza lavoro anche oltre l'età minima di pensionamento. Queste proposte hanno evidentemente senso in un mondo caratterizzato da un forte allungamento della vita media (per un inquadramento generale di questi problemi, v. Lumsdaine e Mitchell, 1999).
Oltre che al ritiro anticipato volontario, la caduta del tasso di partecipazione di lavoratori relativamente anziani è stata collegata anche alla rivoluzione tecnologica e occupazionale che ha caratterizzato le economie occidentali nell'ultimo quarto del secolo XX. Si sostiene infatti che larga parte dei rischi generatisi nelle moderne società industrializzate è il risultato delle trasformazioni strutturali determinate dalle innovazioni tecnologiche all'interno dei mercati del lavoro nazionali. "La crescente produttività, il mutamento nella composizione dei consumi, la saturazione della domanda di alcuni beni provenienti dai settori tradizionali dell'economia sono i principali fattori di cambiamento. Sono questi fattori strutturali di rischio che alimentano la domanda di sostegno pubblico e di suddivisione del rischio" (v. Iversen e Cusack, 2000, p. 313). D'altro canto, larga parte dei mutamenti occupazionali si è risolta nell'entrata di giovani lavoratori nel settore dei servizi e nel ritiro prematuro degli occupati anziani dai settori tradizionali. Di fronte a queste trasformazioni strutturali e irreversibili, i governi hanno risposto fondamentalmente in due modi: hanno conservato la regolazione nel mercato del lavoro, attivando forme di protezione sociale costituite essenzialmente da pensionamenti anticipati, oppure hanno mantenuto relativamente elevata l'età di accesso alle prestazioni pensionistiche, attivando forme d'impiego nel settore dei servizi caratterizzate da basse remunerazioni, impiego a tempo parziale e bassa produttività.
Si può quindi trarre la conclusione che un recupero dei tassi di attività, in settori a elevata produttività, potrà essere ottenuto quando saranno riassorbiti gli effetti delle grandi trasformazioni tecnologiche degli ultimi decenni. Lo Stato sociale in queste specifiche vicende ha svolto una rilevante funzione di ammortizzatore sociale, in alcuni casi in modo esplicito, in altri attivando consistenti interventi assistenziali.
d) Stato sociale e assunzione dei rischi
I nessi fra Stato sociale e performance economica non sono riconducibili esclusivamente alla variazione quantitativa della disponibilità dei fattori produttivi, ma si esprimono anche in una dimensione qualitativa, con conseguenze positive o negative. Le conseguenze positive possono assumere diverse configurazioni: da un implicito stimolo all'assunzione di rischi di varia natura all'incentivazione all'investimento in capitale umano o all'acquisizione di specifiche competenze professionali. D'altro lato, la stessa maturazione degli istituti dello Stato sociale può determinare diffusi fenomeni di azzardo morale, alla lunga incompatibili con il buon funzionamento del meccanismo di mercato.
Fra i contributi che hanno individuato forme di complementarità fra Stato sociale e sviluppo economico deve essere in primo luogo ricordato per la sua generalità un lavoro di Hans-Werner Sinn (v., 1995), sintetizzato in Boadway e Keen (v., 2000). Riprendendo la letteratura sugli effetti della tassazione del reddito (con possibilità di deduzione delle perdite) sul livello di investimento in attività rischiose, Sinn dimostra che il finanziamento di un sistema di protezione sociale con imposte maggiormente a carico delle classi abbienti può portare, quando non è nota a priori la posizione individuale nella scala reddituale, a una più diffusa assunzione di rischi. Più precisamente, le iniziative che non sarebbero intraprese in assenza di Stato sociale possono in circostanze non implausibili determinare il cosiddetto 'paradosso della ridistribuzione': "Per una qualsiasi distribuzione del reddito prima delle imposte, la varianza del reddito dopo le imposte è certamente ridotta dopo l'applicazione di imposte ridistributive. Tuttavia gli individui possono reagire assumendo rischi in modo tale da aumentare l'ineguaglianza prima dell'applicazione delle imposte" (v. Sinn, 1995, pp. 515 e 524). In altri termini, non è sempre vero che lo Stato sociale riduce l'ineguaglianza, in quanto attraverso l'incentivo all'assunzione di rischi può liberare forze produttive e contribuire all'aumento del livello di attività.
L'analisi astratta di Sinn può trovare sostegno empirico in un esame comparato dei sistemi fiscali nazionali. È stato argomentato (v. Lindert, 2003) che i paesi in cui è particolarmente elevata la quota di spesa sociale pubblica in termini di prodotto interno sono anche quelli in cui la tassazione dei redditi di capitale è relativamente più lieve di quella applicata ai redditi da lavoro e ai consumi. Il confronto fra Svezia e Stati Uniti effettuato da Peter Lindert sembra dimostrare che una diffusa protezione sociale è connessa a un trattamento favorevole delle iniziative in linea generale rischiose, il che conferma fra l'altro i risultati dell'analisi empirica di Adema (v., 2000) sui livelli della spesa sociale netta.
Con un'angolatura diversa, Margarita Estevez-Abe e altri (v., 2001) giungono a conclusioni analoghe quando sostengono che il sistema di protezione sociale è strettamente collegato al superamento dell'insufficienza del meccanismo di mercato nella promozione di competenze lavorative specializzate. L'investimento in specific skills è altamente rischioso per i giovani, soprattutto se è elevata la probabilità di perdita dell'occupazione nelle attività dove quelle competenze sono adeguatamente valorizzate. D'altro canto, gli imprenditori che operano in settori tecnologicamente avanzati e in un quadro di concorrenza internazionale devono disporre di manodopera qualificata. L'esigenza di conciliare investimenti individuali altamente rischiosi e competitività del sistema produttivo è all'origine di alcuni importanti aspetti dello Stato sociale, che oltre a essere articolato sulla base delle specifiche esigenze nazionali è anche espressione di coalizioni politico-sociali. "Quando le imprese devono adottare strategie di mercato che richiedono una combinazione di competenze specifiche a livello d'impresa e di settore produttivo, e quando un consistente numero di lavoratori investe in queste competenze, è probabile che fra i lavoratori qualificati e i loro datori di lavoro si formi una forte coalizione a sostegno di un sistema di protezione sociale" coerente con le esigenze di crescita dei settori più dinamici dell'economia (v. Estevez-Abe e altri, 2001, p. 147). Al contrario, quando la linea produttiva prevalente o la modesta apertura al commercio internazionale non richiedono elevata specializzazione, non emerge alcun interesse da parte dei datori di lavoro a favorire lo sviluppo di un compiuto sistema di protezione sociale.
Sempre nell'ambito dell'esplorazione dei rapporti sostanziali fra Stato sociale e dinamica capitalistica, negli ultimi anni sono state elaborate significative analisi teoriche riguardanti i nessi fra la struttura del sistema pensionistico e l'investimento in capitale umano, considerato fattore fondamentale di crescita economica. Il sistema pensionistico ha il fine essenziale di garantire un reddito adeguato e ragionevolmente prevedibile per la vecchiaia; l'investimento in istruzione, d'altra parte, è eminentemente aleatorio, portando solo in caso di esito favorevole a un aumento del reddito da lavoro del beneficiario. Nella contrapposizione fra l'aspirazione dei genitori a garantirsi una dignitosa vecchiaia e il loro desiderio di migliorare le prospettive dei figli, la letteratura (v. Kaganovich e Zilcha, 1999; v. Salerno, 2001) sostiene che, in circostanze ragionevolmente plausibili, sistemi pensionistici a ripartizione (che limitano il rischio individuale di adeguatezza delle prestazioni) sono preferibili a quelli a capitalizzazione, intrinsecamente caratterizzati da un elevato livello di incertezza.
In questi schemi concettuali deve essere inserito il dibattito, cui abbiamo già fatto cenno, riguardante una possibile sostituzione, parziale o totale, degli attuali sistemi pensionistici pubblici con meccanismi a capitalizzazione. Alcuni (v. Bosworth e Burtless, 2002) sottolineano che l'introduzione di una componente a capitalizzazione, gestita a livello individuale o collettivo, può determinare un rischio finanziario empiricamente 'molto grande' e di fatto incompatibile con la funzione essenziale di un sistema pensionistico di garantire un reddito adeguato e ragionevolmente prevedibile. Se ci riferiamo ai modelli prima richiamati che hanno studiato i nessi fra sicurezza sociale e investimento in istruzione, con questa sostituzione sarebbero compromessi gli incentivi a incrementare la dotazione di capitale umano.
Altri studiosi (v. Feldstein e Liebman, 2002), estrapolando ai prossimi decenni gli straordinari risultati ottenuti dall'investimento nei mercati azionari statunitensi negli anni novanta, sostengono che un sistema a capitalizzazione garantirebbe comunque un rendimento medio più elevato di quello derivante da un sistema a ripartizione, anche se molto più variabile e incerto. Eventuali garanzie pubbliche potrebbero attenuare i rischi intrinseci a un sistema a capitalizzazione.
Accanto a rappresentazioni teoriche che evidenziano le potenzialità sinergiche degli istituti della protezione sociale con i processi di sviluppo delle economie di mercato, esistono altri consistenti filoni di letteratura che seguono una linea interpretativa opposta. Non facciamo riferimento alle analisi che sottolineano le difficoltà operative dello Stato sociale in particolari circostanze storiche (su cui torneremo in seguito), ma piuttosto a visioni analitiche o preanalitiche fondamentali. Possiamo ad esempio richiamare la famosa analisi di Joseph Schumpeter (v., 1942), in cui si sosteneva l'incompatibilità insuperabile fra il capitalismo, incarnato dall'imprenditore individuale, e tutte le forme di organizzazione sociale che di fatto limitano il gusto e la ricompensa per l'assunzione del rischio. Nell'ambito di un'interpretazione irrimediabilmente negativa dello Stato sociale può essere ricordato anche Friedrich von Hayek, per il quale "le difficoltà che le assicurazioni sociali devono affrontare sono la conseguenza del fatto che un apparato concepito per il sollievo della povertà è stato trasformato in uno strumento destinato alla ridistribuzione del reddito, una ridistribuzione che si pensa sia basata su un qualche inesistente principio di giustizia sociale, ma è di fatto determinata da decisioni ad hoc" (v. Hayek, 1960, p. 208).
Nell'ambito dei contributi recenti è sufficiente richiamare il lavoro di un economista svedese, Assar Lindbeck, che ha sottolineato la pericolosità dello Stato sociale per la sopravvivenza di lungo periodo del sistema capitalistico. "Numerosi benefici dello Stato sociale disincentivano il lavoro perché riducono la differenza nel reddito di chi lavora e di chi non lavora" (v. Lindbeck, 1995, p. 483), creando disincentivi, oltre che al lavoro, anche al risparmio, all'investimento rischioso e all'iniziativa imprenditoriale. Lindbeck sottolinea anche l'importanza di non organizzare lo Stato sociale sulla base di un'assunzione di invarianza del comportamento individuale nel tempo: se lo Stato sociale è sorto con l'obiettivo di proteggere gli individui dalle conseguenze degli shocks macroeconomici con tutti i rischi a essi connessi, può accadere che questi stessi shocks minino le basi economiche dello Stato sociale spingendo larga parte della popolazione in una situazione di dipendenza prolungata dalle provvidenze pubbliche, con effetti disastrosi sugli equilibri di bilancio.
Oltre a porsi in totale antitesi con i contributi prima esposti, le critiche di Lindbeck, come quelle di molti altri autori sia del passato che contemporanei, si fondano in buona misura sulle conseguenze dell'azione ridistributiva dello Stato sociale. Dalla dissociazione fra sforzo e ricompensa sembra infatti discendere larga parte degli effetti negativi dello Stato sociale nel breve e nel lungo periodo. Conviene tentare a questo punto una valutazione dell'entità della ridistribuzione operata dallo Stato sociale.
e) Stato sociale e ridistribuzione
Nelle valutazioni correnti dell'azione ridistributiva dello Stato sociale esiste una diffusa tendenza a far coincidere l'entità della ridistribuzione con il livello della spesa sociale, spesso circoscritta a quella direttamente a carico dell'operatore pubblico. Questa impostazione, che sembra implicita nella precedente citazione di Lindbeck, è riscontrabile anche in altre analisi (v., ad esempio, Alesina e altri, 2001). Equiparando l'entità dei trasferimenti e i sussidi alle famiglie iscritti nei conti pubblici di alcuni paesi europei e degli Stati Uniti all'intensità dei processi distributivi in atto nei diversi paesi, nel lavoro di Lindbeck sono formulate interpretazioni di ampia portata sulle cause dei diversi assetti di spesa sociale e sulle conseguenze che una forte dissociazione fra lo sforzo individuale e la ricompensa riconosciuta può comportare per il funzionamento del sistema economico.
Al di là della possibile correttezza di specifiche interpretazioni, in altri contributi esiste tuttavia la consapevolezza che un'appropriata analisi degli effetti distributivi dello Stato sociale richieda la simultanea considerazione sia della spesa nel complesso e nella sua composizione, sia delle modalità di finanziamento adottate in concreto. I trasferimenti sociali possono essere "percepiti semplicemente come la restituzione ai singoli dei loro contributi pregressi". Nello stesso senso "i contributi sociali e le altre imposte, che sono percepiti come un meccanismo per acquisire il diritto a benefici futuri - pensioni, assistenza sanitaria, istruzione -, non sono imposte nel significato normalmente attribuito a questo termine di trasferimento senza corrispettivo al governo. I versamenti a programmi di sicurezza sociale attuarialmente equi dovrebbero essere esclusi dall'analisi degli effetti ridistributivi" (v. Boadway e Keen, 2000, p. 764).
È stato anche sottolineato che gli studi sulla ridistribuzione devono tener conto dell'intero ciclo di vita di una persona, cosa, questa, spesso trascurata. "[Gli] studi che sono basati sulla misura della situazione economica in un determinato periodo non prendono in considerazione la rilevante ridistribuzione effettuata dal governo lungo l'arco di vita di un individuo, oltre che della dimensione intergenerazionale. Se facciamo riferimento a un solo periodo, un sistema pensionistico pubblico determina in larghissima misura un trasferimento di reddito dai lavoratori abbienti a quelli poveri. In termini di reddito percepito nell'intera vita lavorativa, le conseguenze possono essere molto diverse, e un sistema pensionistico pubblico potrebbe essere caratterizzato dall'assenza di ridistribuzione" (v. Atkinson e Stiglitz, 1980, p. 286). È stato infine osservato che gli schemi di benessere privati, se sostenuti da agevolazioni fiscali, comportano processi ridistributivi nella misura in cui questi benefici non sono diffusi su tutta la popolazione (v. Munnell e Sunden, 2001).
Le precedenti considerazioni lasciano chiaramente intendere che la stima degli effetti distributivi, con i connessi incentivi e disincentivi, è estremamente ardua. Non è comunque legittimo adottare semplificazioni estreme che deformano il quadro complessivo degli interventi di protezione sociale, oscurando tutta la componente assicurativa o di autofinanziamento delle prestazioni. Inoltre, per l'impossibilità di considerare simultaneamente istituti dalle caratteristiche e dalle funzioni molto diverse, è necessario procedere con analisi parziali, successivamente aggregabili con le dovute cautele in una valutazione complessiva. È infine certo che sia riferimenti temporali diversi, sia assunzioni specifiche sulla natura concorrenziale o meno del sistema economico sottostante, possono portare a indicazioni non convergenti. In questa sede si può solo accennare ad alcuni punti metodologici.
Con riferimento ai sistemi pensionistici, ogni analisi distributiva si deve fondare su una teoria dell'incidenza dei contributi sociali (v. Harberger, 1962). Ammessa l'irrilevanza economica della loro ripartizione fra datori di lavoro e lavoratori, è teoricamente corretto ipotizzare che i contributi con carattere di generalità incidano sui lavoratori; molto più arduo è invece valutare i processi traslativi di contributi di fatto 'speciali', quali quelli della previdenza privata (che interessano negli Stati Uniti circa il 50% dei lavoratori privati).
Pur ignorando questo non irrilevante problema e supponendo che i contributi si risolvano comunque in una riduzione del reddito netto dei lavoratori, le caratteristiche distributive delle pensioni dipendono dalla formula concretamente adottata per il calcolo dei benefici. I sistemi sono distributivamente neutrali quando a tutti è riconosciuto lo stesso tasso di rendimento interno (come accade con il metodo contributivo nel sistema a ripartizione e nel sistema a capitalizzazione, sempre che in quest'ultimo non si verifichino nel periodo successivo al pensionamento fenomeni inflazionistici inattesi). Le formule che danno particolare peso alle ultime retribuzioni premiano le carriere più dinamiche e, presumibilmente, i redditi più elevati, con caratteristiche ultime di regressività. Le formule che applicano coefficienti di rendimento decrescenti al crescere del reddito, come accade con la social security negli Stati Uniti, ridistribuiscono invece a favore dei redditi più bassi. In questo paese una valutazione complessiva deve tuttavia tener conto, come abbiamo già osservato, dell'esistenza del sistema previdenziale privato, che di fatto premia le categorie privilegiate di lavoratori.
Nel comparto sanitario, nella ragionevole ipotesi che tutti i cittadini, qualunque sia il loro livello di reddito, abbiano nell'arco della vita uguali necessità di cure mediche, il finanziamento contributivo o tributario proporzionale al reddito introduce elementi di progressività nel sistema complessivo. Si deve aggiungere che nei sistemi di assicurazione privata in cui i premi sono a carico del datore di lavoro è ragionevole assumere che l'onere si collochi di fatto sulla generalità dei consumatori, lasciando aperta la possibilità che il sistema nel suo complesso risulti significativamente regressivo (v. Wagstaff e van Doorslaer, 2000, p. 1855).
Con un sistema fiscale complessivamente improntato alla proporzionalità, il sistema educativo è progressivo quando l'accesso è uniformemente distribuito fra le diverse classi sociali. Quando, come accade per i livelli superiori di istruzione, l'accesso è concentrato nei decili di reddito più elevati, si tende verso un meccanismo che è distributivamente neutrale. È comunque certo che nel comparto dell'istruzione la componente distributiva più rilevante è quella che riguarda i contribuenti che, pur non avendo figli, devono concorrere attraverso il pagamento delle imposte al finanziamento del servizio.
Infine, un finanziamento mediante imposte degli interventi per la disoccupazione associato a un sussidio proporzionale al reddito è tendenzialmente neutrale. Una valutazione più compiuta richiede tuttavia che sia esaminata la normativa che regola nelle concrete circostanze l'erogazione dei sussidi di disoccupazione, in particolare per quanto riguarda le condizioni di accesso al beneficio e la sua durata (v. Atkinson, 1999).
Ignorando le componenti strettamente assistenziali dello Stato sociale (per le quali le considerazioni distributive sembrano in linea generale pacifiche), sembra ragionevole affermare che la sua componente ridistributiva, oltre che essere difficile da valutare, può essere di qualunque segno, e comunque non immediatamente correlabile alle dimensioni della spesa pubblica per trasferimenti.
Esiste l'impressione, del tutto soggettiva, che gli Stati sociali europei verifichino la director's law, per la quale i benefici tendono a concentrarsi presso le classi medie. Considerando anche il finanziamento, si viene a dare ragione all'osservazione di Lindert (v., 2003) sulle caratteristiche essenziali del sistema fiscale svedese: in questo paese si colpiscono con aliquote elevate e crescenti i redditi di lavoro, i cui titolari beneficiano peraltro di ampia copertura assicurativa da parte dello Stato sociale.
In un'analisi più compiuta si potrebbe forse dimostrare che beneficiari della funzione assicurativa del Welfare State sono stati negli ultimi anni i lavoratori colpiti dal processo di ristrutturazione del settore manifatturiero. Confermando le analisi di Torben Iversen e Thomas Cusack (v., 2000), si può ritenere che questi lavoratori siano stati destinatari in varia forma di interventi che hanno determinato un ritiro anticipato dall'attività lavorativa. Sempre sulla base di un'analisi non compiuta, è probabilmente confermata la tesi di chi ritiene che lo Stato sociale sia negli Stati Uniti meno ridistributivo che nei paesi europei, ma per ragioni diverse da quelle comunemente avanzate. Lo Stato sociale degli Stati Uniti, considerato anche nella sua componente privata (lo hidden Welfare State, utilizzando il titolo del libro di Christopher Howard: v., 1997), finisce per essere più regressivo o meno progressivo di quello europeo per la sua capacità di discriminare nel sistema pensionistico e in quello sanitario a danno di una larga fascia di cittadini. Non è questa la sede per affrontare le ragioni di questa possibilità di discriminazione, per le quali non possiamo che rinviare ad altre analisi.
6. Conclusioni: la crisi dello Stato sociale
La storia dello Stato sociale è stata caratterizzata da una permanente situazione di crisi che ha richiesto degli adattamenti per garantire la funzionalità di tale sistema.
Nella fase formativa, che si esaurisce intorno al 1970, il fattore modificatore è stato il riconoscimento dell'esistenza di una più o meno grave questione sociale. Questo elemento caratterizza sia le prime esperienze tedesche e inglesi, sia il New Deal rooseveltiano, sia l'importante estensione del sistema di protezione sociale durante le presidenze democratiche degli anni sessanta negli Stati Uniti.
In questa fase non erano certamente ignoti i pericoli che il meccanismo democratico parlamentare, con l'innata propensione a cercare il favore degli elettori, avrebbe potuto comportare per gli equilibri di finanza pubblica e per il più generale funzionamento dei sistemi capitalistici. Esisteva d'altra parte la fiducia che la democrazia politica avesse in sé meccanismi di autocontrollo capaci di evitare che una parte, anche se maggioritaria, potesse sopraffare permanentemente la minoranza, senza alcun riguardo per gli interessi di lungo periodo della collettività nel suo complesso. Se teniamo inoltre presente che nei decenni successivi alla guerra mondiale si ritenevano necessari interventi regolatori dell'evoluzione macroeconomica e che comunque i tassi di crescita erano più che soddisfacenti, si può dar ragione della diffusa accettazione del progetto di estensione dei diritti di cittadinanza collegati allo Stato sociale. La crisi dello Stato sociale in questa fase storica significa essenzialmente inadeguata realizzazione degli obiettivi.
Le stesse analisi degli effetti economici dello Stato sociale non erano incompatibili con un'interpretazione positiva del ruolo del Welfare State, quale si veniva configurando. Non si pensava che il tasso di risparmio fosse negativamente influenzato dalla sicurezza sociale (anche perché si riteneva che l'elasticità del risparmio rispetto al rendimento fosse molto ridotta). La riduzione del tasso di partecipazione delle generazioni molto anziane era considerata la fisiologica conseguenza della contrazione della forza lavoro nel settore primario, in una fase storica in cui l'occupazione cresceva comunque a tassi sostenuti. La diffusione e il miglioramento qualitativo della sanità e dell'istruzione, nel quadro dell'intero sistema di protezione sociale, erano infine giudicati elementi propulsivi del tasso di sviluppo delle economie capitalistiche.
Nell'ultimo quarto del XX secolo è cambiato in primo luogo il quadro politico, con l'affermazione di un orientamento fortemente liberista nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Sul piano culturale si sono poi fortemente indeboliti i cardini ideologici e interpretativi dei decenni precedenti. È stata drasticamente rifiutata l'impostazione keynesiana, ed è stato ripetutamente sottolineato che a un fallimento del mercato non deve seguire necessariamente un intervento correttivo dello Stato, essendo configurabile un simmetrico, e potenzialmente più grave, fallimento politico.
In questo contesto sono state sviluppate linee di indagine teorica che hanno rifiutato in buona misura l'ipotesi secondo cui il processo politico sarebbe in grado di perseguire l'interesse generale, avendo il ceto politico come esclusivo obiettivo il proprio interesse personale. Sulle tematiche specifiche dello Stato sociale, in particolare, sono stati elaborati modelli teorici che dimostrano come la decisione politica porti a una sovraespansione della spesa sociale e a un eccesso di ridistribuzione (per un'analisi di questa letteratura, v. Mueller, 1989; v. Persson e Tabellini, 2002). Anche se estremamente astratta e scarsamente suscettibile di trovare un persuasivo sostegno empirico, questa linea di ricerca è espressiva di un clima culturale che costituisce il supporto per decisioni miranti a ridimensionare gli interventi tipici dello Stato sociale. Nell'opinione di chi segue questa impostazione, la spesa pubblica dovrebbe infatti essere concentrata sulle fasce più povere della popolazione (comunque molto limitate), lasciando spazio a meccanismi assicurativi di tipo privatistico per le altre.
A partire dagli anni settanta, nella letteratura scientifica sono poi comparsi alcuni contributi, molto influenti al di là dei loro meriti, in particolare quelli di Feldstein, caratterizzati da una rappresentazione fortemente negativa dello Stato sociale. Secondo questa impostazione, riprendendo i punti esaminati nel capitolo precedente, sia l'offerta di risparmio, sia il tasso di attività, sia l'intero sistema ridistributivo hanno operato in modo molto negativo, riducendo la performance economica.
Adottando la stessa chiave di lettura, negli ultimi anni sono state proposte analisi empiriche che tendono a dimostrare come negli anni novanta la crescita più forte degli Stati Uniti rispetto all'Europa debba essere attribuita alle diverse dimensioni dello Stato sociale, misurato in termini di spesa pubblica (v. Alesina e Perotti, 1997).
Al di là delle contrapposizioni ideali e ideologiche, la stessa crescita dello Stato sociale ha posto in luce alcuni elementi critici su cui si confronteranno in futuro le diverse visioni e le diverse linee d'intervento. Il primo elemento riguarda la capacità dei meccanismi assicurativi privati di fornire adeguata protezione per la vecchiaia. Anche se l'esperienza degli ultimi anni è stata significativa, il problema è lungi dall'essere risolto, come testimoniano le opinioni ancora fortemente divergenti. Come abbiamo già osservato, alcuni ritengono che l'investimento sui mercati finanziari sia un fattore di diversificazione del rischio e di miglioramento della redditività media nel lungo periodo; altri pensano che il rischio implicito nell'impiego azionario sia molto elevato, soprattutto se si tiene presente che i sistemi pensionistici pubblici coprono, sia pure con le necessarie differenziazioni, le esigenze essenziali di larga parte della popolazione.
Autorevoli studiosi ritengono tuttavia che la rappresentazione e l'interpretazione della realtà non siano sempre serene (v. Orszag e Stiglitz, 2001) e che le soluzioni proposte per i problemi dello Stato sociale meritino un esame più consapevole di quello correntemente effettuato. Questo punto può essere chiarito considerando l'evento che domina tutte le proiezioni sugli andamenti della spesa sociale: l'allungamento della vita media, con conseguenze potenzialmente dirompenti sugli equilibri dei sistemi pensionistici e di quelli sanitari. Per quanto riguarda le pensioni, l'unico metodo di controllo della spesa è costituito dalla regolazione delle prestazioni. Nell'ipotesi di un peggioramento del quadro demografico, deve essere comunque sottolineato che il sistema a capitalizzazione e quello a ripartizione devono affrontare gli stessi problemi, se si vuole garantire un certo reddito reale alle classi anziane (v. Barr, 2001).
Si può aggiungere che esiste una certa tendenza a drammatizzare gli effetti dell'allungamento della vita media e dell'aumento della quota della popolazione anziana sul totale. Negli Stati Uniti si afferma che il sistema pubblico è insostenibile nel lungo periodo, in quanto nel 2042 le prestazioni eccederanno i contributi, essendo esaurito il fondo di riserva accumulato in questi anni (si noti che attualmente le prestazioni sono circa 3/4 dei contributi versati). La solvibilità perpetua del sistema sarebbe tuttavia garantita da un aumento immediato dell'aliquota contributiva dell'1,87% del monte salari rispetto al livello attuale del 12,4% (per un'analisi eterodossa delle prospettive del sistema pensionistico americano, v. Baker e Weisbrot, 1999).
In Italia, sulla base delle previsioni ufficiali, il monte pensioni in termini di prodotto interno dovrebbe passare dall'attuale 13,5% al 16% nel 2033, per poi ridiscendere nel decennio successivo a un livello inferiore a quello attuale. Nei prossimi 30 anni la popolazione anziana dovrebbe aumentare di dieci punti percentuali (in un quadro di diminuzione della popolazione di circa 2 milioni dai 58 attuali). Tutto ciò implica che, pur aumentando le pensioni pro capite, il reddito pro capite del resto della popolazione aumenterà in misura superiore: accogliendo l'assunzione dei documenti ufficiali di un tasso di crescita del prodotto interno pari all'1,5% medio annuo e ipotizzando un moderato spostamento in avanti dell'età di pensionamento, in assenza di interventi legislativi il rapporto fra il reddito medio del pensionato e quello del resto della popolazione dovrebbe ridursi dal 44% attuale al 38% nel 2033.
La spesa sanitaria tende a crescere, oltre che per l'allungamento della vita media, per altri due motivi: l'introduzione di tecnologie sempre più avanzate e costose, e la domanda qualitativamente sempre più esigente proveniente da utenti evoluti. Per l'impossibilità economica di porre direttamente a carico del singolo gli oneri di cure mediche particolarmente costose (oltre che imprevedibili), possono essere seguite due vie: o si attiva un sistema sostanzialmente discriminante in cui l'accesso a cure qualificate è legato alla storia professionale individuale, o si riconosce il diritto universale a cure adeguate. In questa seconda ipotesi devono essere seguite politiche di controllo dei costi affiancate da ragionevoli meccanismi di razionamento, riconoscendo peraltro che le risorse destinate al settore non possono scendere al di sotto di un certo limite fisiologico.
Esistono comunque problemi di qualità delle prestazioni garantite dallo Stato sociale. Come sottolineava già Albert Hirschman (v., 1980) oltre venti anni fa, nella fase iniziale dello sviluppo dello Stato sociale lo stesso ampliamento dell'accesso era motivo di soddisfazione dell'utente e di accettazione dei meccanismi di finanziamento obbligatorio. Superata la fase iniziale, l'accettazione delle finalità dello Stato sociale richiede che sia mantenuto un adeguato livello qualitativo. In caso contrario si verificheranno fenomeni di rigetto: saranno in particolare ricercati meccanismi di fornitura dei servizi sociali segmentati per le diverse fasce di popolazione, con esiti non sempre positivi per la qualità media dei servizi, in particolare nel comparto sanitario e in quello educativo, come lo stesso Hirschman (v., 1970) dimostra in un suo famoso contributo (per il dibattito corrente, v. Cutler, 2002; v. Hanushek, 2002).
La precedente osservazione ci porta a considerare i conflitti distributivi che lo stesso sviluppo dello Stato sociale ha fatto emergere. Molti dei servizi sociali sono riconducibili alla categoria dei cosiddetti beni posizionali, ovverosia dei beni la cui utilità per l'individuo dipende dal consumo che ne fanno gli altri individui (v. Hirsch, 1976). È certo che i meccanismi di integrazione sociale promossi dallo Stato sociale con l'accesso ad alcuni servizi cruciali, secondo modalità che non dipendono dal reddito individuale, pongono in essere dinamiche potenzialmente molto rilevanti per gli equilibri della società. Di nuovo, le possibili alternative oscillano fra la riaffermazione dei principî di integrazione ispiratori dello Stato sociale e l'attenuazione della portata dei criteri di giustizia specificamente rilevanti.
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